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Autore: Criros    20/02/2011    2 recensioni
Rebecca ha un sogno: diventare una grande regista. Per questo non riesce a cederci quando scopre di essere stata accettata per un famoso corso estivo di regia a Los Angeles. C'è però un problema: come troverà i soldi per il viaggio? L'unica possibilità è quella di lavorare all'Insomnia, il pub della zona da lei odiato. Riuscirà a mettere da parte i pregiudizi e ad integrarsi? E soprattutto: riuscirà a non scannarsi ogni volta con Nicholas, il barman del locale?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO I : Via Col Vento

“Aspetta, Rhett... Rhett... Se te ne vai, che sarà di me, che farò?”
“Francamente me ne infischio”

“Ohh” fu l’unico verso che riuscii ad emettere, un gemito spezzato che si accompagnava bene ai miei poveri occhi lucidi ed alla montagna di fazzolettini accartocciati e sparsi senza logica sopra le lenzuola spiegazzate.
Non c’era modo migliore di passare un sabato pomeriggio: io, una tazza fumante di the al ribes nero e vaniglia, il lettone a due piazze di camera mia e, ovviamente, Via col Vento.
Da buona cinefila cresciuta a pane e Cary Grant, il classico del 1939 non poteva che essere il mio film preferito in assoluto.
E questo non solo per la grandissima Vivien Leigh che fin da piccola avevo idolatrato come la dea suprema del cinema, né per tutti quegli abiti magnifici che i protagonisti avevano indosso o per la magistrale interpretazione di Clark Gable.
No.
Via col vento era e sarebbe sempre stato il mio film preferito per via della sua protagonista, Rossella, e dei drammi che lungo la sua vita dovette affrontare, drammi ai quali era legata un’unica costante: l’amore non ricambiato per Ashley, sentimento che si mantiene sempre vivo negli anni e che sfuma irrimediabilmente troppo tardi. Rossella era l’incarnazione di quel tipo di donne amanti delle illusioni, di coloro che credono nell’amore idealizzato e che per questo non si rendono conto dei sentimenti veri, concreti, che altri possono provare per loro, accecate come sono da desideri irrealizzabili.
Rossella O’Hara era stato l’unico personaggio che avevo subito amato ed odiato insieme. Così frivola, innamorata, superba e al tempo stesso così fragile, disperata e coraggiosa.
La prima volta che vidi Via col Vento avevo dieci anni. Era estate e in televisione lo davano tutto intero. Di solito, essendo io estremamente pigra, mi addormentavo sempre durante il primo tempo, ma quella volta non riuscii a staccare gli occhi dal televisore neanche durante gli intermezzi pubblicitari. E dire che durò più di quattro ore!
Io, decenne che non sapeva nulla dell’amore, trovai quella storia così veritiera e così ingiusta, che non potei far altro che incazzarmi di brutto alla fine del film.
Mi ricordo ancora oggi che mia nonna alla fine mi chiese se mi fosse piaciuto e io le avevo risposto abbastanza risentita: “ma Rossella è stupida, perché andava dietro ad un uomo con un nome da donna quando aveva un marito che l’amava?”
E mia nonna aveva risposto con una sacrosanta verità: “Perché, mia cara Becky, le donne sono delle eterne sognatrici. Se pensano di amare un uomo, lo ameranno per tutta la vita e nella loro mente lo dipingeranno come un marito perfetto, anche se in realtà quest’ultimo dovesse essere solo un ragazzo come un altro nient’affatto interessato a lei.”
Io l’avevo guardata come se fosse pazza e avevo sbuffato sonoramente.
Avevo pensato che Rossella fosse una grande deficiente e che alla fine Rhett avesse fatto bene a lasciarla.
Tutte le mie convinzioni erano però cambiate quando vidi il film la seconda volta.
Avevo tredici anni ed ero alle prese con la prima vera cotta per un mio compagno di classe, tale Stefano Borghi che tutte le mie amiche consideravano un figo assurdo e io, ovviamente, non potevo che concordare.
Gli ero corsa dietro in silenzio per mesi, senza mai riuscire a chiedergli di uscire, troppo impaurita di ricevere un rifiuto. E, per tutto quel tempo, non mi ero minimamente resa conto delle attenzioni che un altro mio compagno di classe, Massimo, aveva cominciato ad avere per me.
Lo giuro, in quegli anni ero stata talmente impegnata a farmi film mentali sul mio futuro matrimonio con Stefano, che non mi accorsi mai di nulla. Solo molto tempo dopo, quando Stefano era ormai solo un ricordo lontano e io e Max eravamo diventati migliori amici, quest’ultimo mi confessò della sua cotta infantile per me e quasi non mi venne un infarto.
Ero diventata anch’io come Rossella: troppo intenta a idealizzare la mia cotta per Stefano da non riuscire nemmeno a considerare il mio migliore amico.
Almeno il finale della mia storia non era così infelice, visto che io e Max abbiamo capito fin da subito che non avremmo mai potuto essere nient’altro che amici.
Inutile dire che rivalutai completamente il mio giudizio su quella povera ragazza, etichettandola come ‘romantica idealista’ e provando un po’ di pena per lei.
Gli anni sono passati, ma sono sempre rimasta legata a Rossella O’Hara e ogni volta che mi sento triste, delusa o amareggiata, mi chiudo in camera mia e mi riguardo Via col Vento, sola con i miei fazzoletti e le tapparelle abbassate, incurante della vita che va avanti fuori dalla mia finestra.
Ogni volta che lo rivedo mi comunica qualcosa di diverso, noto particolari o sfaccettature prima nascosti, ma se c’è una cosa che non cambia mai è il mio impossibile desiderio di poter cambiare il finale.
Se Rossella si fosse accorta anche solo un minuto prima di quanto irreale fosse stato il suo amore per Ashley e quanto vero, sebbene certamente più complicato, quello per Rhett, sono sicura che sarebbero restati insieme e che miliardi di fazzoletti sarebbero ancora impacchettati sugli scaffali di qualche negozio.
Purtroppo però nella vita non capitano solo storie a lieto fine.
Ma di una cosa sono rimasta convita in tutti questi anni: se mai troverò il mio Rhett, sarò più sveglia di Rossella e non me lo farò scappare.

Il bussare insistente alla porta di camera mia mi svegliò di soprassalto.
Lo schermo era fisso da tempo sul menù di Via col Vento e dalle casse, a volume minimo, si poteva sentire la bellissima colonna sonora composta da Max Steiner.
“Cazzo Rebecca, ti decidi a rispondere?”
La solita finezza espressiva di mio fratello mi fece storcere il naso.
D’accordo, anch’io ero una ragazza piuttosto scurrile, ma lui proprio non riusciva a dire una frase senza inserirci dentro una parolaccia!
“Gnomo, io rispondo quando cazzo mi pare!” risposi allora io con lo stesso tono esasperato.
“Bene, allora dirò a Jessica che ti stai schiacciando i tuoi numerosissimi punti neri e che farà meglio a richiamarti fra un secolo, quando avrai finito!”
Alzai gli occhi al cielo cercando di non mandarlo a quel paese e raggiunsi velocemente la porta che separava il mio regno fatto di pace e cinema dalla realtà nella quale il mio fratello cerebroleso era, ahimè, una presenza costante.
Dietro di essa, tutto impettito come una guardia svizzera, stava quello sfigatissimo sedicenne con il quale condividevo il DNA.
In mano aveva il cordless nero e me lo stava sventolando davanti con aria annoiata.
“Non sono il tuo segretario, la prossima volta alza quel culo cellulitico e vieni a rispondere tu”
Ma razza di stronzo!
“Senti, Frodo, sei alto un metro e un barattolo e potrei schiacciarti come un moscerino, quindi ti conviene stare zitto e passarmi il telefono”
In realtà era alto solo qualche centimetro in meno del mio metro e settanta e di sicuro aveva molta più massa muscolare della mia, ma se la prendeva sempre parecchio quando qualcuno gli diceva che era basso e ovviamente, da brava sorella maggiore, negli anni avevo collezionato battute memorabili su quel tasto dolente.
“Stronza”
“Microbo”
Gli strappai il telefono di mano senza tanti complimenti e gli sbattei la porta in faccia.
E dire che agli occhi di tutti sembrava proprio un angioletto, con quei capelli biondo scuro e quegli occhi verde bottiglia che madre natura gli aveva generosamente dato. In realtà era solo un insospettabile ruffiano leccaculo e l’unica che pareva essersene accorta ero io!
“Ahah, tuo fratello è uno spasso!”
E la mia migliore amica Jessica, ovviamente.
“Un giorno o l’altro lo affogo” dissi a denti stretti, ributtandomi a pesce sul letto.
“Mi pare difficile, tesoro. Siamo in Lombardia.”
“Anche il Lambro va bene!”
“Se vuoi farlo resuscitare con tre teste allora credo che, sì, possa andare”
Sbuffai ancora inferocita.
Non era possibile che quell’Hobbit stesse fuori tutto il giorno a cazzeggiare con quegli sfigati tamarri che lui chiamava ‘amici’ e poi riuscisse comunque a prendere buoni voti a scuola e a rendere fieri i miei genitori! Era decisamente assurdo e ingiusto!
“Sei dei nostri stasera?” mi chiese Jes con il classico tono annoiato. Raramente qualcosa la entusiasmava.
Ci pensai un attimo su. Per ‘nostri’ ovviamente intendeva lei e Massimo e ‘stasera’ non poteva significare altro che ‘birra alle nove e mezza da Guns and Rock’, il locale che da due anni era la nostra meta fissa.
“Si può fare” dissi accondiscendente, benché in realtà non avessi molta voglia di uscire. Erano gli ultimi giorni prima dell’inizio del temutissimo primo semestre e volevo arrivare estremamente riposata al primo giorno di lezione. (l’ho già detto che sono pigra, vero?)
“Sai, domani vado a farmi il nuovo tatuaggio” esordì poi la mia bionda amica con una strana nota contenta nella voce. Mi correggo, non era contenta ma sadica.
Jessica Sandrini avrebbe potuto benissimo ottenere il ruolo dell’adolescente difficile in ogni scadente teen drama americano.
Aveva tutto per essere contenta: due genitori che l’amavano (sebbene, lo ammetto, a volte un po’ troppo severi e iperprotettivi), un aspetto mozzafiato, un’intelligenza nella norma, uno spiccato talento per l’arte, flotte di ammiratori da tutte le parti.
Eppure, fin dal primo momento in cui la conobbi in prima liceo, si era sempre ostinata a fare la parte della teenager allo sbando, la ragazzina incompresa da tutti con dei genitori asfissianti che non la accettano e che quindi riversa tutto il suo rancore nell’autolesionismo.
Come non ricordare di quella volta in cui fu sospesa per una settimana dopo che la beccarono a fare sesso nei bagni della scuola? E di quella volta in cui non pronunciò nemmeno una parola per una settimana? E di quando la sorpresi con una scorta di pillole illegali in camera da letto? E dei mesi passati alla fame forzata? Per non parlare di quando fu portata al pronto soccorso perché era svenuta a una festa dopo aver bevuto decisamente troppo.
Insomma, Jex provava con tutte le sue forze ad essere una ragazza difficile. Ma, per come la vedevo io, i suoi dovevano essere proprio dei santi a non averla rinchiusa già da tempo in qualche centro di salute mentale.
Ed ora l’ultima follia di Jex erano diventati i tatuaggi e i piercing: in neanche un anno si era fatta incidere un grande tribale sulla scapola destra, una frase in cirillico alla base della schiena (sottolineo che nessuna delle due conosce nemmeno l’alfabeto cirillico, figurarsi sapere cosa diavolo c’è scritto!), un sole stilizzato sulla caviglia e un cavalluccio marino di fianco all’ombelico!
“Jex, non ti sembra di esagerare?” provai a dirle, sapendo già di combattere una battaglia persa in partenza.
“Ti pare? È solo l’inizio! A proposito: tu hai scelto cosa fare?”
Alzai gli occhi al cielo, cercando di non sbuffare.
Tempo prima avevo promesso alla mia amica che avrei fatto anch’io un tatuaggio, ma ancora non avevo trovato il soggetto adatto e non ero il tipo che si faceva incidere cose a caso sul corpo solo per accontentare un’amica incontentabile.
“Non ancora” dissi atona.
“Bene, ma almeno cerca di esserci stasera. Mi sono procurata delle canne” mi rispose lei e sapevo per certo che aveva stampato in viso quel ghigno luciferino che aveva sempre prima di fare una boiata.
“Jex, lo sai che non mi va”
Mi sdraiai a pancia all’aria sul comodo materasso. Com’era possibile che Jessica rimanesse sempre uguale a sé stessa? Non aveva mai un minimo di cambiamento, un’evoluzione, una nuova idea (tranne ovviamente quelle autolesioniste).
“Oh andiamo, sappiamo entrambe che l’estate scorsa abbiamo fatto cose ben peggiori insieme!”
“Hai detto bene, l’estate scorsa.”risposi a denti stretti. Possibile che mi rinfacciasse sempre quell’estate allo sbando?
“Oh scusa, suor Rebecca! Non mi ricordavo di quanto fossi diventata noiosa” mi disse sarcasticamente.
“Jex, non seguire le tue stronzate non significa essere noiosi”
La discussione stava prendendo una brutta piega, ce ne eravamo rese conto entrambe; così la mia migliore amica fece ciò che più le riusciva meglio: fare finta di nulla e cambiare argomento prima di una delle nostre solite litigate epiche nelle quali lei diventava la povera vittima e io ottenevo il ruolo della frustrata bacchettona.
“Come vuoi. Vado a piastrarmi i capelli, mettiti il top nero che ti ho regalato, ti fa due tette da urlo! Ah e già che ci sei passa a prendermi, mi sono ricordata che non ho la macchina! Avverto io Max” mi disse fintamente contenta lei, prima di riattaccarmi il telefono in faccia.
Alzai gli occhi al cielo, cercando di trattenere una serie infinita di insulti.
Dio, prima o poi avrei smesso di preoccuparmi per lei e l’avrei tagliata fuori dalla mia vita.
Io e Jessica eravamo sempre in disaccordo su tutto, ma ultimamente stavamo veramente ai ferri corti.
Il fatto, però, era che non riuscivo proprio a staccarmi da lei.
Negli anni del mio snobbissimo liceo artistico, lei era sempre stata l’unica persona interessante, particolare e fuori dagli schemi che avevo incontrato. Io, una ragazza piuttosto peculiare che non aveva mai amato i gruppetti e le etichette, mi ero trovata particolarmente bene con Jessica, la persona più pazza che avevo mai conosciuto.
All’inizio, dopo due mesi di assoluto isolamento da quelle oche giulive che erano le mie compagne di classe, mi ero ritrovata ad essere la vicina di banco di Jessica più per convenienza che altro. Anche lei, come me, se ne stava sempre in disparte e non amava perdersi in chiacchiere, sebbene a differenza mia lei fosse in tutto e per tutto una ragazza stupenda, una di quelle che i ragazzi fanno la fila solo per salutare.
Dopo qualche tempo, però, avevo convenuto che la bionda fosse l’unica persona in grado di capirmi, la sola ragazza in tutta la classe che non si metteva a strillare per un’unghia spezzata, la sola che preferiva i Pearl Jam a David Guetta, l’unica con qui potevo discorrere di concetti un po’ più profondi di ragazzi fighi e collezioni invernali di Marc Jacobs.
All’inizio non era neanche così fuori di testa. Certo, amava far incazzare i suoi per ogni piccola cosa, si tingeva i bellissimi capelli biondi di nero e viola, diceva di essere satanista e amava disegnare figure impiccate.
Però era stato un periodo della sua vita come un altro. Andiamo, chi non ha mai fatto esperienze goth al giorno d’oggi?
Il problema era che negli ultimi mesi questa sua disperata ricerca di problemi era diventata una vera e propria fissazione, l’unico vero obbiettivo della sua vita e gli esiti spesso risultavano decisamente troppo eccessivi.
Il solito insistente bussare mi riscosse improvvisamente dai miei pensieri.
“CHE VUOI ANCORA?” mi misi a urlare esasperata. Jessica mi stava veramente prosciugando!
“Mi serve il telefono, vecchia!”
Aprii la porta di scatto e davanti a me trovai la solita bassa figura del sedicenne rompiscatole, questa volta però vestito di tutto punto.
“Dove vai conciato così?” chiesi cercando di non ridergli in faccia e dando uno sguardo veloce all’orologio. Era quasi ora di cena e neanche me n’ero resa conto.
“Al diciottesimo di Simo; il riccone ha prenotato la sala all’Insomnia” mi rispose lui senza il minimo entusiasmo. Simone era il ragazzo più truzzo che avessi mai incontrato e il fatto che avesse quasi la mia età mi faceva sempre rabbrividire.
Storsi il naso. L’Insomnia era il classico locale per fighetti del paese, un discopub con una sala privata che solitamente veniva prenotata per feste ed eventi speciali. In tutti i miei diciannove anni di vita non ci avevo mai messo piede e ne andavo estremamente fiera. La clientela era quanto di più odioso si potesse immaginare, ricchi figli di papà con la puzza sotto il naso che ci provavano tutto il tempo con le povere cameriere e che sniffavano coca da mattina a sera. Indecenti.
“Bene, mi sembra inutile dirti che io non ti ci accompagno” dissi senza il minimo interessamento. I miei lavoravano per una grande azienda farmaceutica ed erano andati a Berlino dove era in corso una grossa acquisizione, per cui non sarebbero tornati prima della settimana successiva.
Il nano mi guardò in tralice.
“Lo so che sei stronza, mi serve il telefono per chiedere a Paolo un passaggio”
Guardai mio fratello attentamente e giunsi alla conclusione che eravamo davvero incompatibili. E dire che quando eravamo piccoli ci volevamo così bene!
“Dai, non fare l’idiota. Ti porto io. A che ora?” dissi, in un insolito slancio di gentilezza.
Lui mi scrutò per qualche secondo, come se volesse capire se fosse una trappola o meno.
“Nove e mezza. Non mi prendi per il culo, vero?”
“No. Ma prima passiamo a prendere Max e Jex” dissi sbuffando, chiudendogli di nuovo la porta in faccia.
Avevo ancora un’oretta per prepararmi.
Spalancai il mio armadio, afferrai l’indumento che Jex mi aveva quasi obbligato a mettere e lo guardai con aria critica, prima di sospirare: “top nero sia!”


Un’ora dopo uscii dal bagno di camera mia e osservai attentamente il risultato nello specchio a figura intera di fianco alla porta: non ero poi così malaccio.
Certo, non avrei mai potuto competere con la bellezza stratosferica di Jessica, ma almeno sembravo meno bambina del solito.
Ero piuttosto bassa e magrolina, quindi era molto comune scambiarmi ancora per una quindicenne acqua e sapone. Molto spesso, quando incontravamo dei conoscenti dei miei fuori a cena, venivo puntualmente scambiata per la sorella minore e non avete idea di quanto tutto questo mi abbia sempre fatto arrabbiare!
Quella sera però, forse per il top nero che riusciva a valorizzare le mie – poche – curve o forse per le decolté in vernice che aggiungevano una decina di centimetri alla mia altezza, apparivo in tutto e per tutto quale la classica diciannovenne che ero. Mi sistemai i capelli castano chiaro in una coda alta e mi passai un filo di mascara sulle ciglia già lunghe. Certo, mio fratello aveva ereditato gli occhi di quel verde intenso che adoravano tutti mentre a me erano toccate le classiche iridi nocciola, ma perlomeno le mie ciglia erano lunghe anche al naturale!
Presi al volo la borsa nera lucida e afferrai le chiavi della mini blu dal piattino sistemato al centro del tavolo in cucina.
Mio fratello stava ancora facendo zapping spaparanzato sul divano.
“C’è della posta per te” mi annunciò annoiato, mentre spegneva la tv e si lisciava la camicia bianca.
Alzai un sopracciglio interrogativa.
Sarà il libro che ho ordinato.
Ma appena raggiunsi il tavolino di fianco all’ingresso notai che vi era solo una piccola busta con su scritto il mio nome.
In preda alla curiosità l’aprii in mezzo secondo e cacciai un urlo eccitato.
“OMMIODDIO NON CI POSSO CREDERE!”
Cominciai a saltellare in giro per casa, ma la smisi subito quando in un eccesso di felicità quasi non mi slogai la caviglia atterrando malamente su quei trampoli che avevo al posto delle scarpe.
“Che diavolo hai? Finalmente la razza aliena che ti ha concepito è tornata a prenderti?”
Ero così contenta che il sarcasmo di mio fratello non mi toccò minimante.
“Lo sai che ho fatto domanda per il corso di regia a Los Angeles per l’estate prossima?” chiesi retoricamente, non smettendo per un attimo di urlare.
“Come potrei dimenticare, dopo tutti quei giorni passati a filmare il tuo stupido documentario in giro per casa” mi rispose lui, per nulla contagiato dalla mia euforia.
“Beh, la novella Hitchcock qui presente è stata accettata!”
“Itci che?” mi domandò quell’ignorantello.
“Hitchcock!! Il regista di Psycho, Vertigo e un milione di altri film! Ma dove vivi?”
Non ci potevo davvero credere! Io, la ragazza cinefila con il sogno di diventare regista, ero stata presa ad uno dei corsi di regia cinematografica più famosi al mondo!
Avevo letto l’annuncio qualche mese prima su un giornale di cinema a cui mi ero abbonata. Da sempre avevo sognato di partecipare a un corso estivo di regia e il fatto che quello si tenesse a Los Angeles non aveva fatto altro che acuire ancora di più la mia curiosità.
Bisognava solo inviare il modulo di iscrizione con tutti i dati personali necessari e un documentario amatoriale riguardante una settimana tipica dell’interessato. I posti per gli studenti stranieri erano solo quindici e sapevo di per certo che  non sarei mai stata accettata.
E invece ecco la lettera di conferma!
La mia gioia si tramutò ben presto in panico quando vidi una nota di vitale importanza in fondo al biglietto: Si ricorda che l’istituto pagherà solamente le lezioni, tutte le altre spese saranno a carico dell’interessato.
Oh merda!
E dove li trovavo io tutti quei soldi?
I miei avevano mi avevano già pagato la macchina e la retta dell’università, di sicuro non avrebbero sborsato altri soldi per me, non dopo che mio fratello aveva ottenuto il permesso di fare un viaggio con i suoi amici in Spagna!
Il campanello di casa si mise a suonare interrompendo i miei ragionamenti e la mia ansia.
Becky, calma. Ci penserai dopo, mi dissi e riposi il volantino nella mia borsa.
Cinque secondi più tardi eravamo seduti in macchina: Io, mio fratello e il motivo per il quale in tutti quegli anni non avevo ancora strozzato Jessica, ovvero il mio migliore amico Max.
Il moro era il ragazzo più amabile che avessi mai avuto la fortuna di conoscere. Era intelligente, sarcastico, sempre sorridente e, cosa incredibile, riusciva a calmare quella bionda isterica della mia amica.
Eravamo vicini di casa dalla nascita, ma non l’avevo mai calcolato fino alle medie, quando eravamo finiti in classe insieme ed eravamo diventati subito inseparabili.
Ci eravamo separati un po’ il primo anno di liceo, quando lui aveva deciso di fare il classico mentre io avevo decisamente optato per l’artistico, ma eravamo comunque rimasti uniti negli anni e, forse anche per il fatto che i nostri istituti fossero gemellati, ci eravamo ritrovati spesso agli stessi eventi.
Era sempre attorniato da una miriade di ragazze e, per questo, molti idioti invidiosi avevano messo in giro la voce che fosse gay.
La cosa strabiliante era stata che Massimo non aveva mai negato quel pettegolezzo, dicendo che la sua sessualità era solamente affar suo. Questo, unito al fatto che mai in cinque anni aveva avuto una ragazza fissa e che si vestisse sempre in modo impeccabile, aveva fatto sì che ormai tutti lo considerassero omosessuale al cento per cento.
Dal canto mio, quelle voci non mi erano mai interessate. Etero, gay, puffo, unicorno, per me sarebbe rimasto sempre Max, il vicino di casa che mi aveva tenuto delicatamente la testa mentre vomitavo l’anima dopo la mia prima sbronza, il ragazzo con un raffinatissimo gusto musicale che mi ha introdotto ai Doors, Dire Straits, Pixies e David Bowie, il ragazzo che aveva avuto una breve cotta per me. Insomma, il mio migliore amico.
E, se proprio vogliamo dirla tutta fino in fondo, il modo in cui il suddetto migliore amico aveva sbavato guardando la quarta di reggiseno di quella troietta di Valeria all’ultima festa post-maturità faceva presumere che fosse tutto fuorché gay!
Jessica abitava qualche isolato più avanti e non appena accostai davanti a casa sua la trovai già fuori ad aspettarmi, impeccabile nel suo vestitino verde acqua.
Come era possibile che una ragazza dalla bellezza così adulta e raffinata fosse in realtà una bimba immatura?
Aprì di scatto la portiera e squadrò velocemente i presenti per poi rivolgere la sua attenzione allo specchietto per sistemarsi il lucidalabbra.
Jessica non salutava mai.
Dopo neanche due secondi tirò fuori dalla borsetta rossa un pacchetto di Marlboro light e ne sfilò una sigaretta, pronta a fumarla.
La guardai male.
“Jex, non in macchina” l’ammonii. Cazzo, era la milionesima volta che glielo ripetevo!
Anch’io fumavo ma i miei si arrabbiavano da morire se l’auto poi puzzava!
“Dai Jessy, cinque minuti e siamo arrivati” le disse gentilmente Massimo dal sedile posteriore e lei con uno sbuffo rimise la sigaretta al suo posto. Chissà perché il mio amico riusciva sempre a farla ragionare!
Pochi minuti più tardi fermai la macchina nel grande parcheggio in centro a quello che tutti i ragazzi chiamavano ‘viale dei pub’, che alla fine altro non era che una lunga via dove risiedevano i locali più frequentati della zona.
Senza neanche farlo apposta il Guns and Rock era proprio di fronte all’Insomnia per cui mio fratello mi salutò con un cenno del capo e attraversò velocemente la strada.
“All’una e mezza ce ne andiamo, quindi vedi di essere qui fuori per quell’ora perché io non ti aspetto!” gli urlai dietro. Benché fossi certa che mi avesse capito benissimo, non mi fece alcun segno e si rintanò in quel postaccio da cui arrivava forte e chiaro il tunz tunz di quella fastidiosissima ‘musica’ house.
“Che tamarro” mi lasciai sfuggire con disapprovazione prima di seguire i miei amici all’interno del mio posto preferito in assoluto: il grande pub in stile rock degli anni d’oro famoso per le sue pinte di ottima birra a poco prezzo, per le luci soffuse e per della vera musica, altro che tunz tunz!
Come sempre ad accoglierci c’era Linda, la mia cameriera preferita: una venticinquenne con un grande senso dell’umorismo e un sorriso contagioso. La sua sola presenza attirava decine di clienti e questo Teo, il proprietario, doveva averlo capito, visto che la faceva lavorare quasi sempre!
“Ciao ragazzi, solito tavolo?” ci chiese subito e noi annuimmo. Da anni avevamo un tavolo che consideravamo ‘nostro’ e ormai le cameriere erano abituate a lasciarlo sempre a noi.
Una volta accomodati ci diede le liste e passò a prendere le ordinazioni di un gruppo di ragazzoni in fondo alla sala.
In sottofondo si potevano chiaramente distinguere i Nirvana e questo mi fece rilassare. Decisamente il Guns and Rock era il posto adatto a me.
“Ragazzi, devo dirvi una cosa” dissi entusiasta, non appena la canzone finì.
“Cosa, hai deciso di farti suora?” mi rispose la bionda piccata, probabilmente ancora incazzata con la sottoscritta per la discussione al telefono di quel pomeriggio.
Come al solito ignorai i suoi commenti acidi e concentrai la mia attenzione su Max che mi osservava incuriosito.
“Mi hanno preso al corso di Los Angeles!” dissi tutto d’un fiato per poi mettermi a battere le mani come una cretina.
“Cazzo!” esclamò sempre in maniera fine e posata la mia amica, mentre il moro si limitò ad abbracciarmi.
“Non mi stupisco, dopo tutti quei giorni passati con la telecamera in mano!”
“Sì ma non credo ci potrò andare” dissi amaramente, estraendo il foglietto informativo dalla borsa.
I due si misero a leggerlo subito e, come avevo fatto io, scossero increduli la testa quando arrivarono a quella maledetta frase.
“Ma è inaccettabile!” trillò Jessica, al colmo dell’indignazione.
“Beh, però non vuol dire che non ci andrai” disse rassicurante Max.
“E dove li trovo i soldi per l’aereo, il dormitorio, il cibo, le assicurazioni, le spese extra? Ho via un po’ di risparmi ma non basteranno mai per tutti e tre i mesi!” asserii mestamente.
Linda arrivò per prendere le ordinazioni, veloce ed efficiente come sempre, e ci lasciò lo scontrino sul tavolo prima di tornare ai suoi doveri. Quella sera il posto era particolarmente affollato!
“Perché non ti trovi un lavoro?” chiese pensieroso il mio amico qualche minuto di silenzio dopo.
“E come faccio? Di giorno ho i corsi!” ero stata presa a Scienze delle comunicazioni e, costi quel che costi, sarei stata una studentessa modello!
“Infatti pensavo a qualche impiego serale. Ho saputo che all’Insomnia si è appena licenziata una cameriera. Magari hanno bisogno di una mano”
Fortuna che le birre non erano ancora arrivate, altrimenti mi sarei strozzata di sicuro.
“MA SEI FUORI? Io in quel postaccio non ci lavoro!” ribattei indignata. Anche solo il pensiero di quel pub mi faceva star male, figurarsi lavorarci!
“Eddai, come sei schizzinosa! Devi solo lavorarci, non sarà così male”
“Oppure potresti rapinare una banca. Se vuoi ti aiuto” disse Jessica con nonchalance. Fosse stata qualsiasi altra persona a parlare, probabilmente mi sarei messa a ridere, ma con Jessica era quasi certo che quelle non fossero solo parole al vento.
“No Jex, niente galera.” Lei alzò le spalle disinteressata mentre tirava fuori dal borsellino i soldi per pagare. Di solito dividevamo sempre in tre, ma per qualche mese Jex era rimasta senza un euro e ora aveva un po’ di arretrati da saldare.
“Lo sapevo che non era destino” aggiunsi melodrammatica qualche minuto dopo, prendendo dal piatto appena arrivato una patatina e addentandola famelica.
“Certo che sei scema! Pensavo fossi disposta a tutto per quel corso!”
Massimo era incredulo e aveva ragione ad esserlo. Non avevo mai rinunciato a nulla in tutta la mia vita, ma quando si parlava di Insomnia non riuscivo proprio a ragionare! Quel posto era l’essenza di tutto ciò che non avrei mai voluto essere. Lavorarci avrebbe significato essere una grandissima ipocrita!
Scossi la testa con decisione. No, avrei cercato da qualche altra parte.
“Becky, almeno pensaci!”
“Lo farò. Ma ora non voglio più sentire nominare quel posto, chiaro? Piuttosto, chi si fa dopo un giro di tequila con me?”
E, almeno per quella sera, la discussione terminò.



Citazioni e Chiarimenti:
Via col vento è il grandissimo film del 1939 diretto da Fleming in cui recitano Vivien Leigh e Clark Gable. In breve: la Leigh ha la parte della protagonista, Rossella, che è innamorata, senza essere ricambiata, di Ashley, felicemente sposato con Melania. A causa di vari episodi, Rossella si sposa due volte, succedendo presto ad entrambi i mariti, fino a quando non decide di sposare Rhett (Gable), realmente innamorato di lei. Le cose però non vanno bene per i due perché Rossella, Rhett lo sa bene, vive nell’illusione di poter prima o poi sposare Ashley. Alla fine però Rossella capisce di amare Rhett, ma ormai quest’ultimo si è deciso a lasciarla. Se non avete visto questo capolavoro, dovete assolutamente rimediare! (dura quattro ore, quindi ritagliatevi un intero pomeriggio!)
Frodo è uno degli Hobbit del Signore degli Anelli, una razza che si distingue per i loro piedi pelosi e per la bassa statura.
Il Lambro è un fiume lombardo che scorre a Milano.
Il Guns and Rock e l’Insomnia sono due locali assolutamente immaginari, creati dalla sottoscritta, così come anche tutti i personaggi di questa storia.


Angolo dell’autrice:
'Giorno a tutti! :)
Lo so che ho già un’altra storia in corso e so anche che non la sto aggiornando da un bel po’, ma in questo periodo tutta l’ispirazione che avevo ha partorito solo quest’idea, quindi, lettori di It’s Hard to Live in the Country, abbiate fede: aggiornerò presto!
Parlando della storia: recentemente ho cominciato a lavorare nel bar vicino a casa mia per racimolare un po’ di soldi per farmi una vacanza decente e, proprio durante il lavoro, mi è venuta l’idea per questa storia! Il punto di vista sarà sempre quello di Rebecca e la storia avrà come location principale l’Insomnia, anche se non mancheranno alcune scene in altri luoghi. Non so ancora quanti capitoli ci saranno, né come si evolverà il tutto. Ho solo una idea generale che potrebbe anche cambiare nel corso della scrittura, quindi aspettatevi l’inaspettato!
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, quindi se volete lasciatemi pure un commento! ^^
Un bacione!
Rox




  
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