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Autore: Many8    06/02/2011    7 recensioni
Bella afflitta da un trauma che ha segnato il suo presente e il suo passato,cercherà di dimenticare quest'ultimo, ma si sa dimenticare è difficile se quasi impossibile; un Edward umano, conoscerà la nostra protagonista e... Riuscirà il nostro invincibile supereroe a cambiare almeno il futuro della nostra piccola e dolce Bella? AH- OOC- raiting ARANCIONE.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Mi scuso per il ritardo, nel mio blog troverete le giustificazioni. Mi inchino a voi.

Ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, sto gongolando come una stupida, grazie davvero. Ringrazio lo stesso i lettori silenziosi, che talvolta crescono sempre di più. Ringrazio coloro che mi hanno aggiunto tra gli autori preferiti, un onore per me.

L'ultimo voto, fortunatamente, è positivo; il io bel 7 in chimica (sto ancora festeggiando).

Vi lascio al capitolo, che è POV Bella, ed inizierà qualche tempo prima della telefonta, agli inizi di Settembre. (la telefonata avverrà precisamente il 13 settembre.)
Nel mio blog,inoltre, troverete delle spiegazioni per quanto riguarda il capitolo scorso.

Buona Lettura.
Bella.
Non avevo mai immaginato la mia vita in quel modo. Non avrei mai immaginato da piccola di diventare una scrittrice di articoli sui fiori.
Sue, la direttrice mi aveva elogiata per almeno due ore, dopo aver letto il mio articolo sull'Iris, ed il giorno dopo tutti potevano leggere sul Chicago Sun-Times il mio articolo. Fu una sorpresa per me, non credevo di essere riuscita a fare meglio di altri dipendenti che lavoravano nel campo da più tempo.
La direttrice mi aveva detto che i miei articoli erano molto interessanti, c'era un qualcosa in loro che creava 'dipendenza', qualcosa che faceva incollare gli occhi al testo, finchè non fosse terminato. L'aveva definito "Del tutto originale, e con un tocco, meravigliosamente personale. Complimenti Bella".
E così via, ogni articolo che scriveva il giorno dopo veniva pubblicato sul giornale, solo qualche volta non ero riuscita a far un buon lavoro, ma era ormai d'abitudine vedere il mio nome a fine articolo della sezione giardinaggio.Dopo quasi un mese di pubblicazione, Sue mi informò che c'era la possibilità che diventassi a tutti gli effetti "scrittrice", mi aveva detto che se avessi accettato il mio posto non sarebbe più stato come 'supplenza', ma fisso.
Non sapevo per quanto quello sarebbe stato il mio lavoro. Io volevo di più. Volevo laurearmi in magistratura, volevo realizzare i miei sogni, che in fin dei conti non erano così tanto ambiziosi.
Anzi, erano del tutto l'opposto, le mie ambizioni stavano scomparendo sempre di più; stavo diventando una persona senza sogni, una persona vuota.
Dopo gli ultimi avvenimenti si poteva ben notare che sprizzavo gioia da tutti i pori. Malgrado tutto, non riuscivo ad essere davvero felice.
Con Jacob il rapporto non era dei migliori. Io lavoravo presto la mattina, quindi la mia sveglia suonava davvero presto, la sera sfinita dal lavoro, e dai lavori domestici andavo a dormire sfiacchita, invece, Jake quando uscivo la mattina dormiva, mentre quando io andavo a dormire non c'era ancora. Per quello che mi aveva detto restava in ufficio, ma iniziavo a dubitare anche di questo, non sapevo se credergli o meno, era bravissimo a dire bugie, l'aveva già fatto.
Quando la sera lui non c'era andavo in biblioteca, cercavo Paul, che puntualmente mi dava il permesso per salire sul terrazzo, e restavo lì per alcune ore, dimenticando anche di mangiare.
Restavo seduta a guardare la città sottostante, i miei pensieri volavano liberi, in altre occasioni avrei potuto usare quel modo per disegnare, quando mi distraevo riuscivo, infine, a disegnare qualcosa, a trovare l'ispirazione, ma in quel periodo disegnare era diventato un lusso; non riuscivo più a disegnare, le motivazioni erano scarse, se non del tutto nulle.
Su quel terrazzo mi sentivo davvero libera, mi sentivo in pace con me stessa, mi sentivo davvero a mio agio, come se quel posto fosse mio, solo mio.
Mi sentivo con i miei genitori almeno una volta al giorno. Mia madre era quella che mi dava la forza per continuare, riusciva ad estasiarmi con qualcosa, anche futile che sia, piccole motivazioni, ma lo faceva, e quello mi aiutava a vivere meglio. Riuscivo ad avere minuti in cui la felicità mi invadeva, scuoteva il mio corpo. Era in quei momenti che riuscivo a dare il meglio di me, riuscivo a sorridere, addirittura, riuscivo a pensare ad altro che non fosse Seattle.
Chimavo anche Alice, di tanto in tanto, e lo stesso faceva lei. Ci tenevamo in contatto, lei mi raccontava di sé ed io di me, della mia vita, quella con Jacob, il nuovo lavoro. Lei invece mi parlava dele sue uscite con Jasper, delle novità, del loro profondo amore. E la invidiavo, invidiavo il suo modo di sorridere alla vita, non c'era una telefonata in cui almeno una volta non ridesse, mi piaceva molto questa caretteristica in lei.
Durante le nostre conversazioni non parlava mai di Edward, dopo la prima telefonata in cui avevo bloccato il suo racconto non aveva mai più accennato a quel discorso, anche se, credevo, sapesse della mia curiosità. Non potevo negare che ancora un pò mi interessava, mi sarebbe piaciuto sapere di più di lui, su cosa faceva, su tutto ciò che appartenesse e riguardasse lui.
Alice non mi parlava quasi mai del reparto, se non quando mi riportava i saluti di Emmett, Rose e di Jasper.
Seattle era stata una città piena di sorprese e di eventi spiacevoli e traumatici, per me, in quel momento a Chicago mi sentivo più serena, lonatana dai brutti ricordi di quella città, anche se mi mancava molto, come Forks d'altronde, mi mancavano le giornate piovose, la frescura dell'estate e non il caldo umido di quella città.
Edward era stato la parte piacevole di Seattle, tutto il resto il contrario.
Edward mi aveva fatto rinascere, sorridere, respirare davvero dopo tanto tempo di apnea, era stato un nuovo inizio.
Edward mi aveva riparato il cuore, e dopo un pò l'aveva distrutto.

"Jacob, torni a cena?" gli chiesi, la mattina a colazione.
Era settembre, e dopo circa due mesi e mezzo riuscivo a vedere la faccia del mio compagno di mattina, con gli occhi aperti. E non come al solito con la bocca dischiusa, e sentendo un continuo russare.
"No, stasera dovrò anticipare del lavoro, altrimenti domani non tornerò a casa. Sono pieno di scartoffie."
Era ricurvo sul tavolo della sala da pranzo, ormai allestita come suo studio, con il naso su dei fogli, il tappo della penna in bocca, e le mani intrecciate nei capelli.
"Ho capito," dissi, prendendo la mia borsa. "A domani, allora."
Annuì, e mi affrettai ad uscire di casa.
La situazione era quasi insostenibile. Non c'erano più contatti tra di noi, un bacio, una carezza, nulla. Non avevamo mai fatto l'amore da quando eravamo partiti da Seattle. L'ultima volta era stato circa un mese e mezzo prima che ci lasciassimo la prima volta, e negli ultimi tempi era difficile anche guardarci negli occhi. Ma forse era meglio così, non sarei riuscita a sopportare un rapporto tra di noi, di quella entità, non sarei riuscita a sopportare il contatto della sua pelle nuda sulla mia, non sarei riuscita a sopportare i suoi baci al mio torace, sul seno, e men che meno ad avere un rapporto, provavo ribrezzo per tutto.
Si iniziava con una carezza in meno al giorno, poi un bacio in meno, un contatto in meno; e si finiva per sfiorarsi a malapena, a letto ognuno girati da un verso, il più distanti possibili. Gli sguardi erano fuggitivi, quasi pesanti da sostenere. L'aria troppo tesa.
"Ci sono nuovi articoli da fare?" chiesi a Sue, appena entrata nel suo ufficio.
"No, ma volevo complimentarmi con te, dell'ultimo articolo, sempre sublime." disse, congiungendo le mani davanti a sé. La sua scrivania non era molto ordinata, c'erano penne, fogli, libretti, e cartelline sparse un pò qua e là, sotto le sue mani c'era una cartellina rossa.
"Grazie mille." sorrisi, ero sempre più compiaciuta. A chi non sarebbe piaciuto avere degli elogi dal proprio capo?
"Oggi sei abbastanza libera, non ho ancora deciso su cosa farete il prossimo articolo, devo parlarne con i miei soci. Buona giornata, Bella." e così dicendo mi congedò gentilmente.
Uscì dal suo ufficio e mi sedetti alla mia scrivania, quella sarebbe stata una giornata noiosa.
Presi dal mio cassetto una barretta di cioccolato, erano la mia nuova passione e il mio miglior passatempo negli ultimi mesi. Quando non avevo nulla da fare mangiavo del cioccolato, e mi rilassava molto, mi faceva sentire appagata per un pò.
Fortunatamente c'erano vari chilogrammi che dovevo (e potevo) metter su, dopo i mesi precedenti ero dimagrita molto, e quindi ingrassare non avrebbe cambiato molto.
Anche se oltre al cioccolato non mangavo quasi nulla. La mattina, a colazione bevevo del latte, o in alternativa del the, invece a pranzo ero quasi sempre al lavoro, e vista la mia pigrizia, non lasciavo mai la mia postazione e scendere per la pausa pranzo, mi saziavo con una barretta al cioccolato, quella al latte, la mia preferita; aggiungendo qualche 'schifezza' dal distributore (sempre al cioccolato) ed infine una cioccolata, od un caffè, al distributore di bevande.
La cena invece, quasi sempre, la saltavo, stando sul terrazzo, le uniche volte che mangiavo era quando Jacob era a casa con me, un lusso e molto raro.
In giornate come quelle, noiose e monotone, parlavo molto con una ragazza che lavorava alla postazione accanto alla mia, Emily.
Era una ragazza dolce e sensibile, e come aveva un passato turbolento. Lo diceva la sua espressione, lo diceva il suo volto, segnato dalle violenze subite dal padre.
Aveva una grossa cicatrice che le copriva e deturpava mezzo volto, dall'occhio dino alla mascella, se ne vergognava, me lo aveva detto durante una delle nostre conversazioni, ma aveva un fidanzato che la faceva sentire unica, amata; che le faceva dimenticare il suo passato.
Parlavamo molto, anche lei come me lavorava al settore giardinaggio, quindi quando io non avevo nulla da fare, lo stesso valeva per lei. Non mi aveva detto chiaramente delle violenze subite dal padre, ma qualche volta aveva bisbigliato qualcosa che mi aveva fatto comprendere la sua situazione.
Ero sempre più sorpresa di quanto fosse diffusa la violenza sulle donne, da parte di persone sconosciute o parenti, quali esse siano.
Mi raccontava del su fidanzato, cercavano un bambino da tre mesi circa, da quando io mi era seduta per la prima volta in quell'ufficio; ma me ne aveva parlato solo un mese
prima.

Con lei non c'erano problemi relativi al lavoro di nessun modo, a differenza che con Maria. Una donna più grande di noi di molti anni che cercava in tutti i modi di riuscire a conquistare l'ammirazione di Sue.
Invano.
"Ho un ritardo!" sbottò improvvisamente Emily al mio fianco. Si era spostata dalla sua postazione alla mia, e alla mia destra con i suoi grandi occhioni mi guardava quasi entusiasta.
"Davvero?!" dissi, era contenta ed entusiasta per lei.
"Sì, ma non vorrei che fosse a causa dello stress, in questo periodo mi sento sotto pressione, quindi non saprei..." fece, guardandosi le mani, giocava con le proprie dita.
"Non buttarti giù così," continuai sfregando la mia mano sulla sua coscia."Sono sicura che questo sarà il mese giusto."
"Lo spero anche io." sospirò.
Un tonfo secco arrivò alle nostre orecchie, e poi una voce gracchiante che quasi urlava.
"Non ce la faccio più!"
Era Maria. Stava camminando con una pila di fogli tra le braccia, quando era quasi inciampata, facendo cadere tutti i fogli a terra.
Io ed Emily ci guardammo negli occhi e compiaciute sorridemmo.

Ero a casa sul divano, rivedendo una delle mie puntate preferite di Dottor House, la mente persa nei miei pensieri, più che indirizzati alla tv.
Da quando era arrivata a Chicago sentivo il bisogno di dire della gravidanza a Jacob, di come veramente stavano le cose. Volevo dirgli che il bambino era il suo, e non di quello sconosciuto; non sapevo se quella fosse davvero una buona idea, sicuramente sarebbe stato un brutto colpo per lui, aveva posto in me fiducia, credendo che il bambino non fosse il suo, mi aveva aiutato a sbarazzarmene, facendo l'errore più grande della mia vita. In quel momento l'avrei sentito scalciare e sarebbe venuto al mondo prima del compimento di un mese. Chissà se fosse stato una bambina o una bambino. Ero sicura per un maschietto.
L'avremmo dovuto chiamare Ryan, come piaceva a Jacob. Ryan Billy Black. Il mio bambino, il mio cucciolo, il mio angioletto che speravo mi sorvegliasse dal cielo, e non provasse rancore verso quella donna che gli avrebbe dovuto dare la vita, ma che allo stesso tempo gliela aveva portata via.
Jacob non mi avrebbe mai perdonato una cosa dal genere, ma forse parlandogli le cose sarebbero combiate, avrebbe visto oltre ciò, saremmo potuti essere qualcosa di più
unito, magari.

Se quel bambino in quel momento fosse stato nel mio grembo, sicuramente la mia vita non sarebbe stata quella. Sarebbe stata completamente differente.
Sicuramente avrei lasciato Jacob, come avevo fatto, sarei andata a vivere con i miei genitori, mi avrebbero aiutato a far crescere quel bambino. Con il loro amore, il loro aiuto.
Sarei stata una mamma single, innamorata perdutamente del suo bambino.
Non ci sarebbe stato nulla a portarmelo via.
Ma,ahimè, avrei avuto mille problemi con Jacob, il bambino ne avrebbe avuti.
Mi destai dai miei pensieri, avevo bisogno di nun posto dove poter riflettere sulle mie scelte, quel posto esisteva.
Spensi la televisione, mi alzai dal divano e presi le chiavi di casa chiusi la porta alle mie spalle.
Destinazione: la biblioteca.

1 settimana dopo.(12 settembre)
"Jacob, dovremmo parlare."
Avevo deciso.
Quella sera di una settimana prima, sul terrazzo della biblioteca avevo epsnato, riflettuto e scelto.
Non potevo tenermi per me tutto ciò che avremmo dovuto vivere entrambi. Non potevo portare un peso non mio. Era anche una specie di sfogo, dovevo dire ciò che non
avevo mai detto prima a Jake, ed ovviamente, avevo bisogno della sua attenzione. Quella sera, stranamente, eravamo tutti e due in casa.

Era tarda sera, e nell'indomani avrei compiuto ventiquattr'anni.
Non volevo rovinarmi una festa, ma in quel momento era pronta a tutto. Anche perchè la mia festa non ci sarebbe mai stata, quindi non c'era nulla da rovinare.
"Dimmi." disse, nel suo tono di voce si poteva distinguere il fastidio.
"Devo parlarti, è una cosa importante." continuai, guardandolo.
Gli stavo facendo capire che tutti i suoi documenti dovevano sparire dalla mia vista; ne ero stufa.
Capì, raccogliendo i fogli e portandoli nella sua borsa.
Mi sedetti di fronte a lui, congiungendo le mani in grembo, prendendo forza da ciò che avevo tra le mani.
Dal fiore: dall'Iris.
Era appassito da tantissimo tempo; i suoi petali azzurri erano diventati come la carta velina, deboli e delicati, ogni pressione l'avrebbe fatto in mille piccoli pezzettini. Li proteggevo tra le mie mani, che formavano una coppa protetta e delicata, allo stesso tempo.
Era quello che in quel momento mi stava dando la forza di pronunciare quelle parole.
Lo guardai negli occhi, e lui fece lo stesso.
Presi un grosso respiro, come per prendere coraggio dall'aria e parlai:
"Devo parlarti, di una cosa molto delicata... devo parlarti del bambino."
Il mio cuore batteva fuoriosamente per l'agitazione, le mani iniziarono a sudare e sperai con tutta me stessa che il sudore non rovinasse il fiore.
Gli occhi si Jake si allargarono sorpresi a dismisura. Non avevamo mai parlato del bambino, se non quando gli avevo detto di essere incinta, incolpando i violentatori.
Malgrado tutto non parlò; per mia fortuna, non avrei avuto la forza per bloccarlo nè per continuare.

"Il bambino... il bambino non era dei violentatori..." dissi, cautamente, guardandolo negli occhi.
Vidi il suo volto prendere una piega che avevo già conosciuto; aveva la stessa espressione quando l'avevo lasciato, prima che mi piacchiasse.
"Era tuo." conclusi secca.
Il mio respiro era accellerato, tanto accellerato da farmi girare la testa.
Jacob, invece, portava una maschera.
Oltre all'ira non si poteva capire nulla.
Respirò profondamente per un paio di volte, chiundendo gli occhi, sperai trovasse la calma che stava cercando.
Mi guardò negli occhi, i suoi occhi erano neri, arrabbiati.
Le mani gli tremavano, come quando era in astinenza. E forse lo era davvero.
Gli occhi erano tornati lucidi, come quando beveva, le mani tremavano, al di là della rabbia che provava in quel momento. Non controllava le sue emozioni.
Avevo paura.
In quel momento avevo paura che il passato ritornasse.
"Hai ucciso nostro figlio?" chiese. Il suo tono era quasi sorpreso, innaturale in quella situazione.
Non risposi, guardavo il tavolo di legno scuro.
Abbiamo, volevo correggere, ma non lo feci.
"Bella! Ti rendi conto di ciò che hai fatto?" le mani erano sul suo volto."hai ucciso il nostro bambino! Perchè! Perchè?!"
"Bella, rispondimi!" disse, avvicininadosi a me, prendendo le mie spalle e strattonandomi.
Non riuscì a scansarmi, non riuscì ad alzarmi da quella sedia ed allontanarmi da lui.
"Perchè lo hai fatto?" si stava arrabbiando ogni singolo minuto sempre di più.
"Perchè non lo volevo!" iniziai a singhiozzare."Tu eri alcolizzato, io non potevo portare avanti la gravidanza da sola, e con te accanto. Ci avresti fatto del male!"
Il mio volto venne colpito da qualcosa, di forte e intenso. Mi girai verso destra, la guancia mi bruciava. Mi aveva colpito.
Mi aveva dato uno schiaffo.
Mi aveva picchiata, di nuovo.
Mi mancò il respiro per qualche secondo, boccheggiai, per riprendere fiato.
Riuscì a divincolarmi dalla sua morsa ferrea, portandomi più lontano possibile.
"Non ce la facevo a tenerlo per me, dovevi sapere, dovevo dirtelo..." sussurrai.
Mi mandò un'occhiataccia.
"Cosa avrei dovuto fare, Jacob? Cosa?! Ero completamente sola a Seattle, tu bevevi, ero stata violentata, ed avevo un bambino nel mio grembo... come avrei dovuto
affrontare la cosa, sentivo la mia vita essere sbriciolata, non avevo modo e voglia di vivere, dovevo vivere per due, per me e la creatura che mi stava crescendo dentro, e dovevo badare a te, che non facessi stupidaggini, che non finissi in qualche guaio. Ero completamente sola, anche se tu eri al mio fianco. Non mi hai dato sostegno, sei stato
egocentrico, pensavi solo ed esclusivamente a te! Ai tuoi guai, e bevevi, bevevi tanto! Dovevi vederti; fin dal mattino il tuo alito puzzava di alcol, la sera non riuscivo mai a vederti sobrio. Anche se avessi deciso di tenere il bambino tu non avresti mai fatto parte della sua vita!" la mia voce era quasi isterica, segnata dalle lacrime e dalla sofferenza.

Prese un vaso su una delle mensole della libreria, scagliandolo al muro.
Si scriciolò, c'erano schegge dappertutto; anche ai miei piedi, nella parte opposta della stanza.
"Avresti dovuto parlarmene, avremmo trovato una soluzione. Avrei fatto di tutto per togliere quel vizio!"
"No!" urlai, scuotendo il capo. Il movimento mi causò male alla testa, lì dove Jake mi aveva colpita. "Non lo avresti fatto, Jacob. Non lo hai mai fatto! Lo so che bevi ancora, me ne sono accorta da tempo, ma smentivo le mie supposizioni, pensavo fosse una donna, ma non è così! Saperti con un'altra mi farebbe stare meglio di come sto ora! Non hai mai smesso di bere, hai diminuito le dosi, ma non hai smesso!"
"Come puoi dire una cosa del genere?" mi urlò contro. Restavamo a distanza.
"Perchè è la verità!" conclusi.
"Allora, se la pensi così, non abbiamo più nulla da dirci!" disse, dirigendosi in camera da letto. Prese uno dei borsoni che avevo risposto nella parte bassa dell'armadio, l'aprì adagiandola sul letto. Riuscivo a vederlo, ma non mi avvicinai a lui, che iniziò a mettere alcune sue cose nel borsone.
Chiusi gli occhi, respirando profodamente, riuscì a calmarmi, più mi calmavo più sentivo pulsare la tempia. Mi portai, istintivamente, la mano in quel punto e quandò riaprì gli occhi mi accorsi che c'era del sangue.
Respirai profondamente, per evitare uno svenimento.
Jacob ritornò in salotto, e si fermò davanti a me con il borsone in spalla.
"Ho preso solo alcune delle mie cose, ti do al massimo due giorni per lasciare l'appartamento, ti voglio fuori dalla mia vita, subito." disse, in tono autoritario.
In quel momento, se non fossi stata stordida dal sangue gli sarei saltato addosso.
Non mi degnò di un altro sguardo e lasciò l'appartamento, chiudendo con forza la porta.
Mi sentì libera, come non lo ero mai stata, mi sentivo senza nessun peso ad invadermi la coscienza, ero completamente libera, da tutto e da tutti.
A volte è più facile essere lasciati che lasciare.
Eravamo arrivati al capolinea.
E l'Iris mi aveva aiutata, mi aveva dato il coraggio necessario.

13 Settembre.
Non avevo dormito tutta la notte, ero rimasta a fissare il vuoto davanti a me, con le ginocchia piegate al petto, e la testa appoggiata su quest'ultime.
I miei occhi si erano riempiti varie volte di lacrime, ma forse erano più di felicità che di dispiacere.
Quando scoccò la mezzanotte sussurrai a me stessa:
"Buon compleanno, Bella. Buon ventiquattresimo compleanno."
L'avrei passato da schifo, ma non m'importava.
Avrei mentito quando i miei genitori mi avrebbe chiamato, dicendo che stavo bene, che ero contenta e che Jacob mi aveva regalato qualcosa di bello, che avevamo passato
la giornata divertendoci.

Anche se non era così. Le bugie sarebbe terminate presto.
Stavo rimurginando su cosa dovessi fare, erano le nove del mattino, e mi trovavo ancora a letto, seduta e con la schiena a pezzi, dovevo trovare un appartamento, dove vivere per almeno (e meno) di un mese, per sistemare tutto, per lasciare il lavoro, raccogliere ciò che dovevo ed andare dai miei genitori a Forks. Lì sarebbe ricominciata la
mia vita.

Avrei ricomciato il college. Basta Jacob. Ormai era alle spalle.
Il nostro non era mai stato amore puro, ci volevamo bene, come due fratelli, come due amici; o almeno prima. Ci conoscevamo a vicenda, ed avevamo imparato a mentire a noi stessi.

La prima che chiamò, quel giorno, e di cui non mi sarei mai aspettata la telefonata fu Alice.

Sentì il telefono squillare, mi schiarì la voce prima di accettare la chiamata.
"Pronto?" feci.
"Hey, Bella! Sono Alice, buon compleanno!" trillò.
"Grazie mille, Alice."
"Come va?"
"Abbastanza bene, a te invece?" ecco la prima bugia.
"Bene," disse, "adesso ti passo Jasper, anche lui vuole darti gli auguri."
Mi fece parlare con Jasper, Emmett e Rosalie, la fisioterapista. Mi augurarono tutti buon compleanno, infine, il telefono passò nuovamente nelle mani di Alice, che mi disse di
aspettare.

Tutti riuscirono a risollevarmi il morale incosciamente, riuscì a sorridere ad alcune battute di Emmett, ed ai lamenti da parte di Rose.
Aspettai un pò di tempo, che mi sembrò infinito prima che una voce rispondesse al telefono.
"Pronto?" disse deciso la voce dall'altro capo della cornetta.
Mi si gelò il sangue nelle vene. Il cuore iniziò a galoppare per l'emozione, come se fossi una ragazzina alla prima cotta.
Mi scappò un "oh" che fu appena udibile.
Portai le gambe al petto, stringendole a me.
"Edward." sussurrai sorpresa, non era una domanda, ma un'affermazione.
Dopo una manciata di secondi rispose.
"B... Bella..." disse, anche lui, come me aveva il fiato corto.
"Come va?" chiese subito.
Dovevo rispondere?
Dovevo dargli questa possibilità?
Sì, potevo. Avevo già sbagliato una volta, voltandogli le spalle, lascinadolo solo in camera mia, in ospedale, senza dargli la possibilità di spiegare; era arrivato il momento di
parlare con lui.

"Bene, grazie, a te invece?" domandai a mia volta Dire 'Bene' fu istintivo. Cercai di calmarmi, invano, la voce tremava.
"Anche a me, bene," disse."Buon compleanno."
"Grazie, Edward, grazie mille."
Restammo in silenzio per altri secondi, non c'era imbarazzo, era del tutto normale.
"Credo mi debba scusare..." iniziò, non lo feci finire che incomincia a parlare.
"No, aspetta, devo farlo io, è giusto così." continuai. "Sono stata troppo impulsiva, dovevo concederti almeno qualche minuto, ma non l'ho fatto. Sono stata una stupida."
"Ed io uno stupido. Le scuse devo fartele io, sono stato un imbecille."
"Sì, lo sei stato." lo appoggiai.
"Bella, potrai mai perdonarmi?" mi chiese. "Potremmo iniziare tutto daccapo, potremmo dimenticare il passato."
"Il passato non si può dimenticare," dissi prendondo un respiro profondo."L'hai sempre detto tu."
"Sì, è vero," sospirò pesantemente."ma c'è sempre l'eccezione alla regola, no?!"
"Potremmo ricominciare non da zero, ma come amici." continuò.
"Sì," il cuore battè ancora più veloce se possibile. "C'è l'eccezione alla regola."
"E sì," dissi dopo un pò, le mie mani torturavano le gionocchia. "Potremmo ricominciare essendo amici. Sì, amico, mi piace."


Cioccolato al latte, bianco, alle nocciole o fondente? ( o altro?)

   
 
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