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Autore: RossaPrimavera    28/01/2011    4 recensioni
Sud Carolina, 1776. Celeste ha 17 anni e una candida bellezza, la sua giovane vita dedicata ad occuparsi dei suoi numerosi fratelli.
William Tavington, colonnello dei Dragoni Verdi, è un uomo spregiudicato, che non conosce limiti ai propri desideri.
Il loro incontro è uno scontro, ma il destino si premurerà di sconvolgere le loro vite, rendendoli così diversi da sembrare irriconoscibili.
"Ho solo 17 anni,e quando mi guardo allo specchio il mio volto mi pare di un candore assoluto. Davvero, non credevo di poter far gola a qualcuno. Non ad un uomo del genere comunque."
"Tu sei pazza, Celeste. Tu, tra noi, sei come nessun'altra."
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In Punta di Piedi

di Elle H.

 

CAPITOLO 3 
Amazed by You 


(Di violenza e di speranza; crudele verità; l'usignolo imprigionato; acqua bollente e fiamme gelate)



“And it's so easy when you're evil
This is the life, you see
The Devil tips his hat to me
I do it all because I'm evil
And I do it all for free,
Your tears are all the pay I'll ever need!

 

Ed è così facile quando sei cattivo
Questa è la via, vedi
E il Diavolo inclina il suo cappello verso me
Faccio tutto ciò perché sono cattivo
E lo faccio gratis,
Le tue lacrime sono l'unico guadagno d cui avrò mai bisogno!”

-When you’re Evil, Voltaire- 

 

Poteva certamente far finta che fosse stato solo un incubo.

Seriamente, era quello che si ostinava a fare, da più di un mese, ogni singolo giorno: le sue notti erano solo una piccola parentesi della sua nuova vita, un sogno di pessimo gusto che, immaginava, le capitasse solo per pura casualità.

Dopotutto, ogni mattina si risvegliava sola, abbandonata tra le lenzuola sgualcite e piene di grinze, nella propria camera deserta; nessuno le poneva domande, si avvolgeva in un velo di riservatezza.

Per mezza giornata, era tutto apposto: giaceva in una beata incoscienza, si muoveva appena dalla propria camera, fuggiva le attenzioni delle compagne.

Era una pace perfetta e fragile; e irreale.

Non appena il sole compiva il suo arco, e i suoi caldi raggi abbandonavano la terra, l’incubo iniziava a serpeggiarle attorno, a circondarla tra le sue crudeli spire.

Abbigliata nei suoi abiti da meretrice, non appena incontrava quei gelidi, impietosi occhi azzurri, desiderava morire.

Dopo la prima notte, l’imbarazzo di trovarsi nuda di fronte a lui, e persino quel soffocante dolore fisico si erano dileguati: durante l’intero amplesso, la giovane giaceva apatica, gli occhi vitrei e spenti puntati sul soffitto, tesi a immaginare un passato che non poteva più avere.

“Sai Celeste, vorrei che quando fossimo insieme ci mettessi più impegno” le sussurrò una notte Tavington, mentre, imperterrito, continuava a leccarle la candida pelle della gola, come se desiderasse scioglierla.

La ragazza tacque, rintanata nel suo silenzio protettivo.

L’uomo allora le morse il collo, strappandole un gemito di dolore.

“Esattamente, proprio come un urlo: ti voglio in tutta la tua spontaneità” le spiegò, sorridendo compiaciuto.

“Mi creda, sono più che spontanea in vostra presenza” ribatté gelidamente.

Un altro morso, sul seno, la fece quasi urlare.

Tavington rise, dolcemente, leccandole il segno inflitto dai propri denti.

“Siete un mostro … come potete provare piacere nel torturare una ragazza?” sibilò Celeste, senza fiato, tentando di sottrarsi da quella presa opprimente.

“Questa è una domanda che non dovresti nemmeno pormi, Celeste. Basta guardarti” rispose, sollevandola e trascinandola dinnanzi al grande specchio, tenendola saldamente per le braccia.

Celeste spalancò gli occhi; non era certo la prima volta che si osservava senza abiti indosso, eppure non si era mai vista così … nuda.

I propri occhi indugiarono sulla vita sottile, sui seni che l’uomo poteva comodamente tenere nel palmo di una mano, sulle curve aggraziatamente delineate … Per quanto esile, quello era il corpo di una donna.

Ed effettivamente, era stata costretta a divenire donna prima del tempo.

Alle sue spalle, Tavington l’ammirava con occhi colmi di bramosia, le mani che, invadenti, le accarezzavano i fianchi e i seni, rimarcando il suo possesso.

Celeste non poté fare a meno di osservare, quasi timorosa, il corpo del colonnello: distogliendo lo sguardo dal suo addome, con un vivido barlume di vergogna, risalì il suo petto tonico, dalle spalle ampie e forti, la planimetria dei muscoli guizzanti perfettamente intuibile. La sua pelle chiara era punteggiata da alcune sottili, pallide cicatrici. Quante battaglie doveva aver affrontato quell’uomo? Quante ferite aveva sopportato? E quante razzie e violenze aveva perpetrato su persone innocenti, proprio come lei?

 Non volle saperlo.

 “Io ti trovo, come dire … particolarmente eccitante” disse l’uomo sogghignando, chinandosi su di lei, avvicinando la bocca al suo orecchio.

“Domani devo partire, e ho bisogno di soddisfarmi … stanotte voglio goderti in ogni singolo momento” sussurrò, infilandole la lingua nell’orecchio, poi sollevandola e sbattendola nuovamente tra le coperte.

Celeste accolse la sua immancabile bolla di estraneità come un’amica benvenuta, ma questa volta una nuova sensazione la sosteneva: una flebile speranza si faceva strada in lei.

La speranza di poter finalmente essere lasciata in pace, lontana da quelle continue torture.

All’alba, stanca e provata dopo quella notte che le era parsa quasi interminabile, l’uomo la baciò lascivamente per quella che, sperò con tutta se stessa, fosse l’ultima volta.

“Vattene, vattene, vattene!” urlava a gran voce la mente di Celeste, guardando Tavington rivestirsi.

“Ricordati: quando tornerò, voglio che tu sia molto, molto più accogliente di stanotte” la avvertì, chiudendosi l’ultimo bottone della giubba.

“Vattene, vattene, vattene!” pensò ancora con forza, mentre la sua bocca si era come sigillata.

“Mi hai capito, Celeste? Non so quanto starò via, ma appena torno voglio trovarti qui, su questo letto: a quattro zampe, come una cagna fedele e devota” concluse, ridendo tra se, afferrandole il viso e delineandole il contorno delle labbra con la lingua.

“Vattene, vattene, vattene!”

Quando l’uomo uscì dalla stanza, un ghigno ancora stampato sul volto, la ragazza scese debolmente dal letto, avvolgendosi nel lenzuolo,  raggiungendo la finestra.

Vi si appoggiò, attendendo impaziente.

“Vattene, vattene, vattene!” continuava imperterrita, una cantilena straziante che aveva il potere di assorbire ogni altro pensiero.

Poi vide il colonnello uscire a grandi passi dal portone, rimontare a cavallo e dirigersi, senza voltarsi neppure una volta, verso ovest.

Nei raggi del sole nascente, Celeste, il volto stravolto, pregò perché quell’uomo non facesse più ritorno.

 

 

“Can we pretend that airplanes
In the night sky
Are like shooting stars
I could really use a wish right now

 

Possiamo far finta che gli aerei
Nel cielo notturno
Siano le stelle cadenti
Posso esprimere un desiderio in questo momento”

-Airplanes, BoB ft. Hayley Williams –

 

Dicembre e i suoi freddi avevano disteso una coltre di brina sulle terre del South Carolina.

Le giornate e, in particolare, le notti erano fin troppo fredde anche solo per mettere il naso fuori di casa; nella Taverna, il tempo scorreva con una lentezza esasperante, ma imbottito di note dalla melodia  continua e armoniosa.

Da quando, molti giorni dopo la partenza di Tavington, dei rigattieri avevano offerto a Madama la possibilità di comprare un vecchio pianoforte, la vita di Celeste era cambiata.

“Non so che farmene di un pianoforte, credete forse che qui si insegni a strimpellare?” aveva detto la donna, indignata quasi dall’offerta, ma tentando di nascondere una certa tentazione all’idea di poter attirare maggiore clientela.

“A dire il vero Madama, io ne sono capace …” aveva ribattuto, in un sussurro, Celeste.

La sua vita aveva fatto un salto di qualità: non poteva certamente dire di essere felice, lontana com’era dalla sua vera vita, ma quando le sue dita premevano sui tasti, il sorriso tornava ad addolcirle le labbra. Suonava febbrilmente, tanto che staccarla dallo strumento per i pasti o per dormire diveniva sempre più difficile, ma in compenso ascoltarla era divenuto uno dei quotidiani piaceri delle sue compagne.

Con lei riscoprirono l’arte: immacolata, cristallina; ben diversa dagli unici piaceri peccaminosi a cui erano abituate.

Ogni minuto immerse in quella musica intatta e pura, era un minuto lontano dal loro “lavoro”; e per Celeste, un minuto lontano dal pensiero di Tavington e dalle sue continue preoccupazioni.

Erano passati due mesi dalla partenza degli ufficiali, e la presenza dei soldati si era ridotta fino a scomparire: là fuori, da qualche parte, la guerra mieteva le sue vittime; ogni notte, prima di addormentarsi, Celeste pregava che la morte si portasse via anche l’anima del colonnello.

“Ehi, non pensi più a scappare vero?” chiese una sera Azula, seduta ad un tavolo con una tazza di latte bollente tra le mani.

Le serata ora le passavano così, attorno alla figura dell’ultima arrivata e alle sue dita dall’incantevole dono; perfino Cynthia, apparentemente di malavoglia, si sedeva con loro, miracolosamente in silenzio e con un’espressione malinconica sul viso.

Celeste esitò prima di rispondere, passando le dita sugli amati tasti bianchi e neri, ora ripuliti da tutta la polvere e lo sporco che i rigattieri, senza cura, avevano lasciato depositare sullo strumento.

“No, non più” rispose semplicemente.

Azula sorrise, come se quelle povere parole l’avessero rallegrata.

“Allora vuol dire che qui tra noi ti trovi bene!”

Cherry alzò appena lo sguardo dall’immancabile tabacco.

“Non mi pare abbia mai detto una cosa del genere”

Celeste si voltò, sorridendo senza allegria.

“Non ci penso per il semplice fatto che non ho i mezzi per andarmene, non perché io mi trovi bene qua”

“Ma…” tentò di ribattere Azula, ma colse lo sguardo ammonitore di Caroline, seduta in un angolo con un lavoro a maglia tra le mani.

Grazie a Katrina, tutte sapevano della triste storia che aveva condotto Celeste tra loro, ma non osavano parlarne in sua presenza, in una sorta di riverente ammirazione al suo coraggio e contegno.

“E poi, dubito Tavington approverebbe questo colpo di testa” concluse Kat, sdraiata su una panca, avvolta, freddolosa, in quanti più scialli era riuscita a trovare.

Al solo nominarlo, Celeste fece un gesto nervoso, sbuffando, come se volesse scacciare una mosca.

“Celeste, il tuo problema è che non sai apprezzare! Uomini come lui sono più che rari” disse la voce sferzante di Cynthia, sfidandola con il suo solito, strafottente sorriso.

“Devo proprio fidarmi delle tue parole, visto che ormai te li sei passata tutti” rispose aspramente Celeste, che dalla partenza del colonnello, scopriva ogni giorno in se una nuova forza; Cynthia non era più stata capace di zittirla, e finivano per battibeccare per ore intere, prima che qualcuno le fermasse per evitare che venissero alle mani, strappandosi ogni singolo capello dal capo.

“Non è certo colpa mia se tutti mi vogliono!” ribatté con civetteria, attorcigliandosi una ciocca arancione attorno al dito.

Celeste alzò gli occhi al cielo.

“Mi stai indisponendo” disse infastidita, alzandosi e avviandosi alla finestra, decretando la fine della serata e del discorso.

Cynthia era però di tutt’altro avviso.

“E ancora non capisco come possa trascorrere tutte le sue notti con te, con una che non gode neanche! Mi sento trascurata, io e lui eravamo una coppia fantastica” le fece notare, mimando un broncio indispettito.

La risata di Celeste risuonò  così piena di sarcasmo che l’altra ragazza ammutolì.

“Credimi, si merita tutto il silenzio che io gli concedo” disse Celeste, scostando il laccio che teneva serrate le tende.
“Sta zitta Celeste. Tu sei fortunata, e neppure te ne rendi conto” disse improvvisamente, lapidaria, Caroline.

Tutte alzarono lo sguardo su di lei, sorprese.

La voce della ragazza, sempre così composta e gentile, vibrava di rabbia repressa.

Celeste rimase per un attimo spiazzata, dandole motivo di continuare.

“Tu non sei una prostituta, tu non ti concedi agli uomini” disse ancora, stringendo i pugni.

“Scusami? Sono o non sono qui con voi?!” chiese Celeste, a disagio.

“Tu vai a letto solo con lui. Nessun altro ti sceglie, perché ti ha già scelto lui. Nessuno ti guarda, perchè lui non permette che gli altri ti guardino. Nessuno ti tocca, perché lui non lascia toccare le sue cose” rispose prontamente, alzandosi, stringendo il lavoro a maglia al petto, come un prezioso tesoro.

“Che cosa intendi dire?” chiese esitante Celeste, ma già intuendo quella verità che non avrebbe mai voluto che qualcuno gli sbattesse in faccia.

“Tu sei una cosa sua, tu gli appartieni. Tu non sei una puttana, sei la sua favorita. Sei la sua amante!”urlò Caroline, tradendo così pensieri che celava da chissà quanto tempo, e forse neppure desiderava rivelare.

Si portò la mano alla bocca, spalancando gli occhi alla sua stessa audacia.

Sembrò voler dire qualcos’altro, ma gli sguardi meravigliati delle compagne e quello ferito di Celeste la fermarono.

Scosse la testa, voltandosi e si dirigendosi di sopra, lasciando tutte basite.

Celeste si accoccolò sul davanzale, il viso completo di una maschera malinconica.

Quella era una maledetta verità; una realtà che avrebbe preferito negare.

Sapeva perfettamente che Tavington, per quanto sottilmente crudele e spietato, le aveva riservato un trattamento, per così dire, “di favore”. Eppure non aveva mai contemplato l’idea di essere un qualcosa in più di una semplice prostituta.

Gettò uno sguardo all’esterno: oltre al buio, solo un lenzuolo di terra umida e coperta di brina.

Inutile dire che la veduta dei grandi campi di cotone e granoturco e dell’interminabile boscaglia, il paesaggio in cui era nata e cresciuta, le mancava più di quanto avesse mai potuto pensare.

Cynthia si alzò, sbuffando infastidita per non essere più calcolata, dirigendosi di sopra; i suoi passi arrabbiati risuonarono sul soffitto, facendo scoppiare a ridere le altre.

Anche Celeste si concesse una breve risata, ma la sua voce risuonò opacizzata.

Guardò il cielo, trapuntato di qualche raro scintillio di stelle.

Se fosse stata a casa ….

Se fosse stata piena estate …

Se fosse stata con i suoi fratelli …

Sarebbe stata lì, in una delle radure del bosco, abbracciata a Sophie o a Celia, gli occhi rivolti al cielo terso.

Avrebbero atteso tutti insieme, fiduciosi, qualche stella cadente.

Si sarebbero sollecitati a vicenda, tra strilli e risate, ad esprimere un desiderio.

Appoggiò la testa contro il vetro freddo, reprimendo le lacrime a quel meraviglioso ricordo, che sentiva così distante come se fosse appartenuto ad un’altra ragazza, e non a lei.

Sentì una presenza alle sue spalle e Cherry le si sedette accanto, aprendo leggermente la finestra e appoggiandovisi per fumare.

“Non pensare troppo a quello che ti ha detto Caroline” le suggerì, mostrandole uno di quei suoi rari sorrisi.

“Ma ha ragione” replicò la giovane, chinando la testa.

“Non ho detto che non sia vero, ti ho solo consigliato di non pensarci”

"Ho solo 17 anni, e quando mi guardo allo specchio il mio volto mi pare di un candore assoluto. Davvero, non credevo di poter far gola a qualcuno. Non ad un uomo del genere comunque" disse in un sussurro.
Cherry le lanciò uno sguardo obliquo.

"Tu sei pazza, Celeste. Tu, tra noi, sei come nessun'altra."

Celeste alzò lo sguardo, esaminando ancora il cielo.

Nessuna stella cadente quella notte, nessun desiderio purtroppo.

 

 

“Sweet dreams are made of this
Who am I to disagree?
Travel the world and the seven seas
Everybody is looking for something.

 

I dolci sogni sono fatti di questo 
Chi sono io per dissentire? 
Girare il mondo e I sette mari 
tutti stanno cercando qualcosa”

-Sweet Dreams, Eurythmics-

 

Celeste sapeva di comportarsi da illusa sin dal principio, ma quando era giunta la notizia che gli inglesi avevano vinto la battaglia e sarebbero tornati vittoriosi forse già quella sera, si disse di essere stata fin troppo ottimista.

Si fece nuovamente speranzosa quando, la  mattina, un ragazzino che abitava nelle vicinanze, bastardo di qualche soldato inglese sicuramente, snocciolò qualche nome dei morti. Nessuno degli ufficiali.

Troppo ottimista,decisamente.

Si trascinò in camera, chiudendovisi dentro senza uscire nemmeno per mangiare.

Soffocò un urlo angosciato, seguito da un lungo pianto nervoso, nella morbida stoffa del cuscino: le sue preghiere non erano state nuovamente ascoltate.

Quella sera sarebbe tornata a caracollare per quella maledetta sala, a indossare quegli stracci osceni, a mostrare una maschera di falsa cortesia. Quella sera, forse, si sarebbe trovata di nuovo sotto il corpo di Tavington.

Era solo pura illusione sperare di passare almeno il Natale avvolta in un bozzolo di quieto dolore, ripensando agli anni passati, crogiolandosi nel struggente pensiero di aver però assicurato la festa migliore dell’anno ai suoi fratelli.

Quando quel pomeriggio Madama entrò in camera sua, riscuotendola dal dormiveglia e posandole sul letto un vaporoso abito bianco, non avrebbe potuto sentirsi peggio.

Al solo indossarlo, le parve di caricarsi di un peso, pronto a trascinarla nuovamente nell’incubo.

“Volevo scusarmi per ieri sera. Ho perso la calma, io non…” esordì Caroline quella sera, che come sempre era venuta ad aiutarla per acconciare i capelli.

Celeste la fermò alzando la mano, zittendola.

“Non c’è bisogno che ti scusi, sarebbe come se cercassi delle scuse per aver pensato quelle cose. Sappiamo entrambe che sono vere.” decretò semplicemente, finendo di legarsi in vita una fascia rossa.

Oltre ad una smodata passione per i quattrini, Madama trascorreva le sue giornate tra broccati e velluti per creare abiti per le sue sottoposte, con segrete aspirazioni da sarta di alta moda corrotta da scollature e spacchi di dubbio gusto. Nonostante ciò, dovette ammettere che l’abito era incredibilmente bello.

La gonna bianca, ricoperta di trine, era così vaporosa da avvolgerla come in una nuvola, con il solo potere di enfatizzare la sua magrezza; la cintura in vita, un nastro di velluto color porpora, e la scollatura che le copriva appena i capezzoli era un inno ad una grazia peccaminosa.

Bianca e pura; rossa e corrotta. Un perfetto connubio che rimandava al peccato originale.

“Sei molto bella, Celeste” disse in un sussurro Caroline, finendo di legarle i capelli in uno chignon.

La giovane annuì, rigidamente, tormentandosi le mani con evidente nervosismo.

Da basso giungevano già il vociare e lo sbraitare dei soldati, tornati di evidente buonumore dal fronte.

Quando si affacciò alla porta, dopo essersi convinta a scendere tra le suppliche di Katrina, la sala era gremita.

La pace delle sere prima era stata definitivamente smembrata e fatta a pezzi.

“Tu puttana, ho sete! Portami subito da bere!” urlò un uomo al suo indirizzo.

Il suo viso, già stravolto dall’ubriachezza, subì un repentino cambiamento quando lei lo guardò.

Celeste la rossa. Celeste occhi pallidi. Celeste pelle da morta. Celeste magra come uno scheletro.

Celeste, amante del colonnello William Tavington.

L’uomo biascicò una serie di scuse, rattrappendosi su se stesso tra i compagni ammutoliti.

La ragazza lo ignorò, proseguendo e guardandosi attorno: del colonnello,per ora, nessuna traccia.

Tirò un sospiro di sollievo, distribuendo i boccali ai commensali.

A metà serata, il suo pallido sorriso di sollievo per non aver ancora visto il suo aguzzino, stemperò in una solida, quieta disperazione.

Tavington era lì, in fondo alla sala, con altri due ufficiali al fianco, apparsi quasi magicamente come i cattivi nelle favole. Indicavano il pianoforte, il SUO pianoforte, a Madama.

La donna sorrideva affabile, faceva cenni allo strumento e poi si voltò, come a cercare qualcuno.

Cercava proprio lei, e la indicò agli uomini al suo fianco.

Gli occhi di Celeste incrociarono quelli del colonnello: si sentì spogliata, sondata, profanata da quello sguardo.

La ragazza trattenne il respiro, quando le fece cenno di avvicinarsi.

“La ragazza della tenuta!” disse uno dei due ufficiali non appena la guardò con più attenzione.

Celeste lo ignorò, lo sguardo puntato su Tavington: per qualsiasi altro, gli occhi celesti della giovane erano solo due gemme colorate e attraenti, ma per l’uomo il loro messaggio era chiaro. Sotto quel velo di quieta compostezza, si celavano in egual misura rabbia, sfida e ribellione. Da soffocare, da punire.

 Era quello il divertimento di sottomettere Celeste.

“Capitano Wilkins, Maggiore Bordon, questa è Celeste” disse Madama, tendendo la mano verso di lei.

I due le sorrisero solo leggermente, poiché lo sguardo di Tavington si era spostato, circospetto, ad analizzare le loro espressioni.

“Suonerai qualcosa ai signori stasera” disse sbrigativamente la donna, come se fosse una cosa che la ragazza era abituata a eseguire ogni sera

“Cosa?! No, assolutamente no!” proruppe spontaneamente Celeste, scuotendo la testa.

I tre uomini risero, mentre Madama la prendeva da parte, irata.

Ma il colonnello la fermò, facendole un cenno, e la trascinò fino allo sgabello.

“Voglio sentirti suonare, Celeste” disse con un ghigno, stringendola per il polso.

“Cosa ne può sapere un uomo come voi della musica?” disse tra i denti la ragazza.

Non gli aveva mai parlato in quel modo, e lui decisamente non parve apprezzare.

Strinse la presa con decisione, come se volesse quasi spezzarle il braccio, ma caparbia la giovane non si lasciò sfuggire neppure un lamento.

“Non mi fate male, colonnello” gli disse, con un velato tono di sfida.

“Questo non è un problema, ho tutta la notte per punire la tua insolenza, ragazzina” ribatté, spingendola a sedere.

Celeste si accorse solo in quel momento che il vociare si era placato, lasciando spazio ad un irreale silenzio frammentato da sussurri.

Avvertiva centinaia di sguardi puntati sulla schiena, e maledì la sciagurata idea di Madama.

Era voltata, ma al contempo perfettamente consapevole di ogni singolo uomo presente nella sala; Tavington, appoggiato al pianoforte al suo fianco, la osservava con il perenne ghigno beffardo sul viso, non facilitando il suo compito.

Celeste posò le mani, tremanti, sulla tastiera e istintivamente premette il primo tasto. Poi il secondo. E un terzo.

Non seppe capacitarsi del motivo per cui aveva dato inizio a quella melodia: forse perché era l’ultima canzone suonata di fronte ad un grande pubblico. Proprio lì, al matrimonio di Charles e Leslie, la sua migliore amica.

Quasi un anno prima, aveva dedicato loro quella canzone, in uno splendente giorno di sole estivo.

Le sue labbra si mossero da sole: le note, pure  e cristalline, intonarono la canzone più bella che avesse mai composto.

“Erano pezzi di vetro,

sparsi sul nostro cammino…”

 

Tavington fissò Celeste: prima sorpreso, poi basito e, infine, completamente agghiacciato.

Quella musica lo rimandò violentemente ad un passato che credeva di aver ormai seppellito.

 

“Le nostre difese,

lasciate sospese…”

I ricordi della campagna inglese in cui era nato e cresciuto si sommarono alla musica, riportandolo in una serie di nostalgici ricordi a cui si era ripromesso di non concedersi mai più.

 “Fluida acqua che scorre,

 i nodi miei già si sciolgono”

 

Per crescere, per combattere, per fronteggiare ogni singolo problema della propria vita, si era raccomandato di abbandonare tutto ciò che era stato: ogni ricordo, ogni sano pensiero.

 

“Come neve, d’estate, ma

ti guardo tornare,

 su letti di spine”

 

C’erano cose che sentiva distanti come sogni: erano mai avvenute davvero? Non erano state solo un desiderio di normalità, durante una notte di sbornia in un accampamento gelato?

 “Le nostre paure,

 immotivate… congelate…”

 

Il viso di sua madre. Gli occhi di sua sorella.

Che ne era stato della sua famiglia? C'erano ancora, da qualche parte, vivi e vegeti?

 

 “L’amore con te è come camminare

In Punta di Piedi,

senza potermi fermare”

Celeste era meravigliosa.

Non che non ne fosse al corrente: l’aveva presa con se apposta per quello.

Ma quello che vedeva ora era qualcosa a cui non aveva mai neppure prestato attenzione.

 

Ma sento il tuo calore forte

negli angoli bui,

delle mie stanze gelate”

La sua voce era come lei: pura, limpida come il suo sguardo.

Quegli occhi che parevano fatti di cristallo, che vedeva come appannarsi quando gli si rivolgeva.

 

“Appesa al tuo respiro, mi vedo cadere

 per poi ritornare a sentirmi felice”

Era una cosa che non l’aveva mai turbato, anzi, era un incitamento a piegare quel corpo al suo volere.

Ora, improvvisamente, trovò quel suo sguardo insopportabile.

 

“Ma la tensione che sento  verso il tuo respiro

mi distoglie dal pensiero,

di tutto ciò che è andato perso”

 

Avrebbe voluto tendere una mano e sollevare il suo viso: incontrare i suoi occhi, il suo reale sguardo, e cercare la sua bocca fino ad annegarvi tutto il respiro.

 “E credo con te di potere riparare,

di poter ricostruire,

 tutto nuovo, un po’ diverso”

 

Avvertì una sorta di eccitamento piombare nella musica, cacciare quasi con dolcezza i ricordi, soffermandosi a torturarlo mentre si imbeveva di lei, mentre i suoi occhi si incupivano di desiderio.

“Mi fermo di fronte al tuo viso,

tu che dormi disteso e non sai…”
 

Dardeggiavano intorno alla sua figura, saettando dalla bianca gola, al sottile, desiderabile corpo, inguainato in quell’abito inutile.

 “Di poterti affidare, di poterti fidare… di me”

 

Eppure per la prima volta avvertì quel pregustare il piacere come un atto blasfemo, una bestemmia che insozzava quella musica angelica. Per la prima volta in vita sua, provò un barlume di vergogna di fronte a una donna.

 “Puoi fidarti di me”

 

Quando le ultime note si esaurirono, Celeste realizzò, non senza sgomento, di qual’era l’autentica verità.

Quando aveva scritto la canzone per gli sposi, il suo pensiero era rivolto a se stessa.

A se stessa e al giorno in cui sarebbe stata felice come la sua migliore amica.

Il giorno in cui avrebbe potuto donare il proprio cuore e il proprio corpo con un sorriso sulle labbra.

Il proprio corpo.

Sollevò di scatto lo sguardo su Tavington.

Il silenzio si infranse, una serie di applausi e fischi la circondò. Se si fosse voltata, avrebbe incontrato sguardi ammirati, persino riverenziali, e riconoscenti.

Ma non poteva: era troppo occupata ad osservare la nuova espressione apparsa sul viso del colonnello.

 

 

“There's no smoke without fire,

Baby, baby you're a liar.

 

Non c’è fumo senza fuoco,

Baby, baby sei un bugiardo.”

-Smoke Without Fire, Duffy-

 

 

“Lei è stata fantastica signorina, mi ha ricordato la giovinezza. Anche la mia Margaret suonava così bene il pianoforte, prima di servirmi il tè alle 5 precise di ogni pomeriggio… Ah, come mi manca la mia Maggie” le raccontò uno dei soldati, stringendole vigorosamente la mano, molto nostalgico e molto ubriaco.

Non appena si era alzata in piedi, era stata sospinta tra le acclamazioni dei soldati: non solo si erano complimentati con lei, ma avevano persino fatto a gara per stringerle la mano. Era finita a sentirsi raccontare aneddoti di vite passate, ma ciò in un certo senso le aveva fatto piacere: i loro sguardi erano mutati, come se si rivolgessero ad un abituale  musicista dei salotti londinesi, invece che una prostituta di una qualsiasi taverna di periferia americana.

“Celeste, vedi di non perdere tempo. Il colonnello ti sta aspettando di sopra” la redarguì Cherry, passandole accanto con un vassoio carico e sfiorandole il gomito di malagrazia. Mentre saliva le scale, colse alcuni sguardi delle sue compagne: gonfi di rimprovero e accusa. Probabilmente, in un certo senso, solo invidiosi.

 In corridoio incrociò diverse serve, tutte alle prese con catini di acqua fumante, tutte dirette verso la sua stanza. Quando si accostò all’uscio vide la grande tinozza, in cui facevano regolarmente il bagno, posta al centro della stanza.

Maledì l’uomo per quell’ennesima trovata.

Entrò in camera pronta a qualsiasi cosa, sfruttando quell’impalpabile nuova forza: a ribattere ad ogni sua maligna parola, a colpirlo se necessario.

Si aspettava di tutto, ma non l’identica espressione di poco prima.

Il suo sguardo pareva offuscato, il perenne ghigno strafottente scomparso.

Esitò un istante, prima di battere leggermente le nocche sullo stipite della porta.

Tavington, appoggiato al muro, si riscosse dai suoi pensieri, guardandola, avvicinandosi a lei.

“Chiudi la porta” ordinò, secco e perentorio come sempre.

Irritata, Celeste la chiuse con violenza, facendo tremare i vetri delle finestre.

L’uomo inarcò un sopracciglio, ponendosi di fronte a lei.

Celeste non abbassò lo sguardo, non accennò un movimento: le braccia distese lungo i fianchi, lo guardò.

Sotto la sua espressione neutra, ribolliva un calderone di pece infuocata.

 “Chi ti ha insegnato a suonare in quel modo?” domandò Tavington, cogliendola totalmente di sorpresa.

Sgranò gli occhi, quasi incredula.

“Mia madre” rispose infine, dubbiosa.

“Sei brava” disse con enfasi.

Era una semplice constatazione, molto più di un complimento.

Celeste si morse il labbro inferiore, nervosa. L’agitazione aveva scacciato la rabbia, e si ritrovò con ansia ad attendere un ordine qualsiasi. Che non tardò ad arrivare.

“Spogliami” sussurrò il colonnello, ma fu proprio lui a prenderle i polsi.

Con delicatezza, portandoseli dolcemente al bavero della giubba, stupendola ancor più di prima.

Che cosa era successo, per mutare improvvisamente la sua morsa bestiale e frenetica, a quel tocco mite ma deciso?

Dubbiosa, gli afferrò la giacca e lentamente la sbottonò, ma prima di poter procedere a levargli la camicia, l’uomo prese il sopravvento su di lei: la afferrò per la vita, voltandola di scatto e slacciandole l’abito con gesti esperti.

Affondò la bocca sul suo collo, limitandosi a sfiorarlo con la lingua.

Si sentì quasi in dovere di sbottonargli i pantaloni e calarli ai suoi piedi, mentre l’aria fredda della stanza le solleticava la schiena quasi del tutto scoperta. Vide i propri occhi riflessi sulla lucida rivoltella, ma l’appoggiò a terra, senza osare impossessarsene.

Tavington si distanziò da lei, dirigendosi alla vasca, entrandovi.

Celeste rimase ferma sul posto, girandosi lievemente, lo sguardo ostentatamente rivolto altrove.

Lo udì sospirare, sciacquarsi per diversi minuti, e guardandolo di sbieco lo vide sciogliersi i capelli dall’abituale laccio; gli arrivavano  poco sotto le spalle, lisci capelli castani, mossi solo da qualche ricciolo.

Anche lui la guardava, superbo, sicuro di se. Le parve quello di una belva, in attesa di un pasto meritato.

Tavington la esigeva; la pretendeva.

Ad un suo cenno si chinò accanto a lui; si aspettava di doverlo sciacquare, come una qualunque schiava col proprio padrone, ma lui la sorprese, attirandola per il braccio nella vasca, ancora con indosso la sottoveste che, bagnata, le aderì immediatamente addosso, come una seconda pelle.

Celeste tentò di aggrapparsi ai bordi, l’acqua che già straripava senza sosta sul pavimento, ma l’uomo la trasse nuovamente a se.

La prese per la nuca, avvicinando le labbra alle sue e baciandola.

Non fu come le ultime volte: la sua forza era come controllata, le sue labbra spronavano le sue con dolce violenza, sollecitandola a ricambiarlo.

La giovane non riuscì a capire che cosa fosse cambiato, si sforzò ma senza risultato; si ritrovò a baciarlo veramente, per la prima volta, le lingue che si intrecciavano in un divorarsi frenetico.

Tavington si impossessò dello straccio bagnato che l’avvolgeva ancora, gettandolo sul pavimento con violenza.

Celeste si scostò, sorpresa dai propri gesti, da come aveva perso il controllo. Ma era conscia, ormai, che il più era già stato compiuto.

Era, per così dire, ad un punto di non ritorno.

Quando il colonnello l’afferrò per le natiche, portandola sopra di se, sentì il proprio corpo prendere il sopravvento su qualsiasi altro impulso.

Non c’erano più pensieri, né ideali o divieti mentre l’uomo la penetrava, schiacciandola contro di se.

La bolla di estraneità in cui si era sempre rifugiata era definitivamente scomparsa, forse non era mai neppure esistita: non lo sapeva. Non aveva più importanza.

Era nuda e inerme di fronte al baratro di passione e perdizione in cui l’uomo la stava trascinando senza pietà; le sue braccia si abbarbicarono per la sua schiena, sfiorando ogni muscolo guizzante, aggrappandovisi come ad un ancora di salvezza.

Gli graffiò la pelle, arrivando fino a quasi strappargli lembi di carne viva, quando dalle labbra le sfuggì il primo gemito, seguito immediatamente da un altro. Posò la bocca sul suo collo, ma non fu abbastanza per soffocarli; si stava liquefacendo in un mare di piacere, travolta da onde su cui non aveva nessun potere.

Era così intenso da parere doloroso. In quell’unico barlume di lucidità rimastogli, intuì di star sfogando in ogni grido tutto ciò che finora l’aveva torturata: dolore, lussuria, colpevolezza, angoscia, ansia.

Si svuotò nelle grida, abbandonandosi al corpo dell’amante, senza rendersi conto di essere arrivata ad un passo dal farlo impazzire.

Tavington schiacciò quel corpo senza forze contro al bordo della tinozza; accecato, sfrenato, stravolgendo la realtà: non erano mai stati nemici, non erano mai stati né preda e aguzzino, o padrone e puttana.

Erano semplicemente amanti, il corpo di uno che terminava dove iniziava quello dell’altro.

Il  suo viso lasciò trasparire nitidamente tutto il piacere che era arrivato a sconvolgerlo, e Celeste lo vide: i suoi occhi azzurri erano incatenati ai suoi, stanchi e ricolmi di quell’identico, squisito, perfetto piacere.

Che si placò e scemò fino a scomparire, ma non per questo le loro carni si separarono.

L’acqua era schizzata quasi tutta sul pavimento, e la poca rimasta nella tinozza era gelida; ma nessuno dei due parve avvertirlo.

Abbracciati ancora l'uno all'altro, i loro corpi stavano in compenso bruciando.

 

 

Era qualcosa di estremamente proibito, eppure terribilmente confortante.

Non stava sognando, lo sapeva, ma non riusciva ad ammettere che il sorriso sulle proprie labbra fosse dovuto proprio a lui, all’uomo che le aveva sottratto tutto.

Eppure, il calore di un sole di mezzogiorno l’avvolgeva, e il petto su cui aveva poggiato la testa la sera prima, addormentandosi, era incredibilmente confortevole ed invitante.

Protetta dal suo braccio, scaldata dal suo corpo, Celeste spalancò gli occhi sul mondo e sulla nuova, confusa prospettiva che aveva acquistato durante la notte.

Poggiando la testa su una mano, lo guardò apertamente in viso. Era sveglio come lei, la guardava con medesima intensità.

Celeste non aveva mai fatto caso a quanto il colore dei suoi occhi fosse chiaro: era quasi cristallino, incredibilmente attraente.

Attraente.

Tavington le scostò una ciocca di capelli, capricciosa, dal volto.

“Buongiorno, Celeste” disse, sorridendo con un barlume di furbizia.

 

 

Elle's Space -

Eccomi di ritorno, con un altro notevole ritardo a pesare sulla fedina penale. Ma il colpevole resta la scuola (e altre bozze, ma questa è un altra storia v.v)

Questo può sembrare un capitolo un po' "morto", ma è fondamentale ai fini della storia: qui è dove tutto cambia, dove Tavington comprende la purezza di Celeste, ed  è persino consapevole di averla, in un certo senso, "macchiata". E Celeste... beh, all'improvviso si lascia andare (e finalmente, aggiungerei!).

La canzone, la spettacolare "In Punta di Piedi" di Nathalie (non impazzisco per la musica italiana, ma questa merita davvero) è stata uno spunto per l'intera storia, per il carattere di Celeste. Consiglio di ascoltarla perché è straordinaria **

X ragazzapsicolabile91: Hai visto bene sulle prostitute "amiche-nemiche"; più che altro, anche ai giorni nostri, in un gruppo di sole donne è normale che nascano gelosie e litigi (anche troppi!), anche sorvolando su persone come Cynthia (perché, ne sono convinta, gli stronzi spuntano come fiori). Grazie ancora per i complimenti, spero che anche questo capitolo non ti deluda (:

Auf Wiedersehen! :3

Elle H.

   
 
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