Sesta
parte.
“Però,
se metto il tuo nome, chi
vedrà la cartella si insospettirà.”
Appoggiò gli strumenti per il prelievo
sulla scrivania.
“Non
importa” rispose seria lei.
Si scoprì il braccio e lo lasciò fare.
“Hai
ancora bisogno di quel
giorno di permesso?” chiese slegando il laccio.
“Non
lo so.” Si tirò giù la
manica e guardò Sergio sistemare la provetta.
“Se
non stai bene, non pensarci
due volte a chiedermelo” le disse gentilmente.
“Grazie.
Però… acqua in bocca con
Riccardo, non vorrei magari dargli false speranze.”
“Cercherò
di essere il più discreto
possibile, però se gli capitano in mano le tue analisi,
oppure se si accorge di
qualcosa, poi non dare la colpa a me, d’accordo?”
“No,
tranquillo” la voce rotta da
un velo di tristezza.
“Cercherò
di avere l’esito più in
fretta possibile. Tu però non strapazzarti
troppo.” Si alzò e le posò una mano
sulla spalla. “Vado.” Le sorrise e uscì
dalla stanza, lasciandola sola davanti
alla scrivania. Appoggiò i gomiti alle ginocchia e con le
mani si sostenne il
capo. Lo sguardo le cadde accidentalmente a terra, e un sorriso non
poté non
comparire sul suo volto.
Bicchiere
in mano e piedi sul
tavolo, la sala medici era tutta per lui.
“Dottor
Malosti?” la voce di
Ettore distrusse il muro di riflessione che lo chiudeva nella sua
solitudine.
“Che
c’è?” era evidentemente
scocciato.
“No,
niente, mi chiedevo dove
fosse andato, volevo chiederle qualche consiglio su un mio
paziente.”
“Coselli…
ma quando imparerai a
cavartela da solo?”
“Dottore,
ha ragione, ma…”
“È
tuo, no?”
“Chi?”
“Il
paziente, chi sennò?
Sveglia!”
“Sì
sì, certo Malosti, è mio”
rispose con rapida parlantina.
“E
allora prenditi le tue
responsabilità, o al massimo chiedi a qualcun altro, in
questo momento sono
occupato.”
“Vedo.”
“Prendi
in giro?”
“No,
signore, sono serissimo, ora
vado.” E scappò fuori prima che Riccardo riuscisse
a tirargli una delle
cartelle appoggiate sul tavolo.
Aveva
capito che era decisamente
meglio lasciarlo in pace. Si diresse quindi verso un’altra
vittima disponibile,
e in questo caso toccò al docile Santamaria, che stava
sistemando la flebo ad
un paziente nel box adiacente la sala medici.
“Dottore.”
Valerio
si girò verso di lui,
terminò di controllare la situazione del ragazzo e
uscì chiudendo dietro di sé
la porta.
“Dimmi”
acconsentì con pacatezza.
“Volevo
chiederle se poteva venire
con me a visitare questo paziente, guardi” gli mise sotto il
naso una cartella
prima ancora che il dottore potesse replicare.
“Ettore”
la prese in mano e le
diede una rapida occhiata. “Lo sai quante persone devo ancora
visitare oggi?”
“Sì,
lo so, dottore, ma è una
questione importante, non riesco a capire se si tratta di
intossicazione
alimentare o se è
qualcos’altro…”
“Hai
fatto un’ecografia nella
zona dolorante?”
“No…”
“Bene,
parti da quella. E la
prossima volta pensaci prima.”
“Sì
sì, certo, e scusi se le ho
fatto perdere tempo.”
“Ritieniti
fortunato che te l’ho
detto io, perché se lo viene a sapere
Malosti…” ma era già scappato.
“Valerio,
vieni a prendere un
caffè con me?” Era Laura.
“Non
credo di riuscire a
ritagliarmi un po’ di tempo, sono pieno di pazienti fino al
collo.”
“Eddai,
cinque minuti” lo implorò
con espressione dolce.
“Se
fai quella faccia…”
Lo
prese per un braccio e lo
trascinò con lei. “Però
decaffeinato.”
“Come
vuole!”
Quando
Sergio rientrò nel suo
studio, Cristiana se n’era già andata, e al suo
posto un’altra donna occupava
quella sedia. Una donna riccia. E rossa.
Si
voltò.
“Ciao.”
“Ciao.”
“Come
va con Esther?”
“Un
disastro.” Si alzò in piedi e
gli si avvicinò, mentre lui chiudeva la porta.
“Allora
hai deciso.”
“Sì.”
Danieli
si ammutolì.
“Avrei
voluto che le cose fossero
andate in un altro modo. Tra noi. Tra me e Francesco.”
Non
rispose.
“Sei
felice?” chiese dopo
alquanti secondi.
“Non
lo so.” “E tu?”
“Ogni
volta che ci penso mi viene
l’istinto di aprire quella finestra e gettarmi di
sotto.” Il tono si faceva più
grave, e Giulia non sapeva cosa replicare.
“Non
posso fare altrimenti.”
“Non
puoi fare altrimenti?” Le si
avvicinò a pochi centimetri dalla sua bocca. “Ma
ti senti come parli? Tu che
scappi con tuo marito e suo figlio, lasci il pronto soccorso, che
è per te come
una seconda casa – o non è così?
–, lasci me!” Era furioso, e ora girava
intorno davanti a lei con le mani nelle tasche del camice.
“Non
è facile, Sergio…” cercava
di giustificarsi inutilmente.
“È
più facile scappare e fregarsene
di tutti gli altri, che fare qualsiasi altra cosa”
replicò sicuro di sé.
Come
solito aveva ragione.
“Vedrai
che con Esther
risolviamo, si impegnerà e riuscirà a sostituirmi
al meglio.”
“Credici
poco. Tu non puoi essere
sostituita. Tu sei LA caposala di questo pronto soccorso… e
il posto è
unicamente tuo.”
“Non
dire sciocchezze, dai,
calmati e parliamo come due persone normali.”
“Perché, cosa stiamo facendo?”
alzò la voce.
“Tu
gridi, e io grido, così non
risolviamo niente.”
La
porta si spalancò.
“Oh,
scusate.” Malosti. “Cercavo
Cristiana, ma evidentemente non c’è.”
“No,
a meno che non si sia
nascosta dentro gli armadietti” rispose, tra
l’ironico e l’infastidito.
“Mh.”
E richiuse la porta.