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Autore: RossaPrimavera    18/02/2011    3 recensioni
Sud Carolina, 1776. Celeste ha 17 anni e una candida bellezza, la sua giovane vita dedicata ad occuparsi dei suoi numerosi fratelli.
William Tavington, colonnello dei Dragoni Verdi, è un uomo spregiudicato, che non conosce limiti ai propri desideri.
Il loro incontro è uno scontro, ma il destino si premurerà di sconvolgere le loro vite, rendendoli così diversi da sembrare irriconoscibili.
"Ho solo 17 anni,e quando mi guardo allo specchio il mio volto mi pare di un candore assoluto. Davvero, non credevo di poter far gola a qualcuno. Non ad un uomo del genere comunque."
"Tu sei pazza, Celeste. Tu, tra noi, sei come nessun'altra."
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In Punta di Piedi

di Elle H.

 

CAPITOLO 4
Amando, Credendo, Tradendo, Perdendo   

(Natale senza guerra; anime ingorde e anime dolenti; spine tra le mani, spine tra le dita)

 

“-Quanto è bella, 

 la principessa Salomé questa sera!

-Tu la contempli sempre.

Tu la contempli troppo...”

-Salomè di Oscar Wilde-

 

Impossibile che il Natale fosse riuscito a penetrare le fredde, peccaminose pareti di quel luogo, ed essere riuscito a stabilire un clima quasi familiare, gradevole ed accogliente.

La coltre di neve, candida, farinosa  e scintillante come zucchero a velo; i verdeggianti decori di pino, miracolosamente indenni alla guerra, appesi sopra ogni porta; una profusione di candele in ogni stanza, a diffondere uno stucchevole odore di cera negli ambienti; i continui, elaborati pasti, le cui portate stupivano ogni volta i commensali, non avvezzi a quei peccati di gola; e per i quali, Celeste lo sapeva, erano stati assunti diversi ragazzini del villaggio, promossi ad aiuto cuochi. Tutto contribuiva a perfezionare l'atmosfera natalizia.

Madama stava spendendo un fiume considerevole di denaro per quell’unica festività, ma la ragazza ne comprendeva fin troppo bene la causa: complici il breve periodo di licenza e la sospensione delle battaglie per le continue bufere di neve, molti soldati e quasi tutti gli ufficiali si erano fermati alla Taverna per diversi giorni.

Celeste si piegò su una tavolata, pulendo accuratamente con uno straccio, un’estesa macchia di vino che si andava allargando a vista d’occhio sulla tavola. Era grata di poter nascondere il viso tra i capelli, lasciati sciolti e coronati da morbidi boccoli per l’occasione.

Servivano a nascondere i suoi occhi ancor più assenti del solito.

Notò solo di sfuggita l’ingordigia del soldati; o l’ostentato contegno di alcuni ufficiali; o gli sguardi supplicanti delle altre prostitute che elemosinavano, con sguardi e moine, qualche boccone di cibo, ridendo poi gioiosamente quando venivano imboccate.

Il suo pensiero, la sua presenza erano come sempre altrove, accanto alle inseparabili figure dei fratelli.

Se li immaginava così: rannicchiati attorno alla tavola imbandita degli zii, i volti sorridenti.

Si rifiutava di concepire i loro visi senza sorriso, così come non osava abbandonarsi ai ricordi, o concedersi il lusso di anche solo un boccone; aveva lo stomaco chiuso ermeticamente.

Affaccendata a pulire anche il pavimento, dove il vino era sgocciolato, non si accorse della presenza alle sue spalle.

Non si era neppure accorta di quegli occhi che, abbandonato ogni riserbo, avevano seguito con una sorta di struggimento ogni suo gesto: lo spostarsi di una ciocca di capelli, la mano tesa sul pavimento, l’inclinazione del collo, l’inumidirsi le labbra …

Tavington  si chinò e la prese per la vita, facendola alzare senza la minima fatica.

La guardò solo per un altro istante, ma come ormai capitava sempre più spesso, la ragazza si sentì attraversare da una scossa d’intensità, tremando sotto quello sguardo. Un brivido di anticipazione.
Sotto agli occhi di tutti, il colonnello le prese delicatamente il mento e le strappò un bacio a fior di labbra.

“Non hai fame?” le domandò semplicemente, gli occhi che analizzavano la sua espressione.

“No” rispose Celeste, parole umide contro quelle labbra che tanto la bramavano.

L’uomo la strinse per i fianchi, rimarcando il suo possesso esclusivo.

“Allora vieni di sopra, non voglio più vederti pulire” concluse, conducendola verso le scale.

Gli occhi di tutti i presenti li seguirono con riprovazione mista ad un senso d’invidia.

Tutti ormai sapevano, forse ancor prima di quei due, che tra Celeste Allworthy e il colonnello William Tavington l’odio andava, incredibilmente, trasformandosi in qualcos’altro di ben diverso.

Il tempo per loro si era come cristallizzato.

 

 

“Come è pallida la principessa!

 Mai l'ho veduta così pallida.

Sembra il riflesso di una rosa bianca

in uno specchio d'argento”

-Salomè di Oscar Wilde-

 

La passione è un nemico mortale.

Il luogo in cui viene consumata, un campo di battaglia.

Eppure non c’erano vincitori: anzi, ogni volta, entrambi segretamente si stupivano di essere entrambi perdenti. Non che il sesso non fosse più che soddisfacente … O che uno dei due dovesse farsi pregare per spogliarsi.

Da quella notte insieme, nella tinozza da bagno, le cose tra loro erano completamente cambiate.

I primi giorni la giovane si era trincerata in un silenzio colpevole, crucciandosi su cosa avesse maledettamente stravolto la situazione. Ma smetteva immediatamente di pensarci non appena si trovava nuovamente in camera con lui, scoprendosi smaniosa in un modo che non credeva possibile.

L’aspetto più interessante della questione si era però rivelato il “fuori dal letto”.

In effetti, tra loro non vi erano mai state parole che non fossero minacce e insulti.

Ora, all’improvviso, sembrava sorto dal nulla un oceano intero di parole da dire, segreti da confessare.

Non che Celeste non fosse diffidente; o che Tavington non smettesse i suoi panni crudeli …

Ma quando erano assieme, faccia a faccia, viso contro viso e corpi ancora intrecciati, sembravano aprirsi come una bella di notte sotto la luce della luna.

Parlare così liberamente della propria famiglia, proprio con l’uomo che l’aveva separata da essa, era pazzesco, illogico e irrazionale, eppure al contempo immensamente confortante.

E conoscere, come in un eguale baratto, dettagli della vita di quell’uomo in cambio, aveva l’istantaneo potere di rasserenarla.

William Tavington aveva 37 anni.

William Tavington era nato nella città inglese di Liverpool, che lei aveva sentito nominare una sola volta.

William Tavington era il quarto di sette fratelli, ma di essi ricordava con piacere solo l’unica sorella.

Il suo nome era Mary Kelly.

Eppure, nonostante finissero per raccontarsi spontaneamente parte della propria vita tra le coperte, spesso Tavington si rivelava per essere il solito strafottente, arrogante bastardo.

“Sai, dicono che i ribelli stiano tornando nel South Carolina” disse un pomeriggio, quasi con casualità, accarezzandole lentamente un fianco.

A Celeste però non sfuggi il velato sentore di pericolo contenuto nella frase.

Ancora col viso poggiato nell’incavo del collo dell’uomo, cercò di non mostrargli il proprio disagio.

“E’ una cosa certa?” domandò con finta noncuranza.

“Una nostra spia ci ha riferito che hanno superato il confine del North Carolina, dove si erano rifugiati. Saranno qui a giorni … credo dovremmo andare ad accoglierli degnamente” disse, sottolineando la parola “degnamente” come se fosse qualcosa di molto piacevole e divertente.

L’espressione maligna sul suo volto era inequivocabile.

Celeste avvertì il sangue defluirle dal viso, impallidendo, mentre veniva violentemente strappata dalla pace ritagliata da quella momentanea parentesi di piacere.

Si scostò di scatto come se si fosse scottata, sollevando le lenzuola per coprirsi.

“No!” proferirono le sue labbra.

Non con sfida, né con rabbia, ma con un ardore e un’angoscia tali da riuscire ad impressionare il colonnello.

La osservò tacitamente, appoggiandosi più comodamente alla spalliera del letto.

“Tutta questa preoccupazione per dei ribelli … che non hanno fatto nulla per te, o sbaglio?” le fece notare subdolamente.

Celeste lo guardò con astio. Era tenacemente animata dalla certezza di appartenere alla stessa razza di quegli uomini coraggiosi, che tanto coraggiosamente combattevano la tirannia inglese.

“Loro si ribellano per un giusto ideale, combattono per tutti noi americani, inseguono un sogno di speranza e libertà! Ma dubito voi possiate anche solo comprendere una parola di ciò che dico!” concluse con disgusto, alzandosi rabbiosamente in cerca della sottoveste.

Prima che potesse anche solo protendersi per afferrarla, Tavington si era già alzato, spingendola rudemente contro il muro.

Le afferrò la gola, alzandole il viso per guardarlo con tutta la superiorità in suo possesso.

“Cos’è che non potrei comprendere, Celeste? Forse hai dimenticato che anche io ho combattuto duramente finora? Che ho ucciso, nel nome della mia stessa patria?” domandò, la voce ridotta in un basso ringhio.

Ma la giovane non si lasciò impressionare, gli occhi che ostentavano uno sguardo di sfida.

“Quegli uomini hanno abbandonato tutto, nella speranza di veder migliorare le nostre vite, di ottenere i diritti che ci sono dovuti! Famiglie intere aspettano il loro ritorno, per accoglierli a braccia aperte o piangere sui loro corpi, che voi tanto disprezzate!” rispose con rabbia, sentendosi punta sul vivo.

Portò le mani contro il suo petto nudo, come a volerlo spingere indietro.

“Come osate paragonarvi a loro?! A mio padre, a mio fratello … Voi siete un mostro, un patetico, viscido, arrogante inglese!” pronunciò la parola “inglese” come se fosse uno sputo, un tremendo insulto.

Attese prontamente uno schiaffo per quelle parole battagliere, ma nessun colpo arrivò, come in passato, a punire la sua insolenza.

Alzò lo sguardo sul suo viso e sentì le accese protese rimastegli in bocca evaporare completamente: l’intensità del suo sguardo la tramortì.

In quei devastanti occhi di ghiaccio, la rabbia era stata accantonata per lasciar spazio ad una dolorosa consapevolezza, un sentimento nuovo che la fece esitare.

L’uomo le mollò il viso, girandosi e dandole le spalle senza proferir parola, iniziando a rivestirsi.

Celeste si sentì per la prima volta sgradevolmente in imbarazzo in sua presenza: era una sensazione nuova, dettata da un senso di colpa a cui non sapeva nemmeno attribuire una causa.

Aveva detto solo quello che pensava, giusto? E allora perché si sentiva terribilmente in colpa?

“Colonnello …” lo chiamò, flebilmente, le mani che si stringevano nervose, ancora nuda di fronte a lui.

Qualcosa nel suo tonò dovette destare la sua attenzione, perché si girò immediatamente, mostrandole lo stesso medesimo sguardo di prima.

“Non vi ho mai chiesto cosa vi spinse ad entrare nell’esercito” sussurrò, attribuendo istintivamente

L’uomo posò la camicia, che si stava per infilare, sul letto. Si passò una mano sul viso, come se la ragazza avesse risvegliato in lui antichi ricordi, che un tempo aveva faticato per seppellire.

“Anni fa, i miei fratelli sono stati così gentili da aiutarmi a sperperare tutta l’eredità lasciataci da nostro padre nel gioco. Erano dei buoni a nulla, ma furono più furbi di me. In ogni caso, non ebbi altra scelta per mantenere la famiglia” rispose l’uomo freddamente.

Celeste sentì qualcosa smuoversi dentro di se, sollecitata dal tono atono con cui aveva pronunciato ogni parola.

Si avvicinò a lui lentamente, sollevandosi poi sulle punte e cingendogli il collo per baciarlo.

L’uomo la lasciò fare, sedendosi e attirandola su di se, affascinato dall’arrendevolezza con cui la ragazza gli si offriva, come a voler riparare un danno.

Quando si separarono, la giovane posò la fronte contro quella dell’uomo, mischiando i loro respiri.

“Provi compassione per me ora, Celeste? Non dirmi che ti faccio pena …” lo udì domandare, mentre le sue mani vagavano nuovamente sul suo corpo, che ormai conosceva come una mappa, pronto a riappropriarsi della sua pelle e dei suoi sensi.

“No colonnello, certo che no…” concluse in un sospiro, lasciandosi spingere tra le lenzuola.

Ma era una bugia.

 

 

“Per me si va ne la città dolente, 
per me si va ne l’etterno dolore, 
per me si va tra la perduta gente.  

Dinanzi a me non fuor cose create 
se non etterne, e io etterno duro. 
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate"

-Canto III Inferno, Divina Commedia, Dante - 

 

Quando, spalancando la finestra, una mattina aveva sentito il profumo della primavera e il canto dei merli darle il buongiorno, aveva sentito il cuore stringersi di commozione.

La primavera aveva il potere, ogni anno, di farla tornare bambina.

Ma era bastato abbassare lo sguardo sullo spazio antistante all’entrata della taverna perché il suo umore precipitasse: con il disgelo, i pochi ufficiali rimasti ripartivano verso il fronte.

Tavington compreso.

Il ricordo della loro ultima notte assieme era un pensiero meraviglioso, ma che faceva perennemente a pugni con i sensi di colpa. In ogni caso, ogni notte si addormentava cullandosi con esso.

Invero, non sapeva più cosa le stava succedendo.

Da una parte l’immagine dei propri fratelli, spaesati e impauriti di fronte ad una casa in fiamme, si era impressa indelebile nella sua testa, ma ormai si presentava raramente a bussare ai suoi incubi.

Ad essa si era ormai contrapposta la presenza del colonnello: per quanto crudele, sadico; un mostro; un vizioso, un depravato; un senz’anima né cuore, la cui insensibilità era la concreta prova di quanto fosse…

Un vizio. Un piacere peccaminoso.

La sua assenza poteva essere paragonata all’astinenza di un accanito fumatore di oppio.

Non riusciva più a concepire la sua vita senza di lui, dopo la violenza con cui si erano a vicenda spinti l’uno tra le braccia dell’altra.

Forse era semplicemente pazza. Forse erano pazzi entrambi.

“Vedi di farti ammazzare, colonnello. Sarò la prima a distribuire rose e baci sulla tua tomba”

“E tu vedi di moderare i termini ragazzina, o potrei cambiare idea sul trattamento da riservarti al mio ritorno”

Sorrise tra se, ripensando alle loro ultime parole, all’ultimo gesto del colonnello: posare sul comodino il proprio orologio da taschino, che col suo ticchettio aveva scandito lo scorrere delle ore delle loro giornate assieme.

“Lo conosco fin troppo bene quel sorriso, so a chi stai pensando” cantilenò Kat, superandola sulle scale con un balzo. Avevano trascorso un’altra serata nella taverna deserta, ridendo tra loro come ai primi di dicembre.

Le aveva fatto piacere poter riallacciare i rapporti con le compagne, o perlomeno, non incrociare più i loro sguardi astiosi. Inizialmente diffidenti e sospettose di fronte al nuovo comportamento del colonnello, si erano infine abituate alla sua predilezione per Celeste e a quell’insospettabile dolcezza.

Katrina gioiva persino per la buona sorte dell'amica.

 “Ah si? E sentiamo a chi starei pensando?” ribatté Celeste, ridendo e stando al gioco dell’amica, la prediletta nella ristretta cerchia.

Kat l’attese in cima alle scale, un sorriso furbo sul volto che ricordò tanto a Celeste quello della piccola Sophie.

“Un certo colonnello suppongo … e chi lo sa, magari anche lui starà pensando a te!” concluse civettuola, infilandosi nella camera da letto, mandandole un bacio con la mano.

La verità è che, all’improvviso, vivere era tornato ad essere molto semplice.

Quasi “felice”.

Nei  suoi sogni, ricordi luminosi di giornate piene di sole e sorrisi familiari, all’improvviso era apparso anche la figura del colonnello.

Quando chiudeva gli occhi la sera, addormentarsi era un piacere.

Nienti più incubi.

Zoccoli di cavalli che battono violentemente sul terreno.

Rumori sordi.

Botte violente contro una porta, che si scardina con gran fragore.

Voci urlanti, risate sguaiate.

Grida da straziare l’anima.

Celeste si svegliò di soprassalto, boccheggiando.

Toccò le lenzuola affannosamente, come ad accertarsi di essere ancora viva e vegeta, al sicuro nella propria camera.

Solo un incubo, solo un ricordo di quella tremenda notte di pochi mesi prima.

Un ricordo ormai lontano. Andava tutto bene, si disse, cercando di rassicurasi.

Le urla di Lucy rimbombarono improvvisamente nel corridoio.

Celeste fissò orripilata la porta chiusa, mentre l’eco delle grida filtrava nella stanza, rimbalzando contro le pareti come una palla impazzita. Afferrò dal comodino l’orologio del colonnello: nella fredda luce lunare, vide che erano quasi le cinque del mattino. A breve sarebbe stato giorno.

Rimase indecisa sul da farsi solo per un istante, poi, con uno scatto di reni, si alzò e si lanciò contro l’uscio, spalancandolo e gettandosi nel corridoio.

Spalancò gli occhi, sconvolta, lasciandosi sfuggire un gemito d’orrore.

Nel corridoio, ancora illuminato dalle lampade ad olio, vi erano quattro uomini, energumeni malamente vestiti dai volti sconosciuti; tre di loro battevano rumorosamente alle porte delle altre, ridendo tra loro, ma il quarto era concentrato sulla figura di Caroline: addossata alla parete, la ragazza batteva debolmente i pugni contro la schiena dell’uomo, impegnato a strapparle con ingordigia gli abiti di dosso.

Celeste si pentì troppo tardi del proprio istinto, pensando che avrebbe fatto bene nascondendosi da qualche parte: come un sol uomo, tutti e quattro si voltarono a guardarla.

Prima che potesse anche solo afferrare la maniglia della porta, l’uomo più vicino si era gettato come una belva su di lei, arpionandola saldamente per i polsi.

“E tu carina? Dove pensi di andare?” lo udì biascicare, tentando di afferrarle il viso, inondandola con un alito dal putrido odore di tabacco e gin scadente.

Non perse tempo a urlare: non appena la mano si avvicinò alle sue labbra, la morse con rabbia, nella speranza di  poterla trapassareda parte a parte.

Avvertì in bocca il sapore ferruginoso del sangue, e un attimo dopo l’uomo mollò la presa con un gemito di dolore. Approfittando di quell’attimo, si lanciò in una corsa cieca lungo il corridoio, guidata unicamente dall’istinto di sopravvivenza.

Credette persino che la fortuna fosse veramente dalla sua parte, prima che una gomitata dritta nello stomaco la mandasse a cozzare contro il muro, facendola poi cadere a terra.

La fortuna non era dalla sua parte, non lo era mai stata.

Sentì una mano callosa afferrarle rudemente la caviglia nuda; voltando la testa scoprì solo un altro viso sconosciuto, ricoperto da una folta barba scura e ghignante al suo indirizzo.

Si aspettò di essere trascinata indietro, spogliata come una bambola, nuovamente sotto violenza; ma rimase ancor più sconcertata quando, crudelmente, l’uomo la spinse con decisione verso le scale.

Il suo corpo rotolò dolorosamente lungo l’intera rampa di gradini, picchiando polsi, schiena, ginocchia e infine la testa, dritta contro il muro di fondo.

I sensi per un attimo le si offuscarono, vide solo buio, e sentendosi sollevare per le braccia e trascinare altrove, non riuscì nemmeno a ribellarsi.

L’aria della notte fu uno schiaffo in pieno viso: aprì gli occhi colmi di sgomento, respirando a pieni polmoni per riacquistare i sensi, mentre alle sue spalle la seguivano le urla isteriche delle compagne e le accese protese di Madama.

Senza che gli uomini proferissero parola, a parte insulti o bestemmie, furono costrette a terra in ginocchio.

Cherry, il volto composto, le labbra ridotte in una piega disgustata.

Azula, gli occhi fissi a terra, probabilmente concentrata a trattenere un tremolio delle membra.

Katrina, il dolce viso contratto dalla paura, rannicchiata come se volesse scomparire.

Cynthia e Madama, gli occhi sgranati, evidentemente scioccate da comportamenti a cui non era mai stata avvezze.

E infine Caroline, disperata e piangente, intenta a reggersi la camicia da notte lacerata.

I quattro uomini camminarono davanti a loro a grandi passi, osservandoli spavaldi; sotto la luce della luna Celeste poté guardarli distintamente: la pelle cotta dal sole, i vestiti impolverati e sporchi, i volti ricoperti di barba scura e malfatta, come i capelli mal tenuti.
Avevano un aspetto selvatico e rude, e quando Celeste udì la voce di uno di loro, capì con un colpo al cuore che potevano essere tutto, fuorché inglesi.

“Ora non fate più tanto le sfrontate eh, puttanelle traditrici?” proferì uno di loro, quello che si era avventato per primo su Celeste, in un perfetto accento del South Carolina.

Con sgomento e paura, la giovane notò solo in quel momento che tutti e quattro avevano una rivoltella infilata nelle cinture.

“Scommetto che con i vostri amichetti inglesi non fate tanto le schizzinose, vero?” disse invece un altro, dall’aspetto leggermente più curato, la voce più calma.

Da come gli altri lo guardavano, Celeste intuì rappresentasse il capo.

“E tu, ragazzina, dovrei forse insegnarti un ruolo migliore per usare la bocca, invece di mordere il mio amico come una lurida cagna?” aggiunse, chinandosi sulla ragazza, gli occhi scuri ridotti a fessure.

Mentre Celeste distoglieva lo sguardo, Madama esplose nuovamente in proteste.

 “Noi non abbiamo fatto niente! Siamo americane!” urlò a gran voce.

Ricevette un immediato schiaffo che la gettò a terra, facendole battere la testa sulla strada polverosa.

“Non osare insozzare la nostra patria! Chiunque se la fa col nemico non merita la nostra clemenza” ripetè l’uomo, estraendo la pistola e puntandola su di loro.

“Ian sei troppo buono, queste puttane meritano molto peggio!” disse un altro uomo, arrancando verso di loro.

Il capitano, l’uomo chiamato Ian, si massaggiò il mento, chinandosi nuovamente e passando la canna della pistola lungo l’esile collo di Celeste.

La giovane chiuse gli occhi, terrorizzata, mentre tentava di aggrapparsi ad una serie di pensieri per non cedere definitivamente alla paura. Ma la sola ipotesi che quegli uomini fossero ribelli, quanto suo padre o suo fratello, la gettò definitivamente nel caos più totale.

“Innanzitutto, Elliot, io direi che ci possiamo rilassare con loro… sapete, abbiamo viaggiato molto. Se sarete brave, promettiamo di uccidervi senza torturarvi prima” concluse Ian, rialzandosi in piedi, acclamato dalle risate dei compagni.

“Aspettate! N-Non è colpa nostra se dobbiamo andarci! Loro ci pagano e basta! Noi andremmo anche con voi se..” iniziò confusamente Katrina, balbettando concitata, protendendosi verso uno di loro, nel tentativo di salvare tutte loro.

Vano, inutile tentativo.

Come a rallentatore, tutte osservarono orripilate la mano di quell’Ian alzarsi, il dito posarsi sul grilletto e premerlo con forza, ma non riuscirono nemmeno a proferire una parola.

Cosa avrebbero potuto fare per fermarlo, dopotutto?

Celeste ebbe la sensazione di cadere in una spirale di agghiacciante orrore; il battito del proprio cuore le rimbombò nelle orecchie, un attimo prima della detonazione.

Lo sparo risuonò nella strada, lacerando la notte.

Il corpo esamine di Katrina cadde a terra con un tonfo.

Vi fu solo un altro istante di silenzio, poi con un gemito sommesso Azula si gettò sul cadavere dell’amica, urlando e piangendo al contempo, portandosi le mani tra i capelli e strappandoseli.

Celeste rimase senza fiato: i suoi occhi oscillarono sulla figura della compagna, la prima con cui aveva stabilito un legame, una sorta di amicizia. I boccoli biondi immersi nel pulviscolo della strada, il viso irrealmente calmo, quasi sereno … pareva addormentata.

Ma lo squarcio all’altezza del cuore, una ferita stillante sangue copioso, che andava velocemente ad inzuppare la camicia da notte candida, era inequivocabile.

Esitante si chinò sul corpo, sfiorandole una mano, così pallida da parer luccicare sotto la luce della luna.

Fredda, completamente congelata.

Morta.  Inconcepibilmente morta.

Poteva essere solo un abominio. Era contro natura. Semplicemente, non poteva essere vero.

Le lacrime, così spesso pronte ad uscire in quegli ultimi tempi, parevano ora essersi congelate.

“Ti ho detto che puoi muoverti, puttana?!” urlò l’uomo, afferrandola violentemente per la spalla con così tanta forza da rischiare di fratturargliela. La sollevò, per poi rigettarla a terra con due schiaffi violenti.

La giovane urlò di dolore, portandosi la mano alle guancie in fiamme, il dolore che andava a formare un macigno sul cuore.

Un grido rabbioso di Cherry infranse l’atmosfera, e con la coda dell’occhio la vide alzarsi e gettarsi con tutta la sua forza contro un terzo uomo, colpendolo in viso. Inutilmente.

L’uomo la colpì crudelmente alla nuca con il calcio della pistola; il colpo risuonò stranamente ovattato, e Celeste temette il peggio, ma non potè in ogni caso accertarsene.

Prima ancora che potesse realizzare quanto stava accadendo, Ian, riprendendo possesso della sua spalla, la trascinò verso il retro della taverna, spingendola contro al muro e schiacciandola con tutto il suo peso.

Le afferrò la camicia da notte, afferrandole un lembo per strapparla, e lei  captò lo sguardo: era identico a quello di uno sciacallo affamato, pronto a scarnificare la preda.

Rimembrò per un istante la violenza cui era stata sottoposta dal colonnello: il suo sguardo gelido e bramoso non era mai stato un ricordo tanto dolce.

Il corpo della giovane mutò in quello di una pazza: le sue mani smaniose iniziarono a colpire l’uomo dove capitava, i piedi scalciarono frenetici per liberarsi da quell’opprimente presa, sfogando la rabbia e il dolore nelle urla.

L’uomo infastidito tentò di tenerla ferma bloccandole le braccia, ma infine esasperato estrasse la rivoltella, puntandogliela sulla fronte.

Come un tempo aveva fatto anche Tavington. Che, intuì con un groppo in gola, non avrebbe mai più potuto vedere.

Il solo pensiero rischiò di farle perdere anche l’ultimo barlume di autocontrollo rimastole.

Tentò di fermare l’uomo.

“Sono la figlia di Allworthy! Conrad Allworthy!!”  biascicò, tentando di calmarsi,

Le parve di sentire in lontananza il nitrito di un cavallo, facendo accendere in lei una flebile speranza.

L’uomo parve non farci caso.

“Allworthy? Andrew Allworthy?” chiese, interessato.

“Si si è mio fratello!” si affrettò a rispondere, incredula.

Un ghigno sadico gli illuminò il volto.

“Quel figlio di troia mi deve fin troppi soldi, da troppo tempo. E la mia pazienza ha un limite.”

Udì ancora dei rumori estranei, altre persone forse, ma non aveva più importanza: Ian non pareva darci troppa importanza, tutto concentrato su di lei.

La guardava con uno sguardo nuovo, ogni desiderio scomparso.

Uno sguardo di pura crudeltà.

“Pareggerò da me i conti: sarà un piacere uccidere la sua sorellina. Peccato tesoro, eri davvero graziosa” disse alzando nuovamente la rivoltella, puntandogliela in mezzo agli occhi.

“No, mio fratello non lo farebbe mai, si sta sbagliando!” urlò Celeste, portandosi istintivamente le mani di fronte al viso.

“Ciao ciao, zuccherino”

Il suo sorriso crudele fu l’ultima cosa che vide prima di serrare gli occhi, e il suo ultimo disperato pensiero fu per il colonnello.

Lo sparò risuonò con violenza.

Il suo voltò fu cosparso di una miriade di gocce di sangue. Le orecchie cominciarono a fischiarle fastidiosamente.

Aprì gli occhi. Il sangue non era suo.

Era viva, paralizzata contro il muro. Ma viva.

Davanti a lei il cadavere di Ian crollò a terra con un rantolo.

Celeste guardò il colonnello, la pistola in mano ancora fumante. Non riusciva a proferire parola.

Le sue lacrime si sciolsero come ghiaccio al sole, e le braccia dell’uomo tornarono ad essere il suo rifugio.

 

 

“Roxanne!

You don't have to wear that dress tonight.
Roxanne!

You don't have to sell your body to the night.

 

Roxanne! 
Tu non devi indossare quel vestito stanotte.
Roxanne! 
Tu non devi vendere il tuo corpo alla notte.”

-El Tango de Roxanne, Moulin Rouge-
 

 

“Prendete le altre e portale al forte, fatele stare con le altre puttane. Di spazio dovremmo averne” ordinò il maggiore Bordon agli altri soldati, insolitamente serio.

Poi si voltò, le mani intrecciate dietro la schiena, rivolgendosi ansioso al colonnello.

“Mio signore, abbiamo fatto quanto ordinato. Abbiamo ucciso i ribelli e seppellito la ragazza”

Tavington annuì appena, tanto che il maggiore dubitò per un attimo che avesse sentito.

“Perfetto, Bordon. Tornate pure al forte, io vi raggiungerò a breve” ordinò però seccamente.

Il sottoposto ne fu però sollevato, sentendosi a disagio di fronte alla freddezza dell’uomo, ancor più glaciale del solito.

“Sì signore, ai suoi ordini signore!” concluse, battendo sui tacchi, e dirigendosi quasi di corsa ai cavalli.

Il colonnello Tavington congedò i suoi sottoposti con un gesto frettoloso della mano, senza neppure guardarli mentre, uno dopo l’altro, raccoglievano sui propri cavalli le prostitute piangenti, che si guardavano attorno come spaesate, stringendosi l’una all’altra.

Celeste non si mosse per salutarle. Non si avvicinò nemmeno a loro.

Accoccolata in un angolo, le ginocchia strette al petto e coperta con la giubba del colonnello contro il freddo pungente, fissava il tumulo di terra sotto cui giaceva il cadavere di Katrina.  Aveva osservato gli uomini scavare la fossa, e non era riuscita ad alzarsi nemmeno per dire qualche parola di estremo congedo.

Forse perché parole da dire non vi erano: le sue lacrime esprimevano tutto ciò che provava, e aveva provato per l’amica, la più cara in quella vita d’inferno.

Era stato il colonnello a dare gli ordini, interrogando prima i ribelli, ma il suo sguardo era sempre stato attento alla figuretta della ragazza, accantonata in un angolo, come se volesse scomparire nell’oscurità.

L’uomo si avvicinò, una leggera pelle d’oca sotto la camicia candida, e si chinò accanto a lei, puntellandosi sulle ginocchia.

“E' una fortuna che la nostra spia ci abbia riferito dello spostamento di quel manipolo di uomini... Come ti senti?” le chiese, apprensivo, sfiorandole una guancia.

Celeste gettò all’indietro la testa, traendo un respiro profondo per calmarsi e tentare di dare un freno alle lacrime.

“Male” rispose, la voce strozzata.

Tavington le prese il viso per un attimo, riscaldandolo tra le proprie mani.

“Mi dispiace per Katrina” disse, indeciso su cosa dire esattamente, sentendosi estraneo al dolore della ragazza.

Ella si asciugò le lacrime con il dorso della mano, guardandolo poi con uno sguardo disarmante.

“Non è solo per Kat … Ma per gli uomini. Erano i ribelli che tanto ho difeso e in cui ho sperato, americani quanto me, e i miei fratelli, e mio padre e…” si fermò, la voce rotta nuovamente dal pianto.

“Sono morti Celeste, li abbiamo uccisi subito … stavano cercando solo qualcuno su cui sfogare la propria inutile rabbia” spiegò con disprezzo.

“Ma ciò non cambia cosa hanno fatto! Io credevo che … che solo voi inglesi faceste cose del genere, che noi fossimo nel giusto! Io non avrei mai immaginato che persone come mio padre, o mio fratello… fossero così” ribattè, con evidente fatica, passandosi le mani tra i capelli annodati.

Poi rivolse nuovamente lo sguardo all’uomo, che la fissava pronto a qualsiasi reazione.

“Che ne sarà delle altre?” domandò, cercando di rimettersi in piedi.

“Le ho fatte portare al forte, ci sono altre prostitute con cui potranno stare” rispose aiutandola a sollevarsi.

“Staranno bene?”

“Ma certo, come qua …  più o meno”

Celeste non si fidò molto di quella risposta approssimativa, ma non aveva più voglia di indagare, accollandosi altri pensieri.

All’improvviso si era profilata una questione più importante dove andare.

 “E io dove andrò?” domandò, dubbiosa.

Tavington le prese le mani, stringendole tra le sue, come se dovesse annunciarle qualcosa di molto importante. Per un folle momento pensò persino che si sarebbe inginocchiato e le avrebbe chiesto di sposarlo.

Un folle, meraviglioso momento.

“Ho pensato che potresti stabilirti all’accampamento, seguirmi negli spostamenti, e…” iniziò, sorridendo lievemente.

“E aspettarti nella tenda durante le battaglie, pronta a mettermi nel tuo letto quando torni?” domandò duramente la ragazza, facendolo arrestare sorpreso.

“Qual è il problema? Saresti al sicuro, potrei sorvegliarti”

“Come un cane? Cosa dovrei essere, la tua puttana, una tua proprietà?” ribatté, senza nemmeno accorgersi di aver, per la prima volta, datogli del “tu”.

Tavington tentò di dire qualcosa, ma lei lo interruppe con un gesto brusco, infervorata.

“Forse non ti ricordi che vita conducevo prima, quella che tu mi hai strappato! Tu mi hai strappato l’esistenza, mi hai trascinato fino a qua per servirti come una schiava, per scaldare il tuo letto ed esaudire i tuoi desideri depravati! E ora che sembrava andare tutto bene, e dopo una notte così, tu mi proponi… questo” urlò, per poi lasciare che la voce si spegnesse lentamente, sentendosi improvvisamente stanca.

Scacciò le lacrime dalle guancie con una manata, come una bambina, aspettandosi come minimo un aspro commento. E rimanendo nuovamente stupita.

La realtà messa in evidenza aveva avuto il potere di stordire l’uomo, che come unica reazione l’afferrò per la vita, stringendola a se.

“Io non voglio che ti capiti niente” sussurrò nei suoi capelli, aspirandone il profumo ancora intatto.

Celeste appoggiò la testa contro il suo petto.

“E io non voglio essere la tua mantenuta” sussurrò.

L’uomo trasse un respiro profondo, preparandosi a ciò che non avrebbe mai desiderato di fare.

La strinse fermamente a se, con un’intensità tale che sentì le proprie membra tremare.

Forse era l’ultima volta che avrebbe potuto fare una cosa del genere.

Alle loro spalle, il nuovo sole fece capolino da una nube, illuminando quella terra desolata, macchiata di sangue innocente, con il primo raggio dorato.

“Allora ti riporto a casa, Celeste” scandì lentamente il colonnello.

 

 

Elle's Space - 

Taratatata... *fanfara d'arrivo*

Ok, è un ritardo pauroso, peggiore del solito, di dimensioni cosmiche, ma... se è per la scuola, sono perdonata, giusto?

Chiedo pardon, ma davvero questo capitolo ha richiesto uno sforzo maggiore del solito, e non ne sono pienamente soddisfatta (sarà per mancanza di scene di sesso? Non mi pongo la domanda, per un altro capitolo sarà così ancora, purtroppo D: Ragioni di copione!)

Beh, che dire di questo? Il mio colonnello preferito dimostra di possedere un cuore! E' sotto ogni punto di vista, un figo. E Celeste, come si intuisce, sta già andando incontro ad un innamoramento perso (eh beh, chiamala scema!)

x ragazzapsicolabile91: "Un usignolo tra i corvi", mi piace *-* Spero questo capitolo non ti abbia deluso... Ok, il colonnello è un bastardo (e sempre lo sarà, oh si!), ma come appunto hai detto, di fronte ad una ragazza come Celeste inizia a moderare il comportamento (è un figo lo stesso v.v)

x RoxHanne: Ma guarda chi c'è! Eccoti il quarto capitolo mia cara, grazie per i complimenti, ma davvero: troppo gentile! (domani ti sbraccio per bene, bella Rosita!)

x queenofoto: grazie mille per i complimenti (dove c'è Jason, c'è casa!) *w* Spero che essendomi discostata leggermente dalla figura bastarda e maniacale del colonnello, non ti abbia creato traumi e incazzature. In tal caso, chiedo umilmente perdono. Puoi linciarmi, se ti aggrada *si prepara già a scappare*

x herAmnesia: lietissima che ti piacciano tutti e tre i capitoli *-* Spero che anche questo non ti deluda, pur trovandolo a momenti un po'... abbozzato!

Eventuali critiche sono ben accette e grazie a chiunque legga la storia, e i soliti BlaBlaBla.

Au Revoir :3

Elle H.

   
 
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