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Autore: Daphne S    18/02/2011    3 recensioni
Fan Fiction Momentaneamente Sospesa
Nathan, figlio di una potente famiglia londinese, decide di evadere dalla falsità della sua vita.
Daphne, ragazza di campagna stanca delle offese ricevute dagli zii, decide di allontanarsi dalla monotonia del piccolo paese in cui vive.
Le loro vite si incrociano sul treno per Brighton della mezzanotte.
«Credi nel destino?» Le domandò, fissando il mare.
«Penso che ci siano le coincidenze.» Ribatté, passandosi una mano fra i capelli castani.
«Quindi pensi che sia una pura coincidenza il fatto che ci siamo ritrovati sullo stesso treno e nello stesso vagone?»
«Penso che sia stata fortuna.»
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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MidnightTrain

CapitoloSettimo.


testo

Mistreated, misplaced, misunderstood

Miss 'No way, it's all good', it didn't slow me down

Mistaken, always second guessing, underestimated

Look, I'm still around


Cos'era quel maledetto rumore? No, non poteva essere la sveglia, non di già. Nathan Crawford si rigirò fra le coperte, sbuffando sonoramente, ed allungò il braccio fino a premere il bottone che spense quell'infernale baccano. L'orologio digitale segnava le sette e cinquantacinque; si svegliava sempre a quell'ora quando si trovava a Londra dai suoi genitori.

Restò per qualche istante a guardare nel buio pesto il soffitto, beandosi del caldo che si era creato sotto le coperte. Era il sei febbraio ed esattamente un anno prima Peter aveva sacrificato la sua vita per salvare sua; era in quel letto, sotto quelle coperte grazie al cugino morto a soli ventidue anni senza avere avuto neanche la possibilità di formare una famiglia, innamorarsi e sposare una donna. Era morto per la patria e ne era contento. O almeno così dicevano.

Si alzò con estrema lentezza, buttando senza prestarci attenzione le coperte per terra. Indossò le ciabatte e si infilò la vestaglia, stiracchiandosi e passandosi le mani fra i capelli. Tirò su le serrande e si beò per qualche istante della vista di Hyde Park; era una bella giornata senza nuvole e inondata dai raggi del sole: evento più unico che raro nell'inverno londinese. Il cimitero sarebbe stato un po' meno triste, almeno dal punto di vista climatico. Forse era veramente meteoropatico, il sole riusciva a infondergli un po' di ottimismo anche in quella cupa giornata.

Dopo aver lanciato un'ultima occhiata al parco, uscì dalla stanza, scendendo le scale che lo portavano al quarto piano della palazzina; la sua stanza occupava per intero la mansarda, era il suo rifugio dal mondo, nessuno poteva disturbarlo lì sopra. Salutando nel mentre alcuni domestici, passò davanti la stanza degli ospiti e restò per qualche istante a contemplare la porta bianca. Daphne era lì con lui. Sembrava così assurdo, così incredibilmente strano ma contemporaneamente lo rendeva felice, davvero felice. L'aveva conosciuta su un treno che aveva preso per puro caso per andare per puro caso a Brighton. L'aveva conosciuta su quel treno e le loro vite si erano intrecciate inevitabilmente e, sempre, per puro, purissimo caso. E quella mattina era lì, lì che dormiva nella stanza degli ospiti, magari lasciando che il volto assumesse quelle buffissime espressioni che aveva contemplato quando aveva dormito con lui ad Oxford.

Una porta sbatté e Nathan si svegliò dalle sue fantasie ad occhi aperti; un ragazzo vestito di tutto punto con una lucidissima divisa nera addosso era uscito da una stanza.

«Edward, buongiorno!» Nathan si avvicinò al fratello, sorridendo leggermente. «Come mai così presto? Di solito non cominci alle dieci?» Edward tentennò per qualche istante, senza però lasciare che il suo corpo perdesse di un millimetro la posa assunta. Stava perfettamente sull'attenti.

«Abbiamo un allenamento aggiuntivo.» Disse con calma apparente.

«Per quale motivo?» C'era qualcosa di sospetto.


La casa dei Crawford era decisamente la più bella che avesse mai visto. Una palazzina nel pieno centro della capitale di quattro piani più mansarda, un giardino strepitoso occultato dalle palazzine circostanti ed un garage pieno di macchine lussuose. Quando aprì gli occhi per dei tonfi provenienti dal corridoio, ebbe quasi paura di essere sul punto di svegliarsi da un magnifico sogno e, nell'aprire le palpebre, pesò ogni singolo movimento, sperando di ritrovarsi nella splendida stanza degli ospiti dove si era addormentata la sera prima.

«Non ci vai.» Quella era decisamente la voce di Nathan ed era decisamente irritata. Conosceva le sue tonalità ormai. «Io lo so che non vuoi andarci, Eddie!» Aggiunse, insistendo.

«Io voglio andarci. Io devo andarci.» L'ultima volta che aveva sentito la voce del fratello era stato il giorno del funerale di Matthew.

«C'è papà dietro tutta questa storia, vero?» Un altro tonfo, un altro sbuffo. «Oggi tu non ci vai. Oggi no.» Pesanti passi le fecero capire che qualcuno, probabilmente Nathan, stava facendo avanti e indietro per il corridoio. «Porca miseria!» L'ennesimo tonfo.

«Ragazzi, ragazzi smettetela!» Una voce femminile interruppe Edward che aveva appena riprovato a rispondere al fratello, era la madre. Catherine Mc Millan era una donna alta e dai capelli biondi boccolosi ed incredibilmente perfetti. Forse tutta la bellezza dei figli era merito suo. La sera precedente a cena aveva mostrato un'indole estremamente pacata e piuttosto sottomessa all'imponente figura del marito. «Edward, vai all'Accademia, sei già in ritardo.»

«Tu sai il motivo per cui sta andando? Lo sai, mamma?» Silenzio. Un altro tonfo. «Tu lo sai e lasci che lui vada, ti sei impazzita? Ti sei scordata poi che giorno è oggi, mamma? Hai parlato con zia Claire? Ti ricordi che un anno fa ha perso suo figlio?»

«Nathan, calmati.»

«Edward non osare mettere il piede fuori di questa casa prima delle nove e trenta.»

«E' una sua scelta.»

«Ma la vuoi smettere di prenderti in giro da solo? Non vedi che è papà che fa tutto?»

Daphne era rimasta seduta immobile sul letto, con le mani sulle coperte e un'espressione sbigottita sul volto. Nathan, Edward e Catherine stavano parlando dell'Accademia e, avendo passando meno di ventiquattro ore in quella casa, aveva capito quanto fosse importante per la loro famiglia. Tutte le stanze della palazzina vantavano ritratto di colonnelli, generali, figure di prim'ordine; spille, riconoscimenti reali, foto con la regina: i Crawford erano grandi esponenti delle forze armate britanniche. La tensione fra gli uomini della famiglia era palpabile, se ne era accorta la sera precedente quando avevano cenato tutti insieme. Nathan ed il padre praticamente non si parlavano. Edward pendeva dalle labbra del padre e Nathan cercava in tutti i modi di coinvolgerlo in discorsi che non riguardassero l'Accademia, le armi, “quella fantastica spada che ora so usare”.

«Nathaniel.» La voce del padre rimbombò per il corridoio così pesantemente da infilarsi con chiarezza anche nella sua stanza. «Smettila di fare scenate di prima mattina.»

«Scenate?» Quel tono non era niente in confronto a quelli che aveva usato con lei. «Spero che tu stia scherzando! Sai che cosa cazzo è successo un anno fa, papà? Hai rischiato di perdere tuo figlio in Iraq e cosa fai? Mandi il tuo altro figlio a prepararsi per il provino per l'esercito? Tu sei malato!»
«Tu sei ripetitivo, invece.» La serie di parole che seguì fu poco chiara sia per i tonfi che fecero da intercalare, sia per Catherine che tentava invano di placare il marito ed il figlio maggiore.

«Nate, hai degli ospiti, basta.»

Ok, era appena stata tirata in ballo. Daphne si ributtò sul letto, coprendosi il volto con le coperte e facendo finta di dormire. Era sicura del fatto che Nathan sarebbe venuta a cercarla e, di certo, non l'avrebbe fatto sentire a proprio agio sapere che aveva sentito tutta la sfuriata con la sua famiglia.

«Edward, mettiti una cazzo di mano sulla coscienza.»

«Basta!»

Quell'ultima parola corrispose al suono della maniglia che si abbassava, alla porta che si apriva lentamente e alla comparsa di Nathan nella stanza degli ospiti. Respirava pesantemente mentre richiudeva la porta alle proprie spalle e sembrava provare a contenere la sua rabbia ad ogni respiro che faceva. Rimase per qualche istante in silenzio, facendo poi dei passi verso il letto. Daphne cercò di rimanere il più immobile possibile, sperando che non venisse scoperta.

«Lo so che sei sveglia.» Maledizione. Spostò la coperta, rivelando il proprio viso. La stanza era ancora buia ma, nella penombra, riusciva a riconoscere i dolci lineamenti del viso di Nathan. «Mi spiace se ti abbiamo svegliata.» Nathan si sedette sul letto e Daphne si tirò su col busto, sorridendogli leggermente.

«Tranquillo, io ero sveglia già da un po'.» Mentì, passandogli con delicatezza una mano fra i capelli. «Tutto okay?» Aggiunse, guardandolo con dolcezza mista a preoccupazione. Lui annuì, sospirando poi.

«E' routine qui da noi.» Disse con amarezza, abbozzando poi una sottospecie di leggero sorriso. Daphne lo imitò, posando poi la propria mano sulla sua. Nathan si lasciò sfuggire un “ahi” ed un momento decisamente troppo repentino. Daphne accese velocemente l'abat-jour, non lasciando che lui ritraesse la mano. Alla luce della lampada era incredibilmente rossastra e gonfia.

«Ti sei fatto male? Che hai fatto?» Domandò preoccupata, guardandolo contrariata mentre spendeva la lampada giustificandosi con un “ho gli occhi stanchi”.

«Ho la brutta abitudine di prendere a pugni i muri.» Disse a denti stretti. Quei tonfi continui li aveva procurati lui... Carezzò con leggerezza la sua mano, sfiorando con i polpastrelli le nocche, le dita sottili ma vigorose, il suo polso. «Io non ci voglio credere che anche Edward si stia lasciando abbindolare con così tanta facilità.» Mormorò, stendendosi poi sul letto che, fortunatamente, era a due piazze abbondanti. Daphne restò interdetta, continuando a stringere con delicatezza la sua mano e a guardando con materno affetto quasi. Cosa dirgli? Cosa rispondergli? Non immaginava neanche lontanamente cosa potesse voler dire essere in una situazione simile. «Eddie è intelligente, dovrebbe capire, ma lui... lui... è così astuto a fare il lavaggio del cervello. Sa che punti toccare, dove insistere, dove lasciar correre...» Stava parlando evidentemente del padre.

Rimasero così in silenzio, a guardarsi. Lui la guardava dal passo, appigliandosi con le dita ai suoi capelli, giocandoci leggermente. Lei lo guardava dall'altro, lasciando che le sue dita sfiorassero il suo collo, la linea della sua mandibola. Quando la mano di Nathan raggiunse la nuca di Daphne, la spinse delicatamente verso di sé, catturando le sue labbra in un bacio. Iniziò come un bacio delicato, leggero, ma Daphne sentiva l'irrequietezza dell'animo di Nathan sulle proprie labbra, sentiva la sua rabbia repressa, la sua frustrazione, la sua delusione. Approfondirono quel bacio e lei ben presto si trovò stesa sul letto con lui sopra di lei. Ogni suo tocco era letale. Ogni suo bacio era un colpo ben assestato. La stava debilitando lentamente e sapientemente e lei non poteva fare altro che lasciarsi in balia dei suoi movimenti, dei suoi sorrisi. Eppure c'era sempre quel retrogusto di amaro, di insoddisfatto che nasceva da lui, dai suoi pensieri che tentava di scacciare con forza.

«Scusami.» Mormorò quando scivolò al lato di lei, interrompendo bruscamente un bacio decisamente troppo accaldato. Scusami?Portò la mano al suo viso, sistemandole come suo solito dei capelli dietro l'orecchio. Lui si sentiva esageratamente nervoso, inquieto e, di certo, non poteva sfogare il suo disappunto su Daphne, sui suoi sentimenti, su ciò che stavano cercando di far crescere.

«Non ti preoccupare.» Mormorò con dolcezza la ragazza, stringendosi maggiormente al suo corpo e carezzando il suo viso. Erano faccia a faccia, stesi su un fianco. Lei lo stringeva con dolcezza, passando infine le mani dietro la sua ampia schiena. Lui sembrava un bambino, quasi, perso, abbandonato completamente alle coccole di lei, alle parole di lei.

«Peter era come un fratello per me. Mi ha insegnato tutto.» Mormorò Nathan. I suoi occhi erano chiuse e scandiva lentamente le parole. «Non posso perdere anche Edward per la stessa ragione, per la guerra. Non posso.»

«Nathan, infondo però la scelta è la sua, tu non puoi fare molto e soprattutto non devi sentirti in colpa se non riesci a convincerlo.» Disse, nel tentativo di migliorare in un qualsiasi modo il suo umore.

«Se non ci riesco vuol dire che non sono stato un fratello maggiore degno di questo nome; degno di persuadere il fratello, di essere un modello da seguire... Non riesco a invogliarlo a studiare, ad andare all'università.» In quel mormorio uscì tutta la tristezza e l'amarezza.

Restarono stesi in silenzio, abbracciati in quel modo innocente ma incredibilmente intimo. Daphne osservò nella penombra la linea del suo naso, la forma dei suoi occhi, la barba leggermente lasciata crescere sul volto, un grazioso neo vicino l'occhio, i capelli neri sempre spettinati. Ben presto si accorse che Nathan si era addormentato vicino a lei in una posizione fetale. Smise di carezzargli la schiena, lasciando che le sue mani restassero immobili, e godette per quanto possibile di quel contatto, chiudendo gli occhi e sprofondando sul cuscino in un profondo sonno senza sogni.


Nathan parcheggiò la sua mini cooper verde bottiglia davanti l'entrata principale del cimitero di Highgate; scesero dall'autovettura e lui andò di fretta a comprare dei fiori, mentre Daphne restò poggiata allo sportello, osservando la maestosa facciata.

Se non fosse stato un cimitero, sarebbe decisamente stato un posto niente male. Il verde risplendeva grazie a quel sole tanto insolito per il clima invernale dell'Inghilterra. Una miriade di persone entrava ed usciva portando fiori, asciugandosi il volto con fazzoletti o abbracciando i cari ancora vivi. Distolse lo sguardo da una nonna che abbracciava il proprio nipote e voltò la testa nella direzione di Nathan, che le stava venendo incontro. Indossava una camicia azzurra ed un maglione blu, i jeans scuri ed un cappotto. Le sue goti erano arrossate per il freddo e spiccavano per il loro colorito acceso sul suo viso, malgrado la barba leggermente cresciuto che si era rifiutato di togliere quella mattina, come ulteriore screzio al padre.

«Andiamo?» Domandò con un leggero sorriso, passando il braccio intorno le spalle della ragazza. Daphne annuì leggermente, seguendolo poi verso l'entrata. Era tutto talmente assurdo ed inspiegabile. Fino a ventiquattro ore prima era a Oxford, davanti il Keble College, spaventata che lui potesse tornare in Iraq, ed in quel momento era lì, con lui, a Londra, ed aveva assistito ad un tipico litigio con la famiglia perché il fratello minore voleva arruolarsi. Non le aveva ancora raccontato nulla: né di ciò che era successo esattamente un anno prima, né della sua vita e di tutti i suoi problemi che, in quel momento come non mai, erano decisamente evidenti.
Camminarono in silenzio per quel silenzioso luogo di riposo e in meno di cinque minuti arrivarono di fronte quella che assomigliava decisamente ad una tomba di famiglia, Daphne capì che erano giunti a destinazione non appena Nathan sospirò, passandosi una mano fra i capelli. Restò fermo, immobile, ad osservare le incisioni in latino sulla pietra. I muscoli del collo erano tesi e respirava appena, stringendo con forza le mani intorno ai fiori che aveva comprato.

«Ti aspetto fuori.» Disse Daphne con dolcezza, lasciandogli una morbida carezza sull'avambraccio. «E' una tua cosa intima, lo so. Non ti preoccupare.» Aggiunse, abbozzando un leggero sorriso che lui ricambiò immediatamente.

«Ci metto poco.» Mormorò con voce leggermente roca, chinandosi poi a lasciare un veloce bacio sulle labbra della ragazza. Daphne gli indicò con un cenno del capo di entrare e lui non tentennò, sorridendo un'altra volta. Nonostante ci fosse il sole e tutto sembrasse estremamente luminoso, quando aveva incrociato lo sguardo di Nathan si era sentita precipitare nel buio: era così fragile e inquieto che non si poteva restare indifferenti.

«Mamma, è qui che riposa Peter?» Daphne si voltò di scatto e vide un bambino biondo accanto a quella che doveva essere sua madre. Il bambino non aveva più di dieci anni ed indossava una divisa nera e rossa come quella che aveva visto ad Edward, con la differenza che aveva scritto sul petto “Scuola Primaria”; faceva impressione vedere quel ragazzino vestito come un uomo, dritto ed orgoglioso come un uomo e con un obiettivo impresso palesemente nella mente. La donna aveva sul viso i segni del dolore, della stanchezza, ma era elegante e composta nel suo portamento. Il tailleur nero risaltava le curve che un tempo erano state avvenenti e gli occhiali da sole nascondevano i suoi occhi, cui tristezza era tradita dalle marcate occhiaie che si potevano scorgere.

«Sì, Daniel. E' qui che Peter riposa.» Rispose, quasi meccanicamente, chinandosi poi ad accarezzare i capelli del figlio. In quel momento uscì anche Nathan che si paralizzò non appena vide la donna ed il piccolo Daniel. La signora alzò lo sguardo e vide il ragazzo, soffermandosi prima per un istante sulla figura di Daphne.

«Nathan, quanto tempo...» La sua voce era leggermente roca. Si avvicinò al ragazzo, abbracciandolo con affetto quasi materno, quasi aggrappandosi a lui. «Non ci vediamo da...»

«Dal funerale, zia Claire.» Disse Nathan, abbassando poi lo sguardo. «Mi dispiace se non ci siamo potuti vedere prima, mi dispiace per il comportamento dei miei, mi dispiace, zia, non sai quanto.» Disse tutto d'un fiato. Claire. L'aveva nominata quella mattina litigando con i suoi genitori... Era la madre del cugino Peter? Perché le loro famiglie non avevano nessun tipo di rapporto se Peter aveva salvato la vita a Nathan?

«Nate, tranquillo, lo so che non è colpa tua.»

«Devo tutto a Peter. I miei genitori devono tutto a Peter.» Continuò, scuotendo enfaticamente la testa. I suoi pugni erano serrati e lo stesso valeva per la sua mascella. Claire fece un cenno al piccolo Daniel, quasi invitando Nathan ad evitare il discorso.

«Ehi, ometto, come stai?» Nathan si sedette sui talloni, essendo comunque più alto di Daniel, e scompigliò i capelli del bambino. «Ti presento una persona a me molto cara. Daniel, questa è Daphne.» La ragazza prima sorrise a Claire e poi raggiunse Nathan, assumendo la sua stessa posizione.

«Ciao, Daniel!» Sorrise, mentre il bambino la scrutava curiosamente.

«Hai visto la mia nuova divisa?» Disse ad un tratto, rivolgendosi a Nathan ma continuando a indugiare con lo sguardo su Daphne.

«Ti piace l'accademia?» Il tono che usò Nathan era incredibilmente piatto e Daphne riuscì a cogliere come Claire cominciò a torcersi improvvisamente le mani. Daphne non osava minimamente immaginare cosa volesse dire avere perso un figlio in guerra ed avere il figlio più piccolo all'Accademia Militare, pronto un giorno forse a seguire le orme della propria famiglia. Daniel annuì vigorosamente, raggiungendo poi la madre.

«Andiamo da Peter?» La signora annuì, stringendo a sé il figlio.

«Nathan, fatti vedere presto, lo sai che da noi sei sempre il benvenuto. Sempre. Sei sempre stato come un figlio per noi.» Abbracciò Nathan e Daphne pensò che quel suo aggrapparsi al ragazzo fosse un tentativo di provare nuovamente la sensazione di stringere a sé il proprio figlio. Claire la salutò cortesemente, entrando poi nella tomba di famiglia.

Il tragitto fino alla macchina fu fatto nel più completo silenzio. Nathan camminava velocemente, non lanciando un'occhiata a niente di ciò che gli passava intorno o che lo circondava. Camminava tenendo le mani nelle tasche del cappotto e col il volto chino a terra. Più volte rischiò di urtare contro dei passanti e più volte Daphne lo dovette prendere sottobraccio per indirizzarlo verso l'uscita di Highgate. Salirono poi in macchina e Nathan mise in moto; ogni semaforo rosso lo faceva inveire, ogni passante che non attraversava sulle strisce lo faceva innervosire. Sembrava essere decisamente sul punto di esplodere e raggiunse quel punto quando ad un semaforo pedonale attraversò la strada un gruppo di ragazzi con la divisa dell'Accademia.

«Ti rendi conto che è una cazzo di malattia? Hai visto mia madre? Hai visto Claire?» Mentre parlava guardava fisso davanti a sé, tenendo le mani ben piantate sul volante. «Sono completamente assoggettate agli uomini Crawford, a questa cazzo di fissa che i figli devono andare all'Accademia e devono diventare marescialli, ufficiali, devono fare parte dell'esercito. Claire ha perso un figlio in guerra e che cazzo fa? Manda Daniel alla scuola elementare di quel manicomio? Gli fanno ogni giorno il lavaggio del cervello, ogni santo giorno.» Appena scattò il verde, accelerò con forza e con esagerazione. Daphne non osava fiatare. «Mia madre e mio padre hanno visto il dolore nella famiglia di Peter e nonostante tutto continuano ad insistere affinché Edward segua le sue orme. Sono matti, sono completamente matti. I valori, che cazzo valori possono essere così importanti per sacrificare i figli?» Inchiodò, rendendosi conto che stava per investire una ragazza che aveva attraversato senza guardare. «Che cazzo me ne frega che mio padre mi parli di Peter come uno che “è morto per la patria”? E' morto e nessuna patria, nessun valore lo riporterà mai indietro.»

«Nathan, accosta.» Mormorò Daphne, guardandolo seriamente. Lui obbedì, fermandosi poco dopo una fermata dell'autobus. Spense la macchina e cominciò a respirare pesantemente, senza togliere le mani dal volante né distogliere lo sguardo dal parabrezza. Daphne allontanò le sue braccia dal volante e poi, portando le mani sul suo viso, lo fece voltare nella sua direzione. Solo dopo aver messo le mani dietro la sua nuca, lo spinse con dolcezza verso di sé come lui aveva fatto quella notte dopo la discoteca, dopo Harris. Lo sentì prima resistere e poi abbandonarsi completamente contro di lei, quasi in un disperato abbraccio. Non osò parlare, né provare a dire una qualsiasi parola per provare a consolarlo. Nessuna parola sembrava essere all'altezza di quella situazione. Il minimo rumore rischiava di rovinare quell'atmosfera che si era creata nella mini cooper. Una atmosfera talmente densa che sembrava aver svuotato completamente Daphne fino ad annullarla di fronte al conflitto interiore di Nathan.


Edward uscì dall'Accademia, stringendo a sé la borsa a tracolla; erano le cinque del pomeriggio ed era decisamente esausto da quell'ennesima giornata passata in quel maledetto luogo. Camminava apparentemente con orgoglio nella sua lucente divisa, marciando con energia nella direzione direzione della macchina che lo attendeva per riportarlo a casa.
Salì a bordo dell'automobile e indicò al conducente di portando a Mayfair; doveva vedersi con Lucas per sistemare una vecchia situazione. Si rilassò contro il sedile in pelle e cominciò a guardare distrattamente fuori dal finestrino. Era il sei febbraio quel giorno. Come poteva pensare Nathan che si fosse dimenticato di quel giorno? Ricordava come se fosse avvenuto il giorno precedente cosa era successo esattamente un anno prima.

Aveva passato la giornata a casa di Damien, un suo compagno di Accademia, quando rientrando aveva visto la madre in lacrime e la televisione accesa. Si era precipitato al suo fianco e aveva visto che c'era il notiziario: c'era stato un attentato a Bagdad ed erano morti del soldati inglesi i cui nomi non erano ancora stati rivelati. Nathan era partito per l'Iraq a giugno, subito dopo aver dato gli esami del primo anno ad Oxford, e si trovava proprio nel punto dove era esploso il kamikaze. Aveva stretto la madre a sé e si erano seduti insieme sul divano, nella disperata attesa di una telefonata, di un qualsiasi segno; il padre non rispondeva alle disperate telefonate della madre e nessuno sembrava essere in grado di dare ulteriori notizie su ciò che era accaduto.


«Edward, siamo arrivati.» L'autista avvisò il ragazzo che, per un istante, si destò dai suoi ricordi.
«Solo un attimo.» Disse, sistemandosi la giacca.


Solo alle venti il telefono di casa aveva squillato dopo due interminabili ore d'attesa. Claire Crawford, sua zia, aveva telefonato, comunicando che suo figlio Peter era morto quel pomeriggio e che Nathan era stato operato d'urgenza e che non c'erano notizie sulle sue condizioni, non sapeva neanche se fosse sopravvissuto all'intervento. Il padre era rientrato verso le ventuno, calmo come suo solito, senza neanche minimamente scomporsi alla notizia dell'attentato e delle condizioni del figlio maggiore. «Se la caverà. I nostri medici sono in gamba.» Aveva commentato, andando poi a chiudersi nello studio mentre sua moglie continuava a piangere guardando attonita le immagini che passavano a ripetizione sullo schermo nel tentativo di scoprire qualcosa di più su suo figlio.


Edward scese dall'auto e proprio davanti al bar Defoux, vide Lucas, stretto nella sua giacca di pelle nera. Si avvicinò in fretta, facendo un veloce cenno con il capo ed stringendogli poi la mano. Quando fu certo che un involucro di plastica fosse rimasto nella sua mano dopo quella stretta, lasciò la presa, infilandola in fretta nella tasca dei pantaloni.

«Quanto ti devo?» Domandò, guardandosi intorno con fare circospetto.

«Cinquanta, al solito.» Rispose Lucas, giocherellando con il piercing che aveva sulla lingua. Edward tirò fuori il portafoglio dalla borsa a tracolla e lasciò la banconota da cinquanta sterline nella mano del ragazzo.

«Alla prossima.» Lo salutò, allontanandosi poi sia dal bar che dalla macchina che lo stava aspettando.

Raggiunse abbastanza velocemente Hyde Park e dopo essersi infilato in un posto abbastanza riservato e frequentato da poche persone, si poggiò al tronco di un albero, buttando la borsa a terra. Tirò fuori dalla tasca la bustina che vi aveva infilato Lucas e osservò la marijuana che ora era sul palmo della sua mano. Perché continuava a rifugiarsi negli spinelli? Per quale motivo aveva la necessità di rilassarsi in quel modo?
Preparò velocemente lo spinello, nascondendo poi le cartine e l'erba rimanente nella borsa. Si poggiò poi con la schiena all'albero e si rilassò, inspirando la prima boccata. Stava scappando da qualcosa o forse da se stesso? Infondo aveva la vita che la maggioranza degli adolescenti di buona famiglia avrebbe desiderato: un patrimonio stabile, tante proprietà sparse per il paese, un padre importante ed un posto assicurato all'Accademia. Già, l'Accademia, ma veramente per lui valeva così tanto? Era veramente il suo sogno? Sì. Sì. Sì. Ripeteva, continuando a fumare. Era cresciuto giocando coi soldatini ed indossando le vecchie uniformi del padre, curiosando nell'albero genealogico e sognando di imitare la sua famiglia ed renderla orgogliosa. Aveva un'altra strada se non quella per il suo futuro? Era bravo nell'addestramento, uno dei migliori, poteva veramente andare avanti mentre negli studi non era esattamente una eccellenza. Suo padre era sempre fiero di lui quando parlava con altre persone, lo idealizzava come il perfetto figlio. Se avesse mollato tutto che fine avrebbe fatto, quella di Nathan? Nathan che non era andato all'Accademia e si era diplomato brillantemente alla King's School di Londra, andando poi ad Oxford a far valere le sue doti intellettuali. Economia e Management, voleva diventare un pezzo grosso lui ma non nell'ambito militare. Il padre lo aveva praticamente disconosciuto come figlio, non vantandosene mai davanti gli amici, continuando sempre a litigarci. E poi Nathan era andato in Iraq, era entrato per un colpo di matto nell'Accademia, e tutto era apparentemente cambiato... Non aveva mai visto suo padre così felice. Due figli nell'Accademia che seguivano le sue orme. Poi dopo l'Iraq, dopo la sua miracolosa sopravvivenza, Nathan era cambiato, aveva riconquistato il suo atteggiamento di odio nei confronti dell'esercito e aveva cominciato a provare a convincerlo a lasciare quel folle tragitto. Quando era tornato a casa ad aprile inoltrato, aveva reso un inferno la vita a casa: litigate continue, porte sbattute, pugni al muro e, quella situazione, non era ancora cambiata. Il padre pur di non avere più il figlio maggiore in casa aveva fatto una donazione prosperosa all'università di Oxford, pur di far riammettere il figlio senza che perdesse un anno e, ogni volta che Nathan tornava per i weekend, il padre si eclissava nello studio oppure lo affrontava, facendo rimbombare le urla per tutta la palazzina.

«Edward?»

Il ragazzo saltò, voltandosi di scatto e facendo cadere istintivamente lo spinello. Davanti a lui era in piedi Daphne, la presunta ragazza, forse, di Nathan. Era sola, stranamente. Cosa ci faceva in quella parte del parco? I suoi capelli castani era smossi dal vento ed i suoi occhi blu erano infinitamente preoccupati... o forse indemoniati? L'aveva colto in flagrante e cosa sarebbe successo a quel punto? Sarebbe corsa a dirlo a Nathan?

«Io devo andare. Ci vediamo dopo.» Disse frettolosamente Edward, mettendosi la borsa a tracolla e scappando lontano da Hyde Park, sotto lo sguardo interdetto di Daphne.


Daphne rientrò nella stanza degli ospiti dopo aver salutato con un bacio sulle labbra Nathan e richiuse con fretta la porta alle proprie spalle. Cosa avrebbe dovuto fare a quel punto? Da un lato c'era un Nathan distrutto, soprattutto dopo che era andato a casa della famiglia di Peter (proprio per quello si era concessa una passeggiata solitaria per Hyde Park) e dall'altro c'era lei che aveva visto il prediletto fratello minore di Nathan fumare uno spinello con una espressione decisamente abbattuta in volto. Si passò le mani fra i capelli, cominciando a camminare avanti ed indietro per la stanza. Possibile che più venisse trascinata nella vita di Nathan e più era inglobata ed annullata da tutte le problematiche che sorgevano?




**

Ok, questo capitolo ammetto che sia inutile dal punto di vista Daph/Nathan, ma era necessario per delineare la figura di Nathan! Spero che vi piaccia insomma! =) Grazie come sempre a tutti voi che fantasticamente recensite e mi supportate, giuro che appena avrò un attimo di tempo risponderò come si deve alle vostre recensioni. Non immaginate quanto mi possano fare piacere.

Un bacione,

Silvia.


   
 
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