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Autore: Ulissae    13/02/2011    8 recensioni
[Piccola long di due capitoli che tratterà la vita e la trasformazione di Caius, sulle note de "La ballata dell'amore cieco" di Fabrizio de Andrè]
Menelao era un brav'uomo, un bravo figlio e un bravo guerriero.
Genere: Drammatico, Song-fic, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Volturi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'enciclopedica visione dei Volturi'
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Sproloqui di una folle che ha deciso di cimentarsi in una folle impresa: dopo questo enorme "titolo" inizio a spiegarvi in cosa vi state per imbarcare.
Questa è la prima shot dell'Enciclopedica Visione dei Volturi. Il personaggio qui strattato è Caius anche se, miei cari, non si chiamerà Caius. Essendo nato nel 500 a.C. sarebbe piuttosto folle pensare che il suo nome potesse essere Caius, no? Dato che lo stesso Caius è un nome derivato dal latino Gaius. Insomma, ragazzi, non prendiamoci in giro: Caius non si chiamava Caius. È come dire che in America, nel 1300, esisteva un uomo che si chiamava Ramsess, è un po' irreale, no?
Per questo ho deciso di usare un altro nome: Menelao.
Perché Menelao?
Menelao è il famoso eroe greco.
Ho sempre associato la figura di Caius a quella di un uomo-re, forte, potente, ma anche molto debole, da una parte. Proprio come Menelao che, pur essendo re di Sparta (emblema di forza e virilità), quando gli viene strappata Elena non riesce ad attaccare da solo, ma ha bisogno di richiamare a sé suo fratello e tutto il resto dei re greci.
Inoltre il nome Menelao vuol dire “reprimere il popolo”. Wikipedia docet.
Altre informazioni utili le inserirò a fondo testo, per chiarirvi alcuni aspetti della storia. Piccola cosa: lo stile è... diciamo che non è "shallo", va'.
Intanto lascio qui i declaimers: parte della breve long è una song fic, ispirata alla canzone La ballata dell'amore cieco, di Fabrizio de Andrè. ♥

E ora, buona lettura.

La ballata dell'amore cieco

Un uomo onesto, un uomo probo,
tralalalalla tralallaleru
s'innamorò perdutamente
d'una che non lo amava niente.

Menelao era un brav'uomo, un bravo figlio e un bravo guerriero. Se Omero l'avesse incontrato, mentre cercava il suo Diomede, IN quella piccola città del Mediterraneo, avrebbe tastato il suo viso e avrebbe sorriso.
Forte il suo corpo e aperto l'animo, la voce tuonante e i lunghi capelli color del sole facevano sì che tutto il suo popolo lo adorasse.
Lo adoravano il padre -che, alla sua morte, aveva affidato tutto a lui- e la madre, lo adoravano i fratelli e le sorelle tutte, le donne e i suoi compagni. Amato, a sua volta amava, avvolto dal calore di una vita perfetta.
Commerciante per stirpe, le sue navi arrivavano fino alla lontana terra dei Fenici, ritornando cariche di porpora, di legni e di pregiate mercanzie, che lo avevano reso, lui e la sua famiglia, l'uomo più importante di Calidone.
Ma quella mattina nuvolosa di ottobre, mentre l'ultima nave rientrava nel porto, qualcosa si incrinò; uno spillo scuro si insinuò nella vita di Menelao.
«Le corde, tendete le corde!» urlava, mentre correva veloce per il pontile naturale, formato da numerose rocce piatte.
I marinai eseguivano fedelmente i suoi ordini.
Attendeva quel carico da quasi un mese, e le numerose tempeste di cui aveva sentito parlare gli avevano fatto pensare il peggio. Ma ora che il fulgido occhio della sua nave lo fissava, si sentiva più tranquillo e sicuro.
Non vide subito la figura stretta in un vestito scuro che scendeva dalla passerella né lo sguardo che ella gli lanciò. Si dovette scontrare con quella donna bardata di preziose stoffe e con al collo sfavillanti gioielli.
Menelao la vide e non respirò; trattenne tra le mani una pesante corda, che gli sfregava la carne, ferendogliela, e continuò a fissare il viso pallido di quella donna.
Lei camminava lentamente, adagio, la veste le lasciava scoperti solo i piedi leggeri di dea; il viso era allungato, bello, con un meraviglioso profilo; i lunghi capelli corvini legati in una treccia pesante e morbida.
L'uomo continuò a fissarla sconvolto e dentro di sé, lui stesso se ne accorse, si andò a infilare una scheggia di amore.
Peccato, però, che non vide, oltre il vermiglio colore dei suoi occhi, la freddezza che essi celavano, né al sorriso malvagio che le sue rosse e piene labbra formavano.
Non si accorse che, dietro l'aspetto di una ninfa, si nascondeva un'Erinne oscura.
In breve tempo iniziò a frequentare assiduamente la strada che conduceva verso l'entroterra: lontano dal porto, la sua vita, lontano dall'acropoli che nasceva e fioriva in oriente, vita del suo popolo. Lontano da tutti camminava tra le polverose e rocciose vie che si insinuavano tra gli ulivi nodosi, fino a giungere alla sontuosa casa di lei.
Si chiamava Medea e, nonostante non fosse ben vista dalle donne e su di lei fossero iniziate a correre le storie più turpi, Menelao se ne era innamorato a prima vista.
Si diceva che avesse ucciso il marito, altre ancora sussurravano che in verità il marito era vivo, ma era sempre in viaggio; si narrava perfino che non fosse sposata e che fosse una strega, degna di Circe.
Ma niente di tutto ciò importava quando Menelao entrava nel piccolo e grazioso cortile interno, adornato con i fiori più profumati, figli del Mediterraneo. Le colonne erano slanciate e piano piano, mentre le percorreva, avvolgevano il visitatore, fino a circondarlo completamente. Bianche, lucenti, lo accecavano ogni volta.
Ma dopo due visite nelle quali gli fu detto di tornare più tardi, dopo il tramonto, capì che la donna doveva soffrire di qualche disturbo, che le rendeva insofferente alla luce del sole. Così inizio a farle visita di sera, non appena il sole tramontava lui varcava la soglia della sua casa.
La trovava spesso sdraiata all'interno del salone più grande, sul bordo di una piccola piscina, nella quale galleggiavano petali di rose e altri graziosi fiori acquatici. Lascivamente lasciava che una gamba venisse scoperta, mentre le mani aggraziate si poggiavano sul proprio ventre.
Era spesso immobile, talmente immobile da sembrare una statua.
«Buongiorno a voi, figlia del Sole» l'aveva salutata la prima volta, con al suo fianco una serva piccola e umile, che ben presto li lasciò soli.
Medea alzò lo sguardo rosso e intenso su di lui e sorrise, in un modo enigmatico, che costrinse Menelao a fissarla per lungo tempo; quando alla fine si risvegliò, la vide alzarsi e fargli cenno di seguirla nell'angolo più buio della sala, coperto da tendaggi e stoffe preziose, che profumavano d'Oriente.
«Buongiorno a voi, degno erede di Ermete» la voce era così sottile e fine da sembrare il suono della lira di Orfeo.
Nuovamente, rimase incantato e rapito dalla sua persona.
«Vi ho visto lavorare con grande lena giù al porto, mi par di capire, dai racconti che le mie serve mi portano, che siete un grande mercante».
Con gesti affabili e cortesi si sedette su un comodo lettino, incitandolo a fare lo stesso.
Menelao lo fece, ma sentì come se i suoi movimenti fossero troppo goffi per essere fatti davanti a lei, le sue parole e la sua voce troppo rozze per proporgliele, così tacque per un po'.
Per la prima volta nella sua vita si sentì inferiore e a disagio.
Alla fine decise di rispondergli, più per orgoglio che per altro: «sì, la mia famiglia da tempo riceve i favori di Poseidone e delle Nereidi tutte. Commerciamo con le genti che provengono da Oriente, e portiamo merci buone a tutta la Grecia».
Medea gli sorrise, continuando a fissarlo. Ci mise poco per farlo sciogliere completamente e renderlo a suo agio; in breve arrivarono danzatrici e suonatori e Menelao si ritrovò al centro di balli e melodie ipnotiche.
Capì che l'amava, di un amore intenso e passionale, quasi folle -anzi, sicuramente folle-, che lo portò in quella casa -diventata in breve tempo malfamata per le voci che correvano su di essa- ogni singola notte.
Medea non aveva unicamente rapito il suo cuore, aveva pure iniziato a bere avidamente da esso.

Gli disse portami domani,
tralalalalla tralallaleru
gli disse portami domani
il cuore di tua madre per i miei cani.

Continuò a tornare da lei, sera dopo sera, luna dopo luna, lasciando che il mondo continuasse a scorrere senza il suo aiuto, senza la sua mente, ormai completamente rivolta a lei, la sua Medea.
La bella Medea dalla pallida pelle, la bella Medea dagli occhi color sangue, la bella Medea che ormai l'aveva conquistato totalmente.
Molto spesso passavano la notte passeggiando tra gli ulivi che circondavano la casa, lei lasciava che lui le sfiorasse le braccia e che i suoi occhi vagassero sul suo corpo sinuoso. Vestiva con lunghi pepli di colori sgargianti, decorati con losanghe d'oro e piccoli intarsi di pietre.
«Hai mai riflettuto sugli dèi, Menelao?» gli chiese una sera.
Era autunno e dagli alberi i frutti pendevano pesanti e maturi, lui la guardò e rispose prontamente.
«Non ho riflettuto, ho creduto, perché così è giusto che sia»
Medea posò il suo sguardo su di lui e sorrise in modo enigmatico, sorridendo: «o perché è più facile, Menelao?»
Usava sempre il suo nome, non concludeva mai una frase senza aggiungerlo, come se fosse diventato una parte indispensabile dei suoi discorsi.
«Facile? Dici che sia più facile credere che riflettere? Oh, non sono un filosofo né insegno ma vorrei farti notare una cosa...» si allungò e colse un'oliva e poi la nascose tra le mani.
Lei stava ridendo, divertita dai suoi modi semplicistici e quasi infantili.
In duemila anni di vita -e qualcuno di nonvita- poteva affermare che quest'uomo era tra i più interessanti che avesse mai incontrato e, per di più, il suo odore, un misto di salsedine e sudore mascolino, la attiravano come il miele attira l'ape.
«Ora» riprese lui «secondo te è più facile domandarsi se io abbia o meno l'oliva in mano oppure credere che io la abbia e basta? Cos'è la prima cosa che fai?» rise ironico, tenendo il pugno vuoto ben nascosto dietro la schiena, fingendo di avere qualcosa in mano.
Lei lo guardò stupita e poi sorrise tra sé e sé: era più intelligente di quanto credeva, sotto la scorza di uomo sempliciotto e ingenuo si nascondeva una mente acuta e ingegnosa, che, a quanto pareva, sembrava totalmente asservita a lei.
«Direi che la prima cosa che mi viene da fare è domandarmi se hai o meno un'oliva in mano» ammise sconfitta, sospirando teatralmente.
«Vedi, è più facile farsi domande che credere» sorrise e aprì la mano vuota.
Lei continuava a fissarlo, come se stesse scavando dentro di lui: leggeva nei suoi occhi l'amore che provava, nei suoi gesti la dedizione totale che le avrebbe donato, nelle sue parole la cieca fedeltà che l'avrebbe guidato.
E folle com'era, Medea, decise che quelle noiose giornate in Grecia, passate senza un vero divertimento, potevano finalmente trovare un risvolto interessante.
Superba e vanitosa quale era non poteva non cogliere la palla al balzo e lasciando scivolare lentamente una mano tra quelle di Menelao sorrise: «Se ti chiedessi una cosa, la faresti oppure ti domanderesti perché?»
Rise, il povero e ingenuo Menelao, la gloria della sua famiglia e l'orgoglio della sua gente, non immaginando minimamente cosa stesse per accadere.
Gli occhi di lei lo inchiodarono e improvvisamente, senza che se ne rendesse conto, lo intrappolarono. Le parole che uscivano dalle sue labbra rosse, che si muovevano in modo preciso e distinto, gli arrivavano confuse, come una litania sacerdotale, una folle preghiera che si insinuava nella sua mente -e nella sua anima.
«Faresti di tutto per me, non è vero?» sorrise innocente, Medea, mentre gli sfiorava i capelli d'oro, degni di Febo splendente.
Lui annuì, intontito, rapito dalle sue parole.
«Qualsiasi cosa»
«E ti faresti domande?» sussurrò lei, percorrendo con le dita sottili e gelide il suo profilo deciso e definito.
«Non me le faccio sugli dèi» mormorò con voce roca e tremante «potrei farmele su di te?»
La risata cristallina della donna irruppe tra gli alberi, ma era priva di gioia, fredda e cinica.
«Sei così buono, Menelao...» ormai la sua voce era un soffio contro il suo collo, contro il suo orecchio «portami il cuore di tua madre».
Fu un sospiro leggero, ma che dentro di sé conteneva un responso di morte e di perfidia pura.
Lui rimase in silenzio, probabilmente neanche capì cosa lei gli disse, continuò a fissarla rapito, cercando di imprimere nella sua mente il tocco gelido delle sue mani.
«Il cuore di tua madre, lo voglio tra le tue mani insanguinate. Voglio il cuore di chi ti donò la vita, voglio che tu gliela tolga» continuava, nella sua tremenda e ipnotica cantilena.
«Perché?»
Fu l'unica cosa che Menelao riuscì a dire, con voce roca e secca.
Medea rise e scosse la testa, avvicinandosi ancora di più al suo corpo, premendo le sue membra gelide e sinuose, morbide ma allo stesso tempo così rigide e distanti: «lo voglio dare ai miei cani».
Gli occhi di Menelao, i suoi forti occhi di uomo, si inumidirono e il suo corpo iniziò a tremare. Le mani strette nei pugni sembrava stessero per esplodere, percorse da una rabbia e da una passione, che, unite, lo stavano facendo  impazzire.
«Non...» iniziò, la stessa voce tremava e non gli permetteva di finire la frase.
«Non fare domande» sussurrò lei, continuando a stringerlo a sé; come se il semplice contatto degli occhi non bastasse.
Oh, questo Menelao!, rideva la maligna Medea tra sé e sé, quale divertimento mi sta procurando!
«Mi amerai, dopo?» il viso era contratto in un'espressione di disperazione e speranza, come il naufrago che, vedendo la riva dopo lunghi giorni di fame, non può trattenere la gioia del ritorno ma, allo stesso tempo, prova ancora i morsi del lungo dolore.
Lei scivolò via dalle sue braccia, che si erano alzate per stringerla. Posò le belle labbra vermiglie sulle sue e sussurrò: «sono una dea, non fare domande».
Sparì nell'oscurità, lasciando sulla bocca di Menelao solo un vago sapore ramato di sangue.

Lui dalla madre andò e l'uccise,
tralalalalla tralallaleru
dal petto il cuore le strappò
e dal suo amore ritornò.

Che giornata passò, il povero Menelao!
Dentro di lui Scilla e Cariddi dilaniavano la sua coscienza e la sua volontà, i ricordi di un'infanzia felice si mischiavano a quelli immaginari di un futuro tra le braccia della bella Medea.
Arrivò a casa quando il sole stava già per tramontare e tutto il mondo ancora giaceva in una dolce penombra ambrata, dove le superfici di case, piante e la terra stessa sembravano tinte di un morbido colore caldo.
Ma non era quel colore che voleva vedere, non era di quell'aranciato soffuso che i cani di Medea si sarebbero cibati.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Perché l'avrebbe dovuto fare?
Un amore, questo nettare divino, ambrosia che tenta, vale veramente una vita? E se così fosse, vale la vita della tua genitrice?
Achille avrebbe ucciso la premurosa Teti, se avesse saputo di poter vincere contro Paride e gli odiati Troiani?
No.
Ma Achille non aveva una donna al suo fianco! Non aveva una donna dalle dolci labbra che l'attendeva a Ftia! Né un corpo tanto sinuoso né una voce tanto ammaliante né degli occhi così penetranti e unici.
Cosa doveva fare?
Entrò nella sua stanza, spoglia e umile, e cadde sul letto di ulivo, coperto da teli bianchi e candidi.
Vedeva rosso, Menelao. Ovunque, intorno a lui, vedeva rosso. Rosse le sue mani, rosse le lenzuola dove le aveva poggiate, rosse le sue orme, e rosso il cuore che teneva tra le mani.
Cosa aveva fatto, cosa era accaduto?
Veramente era riuscito a strappare il cuore di sua madre con tanta facilità?
La sua povera e vedova madre, che con la forza di Penelope lo aveva accudito, Telemaco senza padre qual era, era morta.
Ed era stato lui?
Ma quando?
Oh, non ricordava niente, non ricordava niente! Non ricordava le sue mani che scendevano sul collo nel quale da fanciullo affondava il viso, non ricordava di aver spostato i fini capelli bianchi, sciolti sul petto che l'aveva nutrito.
Non ricordava i suoi gorgogli soffocati e le pupille dilatate, che si mostrarono solo all'ultimo, per far vedere al figlio la tragedia che si stava consumando nell'animo della donna.
E non ricordava con quale forza affondò il coltello nel corpo morto della madre, cosa lo spinse a squarciare malamente la pelle, sentendo lo scricchiolio del coltello contro le ossa, e il rumore delle arterie e delle vene che si dilaniavano, lasciando libero il cuore.
Lo aveva stretto con le mani tremanti, che sembravano non voler toccare oltre quella carne morta; gli occhi pieni di lacrime gli rendevano la vista annebbiata -e forse era meglio così.
Lo aveva in mano?
Sì, lo aveva ancora in mano.
E perché era ancora lì?
Il coltello gli pizzicava, mentre lo stringeva nell'altra mano, tagliava la pelle callosa del suo palmo, che tanto aveva lavorato.
Era il coltello di suo padre, quello intagliato nel corno di cervo. E lo aveva usato per uccidere sua madre: che macabra ironia.
Ma non faceva male. In quel momento niente faceva male.
Si alzò, proprio mentre il sole spariva, e come un Febo insanguinato iniziò a correre verso la collina.
Folle.
Folle d'amore.
Quando giunse vide la sua adorata Medea stesa su una giovane fanciulla dalla pelle scura, con la testa tra le sue gambe, intenta in piaceri illeciti. Rimase immobile osservando quella scena innaturale e pazzesca, mostruosa: la ragazza perdeva colore, mentre emetteva mugolii sommessi di dolore; al contrario, la pelle sempre diafana ed eburnea di Medea sembrava ritornare viva e rosea, mentre la testa poggiata su una delle cosce della ragazza si muoveva ritmicamente, come se la stesse baciando.
Era follia? Cosa stava succedendo?
E quel cuore continuava a pesare più di una spada tra le sue mani!
Medea alzò la testa, gli occhi leggermente rovesciati all'indietro, persi in chissà quale dionisiaco piacere, fecero trasalire Menelao, che però non riusciva a distogliere la propria attenzione dalla sua bocca, completamente rossa di sangue.
Era una sua visione? Un suo incubo? Oppure era vero e proprio sangue, della serva che ora giaceva inerme, sdraiata e simile a una dormiente. Ma era morta, Menelao non vedeva il suo petto alzarsi e abbassarsi, nel naturale ritmo di un essere vivente.
Oh, chi era la sua dolce e amata Medea?
Cosa era?
Paralizzato dall'orrore, dall'adrenalina dell'omicidio, e dalla sola presenza di lei, rimase immobile, aspettando che lo notasse.
Quando lo fece, Medea, ci mise un attimo a capire cosa era successo e che in quell'attimo, entrambi, avevano superato un limite: ora stavano camminando in un luogo senza regole, dove tutto era concesso.
Aveva veramente un cuore tra le mani, un cuore grondante sangue che iniziava a rapprendersi, il cuore di sua madre.
Era folle, ne era sicura.
E mentre si alzava, avvicinandosi languidamente a lui, e sfiorando le sue labbra con le proprie, rosse e al sapor di morte, decise di alzare la posta.
Il gioco, forse, poteva farsi perfino più divertente.




Angolo autrice:
Siete arrivati fino alla fine? Wow, complimenti vivissimi :D Visto che la seconda parte è già pronta entro una settimana sarà postata. Spero che abbiate voglia di commentare e di lasciare un parere su questa storia, alla quale tengo veramente tanto. Mi spiace se l'ultimo pezzo è stato un po' splatter ♥ perdonatemi, io stessa mi sono fermata per lo schifo XD Mi spiace tanto tanto tanto. ♥
Nella mia  mente malata ho creato una linea temporale totalmente di mia invenzione (eccezione fatta per le date storiche della nascita delle mogli e di Alec e Jane), che ora vi lascio: eccola qui.
Vi chiederei di non copiare varie idee.
Vi lascio in seguito alcune chiarificazioni:
Perché la città di Calidone?
La città di Calidone era la patria di Diomede (grande amico di Ulisse), e si dice che la sua stirpe fu aiutata da Marte stesso a prosperare. Nella mia mente malata Caius è Diomede, Aro Ulisse.
(link cartina)
Informazioni ovvie:
-Ermete era il dio dei mercanti, dei ladri e di molte altre cose. Ma a me interessa soprattutto perché è amico dei furbi.
-Perché lei si chiama Medea? Medea era imparentata con Circe -la notissima maga- ed era la moglie di Giasone, che quando venne lasciata oltre a ucciderlo con un inganno uccise anche i figli che aveva avuto da lui. Diciamo che volevo sottolineare il suo carattere.
-Il pelpo era un lungo rettangolo di sfotta, cucito su un lato. Insomma, era un tipico vestito greco.
-Chi era Teti, Achille e cosa era Ftia?
Sono sicura che tutti voi lo saprete meglio di me, ma voglio mettere tutto nero su bianco: Teti era la madre di Achille, l'eroe greco, figlio del re di Ftia, regione della Grecia.

Bibliografia:
-Odissea, Omero.
-Enciclopedia illustrata della civiltà, Piero Ventura.

E ora, veramente, alla prossima!

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