Decima
parte.
Test di gravidanza. Positivo.
E
Riccardo era ancora tutto
sottosopra. Come i fogli delle analisi che aveva sparpagliato per il
tavolo.
Fece un giro per la stanza, cercando di tornare in se stesso.
Raggruppò i fogli
e richiuse la cartellina. L’obiettivo era quello di riportare
tutto com’era e
dov’era prima. Sempre che quei due non avessero
già finito di operare.
Controllò l’orologio, e si rese conto di come
fosse impossibile la sua
missione: era rimasto in quella sala per un’ora e mezza e
buona. Però ci doveva
almeno provare. Prese sottobraccio i documenti e si avviò.
Arrivarono
di corsa al box, prima
ancora che gli infermieri avessero riportato la paziente dopo
l’operazione. Si
guardarono entrambi in giro, ma l’unica cosa che vedevano era
un letto fatto e
un comodino. Vuoto.
“Dove
le avevi lasciate?” chiese
lei.
“Sul
comodino, sono sicurissimo.”
Lo indicò. “Dove possono essere finite?”
Aprirono
tutti i cassetti e gli
armadietti possibili. Come se non bastasse, controllarono anche sotto
il letto.
“Sono
sparite” constatò Sergio,
le mani sui fianchi, agitato per aver tradito in parte la fiducia di
una
collega.
Nessuno
dei due si era però
voltato dalla parte opposta.
Malosti,
fermo in mezzo al
corridoio in una posizione giusto giusto adatta a vedere e a non essere
visto.
Con le analisi in mano. E l’ansia di chi non vuole essere
scoperto con l’arma
del delitto ancora fumante o sanguinante. Si sentiva un ladro, o peggio
ancora,
un assassino. Le facce sui volti dei colleghi non erano
proprio… allegre, anzi,
oltre ad essere preoccupate forse erano anche arrabbiate.
“Ma
chi sarà stato?” continuava a
tormentarsi Cristiana.
“Al
massimo le facciamo rifare.”
“Sì,
ma ti assicuro che non è
proprio una bella sensazione quella di sapere che in giro per
l’ospedale stanno
viaggiando le mie analisi.”
“Immagino.
Dai, andiamo, e non ci
pensare, vedrai che prima o poi salteranno fuori.”
Stavano
per uscire. E Riccardo
fece dietrofront, il più rapidamente possibile.
Giunse
con il fiatone in sala medici,
dove aprì con poca usta il suo armadietto personale,
all’interno del quale finì
il fascicolo celeste. Prova nascosta. E adesso bastava solo che le
indagini non
iniziassero dalle… persone più vicine.
“Dottor
Malosti, è successo
qualcosa?” Ettore, con l’espressione di chi aveva
appena visto una cosa ma
avrebbe voluto essere da tutt’altra parte.
“Tu”
iniziò Riccardo, puntandogli
un dito addosso, “non hai visto niente.”
“No,
no, ovvio che no.” “Forse è
meglio che mi tolga dai piedi.”
“Bravo,
Ettore, bravo, forse ti
ho sottovalutato.” Ma non rispose, uscì e lo
lasciò da solo in mezzo alla
stanza. Con l’aria sconvolta.
“Potresti
andare a controllare in
sala medici, no? Magari le hanno trovate e le hanno lasciate sul
tavolo,
pensando che quello fosse il primo posto in cui si viene a cercare
ciò che si è
perduto.”
“Vado
subito.” “Sergio?” Si
guardarono. “Grazie di tutto.”
“Ma
se è stata tutta colpa mia!”
“Non
dirlo nemmeno per scherzo.”
Allora
era così che ci si sentiva
da colpevoli? Combattuti tra il confessare e tenere tutto per
sé, con i battiti
del cuore mai alla giusta velocità. E raccontare bugie a
tutti, minacciare uno
specializzando per non farne parola con nessuno.
“Ma
che cazzo sto facendo?”
appoggiò le mani sul tavolo e si piegò,
lasciandosi appoggiare su di esse. La
testa bassa, gli occhi chiusi, i pensieri che vagavano tra Cristiana e
quelle
analisi. E Sergio. Quel primario sempre in mezzo. Perché ha
chiesto a lui di farle le analisi?
“Perché non è
venuta da me?” Stava ormai parlando da solo. Con gli occhi
prossimi alle
lacrime. Era troppo duro anche formulare una domanda del genere e
rendersi
conto che Cristiana non si fidava di lui, oppure si limitava a farlo
per certe
faccende. E quando si era trattato di lei… era corsa da
Danieli, Invece di
parlare con Riccardo.
Ma chissà come mi sarei comportato io.
Magari avrei iniziato a tremare
dall’emozione al punto tale di non riuscire nemmeno a
prelevarle il sangue.
Però le sarei stata vicino. Avremmo
riso
insieme. Avremmo aperto insieme quelle maledettissime analisi.
E
invece in quel momento erano là
dentro, chiuse in un armadietto a chiave. Ed Ettore poteva
testimoniare. Ma,
nonostante questo, era sicuro almeno di una cosa: lì non
avrebbero frugato.
Lo
scatto della maniglia della
porta lo fece sobbalzare. Tornò in fretta in posizione
eretta, per affrontare
il primo interrogatorio del caso. Era Cristiana, che lo guardava come
se fosse
un alieno.
“Riccardo,
ma…” Gli si avvicinò
lentamente, per poi arrestarsi a una decina di centimetri da lui, a
guardarlo.
“Hai pianto.” Ecco quello che odiava delle donne.
Sapevano riconoscere con una
sola occhiata ciò che avevi fatto fino a quel momento. E si
vergognò. Nessuno
l’aveva mai visto piangere da quando non era più
un bambino. Nessuno. A parte
lei, che ora faceva parte della sua vita, che in quel momento sapeva di
lui più
di quanto lui stesso era a conoscenza. Capiva i suoi gesti, le sue
parole, le
sue allusioni. I suoi sguardi. E aveva visto che erano lacrime quelle
che in
parte avevano percorso le sue guance.
Lui
immobile, davanti a lei.
Gliele asciugò con il morbido contatto dei suoi
polpastrelli, e poi gli si
gettò al collo.
“Ti
amo, Riccardo, ti amo.”
Ti amo anche io, avrebbe voluto
risponderle. Ma l’unica cosa che
fece fu quella di strizzare gli occhi affinché altre due
lacrime fuoriuscissero
all’unisono. E caddero insieme sulla spalla di Cristiana.
“Perché
non ci hai raggiunti in
sala operatoria?” il suo respiro gli solleticò il
padiglione dell’orecchio, e
nel contempo sentì il suo corpo volersi staccare. Glielo
impedì, intrecciando
le braccia dietro la sua schiena. Per averla ancora più
vicino. Per non
guardarla in faccia mentre mentiva.
“Era
arrivata l’ambulanza con un
ferito grave. E non c’era nessuno disponibile.”
Quanto era difficile inventare
qualcosa con a disposizione meno di due secondi. Però ci
riuscì, mentre le
accarezzava i capelli lisci. “Mi dispiace.” Di
averla lasciata sola. Di aver
mentito. Di aver commesso un errore di cui si era già
pentito. Di tutte le
volte che l’aveva trattata male. Di non averle ancora detto
che l’amava.
“Teresa,
senti, dove le tieni le
analisi che arrivano?”
“Ancora?
L’ho già detto a tutti i
medici, e dico tutti; sarà l’unico a non
saperlo!” Era proprio una
giornataccia.
“E
allora illuminami, no?”
Gliele
indicò. “E non azzardatevi
a chiedermelo ancora.”
Percorse
il desk ovalizzato sino
all’angolo, dove tre o quattro fascicoli come quello che
aveva sottobraccio
giacevano sul piano. Alzò gli occhi verso di lei: era al
telefono, e gli occhi
erano rivolti allo schermo del pc. Rocco non era nei paraggi. E dietro
di lui
c’erano solo alcuni pazienti in attesa di una chiamata.
Infilò la sua
cartellina in mezzo alle altre e fece finta di cercarne
un’altra.
“Niente,
Teresa, non sono ancora
arrivate!”
“Come
se fosse colpa mia.”
Bene,
anche questa era fatta. Ora
bastava solamente che o a Danieli o a Cristiana venisse in mente la
possibilità
che le analisi fossero tornate a casa.