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Autore: Wiwo    31/01/2011    0 recensioni
C’è un luogo, si narra, dove si radunano gli oggetti che erano di qualcuno. Non si sa bene come sia fatto o dove si trovi, o come ci si arrivi. Tutto quello che si sa è che, ad un certo punto e senza capire il perché, un oggetto si ritrova improvvisamente lì; e che, ovviamente, è un luogo pieno di polvere.
La Scatola polverosa, così la chiamano gli oggetti, in ricordo di quelle dove erano usi stare prima: un luogo dove si va e da cui non si torna, sfumato tra mistero e paura. E tanta, tanta polvere.

Questa storia si è classificata settima al concorso "L'Harem e... il Pagliaccio" indetto da Eylis.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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POLVERE

C’è un luogo, si narra, dove si radunano gli oggetti che erano di qualcuno. Non si sa bene come sia fatto o dove si trovi, o come ci si arrivi. Tutto quello che si sa è che, ad un certo punto e senza capire il perché, un oggetto si ritrova improvvisamente lì; e che, ovviamente, è un luogo pieno di polvere.
La Scatola polverosa, così la chiamano gli oggetti, in ricordo di quelle dove erano usi stare prima: un luogo dove si va e da cui non si torna, sfumato tra mistero e paura. E tanta, tanta polvere.
Non ce n’è una sola: ogni essere umano ha la sua, la tomba dei suoi oggetti perduti, con la sua particolare forma e il suo particolare significato. Ci sono delle scatole vere e proprie, certo; ma ci sono anche vecchi carillon portagioie, bauli sbrindellati chiusi a chiave, qualche armadio, zaini da viaggio sdruciti.
Ed è proprio di uno di questi che andremo a parlare…

…di quello zaino dove un Taccuino di un artista stava valutando se separare due Matite colorate particolarmente linguacciute.
“…vantati quanto ti pare, Marrone, tanto lo sappiamo tutti che il padrone preferiva me.”
“Sei tu quella che dovrebbe stare zitta, visto che è risaputo che il Blu elettrico si utilizza molto meno del Marrone.”
“Ah sì? Si vede che l’intelligenza dipende dal colore… la tua, infatti, è decisamente spenta. Nota bene, mia smorta amica, guarda la nostra differenza di statura: io sono molto più bassa e utilizzata di te.”
Marrone sogghignò alla maniera delle Matite.
“Ma questo è perché il padrone era costretto ad appuntarti di continuo, tanto la tua qualità è bassa.”
“Non è vero! Siamo della stessa marca!”
“Sì, e tu allora sei difettata…”
Il Taccuino, in quel momento, decise che ne aveva abbastanza. Con fare imperioso si pose in mezzo alle due Matite e le guardò dall’alto in basso.
“Ragazze, adesso state facendo troppo rumore. Smettetela di litigare per stupidaggini, tanto nessuno vi risponderà: preferita o non preferita, il padrone vi ha perso e non può più utilizzarvi.” Assunse un’aria bonaria. “Sono sicuro che gli mancate tutte e due.”
Le due Matite, improvvisamente molto imbarazzate, si scambiarono un’occhiata vergognosa e tacquero, mentre un soddisfatto Taccuino, riportata la tranquillità, ritornava al suo posto d’onore, una tasca interna molto spaziosa da cui poteva osservare l’interno dello zaino.

Non che ci fosse molto da osservare, in realtà: era uno zaino grande e un po’ scucito, grigio di polvere, dove convivevano gli oggetti più disparati riuniti là dalla negligenza del padrone. Ah, povero padrone distratto, pensava spesso il Taccuino, povero padrone che ora era senza i suoi oggetti. Chissà come se la stava cavando senza di lui, il suo fedele Taccuino dell’artista, che conteneva gli appunti di tutte le sue ispirazioni…
Fece scorrere lo sguardo sugli altri, meditabondo. Eccola lì, la Coperta, grande e vissuta, che cercava di convincere una Balena di pezza dall’aria triste ad uscire dall’angolo buio e a farsi riscaldare e coccolare; in un angolo stavano le Matite colorate, sempre a cicalare e a ridacchiare tra di loro; più in disparte dagli altri c’erano la Collana, dal vistoso medaglione, la Sciarpa di stoffa indiana e la malandata Lampada da tavolo, immerse in una tranquilla conversazione. Ah, le sue care ragazze, pensò il Taccuino sorridendo. Chissà come aveva fatto il padrone a perderle, quelle povere care. Mica come quei musoni nell’angolo buio, quei giocattoli sempre depressi che passavano il tempo a sospirare! Quelli li avrebbe persi volentieri anche il Taccuino, senza alcun dubbio. Non parevano affatto importanti, e a detta di tutti erano stati persi perché ben poco utili; certo non erano degni di far parte dell’élite che si radunava intorno a lui, il Taccuino, il più importante di tutti. Ah, lui sì che conosceva il padrone! Aveva i suoi scritti sulle sue pagine, sapeva cos’era l’Arte: era dovuto che tutti lo ammirassero e lo seguissero, che si radunassero intorno a lui. Le sue donne, pensava con affetto, le sue care donne che pendevano dalle sue labbra quando rievocava il loro perduto padrone o narrava loro dell’Arte contenuta nei suoi fogli, loro sì che gli davano soddisfazioni; gli rendevano addirittura piacevole l’esistenza senza scopo nella Scatola polverosa.

E fu in quel momento, mentre il Taccuino dell’artista stava sorridendo tra sé, immerso in questi dolci pensieri, che avvenne qualcosa di molto importante.
Ci fu un fruscio come di stoffa spostata, distante; poi lo zaino si aprì per pochi istanti, lasciando filtrare una lama di luce danzante di pulviscolo che irruppe nel grigiore dell’interno. Gli sguardi degli oggetti saettarono immediatamente verso l’alto, in tempo soltanto per vedere lo zaino richiudersi… e per scorgere una piccola figura cadere tra le pieghe della stoffa, e continuare a scivolare, scivolare giù...

Oh, pensò sorpreso il Taccuino, un nuovo arrivo tra gli oggetti dello zaino era appena piombato tra di loro. Chissà che cos’era. Magari era un Blocchetto dei disegni o un Quaderno, un oggetto ricco in cultura con cui poteva intrattenere lunghi discorsi sull’Arte… Magari, magari davvero. Sarebbe certamente stata una buona compagnia.
Il chiacchiericcio crescente lo avvertì che il nuovo ospite era finalmente atterrato: i vecchi giocattoli depressi si erano allontanati dall’angolino dove era caduto ed erano stati immediatamente rimpiazzati da una piccola folla di altri oggetti, che lo circondavano e impedivano la visuale. Il Taccuino attese che si scostassero e lo lasciassero vedere, come accadeva tutte le volte; tuttavia, questa volta gli oggetti non accennavano a muoversi. Doveva essere qualcosa di ben strano se le sue donne non si spostavano, e anzi si scambiavano occhiate parlottando con evidente perplessità e disagio. Ma che cosa stava succedendo?
Il Taccuino ebbe presto risposta: una delle Matite (il Giallo acceso, notoriamente una delle più tempestive) saltellò nervosamente verso di lui e gli sussurrò qualche parola. Il Taccuino trasalì: impossibile, una cosa del genere non poteva accadere. Bisognava verificare, sicuramente era un errore.
Scese dalla tasca interna e si avvicinò al gruppo raccolto intorno all’angolo buio. Nel vederlo avvicinarsi, la Lampada da tavolo scacciò le Matite visibilmente esagitate per fargli spazio e permettergli di vedere, poi gli fece luce.
Ciò che vide il Taccuino fu la cosa più sconvolgente che era capitata da che era caduto nella Scatola Polverosa. Tra le pieghe in ombra dell’angolo dello zaino, piccolo e tenuto fermo dal cordoncino di una sbigottita Collana, stava un essere umano. Un essere umano in carne, ossa e vestiti larghi e colorati. Da non crederci.
Il Taccuino dell’artista non parlò; gli oggetti, intimoriti, tacquero anch’essi. Cadde il silenzio.

Poi, il Taccuino si mise a ridere.
Prima sottovoce, poi sempre più di gusto, mentre le Matite si univano a lui con le loro risatine acute e venivano poi seguite da tutte le altre, compresa la materna Coperta. L’essere umano, circondato da risate di scherno, non reagì.
“Ma guardatelo, un essere umano!” articolò il Taccuino con la voce spezzata dal riso, causando una nuova ondata di ilarità, “come hai fatto a farti perdere, tu?”
“Perso, è stato perso dal padrone!”
“Un essere umano… perso! Lasciato in giro! Questa poi!”
“Doveva essere davvero molto importante…”
L’Uomo se ne stava zitto, con gli occhi bassi, visibilmente spaesato. A mano a mano le risate diminuirono, mentre il Taccuino cercava di riprendere un po’ di serietà: era il più importante là dentro, ci voleva un po’ di contegno, insomma!
Osservò meglio l’Uomo. Era trascurato, con pantaloni colorati e una camicia dal disegno indiano spiegazzata, con lunghi capelli spettinati e la barba incolta di qualche giorno. Ed era piccolo rispetto agli oggetti. Che misera figurina, che esserino ridicolo! Ci mancò poco che si rimettesse a ridere.
Le altre risate, intanto, si erano quasi spente; solo le Matite continuavano a ridacchiare, ma tanto loro non stavano mai zitte. Il Taccuino decise che quello era il momento giusto per saperne un po’ di più.
“Essere umano,” iniziò il Taccuino con voce importante, ponendo fine agli ultimi risolini, “Essere umano. Che cosa ci fai qui?”
L’Uomo sussultò. Prese dei respiri veloci prima di rispondere, guardandosi intorno con aria nervosa. “Dove siamo, qui?”
Gli oggetti scoppiarono nuovamente a ridere.
“Come, dove siamo qui? Ma davvero non lo sai?” lo apostrofò la Collana.
L’Uomo scosse la testa, inquieto.
“Siamo nella Scatola Polverosa, Essere umano, ” continuò il Taccuino con aria di scherno, “E sai che luogo è, la Scatola Polverosa?”
La piccola figura scosse di nuovo la testa.
“Ebbene, Essere umano, è un luogo dove quelli come te di solito non finiscono: quindi, o sei particolarmente stupido o particolarmente sfortunato, e in entrambi i casi sei nel posto sbagliato. Perché questo, Essere umano, è il luogo dove cadono gli oggetti persi dal padrone. E ora dimmi, Essere umano, soddisfa la mia curiosità: quanto dovevi essere inutile per farti perdere così?”
Un coro di risate interruppe nuovamente il Taccuino.

L’Uomo rimase impassibile, con lo sguardo perso nel vuoto. L’unica emozione che emanava da lui non era rabbia, o umiliazione, o paura, ma una sorta di tristezza. Circondato dagli sghignazzi divertiti del Taccuino e del suo harem, se ne stava immobile, come immerso in una bolla.  

“Insomma, insomma, ragazze! Lasciatemi parlare!” sorrise il Taccuino, riprendendo fiato dopo le risate, “non siate maleducate e fatemi continuare il discorso. Bisogna prestare la dovuta attenzione agli ospiti, o abbiamo forse dimenticato la cortesia?”
Si voltò verso l’Uomo.
“Dove eravamo rimasti…? Ah, sì. Essere umano, come sei finito qui, dunque? Come hai fatto a farti perdere, tu che nell’Altro mondo hai il dono del movimento e della parola? Ah, davvero, un Essere umano sprecato, un fallimento. Ma, anche se la cosa mi sorprende, sono comunque interessato alla tua storia,” disse meditabondo, “ perché sarà anche la storia di un perdente, ma può essere interessante. È la varietà di storie e di personaggi che porta all’Arte, dopotutto... E sai, Essere umano, io di Arte sono esperto.”
Il Taccuino chiamò attorno a sé gli altri oggetti, che si disposero obbedientemente a semicerchio intorno a lui.
“Avanti, Essere umano, parla, raccontaci. Le mie donne, qui, muoiono di curiosità. Non è vero, mie care?”

L’Uomo allora alzò cauto gli occhi, ma non c’era risoluzione in essi. Si guardò intorno, a disagio, osservando l’ambiente; fissò gli oggetti ad uno ad uno con aria distante. Poi, quando la Collana sbuffò, evidentemente stanca di aspettare e ben poco interessata, trasalì e abbassò di nuovo lo sguardo.
“Io… non mi ricordo.”
Ci fu un nuovo scoppio di risa.
“Che vorrebbe dire, ‘non mi ricordo’?” strascicò la Sciarpa di stoffa indiana, “tutti si ricordano. È normale che ci si ricordi.”
“Non si ricorda! Non si ricorda! È difettato!” la Matita Marrone indicò quella Blu elettrico, “come lei!”
Il tono sconcertato del Taccuino sovrastò anche il rumore della rissa appena scoppiata tra le due Matite. “Non ti ricordi?”
 L’Uomo sembrò farsi più piccolo e scosse la testa.
“Davvero, davvero sono senza parole. Ah, assurdo. Non solo un Essere umano cade nella Scatola Polverosa, e già questo è terribilmente fuori luogo, ma non si ricorda nemmeno cosa gli sia successo! Davvero, non ho mai conosciuto nessuno di più sbagliato di te, Essere umano. Cosa possiamo fare di te?”
Il Taccuino sospirò, pensieroso. La situazione si prospettava più spinosa del previsto, dato che era proprio in base alla loro storia che gli oggetti nuovi trovavano il loro posto nello zaino.
La Lampada da tavolo riportò l’ordine tra le bellicose Matite e ingiunse loro il silenzio, mentre il capo rifletteva. Bisognava decidere cosa fare di quell’Uomo, e questo genere di decisioni non era per loro, ma doveva essere preso da chi meglio capisce la situazione, e quindi comanda. La Lampada ne era profondamente convinta. Chi non sa, se ne stia da parte e faccia il suo mestiere; nel suo caso, controllare le Matite e illuminare le cose importanti. Già, illuminare le cose importanti; la Lampada si voltò e diresse quindi la luce verso il Taccuino.
Al Taccuino la cosa non dispiacque per niente: d’altra parte era giusto così, che fosse lui al centro, e non quello stupido Uomo. Rischiava di rubargli la scena con la sua assurdità. Come sistemarlo nel pacato ordine della Scatola Polverosa? Ah, intanto facendogli capire come è l’ordine, ovviamente: mostrandogli chi è il capo e chi gli è benvoluto. E mostrandogli il posto che gli spetta.
Si volse verso la Lampada.
“Ti ringrazio, mia cara. Essere umano, se non ti ricordi vuol dire che non conosci il padrone. Sai, qui chi più conosce il padrone è chi è più rispettato, perché sa. Chi non sa non è interessante, Essere umano, e io intorno a me non voglio cose non interessanti, che non possono portare notizie del padrone e concetti nuovi sull’Arte. Se tu non ricordi niente il tuo posto è tra quegli oggetti là, che anche se sanno non parlano mai… cose malinconiche e poco interessanti, che nessuno vuole intorno.”
Con questo l’Uomo era sistemato, al posto che più gli competeva tra i reietti dello zaino.
Però… però il Taccuino non era del tutto soddisfatto. In fondo non si era ancora divertito abbastanza con quella novità, accantonarla così era un peccato. Potevano ridere ancora un po’… Sorrise e si rivolse al suo piccolo pubblico.

“Cosa ne dite, ragazze? Facciamo vedere all’Essere umano difettato com’è ricordarsi di come siamo arrivati qui e di ciò che c’era prima? Raccontiamo la nostra storia. Mostriamo quanto siamo interessanti e quanto eravamo importanti per il padrone… Narriamo di ciò che rappresentiamo e di come adesso siamo nella Scatola Polverosa. Chissà, magari anche questo Essere umano tanto inutile da farsi perdere, in questo modo, ricorderà qualcosa del padrone… anche se ne dubito.”
Le donne, com’era giusto che facessero, acconsentirono, alcune con entusiasmo, altre con dignità, altre con altezzoso orgoglio. Il Taccuino era così fiero di loro, le sue care donne dall’interessante storia.

L’Uomo ebbe un brillio negli occhi e raddrizzò un poco le spalle, attento per la prima volta da quando era arrivato. Il Taccuino non seppe spiegarsi il suo atteggiamento: non parla, non si difende, non ricorda, ma si interessa alle loro storie. Ah, che fosse il richiamo dell’Arte? Magari quest’Uomo, prima di essere perso, era un Artista, come il padrone; magari inventava storie… Ma no, decisamente impossibile, era solo un caso, un interessamento senza motivo: d’altronde, era un essere senza un perché.
Il Taccuino, tuttavia, pur senza ammettendolo ne fu lusingato; fu con aria pomposa e importante, quindi, che iniziò a raccontare la sua storia.

“Devi sapere, Essere umano, che io appartenevo ad un Artista: un uomo che ama leggere, scrivere, disegnare, suonare la chitarra, un uomo molto interessante. Ed io, essendo il suo Taccuino dell’artista, sono interessante allo stesso modo: nelle mie pagine è racchiusa l’Arte, sotto forma di scritti e disegni, e parole sparse. Sono quello, qui, che conosce di più il padrone, e per questo tutti mi rispettano.”
Intanto, le Matite si erano calmate e ascoltavano attente. Il Taccuino rivolse loro uno sguardo d’approvazione.
“Ora, Essere Umano, ti racconterò degli ultimi periodi, prima che io arrivassi qui, perché se raccontassi tutto quanto dovrei parlare per molto, molto tempo. Ah, quanti ricordi tra le mie pagine… Ricordi che non condividerò con uno sbagliato come te, Essere umano. Ma non divaghiamo.”
Il Taccuino si spostò verso il centro del circolo improvvisato che gli oggetti avevano formato attorno a lui e all’Uomo e si volse verso quest’ultimo.
“Il padrone viveva nei grandi Stati Uniti d’America. Come ti ho già detto, era un Artista, che annotava su di me le sue ispirazioni; ma scriveva anche i suoi diari, a volte. Uno degli ultimi scritti sui miei fogli è proprio un diario, e risale ad qualche giorno prima della mia caduta qui: è datato 8 Agosto 1969, St. Louis. Il padrone scriveva che era stufo della città, della sua vita e della sua gente; lo scriveva già da un bel po’ di tempo, che si sentiva costretto, là: voleva cambiamenti. Voleva conoscere gente nuova, paesaggi nuovi, nuovi modi di pensare, di vivere e di amare, voleva vedere un orizzonte diverso davanti a lui e voleva sentirsi vivo per davvero, con ogni parte del corpo e della mente… questo scriveva.  Solo che, fino a quel momento, si era limitato a esprimerle con la penna, queste idee, non le aveva mai manifestate con le parole e con gli atti. Ah, il caro padrone, lui voleva andarsene via con altri che la pensavano come lui, “persone gentili con fiori tra i capelli”, e viaggiare, scoprire, sentire. Pensava di non avere abbastanza coraggio per farlo, però, credeva che non sarebbe mai riuscito a partire per davvero; ma si sbagliava, perché in quello scritto si può leggere che lui se ne andò veramente dalla città, assieme a un gruppo di altre persone dai capelli lunghi e dagli sguardi sorridenti. Un giorno salì su di un bus dipinto con tanti colori, con solo uno zaino da viaggio contenente il minimo indispensabile con sé, diretto ad un grande raduno di gente come lui: era l’inizio di un vero Cambiamento, la porta verso la vita che si apriva per lasciarlo finalmente entrare!
Poco racconta di quei due o tre giorni: il viaggio procedeva in allegria, tra chiacchiere, musica di chitarra, fumo, risate e il fare l’amore. Il padrone finalmente si sentiva a suo agio, non più il pesce fuor d’acqua com’era stato a casa sua; in una bellissima poesia esprime tutta la sua felicità per essere riuscito a trovare un’appartenenza, che lo liberava dal sentirsi un pagliaccio, solo e incompreso. Ah, che felicità a quelle parole, che felicità! Chissà se tu puoi capirmi, Uomo sbagliato… ma credo di no. Chi è sbagliato non può capire, ma semplicemente ascoltare e fare domande fuori luogo come lui.
Comunque, di quei giorni tengo ricordi molto belli; anche alcune delle ragazze, qui, potrebbero confermartelo… non è vero, mia cara Coperta?”
La Coperta ebbe un sospiro trasudante ricordi, poi con tono materno confermò quanto diceva il Taccuino: il padrone sembrava così felice!
Il Taccuino riprese il suo racconto.
“L’ultimo intervento è datato 11 Agosto 1969, sul bus. Nel loro viaggio verso Woodstock ogni tanto capitava che accogliessero altra gente, perché l’ospitalità non si negava ad alcuno che la chiedesse; quel giorno, però, non sarebbero salite persone qualunque: si sarebbe unito a loro qualcuno di molto speciale.
Una ragazza salì: un Essere umano come te, eppure mille volte più speciale. Il padrone ne rimase estremamente colpito: la sua scrittura traballante ne scrive già sul bus, descrivendola nei dettagli. Era vestita di colori chiari, con una camicia indiana leggera sulla pelle; aveva occhi verdi e capelli rossi lunghi fino a metà schiena che dondolavano ad ogni sussulto della strada; non dice il suo nome.
Capisci, Essere umano? Quella non era una persona qualsiasi, come scrive il padrone. E se il padrone non mi avesse perduto quella sera stessa, adagiato sull’erba mentre, osservando quella ragazza, tracciava segni ondulati sulle mie pagine, se non mi avesse posato per quei pochi minuti, avrebbe scritto che cos’era davvero quella ragazza, che cosa rappresentava: ella era la bellezza, ella era l’Arte. Ne sono più che sicuro. Ovvio che il padrone ne fosse così affascinato. Ah, se solo l’erba non mi avesse coperto rendendogli impossibile il ritrovarmi! Chissà come si sarà sentito solo, senza di me, incompleto: le sue ispirazioni, perdute! Povero padrone, che non poteva più scrivere dell’Arte sul suo fedele Taccuino.”
Il Taccuino guardò l’Uomo con disprezzo.
“Se solo avessi avuto una voce, Essere umano, una voce come la tua, avrei chiamato il padrone: avrei gridato finché non mi avesse ritrovato, tra i lunghi steli d’erba, in modo da non farlo rimanere senza di me, mi sarei mosso e l’avrei cercato, non avrei mai lasciato che mi perdesse. Potevi fare anche tu così, Essere umano. Ma forse eri troppo stupido per pensare ad una soluzione così ovvia.”
L’Uomo non parlò.

“Non ricordi niente ancora? Niente che possa illuminarci su come un Essere umano possa essere più inutile di un giocattolo rotto?” il Taccuino sorrise di scherno, ”molto bene. Vorrà dire che andremo avanti noi. Coperta, mia cara, vuoi continuare tu?”
La Coperta sussultò, presa alla sprovvista.  “Io?”
“Ma certo, mia cara. Sei stata la prima ad arrivare qua dopo di me, quindi chi meglio di te per andare avanti coi ricordi? Certamente avrai la tua parte della storia da raccontare, visto che anche tu eri molto vicina al padrone… Vieni al centro, coraggio.”
Se le Coperte potessero arrossire, la nostra sarebbe già stata di un bel color pomodoro. Impettita e un po’ goffa, la Coperta di lana segnata da piccole scuciture avanzò nel centro del cerchio, prendendo il posto del Taccuino, di fronte all’Uomo. Questi la osservò in silenzio, con lo sguardo assorto e indecifrabile.
Che strano Essere, pensò in quel momento la Coperta, così cupo, così solo… Le metteva addosso l’inquietudine. Chissà se aveva freddo, poveretto. Non le sarebbe dispiaciuto scaldarlo se avesse avuto freddo, era il suo mestiere dopotutto: una brava Coperta si prende cura degli altri anche se non più nuova e con qualche rammendo, e lei era orgogliosamente la migliore nel suo campo. Però il Taccuino aveva detto di no, e lei doveva prendersi cura anche del Taccuino, così permaloso…
Scacciò questi pensieri fastidiosi e si schiarì la voce; cercando di superare l’imbarazzo, raccolse per bene i suoi lembi, si sistemò comoda e iniziò la sua narrazione.

“Beh, io sono solo una vecchia Coperta, non sono educata come il Taccuino o raffinata come la Sciarpa, non conosco bene il mondo perché sempre stata molto brava a scaldare la gente, ma non ad osservare. E poi, Taccuino, la mia storia è molto monotona, lo sai: le Coperte poco belle come me non hanno molte avventure… Non come quelle belle Coperte ricamate, che vengono regalate ai giovani sposi. Una volta avevo un’amica Coperta così bella da stare addirittura su di un letto, così, a bella vista! Non vi dico, sui toni del rosa, con delle roselline ricamate davvero graziose. Però, se devo dire la verità…”
“Coperta, non dilungarti, per favore. Continua da dove io avevo interrotto, avanti,” la interruppe il Taccuino con tono fermo.
La Coperta sbuffò, benedicendo la sua pazienza. Il Taccuino era davvero colto e intelligente, certo, ma così esasperante, alle volte…
“Scusami, lo sai che ogni tanto mi lascio prendere dal discorso. Dunque, dicevamo…
Ah, sì, quella ragazza che il padrone aveva conosciuto sul bus. Non la vedevo molto spesso durante il giorno, perché il padrone mi teneva arrotolata e fissata allo zaino, in una posizione assai scomoda che mi sgualciva sempre. Durante le pause, però, quando il padrone mi stendeva sull’erba, o durante la notte, quando parlavano e suonavano seduti su di me, tutti insieme, allora potevo guardarla con tutta calma, visto che quei due erano sempre seduti vicini. Il padrone la guardava sempre, e lei non ne sembrava affatto dispiaciuta, no no. Erano così dolci, e il padrone sembrava così felice, così spensierato… A dir la verità a lei non facevo mai troppo caso, perché il mio compito era prendermi cura del padrone e tenerlo d’occhio, però mi sembrava una brava ragazza, anche se un po’ lunatica.”
La Coperta si fermò un momento, riflettendo.
“Se posso dirlo, Taccuino, credo che per il padrone quella non fosse altro che una ragazza, non quel qualcosa di strano legato all’arte che hai detto tu. Ma io sono solo una Coperta, non sono colta come te, magari non capisco bene… anche se mi sembrava proprio simile alle altre cotte del padrone, davvero. Me ne ricordo una davvero perniciosa, forse un anno prima, non si scollavano un momento… Altro che questa qua! Vi giuro… No, ho capito, ho capito, non mi perderò nel discorso di nuovo.
Comunque, arte o non arte, il bus arrivò a destinazione con un tempo piovigginoso. Non so cosa ci trovassero tutti quei ragazzi nel radunarsi in un campo fangoso, all’aria aperta e quindi anche alla pioggia, ma fatto sta che erano tantissimi, tutti giovani e colorati, tutti sorridenti e pieni di speranza. Durante la giornata, non mi ricordo la data perché a me nessuno l’ha detta o scritta, ero legata allo zaino come al solito, ma eravamo in un grande spiazzo, e le persone erano tantissime: avevano fatto tutto quel viaggio per un concerto e sembravano divertirsi un mondo. Io, a dirla tutta, mi annoiavo non poco… sapete com’è, a me la musica proprio non interessa, sono una Coperta, non una Chitarra.
Il mio ultimo ricordo proviene da una delle notti passate laggiù… e che notte! Vedi, Taccuino, è per questo che credo che il loro fosse più un possibile amore che una cosa complicata e artistica: noi Coperte vediamo delle cose che voi Taccuini non potrete mai vedere, e conta, credimi. Era davvero così romantico, essere stesa sull’erba umida in una notte d’agosto, con loro due che dormono abbracciati su di me! Mi sentivo proprio una Coperta modello.
Alla mattina, però, dopo che lei si fu alzata per tornare dagli altri, nello spiazzo, e il padrone l’ebbe inseguita prendendola per mano, io rimasi lì. Attesi pazientemente che calasse la notte perché tornassero da me, ma nessuno arrivò più… Avranno senza dubbio dimenticato dove mi avevano messo, quei due! E così sono finita qui.”
La Coperta sospirò. “Che peccato essere persa in questo modo, davvero… ero così curiosa di sapere come sarebbe andata avanti, visto che pareva così promettente.”
Sollevando le ampie gonne, la Coperta guardò il Taccuino perché la facesse tornare a posto; questo la squadrò con aria un po’ contrariata come faceva sempre quando non si era completamente d’accordo con lui, ma poi le fece posto, muovendosi verso il centro. Tornando a posto, la Coperta diede un’occhiata all’Uomo e si stupì molto del fatto che avesse negli occhi una luce un po’ nostalgica, perché non ne vedeva il motivo; ma era inutile scervellarsi su cose che una Coperta non poteva capire, molto probabilmente, sotto la scorza, era solo un romanticone… sì, doveva essere così. Le stava riuscendo addirittura un po’ simpatica, quella creatura sfortunata, ma era meglio dimenticarlo subito: non si poteva. Anche se sarebbe stato così bello, in memoria dei tempi passati, coccolare un Essere Umano… Sospirando, la Coperta si mise comoda e rivolse la sua attenzione verso il Taccuino.

Questo guardò l’Uomo, sorridendo .
“Allora, Essere Umano, nessun ricordo, ancora? Eppure mi è parso di vederti più attento di prima. Ah, ma chi può comprenderti? D’altro canto, se tu fossi un Essere Umano normale ora non saresti qui, e temo proprio che non sia in mio potere comprendere un errore. Non che ne senta il bisogno, intendiamoci.”
Il Taccuino dell’artista si volse verso le sue donne, pensieroso.
“E sia, continuiamo la nostra storia. Dunque, dopo la Coperta… ma certo, come dimenticare! Mia cara Sciarpa, sei tu la prossima. Vorresti accomodarti qui, per favore?”
Gli sguardi si spostarono sulla Sciarpa di stoffa indiana, che lentamente, strusciando, si alzò.
“Taccuino, se vuoi, racconterò. Anche se mi sembra un po’… eccessivo, tutto questo per un Essere Umano. Non ne vale la pena.”
I disegni sulla stoffa aranciata si scomposero nelle pieghe mentre la Sciarpa avanzava fino al centro. Fece dondolare le sue perline, squadrando l’Uomo dall’alto in basso, con evidente disprezzo: decisamente una perdita di tempo, avrebbero dovuto relegarlo nell’angolo e basta. Quando si accorse che non ci sarebbe stata alcuna reazione alla sua evidente ostilità, distolse lo sguardo, stizzita. Scostò una piega che stava scivolando, sbuffò, e iniziò.

“La mia è una storia molto lunga, e io ho visto tante cose, tanti… posti, città, al collo dei miei padroni. Ho avuto più di un padrone… Conosco tante cose. La storia di come sono stata persa, però, è molto breve, molto semplice. Molto… umiliante, per me. Quindi ne parlerò brevemente, perché la detesto.”
La Sciarpa parlava con tono lento e un po’ pesante, continuando a fissare l’Uomo.
“Il mio ultimo padrone mi aveva presa al mio padrone precedente in cambio di pochi pezzi di carta. È una cosa che era accaduta già qualche altra volta, quindi ci ero abituata… ma questo nuovo padrone, poi, si comportò diversamente dagli altri, non fece come tutti e mi indossò. Lui mi piegò con cura, lisciò la mia stoffa, controllò i miei disegni e sistemò due perline mancanti… fu molto gentile. Poi, mi mise nello zaino, facendo molta attenzione a non sgualcirmi. Io ne rimasi un po’ delusa… Mi piace vedere il mondo dal collo del padrone, mi piace farmi ammirare e far brillare il mio colore alla luce del sole, ma… non mi piace, proprio, stare chiusa. Anche se ero lusingata dalla cura con cui mi trattava.”
La Sciarpa si fermò un lungo attimo, visibilmente irritata.
“Poi, scoprii perché il padrone… lui mi trattasse con tanta cura, e non mi piacque, non mi piacque per niente. Voleva regalarmi a un’altra… credo che sia quella di cui parlava la Coperta, e il Taccuino prima di lei… perché lui diceva che mi sarei intonata ai suoi capelli. Oh, un oltraggio per me, cambiare padrone così presto, così senza motivo, per qualcuna che non mi piaceva. La sentivo parlare da dentro lo zaino… Non mi piaceva, no, non mi piaceva affatto… aveva una voce troppo veloce, cambiava argomento troppo velocemente, e questo voleva dire che cambiava idea pure velocemente. Si sarebbe stancata di me presto, me lo sentivo. Ero così infastidita… ma non potevo farci niente. Però, fu il padrone stesso a fare qualcosa, anche se avrei preferito di no. C’era vento, il giorno in cui lui voleva darmi a quella, il tipico vento dell’Autunno, con il suo buon profumo… Lui mi aveva in mano, e io mi sgranchivo nell’aria, sventolando la mia stoffa. Non prestavo attenzione a niente, se non al vento… e, all’improvviso, stavo volando nel vento. Mi aveva perso dalla mano… e dal vento sono finita qui.”
La Sciarpa si voltò verso il Taccuino, senza degnare più di uno sguardo l’Uomo.
“Ecco, questa è la mia umiliante storia. Persa per caso…”
Il Taccuino non disse nulla e si scostò per farla rientrare al suo posto, e la Sciarpa, strascicando la stoffa aranciata, senza un’ulteriore parola tornò nel cerchio.

Ci fu un momento di silenzio dopo le ultime frasi della Sciarpa, prima che il Taccuino decidesse di interromperlo di nuovo. L’Uomo guardava in terra.
Infine il Taccuino parlò.
“Grazie, Sciarpa, mia cara. Ma ti prego, non parlare più con questo tono così duro: sono certo che il padrone è rimasto davvero dispiaciuto quando gli sei sfuggita di mano, e poi, quello di poter essere regalata all’incarnazione dell’Arte avrebbe dovuto essere un onore, per te. Riflettici, per favore.”
La Sciarpa di stoffa indiana aveva un’espressione scettica, ma non rispose.
“Dunque, continuiamo! Umano difettato, ancora niente? Sei molto peggio di quanto pensassi, allora… Ragazze, laggiù, che cos’è tutta questa agitazione?”
Le Matite avevano iniziato a saltellare, esagitate.
“Tocca a noi!”
“Tocca a noi!”
“E chi racconterà?”
“Io, io!”
“No, tu parli come colori, cioè male. Racconto io!”
“No, io! Ero la preferita!”
“No, nessuna di voi! Racconto io!”
“Ci vuole un colore deciso per raccontare, quindi io!”
“Facciamo per votazione!”
“Sì! Va bene!”
“Sì! C’è qualcuno che vota per me?”
“NO!”
“…Adesso basta!”
Le Matite si zittirono improvvisamente, mentre la Lampada da tavolo, autrice di quell’ultimo urlo, cercava di fermare la sua intermittenza da stress. Quelle pazze scatenate prima o poi l’avrebbero fatta fulminare.
“Parlerò io,” disse poi a voce bassa e controllata, “visto che la vostra storia la conosco bene, tanto me l’avete raccontata, e voi siete incivili. Vergognatevi!”
Le Matite si guardarono l’un l’altra con aria improvvisamente intimorita, parlottando a voce bassa incolpandosi a vicenda, ma non obiettarono.
La Lampada fece mente locale per ricostruire un racconto coerente da quanto gli avevano disordinatamente detto le Matite durante la loro permanenza nello zaino: erano così confusionarie da risultare quasi incomprensibili. Il Taccuino la osservava con aria d’approvazione, e la Lampada, sentendosene orgogliosa, si mise d’impegno nel compito che si era presa.
A dir la verità, la Lampada era laggiù da ben prima del Taccuino, solo che non aveva molto da raccontare: aveva fatto il suo lavoro di illuminare per un periodo di tempo rispettabile, poi un giorno era stata messa in un angolo perché continuava a fulminarsi per l’età. Da lì, dopo qualche tempo, mentre non stava attenta a cosa le accadeva intorno, si era semplicemente ritrovata nella Scatola Polverosa e vi aveva trovato tanti altri oggetti silenziosi e tristi. Aveva quindi deciso di non distrarsi più per evitare che le accadesse di nuovo una cosa del genere, ma laggiù la Lampada non aveva niente da fare, nessun compito da svolgere, nessuno da aiutare: si annoiava a morte. Poi, ad un certo punto, lo zaino si era aperto e tra di loro era arrivato un Taccuino dell’artista, un oggetto estremamente affascinante e carismatico… e la Lampada aveva deciso che lui sarebbe stato un ottimo sostituto del padrone. Il resto della storia lo conosciamo già.
Schiaritasi le idee, la Lampada avanzò quindi verso il centro del cerchio, e iniziò a parlare guardando il Taccuino.
“La storia di queste disgraziate non impiegherà molto per essere raccontata… silenzio, voi! Non voglio sentire proteste! Allora, erano le Matite del padrone, che lui si portava sempre in giro e con cui faceva schizzi e disegni. La parte che ci interessa della loro storia inizia quando vennero utilizzate per disegnare la Rossa, come la chiamano loro.”
“Ma Lampada! Abbiamo fatto tanti altri disegni prima! Di quelli non racconti?” si lamentò la Matita Rosa.
“Ho detto che non voglio sentire proteste. A nessuno interessano gli altri disegni, Rosa, o almeno non adesso. Lasciami continuare e taci.”
La Lampada si schiarì la voce e lanciò uno sguardo d’ammonimento a tutto il gruppetto.
“Il padrone, a quanto mi è stato raccontato, le utilizzava spesso per ritrarre la Rossa, mentre erano in viaggio e mentre si fermavano. Viaggiavano molto, solitamente sul bus, diretti chissà dove, sempre assieme a tante altre persone come loro… da quanto queste qua hanno capito (e quindi forse molto poco), facevano un viaggio per visitare i posti che li rispecchiavano, che, a parer mio, erano irraggiungibili, o comunque inutili da visitare. India, bah… Comunque, ci fu un periodo, poco prima della loro caduta nello zaino, in cui disegnavano quasi tutti i giorni, sia in auto, sia nelle case, sia di giorno, sia di notte. A quanto pare fu un periodo molto faticoso, ma soddisfacente.”
“E che disegni feci, colorando i suoi capelli! Fu il mio periodo di gloria!” esclamò tronfia Arancione.
“Ehi, ehi, mica solo tu! C’ero anch’io!” ribatté la Matita Rossa.
“Che cosa romantica, disegnarla di notte mentre dormiva… e lei era così bella!”
“Già, così colorata! Era proprio simpatica!”
“Sono d’accordo con te, Verde chiaro, anche di solito mi stai antipatica,” disse Viola, annuendo.
“Per me erano proprio innamorati…” sospirò la Matita Rosa, romantica fin dentro la mina.
“Secondo me invece lei non lo era.”
“Grigio, sei sempre la solita guastafeste!”
“Sarà, ma a me lei non sembrava innamorata per niente…”
“Ma a te tutto sembra sempre negativo, sei triste e smorta!”
“…come te!” esclamò la Matita Blu elettrico guardando Marrone.
Come prevedibile, scoppiò immediatamente una rissa piuttosto rumorosa. La Lampada ebbe un paio d’intermittenze, esasperata, poi prese fiato.
“SILENZIO!”
Il Taccuino ridacchiò con affetto mentre la Lampada sgridava a voce alta le Matite, quelle tante piccole disgraziate iperattive così adorabili: come avrebbe fatto senza di lei a fronteggiare tutte quelle scatenate?
La Lampada, finita la ramanzina che sarebbe risultata inutile come al solito, si diede un contegno.
“Non voglio più sentire commenti, è chiaro? Mi farete fulminare, una volta o l’altra. E adesso lasciatemi finire, per carità. Come stavo dicendo, anche se decisamente non se lo meritano, le Matite nell’ultimo periodo vennero utilizzate tantissimo. Poi, da un giorno all’altro, fine. Dopo essere state riposte nello zaino in fretta e furia, una sera, caddero fuori con la loro scatola e non vennero raccolse, e io un perché ce l’avrei. Fu così che vennero perse, e si ritrovarono qui. Fine della storia.”
Le Matite non parvero molto contente di essere state liquidate con così poche parole, ma la Lampada notoriamente era molto pratica e senza senso della poesia… ed era anche molto spaventosa quando si arrabbiava, quindi nessuna di loro osò protestare. Soddisfatta, la Lampada si allontanò dal centro del cerchio e un orgoglioso Taccuino prese il suo posto.

“Ti ringrazio, Lampada, carissima: davvero non so come farei senza di te. Ah, Essere umano, nota come un suppellettile – perdonami, mia cara, ma è così – senza alcun senso dell’Arte possa essere così gentile e indispensabile, come possa essere così perfetto e calzante nel suo compito. È tutto il contrario di te, Uomo, che, nonostante la tua libertà di movimento e di parola là Fuori, sei finito qui tra gli oggetti perduti: lei ha dato pieno compimento alla sua esistenza, è esattamente ciò che dovrebbe essere. Tu, invece, sei un Essere umano senza memoria e perso come un oggetto nonostante le tue mille opportunità. Sei ridicolo.”
L’Uomo, come sempre, non diede segno di aver recepito quelle parole. Il Taccuino iniziava davvero a stufarsi di quello scherzo della natura: si era divertito abbastanza nello schernirlo, anche se lui non gli dava troppe soddisfazioni, e il momento di sistemarlo com’era possibile nella routine dello zaino si avvicinava. Ah, che fastidio, certo, quest’essere improbabile, senza una spiegazione logica, che finiva proprio nel suo zaino! Meglio andare avanti, sì, dopo aver finito la farsa tutto sarebbe tornato alla normalità… anche l’Essere umano.

Il Taccuino si schiarì la voce.
“Ah, ed ecco la volta della nostra ultima narratrice… Collana, milady, ti prego, vieni avanti.”
Con fare galante, il Taccuino, guardando l’altezzosa Collana, si scostò per cederle il posto. Questa incedette, dandosi importanza, mentre il medaglione mandava vaghi luccichii nella penombra grigia; arrivò al centro e lì si fermò, osservando svogliatamente l’Essere umano di fronte a lei, che la fissava di rimando. Quell’Uomo la divertiva, come tutte le cose inferiori a lei che corrono in giro cercando il loro posto: questo, poi, era un caso disperato. Inutile perderci troppo tempo, pensò raccogliendo vicino a lei la sua cordicella e facendo vanitosamente luccicare il medaglione, tanto valeva farla finita in fretta…

“Dunque, come iniziare? Avrei così tante cose da dire… più di quante potreste immaginarne. Intanto per cominciare, il padrone non è stato il mio primo padrone, e già questo sarebbe lungo da raccontare… Ma la cosa più importante è che la persona a cui appartenevo prima era proprio quella di cui state parlando da un bel po’: la ragazza del bus, la Rossa. Davvero, non vi immaginate quante cose potrei raccontare, anche se adesso non lo farò e seguirò la storia che avete portato avanti, anche perché, sinceramente, proprio non ne avrei voglia. Allora… Fui regalata al padrone in un giorno di inizio Autunno.”
La Collana si fermò per un momento, persa nei ricordi, poi sospirò romanticamente.
“Lo ricordo molto bene. Quel giorno la padrona mi aveva al collo, come suo solito, assieme ad altre Collane. Quell’uomo era con lei da circa un mese, e la seguiva ovunque andasse; erano sempre insieme, spesso anche in compagnia di altre persone colorate, in viaggio verso non saprei dire che. Un giorno, mentre conversava con quell’uomo, la padrona senza preavviso si portò le mani al collo e prese delicatamente la mia cordicella, mi sollevò e mi porse a lui. Ne fui estremamente sorpresa: la padrona che mi regala? Perché? Però non mi feci troppe domande, alla fine non mi interessava così tanto; mi limitai ad osservare il mio nuovo padrone, sperando che fosse gentile e che mi tenesse bene come faceva la padrona. Il nuovo padrone era  più stupefatto di me, devo dire, e mi ricevette con un sorriso di felicità. Da quel momento mi portò sempre al collo, sotto la maglia, a contatto con la sua pelle; non ne ero particolarmente contenta, come dire… mi piace vedere il mondo, se sono al chiuso mi annoio. Purtroppo, però, non potevo farci niente.”
La Collana giocherellò con il suo cordoncino nero.
“Passò del tempo. Non saprei dire esattamente quanto, perché non ci sono mai stata attenta, ero così annoiata, sotto la maglia… però direi che non fu poco. Quando vi prestavo attenzione, durante quel periodo sentivo a volte il padrone parlare con lei, ridere, baciarla, disegnarla. Poi, un giorno, cosa che mi lasciò parecchio stupita, perché proprio non me l’aspettavo, il padrone mi tolse con parecchia malagrazia e mi ripose nella tasca dello zaino. Fu piuttosto seccante, dico davvero, perché stare chiusi in un posto buio, inutilizzate, per noi Collane è una noia mortale, ancora peggio che essere portate nascoste sotto i vestiti! Oh, la mia cordicella e il mio medaglione si impolverarono così tanto, fu davvero un peccato. Arrabbiata com’ero, il giorno in cui finalmente il padrone mi tolse dalla tasca, non lo degnai neanche di uno sguardo; poi lui mi spolverò con cura e mi lucidò… e allora, beh, non potevo proprio avercela ancora con lui. Insomma, mi aveva trattata con così tanta importanza!” esclamò, con espressione lusingata.
“Da quel momento in poi, però, non mi mise più: mi teneva sul comodino di una stanza che non avevo mai visto prima, sempre ben spolverata, e la sera mi guardava con aria persa, un po’ lontana. Mi chiedo a cosa pensasse, anche se in fondo direi che non mi interessa. Poi…”
La Collana smise di parlare, lasciando la narrazione in sospeso, e il suo sguardo si incupì.
Ecco, alla fine c’era arrivata: detestava pensare a quella parte della storia. Fino a quel momento si poteva credere che tutto andasse bene, come per gli altri… ma la conclusione della sua vicenda portava con sé un dubbio atroce, qualcosa che neanche la sua studiata superficialità riusciva a cancellare, e lei odiava ricordarlo. Faceva tremare tutto quello in cui credevano.
Sospirò, riluttante, e con voce buia terminò il suo racconto.
“Poi un giorno lui se ne andò e mi dimenticò lì, sul comodino, a prendere polvere. E quando la polvere mi ricoprì, ero qua.”

Nessuno osò interrompere il silenzio che seguì l’ultima frase della Collana.
Nessuno proferì parola, non il Taccuino, che fissava la sua tasca d’onore nello zaino, non la Coperta ansiosa come una mamma, non la Collana stessa, appena tornata a posto e abbattuta, né tantomeno le Matite, per una volta tutte in gruppo ordinate e silenziose. Quell’ultima frase del racconto, di solito sepolta appena dopo averla sentita, ogniqualvolta di nuovo menzionata gettava un’ombra sugli abitanti dello zaino. Tutti tacevano, ognuno immerso nei propri pensieri e nei propri dubbi, e il disagio e la paura serpeggiavano e si insinuavano nell’harem, che spaurito si volgeva a cercare conforto dal proprio capo.
Ma, prima che il Taccuino potesse in alcun modo rassicurare le sue donne e permettere loro di dimenticare di nuovo, la cappa di silenzio venne improvvisamente infranta da una risata.

L’Uomo aveva iniziato a ridere.
Tenendosi il volto con le mani e chinando la testa, rideva e tremava. Dapprima piano, poi sempre più forte, più intensa e disperata, la risata riempì folle tutto lo zaino, mentre l’Uomo tremava ancora di più e cadeva in ginocchio, continuando a ridere senza riuscire a fermarsi, le mani sul volto e sui capelli.
Attoniti, gli oggetti non seppero come reagire. Perfino il Taccuino si limitava a fissare l’Uomo senza osare far nulla, sgomento, mentre la risata diminuiva di tono e di energia, assomigliando sempre più a dei singhiozzi, finché non si fermò. Allora l’Uomo si alzò in piedi, ghignando, e gli oggetti lo videro bene per la prima volta. Impolverato, grigio e dimesso come loro, al centro del cerchio si ergeva un Uomo trascurato, con pantaloni un tempo colorati e una camicia dal disegno indiano spiegazzata, con lunghi capelli spettinati e la barba incolta di qualche giorno; solo che adesso non sembrava più piccolo rispetto agli oggetti, e incuteva loro un inspiegabile terrore.
E, infine, l’Uomo parlò.

“Piccoli, stupidi oggetti pieni di voi! Vi sentite tanto superiori, eh? È semplice fare i grossi quando si è in tanti.”
Camminò fino ai bordi del cerchio, davanti al Taccuino.
“Semplice parlare senza davvero sapere, semplice dare giudizi, semplice dire ‘io avrei fatto così’.”
Iniziò a camminare in cerchio davanti al Taccuino e al suo harem, guardandoli con scherno e una luce folle negli occhi.
“Poveri, piccoli oggetti, abitanti di questo posto dimenticato! Non avete capito niente. Niente. ‘Il padrone era così’, ‘il padrone era cosà’, il padrone, il padrone, il padrone! Ma cosa volete saperne, voi, del padrone? Tu, Taccuino dell’artista,” gridò, volgendosi verso di esso, “tu non sapevi niente. Il padrone non è mai stato un artista, era solo un idiota senza posto nel mondo, ubriaco di sogni insieme a tanti altri come lui. E Lei non era Arte. Lei… era tutto ciò che non avevo mai avuto, era tutto ciò che volevo. Quando ho trovato Lei, tu non sei servito più.”
Mentre parlava, continuava a camminare lungo il bordo del cerchio, scomposto e affannato, senza pace.
“Era amore, a modo suo, eccome se lo era… alla fine, Coperta, avevi ragione tu. Ne ero innamorato, come non lo ero mai stato. Era così bella, coi suoi capelli rossi, così bella e viva. Era diversa da tutti gli altri, e, anche se amavo la loro compagnia, potendo scegliere sarei stato soltanto con Lei. Ah, Woodstock! Una delle esperienze più belle della mia vita, e in gran parte lo devo a Lei. Decidemmo di viaggiare, assieme a tutti gli altri, di andare fino in India… che bel sogno che fu. Mi regalò una Collana, una sera, e io decisi che l’avrei seguita ovunque: ormai era tutto per me. Era tutto ciò che non avevo mai avuto.”
Guardò le Matite, immobili nella tensione, quasi con affetto.
“La disegnai mille e mille volte. Le regalavo i miei disegni, perché a me bastava avere Lei.”
Si fermò davanti alla Sciarpa, che si trasse indietro con un rumore di perline.
“Sai, Sciarpa? Avresti davvero dovuto essere onorata di essere regalata a Lei. Era così migliore di me… Troppo, forse. Quando ancora io credevo nel nostro grande sogno di andare fino in India, Lei aveva già riflettuto su di esso, e aveva deciso che non valeva la pena di andare. E l’aveva deciso da sola. Era amore? Per me sì, ma per Lei… chissà. Fu così che, un giorno, senza che mi fossi accorto di niente delle sue riflessioni, comprai una Sciarpa di stoffa indiana per regalarla a Lei, come simbolo e portafortuna per il nostro viaggio.”
Lo sguardo dell’Uomo si fece improvvisamente velato di lacrime, perso in ricordi lontani.
“Ma lei, proprio quel giorno, mi disse di quanto aveva deciso. Non voleva più venire con noi, mi disse. Voleva tornare a casa… da sola. Anche senza di me. E quel giorno le mie speranze volarono via con la Sciarpa.”
Riprese a camminare, parlando con la voce rotta dal pianto.
“Cercai di tenerla legata a me in tutti i modi, con poesie, disegni, baci, suppliche… ma lei aveva deciso. E così, un giorno, com’era venuta se ne andò. Lasciandomi solo.”
L’Uomo si fermò al centro del cerchio, e sembrava una marionetta a cui fossero stati tagliati i fili.
“Io l’amavo… l’amavo davvero. Me ne andai anche io, da solo, perché non sopportavo più l’idea del viaggio con tutti gli altri, ma senza di Lei. Ripresi la Collana che avevo chiuso nello zaino, nella mia rabbia iniziale, e la tenni quasi come reliquia, come rimanente di Lei, l’ultima cosa che avevo che me la ricordasse... Fino a che non ce la feci più. Me ne andai dall’ostello dove avevo alloggiato e la lasciai lì, l’ultimo mio oggetto prezioso, a coprirsi di polvere.”
Alzò di nuovo la testa e guardò i suoi oggetti ad uno ad uno: eccoli, spaventati e piccoli, zitti e che lo fissavano senza muoversi. Esseri ridicoli.

Si voltò verso il Taccuino con aria di sfida.
“ È ora per me di restituire il favore della tua cortesia. Sai dove siamo? Siamo nella Scatola polverosa, Taccuino. E sai che luogo è, la Scatola polverosa?”
Il Taccuino non rispose e tenne lo sguardo fisso sul fondo dello zaino.
“È il luogo non dove finiscono gli oggetti perduti dal padrone, Taccuino, no… Voi, piccoli patetici oggetti, così boriosi e arroganti, pieni d’orgoglio, siete qui in questo posto pieno di polvere! Polvere, Taccuino! Polvere, tutti voi oggetti! Polvere, Collana… tu avevi capito, no? Avevi capito che questo è il luogo dove cadono gli oggetti dimenticati dal padrone, abbandonati alla polvere in quel momento e per sempre, non è vero? Ah, tutti voi, siete solo ridicoli! E io, io più di voi: io, che per Lei ho dimenticato me stesso e i miei sogni, e mi sono ritrovato senza più niente, senza più sapere come andare avanti!”
L’Uomo si passò una mano sul viso, e quando la ritrasse stava ridendo di disperazione.
“Ed eccomi qui, pagliaccio in un harem di pagliacci, dove tutti corrono in cerchio e senza alcun senso dietro a chi crede di saperne di più, senza in realtà sapere niente.”
Lacrime attraversarono l’aria densa di pulviscolo per andare a cadere sul fondo grigio e polveroso.
“Correte, correte senza speranza, continuate a farlo e dimenticate quanto vi ho detto… Tanto non vincerete mai, non arriverete da nessuna parte. Prima o poi vi stancherete, e in quel momento, forse, capirete.”
L’Uomo, lentamente, con aria stanca, si diresse verso l’angolo degli oggetti malinconici e lì si sedette, sospirando.
“Capirete che è nella completa dimenticanza, qui, la salvezza. Nel non ricordare per non soffrire. Vi fermerete, allora, vi accascerete in terra. E lascerete che, infine, la polvere regni sovrana.”



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Salve a tutti!

Rieccomi qui, stavolta con un'originale, partecipante al concorso L'Harem e... il Pagliaccio indetto da Eylis.
La mia storia si è classificata settima, risultato di cui mi ritengo assai soddisfatta, anche perché le critiche che mi sono state rivolte me le aspettavo. Per questo motivo, quando avrò tempo darò una bella revisione al racconto! ^^

Poi, che dire? Non è stato un racconto semplice da scrivere, anzi. Mi ha preso parecchio tempo, più di quanto immaginassi quando mi ero iscritta al concorso, e per questo motivo l'ho dovuto finire un po' di fretta. Ma, come ho già detto, lo sistemerò...


Faccio i miei complimenti alle partecipanti al concorso, tutte quante! Al più presto leggerò i racconti. :)
A Eylis, grazie. I tuoi concorsi sono bellissimi, un toccasana per la fantasia. Grazie, davvero.

Un grazie anche a tutte le ragazze con cui vivo: la sopportazione di Wiwo in stato semi-ossessivo da concorso è un'arte. Vi voglio bene, e in bocca al lupo a tutte!


Arrivederci su questi schermi.

Wiwo
   
 
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