CAPITOLO
3:
Vagavo
in cerca di una casa per la seconda volta, ma per la seconda volta, non
trovando il coraggio di lasciarla andare, non riuscivo ad essere
soddisfatto di
nessuno dei luoghi che visitavo, sentivo il suo corpicino pesarmi tra
le
braccia, il suo respiro leggero accarezzarmi una guancia e la volontà di
affidarla a qualche sconosciuto
diminuiva inesorabile, come se ad ogni suo respiro la mia intenzione
venisse
annientata.
Confinato
il mostro potevo tornare ad illudermi che non l’avrei uccisa,
che non sarebbe
diventata un’altra delle mie vittime. Trovavo mille
giustificazioni, alcune
davvero poco convincenti, ma cercare un appiglio per stare con lei mi
riusciva
fin troppo facile.
Ovviamente
erano solo scuse, chiunque sarebbe stato meglio di me, chiunque che non
fosse
stato un mostro, come lo ero io.
Per
quanto mi sentissi diverso, da quando stavo con lei, il mio
autocontrollo era
stato facilmente annientato
da un
pianto più insistente del solito, era bastato pochissimo e
la belva era
affiorata, pronta a portarle la morte, ad aggredirla, la mia bocca era
bramosa
del suo sangue.
Ferirla
era stato semplice, inevitabile, lei era delicata e fragile, io ero un
demone
invincibile, potevo vedere due grandi lividi neri formarsi sulle sue
braccia
nude, lì dove l’avevo strattonata per sollevarla,
furente.
Mi
rendevo conto che per quanto in quel momento non mi sovrastasse, la
sete mi
stava ancora bruciando la gola, percepivo nettamente il gusto delizioso
che mi
solleticava, che mi invitava.
Eppure
ero lì e la tenevo tra le braccia sicuro, deciso, non volevo
farle del male,
volevo proteggerla da me stesso più di quanto volessi
ucciderla.
Stavo
continuando a vagare per la città, immerso nei miei pensieri
contrastanti,
quando una risata leggera proveniente dall’interno di una
casa, attirò la mia
attenzione, mi affacciai alla finestra da cui proveniva quel suono
gaio, e
osservai ciò che stava accadendo.
C’era
una bella donna, china su un piccolo letto da cui spuntava una testa
rossa, riccia,
la donna stava posando un bacio sulla fronte del suo bambino,
sorridendo.
Si
alzò e posò un libro di fiabe sul comodino
affianco al letto, prima di spegnere
la luce e allontanarsi dalla mia vista.
Ebbi
un fremito, il destino mi stava offrendo una possibilità, mi
mostrava la vita
che avrei potuto concedere alla bambina. Forse se avessi lasciato Lily
davanti
a quella casa, quella donna si sarebbe presa cura di lei,
l’avrebbe allevata
insieme al bambino dai capelli rossi.
Forse
sarebbe stata amata, e sarebbe cresciuta nella convinzione di avere una
famiglia.
Un
moto nuovo di speranza mi sfiorò appena prima di lasciare
posto alla tristezza.
Non
avevo più scuse, avevo trovato una casa per Lily, una
famiglia, l’avrei
lasciata lì e le avrei concesso una vita migliore, sarei
andato via e non avrei
più interferito con la sua esistenza.
Mi
convinsi che era la cosa giusta da fare, e capii per la prima volta il
sentimento che prova chi è combattuto tra il desiderio e il
dovere, tra chi
desidera ciò che non è giusto fare.
Lasciai
la bambina sul ciglio della porta posandola delicatamente, con la sua
coperta,
sul terriccio freddo, le girai le spalle e feci un passo soltanto,
prima di
girarmi di nuovo verso di lei, sembrava che le mie gambe avessero vita
propria,
non volevano andarsene.
Notai
che Lily si era svegliata forse disturbata dai miei movimenti indecisi,
mi
guardava, la guardavo.
Dilaniato
da una decisione che non sapevo prendere, le sorrisi triste
“Lily
vuoi restare con me?” chiesi tormentato, più a me
stesso che a lei.
Chiusi
gli occhi sconfortato, il peso di quella decisione era troppo grande,
“Dam-mia-gn”
Lily pronunciò quella parola, sorridendo e allungando le
manine verso di me,
aveva pronunciato il mio nome: Damian, era la sua prima parola.
Avevo
ripetuto il mio nome tante volte, parlandole, perché
imparasse a dirlo, ma non
avevo mai ottenuto risultati, non aveva mai parlato prima.
Proprio
in quel momento, invece, quasi a voler rispondere alla mia domanda,
quasi a
volermi alleggerire di un peso altrimenti insostenibile emise quel
suono tanto
melodioso per le mie orecchie.
Non
potevo interpretarlo come un segno del destino, perché
già l’avevo tirato in
causa quando avevo visto la donna nella casa, non potevo aggrapparmi a
niente,
però mi resi conto che ormai facevo parte della sua vita,
che la decisione
l’avevo già presa tanto tempo prima, quando non
l’avevo abbandonata a una fine
certa; in quel preciso istante avevo legato le nostre vite
irrimediabilmente, e
che fosse giusto o no la decisione era già stata presa.
“Lily”
sussurrai, ancora confuso, ma più deciso “resterai
con Damian, anche se un
giorno mi odierai per questo”.
Le
sorrisi, e lei fece altrettanto mentre la sollevavo per accoglierla tra
le mie
braccia gelide, voltai le spalle alla casa, che le avrebbe potuto
garantire una
vita vera e mi inoltrai nella foresta.
Appena
arrivato nella nostra piccola dimora, la adagiai sul letto, e le raccontai una favola,
così come avevo
visto fare alla donna, poco prima.
Non
sapevo per quale assurdo motivo conoscessi quel racconto, sapevo solo
che le
parole fluivano sicure, come se quella favola l’avessi
raccontata altre mille
volte, come se già la conoscessi.
Non
mi soffermai a pensare a niente, le raccontavo quella storia,
guardandola
adorante e lei, silenziosa, non sembrava desiderare altro.