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Autore: Main_Rouge    31/01/2011    3 recensioni
Originale in tre capitoli, drammatica, a tinte un po' noir.
estremamente introspettivo, il testo racconta uno scorcio della vita di Terrence Powell, professore americano dal passato tenebroso.
In fuga da se stesso, Terrence vive nel suo piccolo appartamento a Trenton, New Jersey, dove si è da poco trasferito. Qui incontrerà Jen...
fiction 3° classificata (umpf) al concorso "Specchio" di Mattichan
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Sentiva il sangue pulsargli pesante nella testa.
Terrence si ritrovò in una stanza scura, sospeso a testa in giù da una corda di filo spinato che lo stringeva intorno alle caviglie forti.
Il sangue, dalle sue gambe, gocciolava inarrestabile fino a sporcargli la bocca, gli occhi, i capelli.
Il sapore ferroso del liquido scarlatto lo nauseava, ma non abbastanza da fargli scordare il dolore.
Il suo moto penzolante era bloccato da una serie di corde di metallo, anch’esse ricoperte da spine affamate della sua carne, che lo stringevano e tiravano in tutte le direzioni.
Tutto il suo corpo urlava in preda al panico.
D’improvviso, un ritmico applauso spezzo l’aria greve che circondava il malcapitato.
-Complimenti, uno spettacolo davvero notevole. Ti ho già detto che sei maledettamente bravo a recitare? Dovresti fare l’attore invece che il professore sottopagato. Ma no. Tu devi “espiare”- e disse quella parola come una bestemmia; un verso indegno, senza significato.
Terrence fissava, con la vista annebbiata, il mostro, sempre rigorosamente in giacca e cravatta. Non aprì bocca. Non sapeva il perché, ma non voleva parlare.
-Ma poco importa. Come si dice, se Maometto non va alla montagna…- e con queste parole, il sosia afferrò e tirò con violenza una corda di velluto –Ta-daaan-.
Con un gesto, Il muro di oscurità davanti all’uomo appeso venne fatto cadere, scoprendo un ampio schermo da cinema.
Quindi, l’uomo libero si sedette su una poltroncina, sospesa apparentemente nel nulla, abbastanza vicina al vero Terrence da potergli afferrare il volto rigato dal sangue.
-Sono sicuro che ti piacerà, è un classico. Si intitola “Delusione”, di un regista bravetto, di cui però non ricordo il nome.
Goditelo-. E con un sorriso a metà tra il pazzo ed il raggiante, il Terrence dello specchio battè le mani, facendo partire un filmato sullo schermo.

Una stanza pulita, semplice. Un letto, una sedia, una scrivania; poco altro.
Dentro, un uomo sui trentacinque anni, impegnato in una complessa lettura di psicologia.
Occhi neri, attenti; Capelli scuri appena pettinati. Occhiali sottili ed eleganti.
Mentre leggeva, tamburellava con le dita sulla copertina del libro. Era evidentemente preoccupato, o quantomeno ansioso, per qualcosa.
Silenzio, tensione. Quasi palpabile.
D’improvviso, il rumore di una chiave dentro la serratura. Era lenta, spaventata, per niente risoluta ad aprire quell’esile porticina.
Sentì dei leggeri passi, la porta che si richiudeva con un tonfo; ma neanche una parola.
Qualcuno bussò delicatamente sulla porta di quel minuscolo, ma confortevole, studio.
-Avantì- biascicò il lettore, senza distogliere lo sguardo dalle parole scritte fini.
Un ragazzo con i capelli neri tagliati corti e gli occhi puntati a terra entrò lentamente nella stanza.
Aveva un naso aquilino, gli zigomi alti e delle belle spalle larghe.
Con le mani in tasca e lo zaino ancora in spalla, rimaneva immobile, incapace di proferire parola.
Indossava dei lunghi jeans blu chiaro, una maglietta a maniche corte variopinta e una serie di braccialetti sul polso, tanto ossuto da sembrare sproporzionato.
-Devo dedurre da questo tuo silenzio- iniziò l’uomo –che non ce l’hai fatta?-
-Non è stata colpa mia- farfugliò impacciato il giovane –La Broad mi odia, mi ha dato l’insufficenza per darmi una lezione. È davvero…-
-Basta scuse- tuonò il padre.
Dopo essersi ricomposto, mise giù il libro e si levò gli occhiali.
-Fammela vedere-.
Il ragazzo, mentre cercava di reggere il suo sguardo inflessibile, tirò un foglio bianco fuori dalla cartella e glielo consegnò.
Il genitore, con sufficienza, squadrò il pezzo di carta.
Tanti sei, pochi sette. Poi si fermò sotto la colonnina contrassegnata dalla parola “Matematica”.
Cinque. Chiaro, ampio, inequivocabile.
Appoggiò il foglio sulla scrivania, già sommersa di scartoffie, quindi alzò gli occhi verso quelli del figlio.
-Dunque, Non sei stato ammesso di nuovo agli esami. Vero?-.
L’altro non rispose; distolse lo sguardo, avvilito.
-Mi dispiace- sussurrò dopo qualche minuto di silenzio lui.
Il padre sospirò.
-Matthew, per l’amor di Dio, si può sapere che cos’hai in testa? Mi avevi giurato che ce l’avresti messa tutta, che non avresti avuto problemi e che saresti andato al College. E invece dovrai ripetere di nuovo l’ultimo anno-.
Una lunga pausa.
-Era la tua occasione per dimostrare che eri cambiato, che non sei il fannullone senza speranze che tutti credono. La parola del padre, purtroppo, non conta granché in questi casi-.
Terrence si mise la testa tra indice e pollice della mano destra, chiudendo gli occhi.
Dopo qualche momento di tensione, il padre esclamò sconfitto: -Vabbè, sarà per la prossima volta. Non intendo sgridarti ancora, né punirti. Un altro anno alla Saint Rose dovrebbe bastarti come punizione. Sappi però che mi hai molto deluso.
E sono sicuro che tua madre la penserebbe allo stesso modo, se solo fosse ancora qui-.
Lo sguardo di Matthew cambiò di colpo.
-Non osare nominarla-.
Terrence si girò, dandogli le spalle.
-NON OSARE NOMINARLA!- ruggì il ragazzo davanti allo sguardo sorpreso del genitore.
Con le mani strette a pugno, tremanti per l’ira, Matthew ringhiò al suo interlocutore.
-Con che coraggio dici una cosa del genere? Proprio tu, che l’hai fatta soffrire tanto da farla ammalare e morire, mi vieni a dire questo? Tu che non le hai dato neanche l’ultimo saluto?-
-Modera i termini. Come puoi rivolgerti così a tuo padre? Dov’è finito il rispetto?-
-Vuoi il rispetto? Inizia rispettando-.
Ed indicò la pagella sulla scrivania.
-Io ce l’ho messa tutta. La Saint Rose è la scuola più difficile di Chicago, e quella megera ce l’ha con me dalla prima. Tutti gli altri professori mi hanno fatto addirittura i complimenti per il mio cambiamento. Quindi io sono a posto con la mia coscienza-
-Già, e io dovrò continuare a giustificarti davanti a tutti i bastardi che ti giudicano. Chicago è una città enorme, ma è come un paesino di montagna. La gente parla, le informazioni girano, e con il tuo titolo di “tre volte ripetente” alle superiori non potrai fare un bel niente. La tua massima aspirazione è lo spazzacamino? Perché solo per quello saresti giudicato qualificato-.
Ancora silenzio.
-Con tutto quello che ho fatto per te, tutti gli aiuti che ti ho dato, i professori che ti ho fatto conoscere…-
-Per me? Per te semmai. A te non frega niente di come mi senta io adesso, sei solo preoccupato di perdere la faccia, di essere etichettato come “Padre di un perdente”. Ma sai una cosa, “illustre scrittore”, la gente non ride di me, ma di te, che ti dai tante arie da intellettuale e non riesci neanche a finire uno stupido romanzo-
-Dici cose senza senso. Ora va a…-
-Si, sei lo zimbello del tuo “prestigiosissimo circolo”. È per questo che viviamo in una topaia come questa, con quattro stanze e neanche uno straccio di mobile. Perché sei un fallito. E hai il coraggio di arrabbiarti con me per un cinque?-.
Terrence sentì la rabbia montargli inarrestabile.
-E non è finita…-
-BASTA! CHIUDI QUELLA BOCCA!-.
Ansimante, rosso in volto. Terrence era fuorì di sé.
-La verità fa male, vero? Beh, vado in camera mia a leggere un po’. Se hai voglia di fare un altro discorsetto, io so…-.
Ma non riuscì a finire la frase che il padre lo attaccò alle spalle, atterrandolo con tutta la forza che aveva in corpo.
Schiacciato da quel peso, Matthew fu costretto a tirare un paio di gomitate allo stomaco del suo assalitore, allentando così la sa presa feroce. Abbastanza libero da girarsi, il ragazzo tirò un violento spintone al padre, che lo fece allontanare appena.
Terrence si rialzò, ansimante, senza riuscire a respirare.
Si appoggiò alla sedia con una mano, mentre con l’altra si teneva la bocca dello stomaco.
Appena rialzatosi anche il figlio, gli corse incontro e, approfittando di un momento di estrema debolezza, gli mise le mani attorno al collo.
Gli occhi pieni di furia, il rancore di anni di giudizi. Il rancore per la morte della madre Jessica.
Terrence tentò di fermare la sua stretta con le mani, ma non ne aveva la forza.
Tastò con il palmo destro sulla scrivania, alla ricerca di qualcosa con cui salvarsi. L’aria iniziava a venirgli meno, sentiva che stava per svenire.
Cercava tra le carte, tastando nella speranza di riconoscere un oggetto contundente.
Vagando alla cieca con la mano, afferrò l’unica cosa più rigida di un foglio.
Con un gesto disperato, impugno un paio di forbici e le piantò nel ventre scoperto del giovane.
Allibito, sbiancato in volto, Matthew mollo la presa, andando a chiudere con i palmi la ferita zampillante.
Terrence ripensò a poco prima; non aveva dubbi che il figlio l’avrebbe ucciso se non si fosse difeso. Con uno sguardo folle, si gettò sull’ancora sconvolto ragazzo, piantandogli le lame lisce nel collo.
Il suo sguardo di panico mentre esalava l’ultimo respiro fece rabbrividire con evidenza l’uomo.
Con le mani sporche di sangue, nel suo vestito elegante delle grande occasioni, Terrence gridò la sua disperazione.
Le lacrime si fecero strada con prepotenza negli occhi allucinati dell’uomo, andando a bagnare di nuovo l’ormai inerme corpo di Matthew.

-Eeeeeeeee… dissolvenza. Caspita, che scena pazzesca. Il regista è un vero genio, non trovi? Il seguito è parecchio noioso in realtà. Il padre manda un messaggio con il cellulare del figlio ad un amico del ragazzo, con scritto che si trasferiva in Kansas dai nonni, che gli spiaceva tantissimo e che suo padre era un bastardo, ma non poteva farci niente.
Avvolse il figlio morto nel sottile tappeto su cui l’aveva ucciso, lo portò lontano e, di notte, lo gettò in fondo al Pacifico con tappeto e cellulare.
Oh, è stato audace. Se l’avessero beccato, sarebbe stato rovinato.
Poi ha cambiato cognome, da Bishop a Powell, e si è trasferito a Trenton.
Il sequel, se possibile, è anche più pesante-.
Fissava il volto, piangente, di Terrence.
La vista del suo peccato, quello per cui soffriva ogni giorno ed ogni notte, liberò, dopo molto tempo, le sue lacrime.
-Che c’è? Non hai voglia di parlare? Non vuoi insultarmi, o maledirmi?-.
Ancora nessuna risposta.
-Ah già, dimenticavo- disse il mostro prendendo un oggetto rosso dalla sua tasca –in effetti, non puoi dire nulla. Perché chi dice le bugie, non merita di farlo-. E con queste parole, mostrò al Terrence ancora in lacrime la sua lingua recisa.
E mentre lui la fissava, sconvolto e terrorizzato, una risata potente e disgustosa invase il cielo.

Si alzò di scatto dal letto umido, con il fiatone e la pelle d’oca.
Si prese la testa con le mani sudate per non guardare verso quel maledetto armadio, per riuscire a placare un po’ il suo cuore impazzito.
Dopo qualche minuto di nevrotici respiri d’affanno, sollevò la testa con un sorriso stanco ed abbattuto. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato.
Controllò l’orologio da polso che, con cura, aveva appoggiato la sera prima sul comodino.
Le cinque e venti.
Senza vestirsi, senza asciugarsi i capelli, senza dire una parola, Terrence si alzò, si avvicinò al suo piccolo frigo e ne estrasse qualche bottiglia, tutte diverse per forma e dimensione.
E mentre si versava il più amaro bicchiere di Scotch della sua vita, pensava che quel giorno non sarebbe andato a lezione.

Jennifer camminava lentamente fuori dall’imponente liceo scientifico di Trenton.
Senza alzare gli occhi da terrà, si avviò verso casa sua.
Ripensava al professor Powell, che quel giorno si era dato malato. Si era sentita sconsolata all’idea di non vederlo, di non poter parlare ancora con lui. Era consapevole che solo con lui poteva discutere apertamente della sua sventura.
Ripensava al pomeriggio del giorno prima, alla discussione nel parco, alla sua camicia così morbida e calda.
Ripensava a quanto era stato piacevole aprirsi con un uomo tanto sensibile e tanto pacato, per poi sfogarsi contro il suo petto.
Era così presa da quei tristi pensieri che non vide l’uomo barcollare nella sua direzione.
-Jenn… Jennifer Thompson-.
Alzò gli occhi sorpresa appena ebbe riconosciuto la voce del professore.
Ma chi aveva davanti non era lui.
Un uomo sui trentacinque anni, con i capelli arruffati ed i vestiti logori.
Avanzava incerto, mentre con una mano sorreggeva un lunga bottiglia vuota. Le occhiaie che aveva in volto erano appena coperte dagli occhiali, storti forse per una caduta.
La cravatta, di solito impeccabilmente sistemata, era larga e bagnata sulla punta.
Aveva un aspetto trasandato, uno spettrale pallore e la voce provata.
Jennifer, dapprima spaventatasi, si avvicinò a lui e, senza dire una parola, lo sorresse infilandosi sotto la sua spalla, aiutandolo ad allontanarsi.
-Jennifer, devo chiederti un favore- rantolò lui con evidente fatica.
-Dopo professore. Dio, puzza di alcol in una maniera spaventosa. Ma che le è successo?-
-È stato lui a ridurmi così, io non potevo più resistere. Come avrei potuto? Matthew, Mat… sei tu?-
-No professore, sono Jennifer, ricorda? Ora mi dica dove abita, che la riporto a letto-
-232 London road- biascicò senza convinzione.
Jennifer arrancava sotto il peso di Terrence, ma che gli era successo? Quasi si vergognava ad aver sperato di potergli parlare.
Dopo una ventina di minuti di silenziosa camminata, Jennifer ruppe l’incantesimo.
-Mi scusi, è qui il suo appartemento?- chiese osservando un triste e spoglio condominio.
-Si, proprio quello-
-Bene, ora la porto in camera sua. Me la da una mano per gli ultimi passi?-
-Continui a non volermi dare del tu, eh? Ahahahah…- ma la risata fu sporcata da convulsi colpi di tosse.
Dopo appena un passo, l’uomo si arrestò.
Quando la sua aiutante provò a chiederle cosa stava accadendo, lui le afferrò le spalle esili e la schiacciò al muro.
Lei fu scossa dalla preoccupazione, divenne rossa in volto, iniziò a sudare freddo.
Gli occhi spenti di lui sotto i capelli umidi la fissarono come fa una bestia in gabbia con il suo guardiano. L’unico, odiato, contatto con il mondo esterno.
-Ora devi farmi quel favore Jessica, è di vitale importanza-.
Lei annuì, non convinta.
-Devi correre dalla polizia, la stazione più vicina è a pochi isolati lungo questa strada. Devi dire che ho cercato di violentarti, ma sei riuscita a fuggire. Mi farai questo piacere?-.
Confusa ed allibita dalla richiesta del suo aggressore, Jen non potè che balbettare la propria indecisione.
-Cosa? I.. Io non potrei mai fare una cosa simile. Lei è una brava persona, ha solo alzato un po’ il gom…-
-No- la interruppe lui con calma inflessibile –io sono un mostro, o almeno una parte di me lo è. Ti prego, va e fammi arrestare, digli dove abito e che mi vengano a prendere. Ti assicuro che mi troveranno qui-
-Non posso farlo. Anche volendo, non potrei mai mentire così. Non sarebbe giusto-.
Dopo un secondo di esitazione, Terrence le si avvicinò famelico e la baciò con foga, violenza. Lei sentì il pungente sapore dell’alcol sulla sua lingua. Fu breve ma intenso.
Dopo pochi secondi, lui si stacco dal viso della ragazza.
-Tu sei minorenne, giusto?- chiese, confuso dal Gin, -quindi, questo legalmente è abuso di minore, no? Allora ti prego, va a denunciarmi. Lo farai, vero?-.
Stordita, scioccata, un po’ eccitata. Jen si passò un dito sulle labbra umide, mentre guardava il professore che, lasciatala appena libera di muoversi, la osservava con occhi preganti.
-Mi dispiace, ma non voglio farlo. Io…-.
E di nuovo lui le si gettò addosso, immobilizzandola completamente.
-Ti prego- disse con voce rotta, le lacrime che gli bagnavano il viso –non costringermi a farti del male, non voglio toccarti. Ma devo sapere che tra un quarto d’ora dei poliziotti verranno a prendermi-.
I suoi occhi erano colmi di disperazione. La disperazione di chi non vuole più sopportare il peso dei propri peccati. Jen lo capiva bene, quindi sapeva che, in quello stato mentale, avrebbe fatto tutto ciò che aveva minacciato.
-D’accordo- cedette infine lei, quasi spaventata –Ci vado. Ma mi prometta di non fare idiozie-.
Lui la lasciò andare, sollevato. Lentamente, una risata spensierata si levò dalla sua gola, mentre tossiva qualche debole e ripetitivo ringraziamento.
Iniziò a salire le scale che l’avrebbero condotto al piano da cui raggiungere la sua porta, attento, per quanto poteva, a non cadere.

In pochi minuti, sconvolto nel corpo e nella mente, raggiunse l’interno del suo appartamento.
Aprì una piccola cassaforte nascosta sotto il suo letto, a fatica, e ne estrasse due oggetti.
Una piccola chiave argentata, senza portachiavi o altro.
E una pistola nera.
Seduto, appoggiato al comodino, fissava ipnotizzato i riflessi che la luce creava intorno alla canna scura. Se la girava in mano, rapito dalle sue sinuose forme; l’ammirava da più punti di vista, e ogni nuovo dettaglio che, nella nebbia che gli offuscava gli occhi, riusciva a cogliere, lo faceva avvicinare di un passo al loro connubio.
Come poteva un oggetto così bello, così armoniosamente splendido essere considerato malvagio?
Sentiva il suo stridente, dolce richiamo.
Il suo cuore accelerò mentre ne stringeva l’impugnatura. Con la mano libera, appoggiata la chiave a terra, fece sfilare il tamburo, impronta di un modello classico e raffinato, dalla sua sede.
Due proiettili.
Fantasticò per qualche minuto su quei piccoli semi d’acciaio. Bastava davvero tanto poco a mettere fine alle sue ansie? Li vide, per un attimo, danzare dolcemente intorno a lui, creando coreografie eccezionali. Si sentiva in estasi, anche se un po’ nauseato.
D’improvviso, sentì un violento tonfo. Era un rumore smorzato, debole, ma deciso. Ne cercò la causa, e non ebbe dubbi nel riconoscerla.
Quell’armadio, quel maledetto ripostiglio. Anche ora lo voleva tormentare?
A carponi,  si avvicinò alla sottile porta lignea. Inserì con difficoltà la chiave argentea, la girò con calma, paura.
Quando la aprì, era l’oscurità. Rimessosi in piedi, osò qualche passo incerto e spaventato.
E poi lo vide.
Spavaldo, altezzoso. Lo specchio, diabolico oggetto, fiera spaventosa, lo fissava.
Dapprima ne fu spaventato, ma sapeva che era il momento di chiudere i conti una volta per tutte. Lo afferrò con cautela e, sfruttando le rotelle di cui era fornito, lo trascinò fuori dalla sua tana. Alla luce della lampada, lo specchio mostrava i suoi artistici lineamenti. La parete riflettente, coperta da un po’ di polvere, era circondata da un complesso insieme di fronzoli e ghirigori di metallo. In cima, un diavoletto scolpito nel piombo sembrava sorreggerlo, mentre fissava malizioso il malcapitato che si fosse trovato ad incrociare lo sguardo con il proprio riflesso.
Lentamente, dentro lo specchio dapprima vuoto iniziò a formarsi un’immagine sfocata, poi sempre più definita.
Il mostro, il giovane Terrence assassino, camminava verso il suo io disperato, che lo fissava incredulo.
-Sono messo davvero così male? A quanto pare ho le visioni. Non è buffo, Terrence?- gracchiò abbattuto il Terrence ubriaco –Ma almeno, ora so come usare il mio secondo proiettile. Uno per me e…-.
L’altro lo squadrò, con aria di sfida.
-Sappiamo entrambi che non lo farai. Vecchio mio, tu sei un debole, incapace persino di convivere con il tuo io. Non hai il coraggio, né la forza di liberarti di me-.
L’altro lo guardò diverito.
-Ne sei così sicuro? In condizioni normali, probabilmente avresti ragione. Ma ho pensato bene di imbottire il mio cervello di anestetico. Dolce, dolcissimo anestetico alcolico. Pensi davvero che tema quello che succederà?-
E impugnata l’arma, la puntò verso il suo, ora dubbioso, antagonista.
-NO, FERMO!- gridò quello –ma non capisci cosa stai facendo? Sono anni che ti uccidi ogni notte, che insegui una redenzione che non ti accorderai mai. Non capisci che tutto ciò è inutile?-
Terrence abbassò appena la pistola.
-Invece di combattermi, dovresti accettarmi- riprese la nemesi –in fondo, io sono te, e tu sei me. Siamo banditi, fuorilegge. Insieme, possiamo fare ogni cosa, e avere tutto ciò che vuoi. Non sopprimere la tua vera natura, non sottometterti ad una vita che non ti appartiene. La tua anima e rossa come le mie mani- disse mostrando i palmi insanguinati.
-Rossa di passione, di energia. Rossa di forza, e di rabbia. Potresti essere un dio tra gli insetti. Devi solo scappare da qui. Subito, senza pensarci. Insieme a me, troverai infine quella pace e quella gioia e che hai sempre cercato da quello splendido giorno in cui il vero Terrence Powell emerse dal debole signor Bishop.
Allora, ci stai, amico mio?-
E la sua mano sbucò avida dal vetro, in attesa della stretta di un nuovo uomo.
Con qualche esitazione, lui l’afferrò debolmente, poi sempre con più convinzione.
Il riflesso sorrise soddisfatto, con gioia animalesca.
-Splendido. Ora non ci resta che andarcene. Ma dovevi proprio essere tanto melodrammatico con la puttanella?-.
Quando però tentò di tirar via la mano, la stretta del vero Terrence Bishop si strinse ancora di più.
-Hai ragione, potrei scappare e dimenticare. Ma non lo farò. Il mio posto non è qui dove posso nuocere ad altre persone.
Il mio posto- disse tirando un’incredula nemesi fuori dallo specchio per metà busto, testa compresa, e puntandole la canna in fronte –è all’inferno con te.-
E un violento sparo risuonò potente nell’appartamento.
Gli schizzi di sangue cremisi ricoprirono gli stracci che aveva addosso e macchiarono il pavimento chiaro sotto i suoi piedi.
Il cadavere del mostro crollò senza un lamento, abbandonandosi poi, prono, a coprire il suo sangue. O almeno, così lui vedeva.
Soddisfatto, pervaso di una euforia malata, l’uomo si puntò la canna ancora fumante alla tempia.
Era calda, amichevole, rassicurante. Sembrava invitarlo a premere quel grilletto, e ad abbandonarsi tra le braccia comode di Morfeo per un eterno sonno.
Il suo dito fremeva all’idea, e un sorriso stanco increspò le sue labbra tremolanti.
Una sola, calda lacrima disegnò un solco sulla sua guancia.
-Scusa per tutto Mat. Ho tentato davvero di raggiungerti in paradiso, di redimere le mie colpe. Ma sono un debole, lo sono sempre stato. Perciò, da lassù, proteggi la mia anima nel fuoco eterno. A quanto pare, alla fine non riuscirò a farti le mie scuse di persona, come avrei voluto-.
Subito dopo, un violento bussare catturò la sua attenzione.
-Signor Powell? È in casa? Qui è l’agente Rosswel, vorrei farle qualche domanda. Conosce la signorina Jennifer Thompson?-.
Puntuale come un orologio svizzero.
Jennifer era davvero l’unica che l’avesse capito. In fondo non poteva morire come un professore frustrato. No. Doveva essere un alcolizzato, uno stupratore. Feccia.
Alla fine, sentì che era il momento. E sospirando un “addio”, convinto come non lo era mai stato in quegli ultimi anni, rispose al sensuale richiamo della pistola.

Poteva diventare pericoloso, l’ho visto nei suoi occhi. Non potevo certo lasciarlo in balia di sé stesso. Se lo lascio in custodia alla polizia, non potrà più farsi del male.
Mille e più pensieri simili vorticavano nella mente della giovane Jen. Non aveva mentito agli agenti della stazione. Aveva detto loro che un uomo disperato, un potenziale suicida, aveva urgente bisogno di aiuto.
Che era necessario portarlo via, e dargli assistenza. Ma, seppur convinta di aver agito per il meglio, la ragazza si sentiva malissimo. Aveva l’impressione di aver tradito la fiducia del professore. Di tutti, a Trenton, aveva chiesto proprio il suo aiuto.
A lato dell’anonima porta grigia che separava il poliziotto da Terrence, Jen aspettava.
Sentiva, con il cuore in gola, ogni parola dell’uomo in divisa. Attendeva con ansia che l’uomo uscisse dalla sua buia grotta.
Ma i secondi passavano, gelidi come la goccia di sudore che le attraversò il viso.
All’improvviso, un botto, uno sparo assordante, per quanto schermato dal muro.
Il nerboruto poliziotto, senza aspettare un momento, si staccò dalla porta e l’abbatté con una spallata disperata.
Jennifer entrò subito dopo di lui.
Vide, mentre sentiva le lacrime prepotenti salirle agli occhi, il corpo morto del suo professore, l’unico che avesse saputo leggerle nell’anima. Anche se non aveva mai detto niente in proposito, lei sapeva che era così.
Con un volto rilassato, ma sfigurato dai litri di alcol ingeriti, Terrence giaceva inerme sul pavimento, sovrastando con la sua imponente figura una macchia di sangue scuro.
E di fronte a lui, uno specchio ancora in piedi, che rifletteva, rotto, la sua immagine in un caleidoscopio orribile.
Alla fine, non era riuscita a salvarlo.


Angolo dell'autore
Spero sinceramente che questa mia umile (e deprimente se vogliamo) fiction vi sia piaciuta. Penso sia in assoluto, finora, il mio lavoro meglio venuto, ma sono curioso comunque di leggere le vostre critiche più cattive (Sono un po' masochista, è vero... ma avete letto questo testo, quindi lo sapevate già).
Francamente, penso che il terzo posto al concorso sia strano. letta la fiction al secondo posto, mi sono venuti seri dubbi su alcune voci del punteggio.
Ma non sono qui per fare polemica o altro. Quindi, detto questo, vi saluto, nella speranza di sentirvi presto.
  
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