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Autore: Queen of Superficial    23/02/2011    16 recensioni
Due pseudogroupies incasinate con le stanze da letto che comunicano tramite un palo dei pompieri. Un non più giovane frontman di una band nel pericoloso olimpo degli dei del rock. Una ragazza innamorata di un'idea, di un artigiano di sogni inconfessabili che poco ha a che fare con l'uomo reale. Una serie di assurdità in fila per due, con la partecipazione straordinaria di ricordi rock, di band nevrasteniche, di chitarre ipnotiche, di fatti di vita non vissuta ma senz'altro vivibile. Così, senza ipocrisia, in una spirale di violente emozioni sulle note di una Manson che creano un'improbabile, tenera, storia d'amore. La storia, tirata a lucido, di qualunque di voi.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Christopher Wolstenholme, Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Al genio dietro Bliss Morrissey,
la mia migliore amica,
e ai nostri sei
-SEI-
anni insieme.

 

 

 

Alla nostra grazia nello scrivere versi senza forza, al non vivere,
al nostro per sempre, e ai nostri mai,
alle dipendenze, e allo stile che ci rende noi.”
(Baustelle, Cin Cin.)

 

 

No one can take it away from me,
and no one can tear it apart,
it may be elaborate fantasy,
but it's a perfect place to start.
Because a heart that hurts
is a heart that works.”
(Placebo, Bright Lights.)

 

 

Era troppo amore. Troppo grande, troppo complicato,
troppo confuso e azzardato e fecondo e doloroso.
Era tutto quello che potevo dare.
Più di quanto mi convenisse.”
(Almudena Grandes.)

 

Quell'uomo era altamente cancerogeno.

Solo a guardarlo, odorava di pericolo lontano otto miglia in tutte le direzioni.

Ti sei tatuata una mia canzone addosso, proprio sopra il cuore, potrò anche permettermi di peccare un po' di presunzione.”

Alzai lo sguardo su di lui, incrociando due iridescenti occhi azzurri.

Sono sicura che, se ci fossimo incontrati in un'altra epoca, saremmo stati una coppia bellissima. Beh, almeno saremmo stati una coppia.

Ma io ero la figlia adottiva di un'intera generazione rock che mi aveva cresciuta e istruita al peggio, perfino a un chitarrista atroce, bugiardo, stronzo, maledettamente affascinante.

Voglio tutta la verità.”, disse.

Detto da te, non so se ridere o chiamare aiuto.”

Sorrise, sbilenco, storto, maledetto il giorno in cui ho incontrato i suoi occhi al buio di un salotto e mi sono lasciata salvare da lui, adesso sono in debito, persa per sempre all'ombra di ogni suo movimento, costretta a delegare la mia felicità a quel suo infernale strumento a sei corde.

Io sono innamorato di te, Ria.”

Una pugnalata dritta al cuore.

Coprii il mezzo metro che c'era tra di noi, in realtà chilometri e chilometri di omissioni e alibi, e gli morsi le labbra, lo baciai, violenta e senza difese, con tutto ciò che avevo preferito, fino ad allora, non dimostrargli.

Gli afferrai la nuca, affondai le dita tra i suoi capelli e lui mi strinse i fianchi, attirandomi a sé, togliendomi il respiro, qualunque residuo di aria perso, succube di ogni sua cellula, come era giusto che fosse.

Mi staccai, spingendolo via.

Una lacrima di rabbia mi solcò una guancia, un piccolo corso d'acqua che scende lungo il pendio di una collina. Lento, preciso e inesorabile.

Il mio pugno colpì il suo petto prima che uno dei due potesse aprire bocca.

Io ho amato per la prima, unica e ultima volta in vita mia appena ti ho visto, Matt. Molto prima di conoscerti.”

Piangevo, ormai. A causa di/ grazie a, lui.

E non puoi venirmi a dire che sei innamorato di me. E' disonesto, ma tu sei disonesto, perchè credi di essere superiore a tutto, e invece sei solo un egoista. Un egotico e un egoista.”

Mi guardò, in silenzio.

Iniziò a nevicare di nuovo, lentamente e inaspettatamente, come si conviene a tutti gli eventi fuori dal comune.

Lo baciai di nuovo, con la stessa rabbia, con la stessa determinazione, come se quel bacio dovesse lavare via tutte le altre, ogni passaggio distratto per la sua vita. Loro che non lo capivano, non lo apprezzavano, non lo conoscevano mai davvero, e prendevano, prendevano e basta, dandogli indietro niente più che un placebo momentaneo, un palliativo, lasciandolo eternamente insoddisfatto, e solo, insistendo a psicanalizzarlo, a scomporlo, a condannarlo o assolverlo quando io volevo solo amarlo, nel modo più semplice del mondo e rispettando ogni sua assurda pretesa, ogni suo imbevibile difetto.

Poi mi staccai un'altra volta da lui, spedendolo, con una spinta, quanto più lontano da me riuscissi.

Le mie lacrime, loro sapevano esattamente dove si andava a parare.
“Non possiamo stare insieme, Matt.”
“Non c'è niente che io possa fare per...”

No. No, ti prego, non me la rendere impossibile. Dimmi che non vuoi rimediare. Che sei d'accordo. Che sai che non possiamo stare insieme. Non dirmi che cambierai, perchè ci crederei, ma tu non puoi cambiare, e mi faresti soltanto altro male.”
Ma io e lui siamo i sovrani del paradosso, e infatti ci stringemmo l'uno nelle braccia dell'altra, febbrilmente, come si abbraccia ciò che non vuoi lasciare, pur consapevole di non poter restare.
Affondai la testa nell'incavo del suo collo e mi lasciai cullare, respirando a fondo quell'odore di noi.

Matt...”
“Shh...”
Dio, quanto lo amavo. Non era quantificabile con nessuna unità di misura conosciuta al mondo. Lo amavo con tutta la gioia e tutto il dolore possibile a un sentimento del genere, mischiati e shakerati nelle dosi perfette, era davvero un peccato buttare via quell'opera d'arte. Certi amori sono come una maionese perfetta: non riusciresti mai a rifarla uguale, pur ripetendo passo passo il procedimento e usando tutti gli ingredienti normalmente usati nella preparazione della salsa. Il mondo intero adotta lo stesso processo e usa le stesse cose, ma a voi due, a voi due è uscita fuori, chissà perchè, la maionese perfetta. Proprio l'archetipo della maionese. Sarà stato un movimento particolare del polso, un pizzico di sale in più del normale, non ve ne siete neanche accorti, ma avete creato ciò che è impossibile trovare in natura: la perfezione. Ma perfetti significa mai. E infatti.
Gli afferrai la nuca e poggiai le labbra contro il suo orecchio, chiudendo gli occhi, masticando parole così difficili, così difficili...
“Ogni attimo”, sussurrai, “ogni attimo di ogni ora di ogni giorno di ogni mese di ogni anno di ogni decade, fino alla fine, io ti amerò così. Non di più, non di meno, in questo preciso, esatto modo di amarti che mi blocca il respiro e mi annega le idee. E ti sarò sempre grata per tutto quello che mi hai dato e non hai mai voluto indietro. Sei lo sbaglio migliore che ho fatto finora. Il più bello di tutti.”
Con una fatica immensa e grande quanto il mondo, poggiai la fronte alla sua e cercai i suoi occhi, lucidi di lacrime che non avrebbe mai concesso a sé stesso di versare.
Lo baciai, dolcemente, lentamente, in un silenzio rotto solo dai nostri respiri quieti, la quiete dell'addio, dell'incontrovertibile.
Non avevo mai sopportato gli addii rumorosi e confusionari, fatti di accuse e recriminazioni. Preferivo il silenzio inossidabile della colpa e del dolore, una nebbia rada che appannava la vista. Qualunque addio dovrebbe rendere giustizia alla bellezza di ciò che c'è stato prima, altrimenti vuol dire che ciò che stai abbandonando in definitiva non era poi un granchè.
Staccai lentamente le labbra dalle sue, avevo esaurito tutto il coraggio.
“E adesso cosa succederà?”, mi chiese.
Finalmente, per la prima volta in vita sua, Matthew Bellamy si era arreso. Lo apprezzai infinitamente.
“Adesso”, sussurrai guardando in basso, verso il suo petto, verso il suo cuore, “credo proprio che dovremmo fare l'amore.”
Alzai gli occhi in cerca dei suoi, di una risposta a quella domanda innocente.
Mi restituì uno sguardo.
Se avete mai sentito Jeff Buckley cantare l'Hallelujah, se avete mai assistito a uno sguardo perso nel vuoto, se avete mai notato qualcuno fermo all'angolo della strada che vi sembrava pieno, anche se è impossibile dire di cosa, allora sapete di cosa sto parlando. Era quella pienezza lì, una pienezza totalitaria che abbraccia tutti i panorami, le canzoni e le strade del mondo.
Gli presi la mano in silenzio, come lui una volta aveva fatto con me, e senza guardarlo lo scortai su per le scale. C'era una camera da letto dissacrata da troppe notti di sesso, e poche d'amore. Dovevamo pareggiare i conti. Perchè, anche se pur facendo l'amore le notti sarebbero state comunque numericamente inferiori, il nostro amore era così grande che valeva cento, forse mille notti di sesso, di questo sono sicura.
Nel buio completo, mentre Buckley mi cantava nella testa, portai piano le mani sul suo viso, disegnandone gli angoli a memoria. Fu una discesa lenta, piena di ostacoli. La fronte, le sopracciglia, gli occhi, gli zigomi, il naso, il mento... Lo sentivo respirare piano sotto il mio tocco gentile. Mi soffermai un po' sulle labbra, accarezzandole con la punta delle dita, che scostai, tenendole sempre lì, in periferia dei suoi lineamenti, per fare posto alla mia bocca. Una bocca non più arrabbiata, non più affamata di colpe e condanne, una bocca gentile, innamorata, sopra tutto il resto. Non ridemmo, né giocammo, smettemmo come abiti ormai usati e logori tutti quei comportamenti di complicità amichevole e fraterna che rendevano così singolare la nostra storia d'amore. Per una volta da che era stata creata l'equazione Bellamy-Montague, fummo soltanto due innamorati. Le mani si intrecciarono, i respiri si fusero, tutto di noi che toccava l'altro era niente di più che una lieve carezza, data con qualunque cosa potesse accarezzare.
Mentre, silenziosamente, si muoveva leggero su di me, senza alcuna voglia di sesso o soddisfazione, lo fermai bloccandogli il viso con le mani.
“Senza di te sarebbe stato tutto vano.”, gli sussurrai, mentre le lacrime mi attraversavano le tempie.
Qualcosa attraversò i suoi occhi, mentre poggiava le labbra sulle mie.
Quando il bacio finì, lo abbracciai forte, cullata da quel movimento che somigliava così incredibilmente alla marea, e in silenzio piansi, bagnandogli una spalla, tutto l'amore e il dolore del mondo.

 

Questo, mi aveva raccontato Ria con un fiume in piena bloccato di traverso in gola, era quanto accaduto la notte della grande separazione, successiva alla frase che nessuno era ancora riuscito a carpire da quella svagata conversazione a casa Bellamy, una notte di giugno in cui, peraltro, nevicava.
Ma ora, mi sembra doveroso spendere due parole sul narratore di questo capitolo finale del nostro flashback, se non altro per scusarmi dell'intromissione.
Mi chiamo Gregory Fleur, non ho sorelle, non ho fratelli, da tempo ormai non ho neanche più un fidanzato.
Ho compiuto venticinque anni per sbaglio lo scorso aprile, ed entrai nell'impero capillare del clan Montague ad appena sette anni. Mia madre fu una delle molte amanti del padre di Eldariael, di ben diciannove anni più grande di lui; una relazione che, come molte altre, sfociò in una sequela infinita di recriminazioni e piatti scagliati da parte a parte della cucina in una delle residenze del dottor Montague.
Quando le sue donne decidevano di averne avuto abbastanza di lui, inspiegabilmente, conservavano un amore materno per la sua unica figlia naturale, e tra le donne straordinarie di cui Ria ha subito l'influenza nel corso della sua giovane vita, c'era anche mia madre, una stilista londinese di indubbio genio: Vivienne Westwood.
Quando persi quasi del tutto la vista dall'occhio destro, fu lei a disegnarmi il monocolo che è diventato parte integrante della mia persona oltre dieci anni fa.
Ma ora basta parlare di me, qui non interesso a nessuno.
Vi interesserà, invece, il tre luglio. Data in cui, a distanza di un anno esatto, il Padreterno ha ritenuto di doverci omaggiare di due pilastri della civiltà occidentale: Ria Montague e Bliss Morrissey, nate lo stesso giorno, con gli stessi particolari e imprevedibili influssi astrali.
Per precisa volontà di Bliss, svestitasi del suo consueto cinismo da sfondamento per prendere, una volta, le parti dell'amore, con una settimana e mezzo di anticipo l'intera Londra si era mobilitata per allestire una festa straordinaria all'Hard Rock Cafè, visto che, guarda un po', il quattro luglio cadeva anche il centesimo articolo di Ria per il Rolling Stone. Il tempio rock inglese era stato chiuso al pubblico e gli inviti spediti con il complice tamtam di molti amici. Alcune delle band che Ria aveva intervistato si erano offerte di suonare un pezzo a testa per omaggiare l'evento, come personale regalo di compleanno. In quanto organizzatore dell'evento, tutti si sentivano autorizzati a rompermi i coglioni in prima persona, giungendo a telefonarmi alle quattro del mattino per avvertirmi della partecipazione e offendendosi davanti alla mia prevedibile reazione notturna, non propriamente entusiasta.
John Montague, Morris Morrissey e relative consorti ovviamente erano stati prontamente invitati, insieme alla sorellastra di Ria, Vivienne “Splinter” Entwistle e il di lei allora fidanzato, l'efebico e incorporeo Brian Molko.

Ma cercherò di controllare la mia impossibile e radicata tendenza al gossip per investirvi di tutti gli eventi che resero quella bizzarra serata memorabile oltre ogni possibile pronostico. Quella serata, ovviamente, si colloca in mezzo a una vita scandita da interminabili riff di chitarra, ed è quindi stata preceduta e seguita da tutta una serie di dettagli di ingegneria esistenziale che avrebbero sbalordito qualunque comune mortale, cioè non noi.
Avevo faticosamente persuaso Ria ad adottare un'eleganza inusuale per lei, trascinandola più o meno letteralmente per l'orlo della T-Shirt al World's End, dove il negozio di mia madre dominava uno dei quartieri più defilati e signorili di Londra.
“Eldariael!”
“Ciao, Vi.”
Ria aveva l'aria del condannato a morte. Detestava i vestiti, di qualunque foggia e fattura essi fossero, ma, quando doveva, li metteva malvolentieri.
Solo, essendo all'oscuro di tutto, non comprendeva per quale motivo dovesse vestirsi così elegante.
Le dissi che avevamo prenotato al Ritz per festeggiare e che non poteva retrocedere dall'impegno: una bugia bianca, a fin di bene. Mash osservava in disparte con occhio critico e divertito.
Il laboratorio di mia madre era un florilegio di colori e accostamenti bizzarri, borchie, lamette, spille da balia, svastiche e oggettistica curiosa reperita ai quattro angoli del mondo. Se ne stava a un'enorme macchina da cucire con la sigaretta in bocca e gli enormi occhiali da vista, che non portava mai in pubblico, in punta al naso. Si distolse dal suo meticoloso lavoro solo per urlare quello squillante “Eldariael” che mise Ria un po' più a suo agio, dopotutto.
Quello a cui stava dedicando ogni stilla della sua preziosa attenzione era un lungo abito di seta nera con sottilissime spalline che, secondo i calcoli esatti di mia madre, sarebbero state coperte dai capelli: ma osservandolo meglio si poteva notare che luccicava leggermente, e che, attillato fino ai fianchi, scendeva a corolla sfumando il colore dopo il ginocchio fino ad arrivare a una tonalità molto chiara di grigio. Lo spacco vertiginoso partiva quasi dall'attaccatura della coscia, e il retro, il retro era pura poesia. La schiena era completamente scoperta, perchè c'era un tatuaggio dietro la scapola di Ria che mia madre aveva appoggiato ed amato fin dal suo processo in embrione, e che, giustamente, doveva assolutamente essere mostrato al mondo in un'occasione così secolare.
“Allora”, disse, dopo averle fatto indossare l'incantevole abito mentre si affaccendava a ritoccarglielo sulla figura, “All'evento ci sarà anche la tua bella rockstar?”
Feci cenni aeroportuali all'indirizzo della mia sciagurata genitrice per intimarle di tacere, e quella, per tutta risposta, mi rifilò uno sguardo interrogativo.
“Quale evento?”, domandò Ria, ammirando l'opera d'arte che stava indossando.
Perseverai nel tentativo di distogliere la stolta dal rivelare tutto il piano, mandando a stendere tutti gli immensi sforzi che avevamo profuso nella segretezza dell'intero iter.
“Il tuo compleanno, mi pare ovvio.”, disse, cogliendo finalmente le mie velate minacce di morte sillabate a fior di labbra. Per fortuna aveva gli occhiali, altrimenti non si sarebbe accorta di niente.
Ria sospirò, sportiva.
“No, non credo proprio.”
“Ah sì? Pensa.”
Calò un silenzio gelido e preoccupante.
“Comunque non stupirti, loro sono fatti così. Forse dovresti evitare di trovarti uomini che somigliano a tuo padre.”, disse, colpendo e affondando la psiche già precaria della mia amica.
“Sarebbe saggio, Vi. Ma io non sono saggia, lo sai.”
Mia madre rise, complice.
“Lo so, tesoro, lo so. Bene, sei perfetta. Ti manderò il vestito, insieme a quello di Juniper, al più tardi domani nel pomeriggio.”
Juniper, per inciso, era il vero nome di Bliss. Lo scelse sua madre, che riuscì a litigare con Morris Morrissey perfino in sala parto. “L'unica cosa che mi dispiace è farla nascere in questo maledetto ginepraio!”, gridò all'indirizzo dell'ostetrica; da cui il nome Juniper, ginepro. Sperò, credo, che diventasse la malattia e la cura. Ma nessuno la chiamava mai Juniper. A parte gli insegnanti, Vivienne Westwood, il suo ingombrante ex fidanzato, la sua ingombrante ex psichiatra e suo padre, ma solo nei picchi massimi di indignazione genitoriale.
Ria si rimise i jeans e fu trascinata fuori da Mash con poca diplomazia, mentre io rimanevo a scambiare due paroline con mia madre.
“Ci vediamo alla festa.”, le dissi.
“Sì. Il vestito per quel cretino ignobile è pronto, glielo mando in serata.”
'Quel cretino ignobile' era, ormai, diventato il nickname fisso di Matthew Bellamy.
“Spero che tu e Juniper sappiate cosa state facendo.”
“No, non lo sappiamo, maman. Ma vedremo di fare del nostro meglio.”
Mia madre si strinse nelle spalle, accendendosi un'altra sigaretta.
“Potrebbe non essere abbastanza.”, commentò, e io avvertii chiaramente l'angoscia risalire i viali dell'oblio per avvilupparmisi addosso come un'edera velenosa.

 

Tu due cuori non li hai, e a me non basta la metà.
(Adriano Celentano, Per averti.)

 

A pensarci bene, la soirèè del tre luglio fu preannunciata da un indistinto ma udibile tramestio di trombe dell'Apocalisse. Alle tre del pomeriggio, Morgue Place era immersa in un caos pantoclastico e Consuelo schizzava da una parte all'altra della casa cercando di assecondare le richieste dei suoi quattro inquilini. Io ero già pronto, in gessato nero con panciotto e gemelli di diamante.
Ria era momentaneamente sparita.

Aprii la porta e me la trovai davanti.
Bellissima, più di sempre.
Il trucco sfumato sugli occhi, i capelli neri un po' mossi come una cascata di petrolio fino alla schiena.
Mi guardava, in quel modo in cui solo lei sapeva guardarmi.
Avevo in mano una rosa che volevo darle più tardi, quando ero sicuro che l'avrei vista, ma non così presto, non così all'improvviso. Non così bella.
“Non ce la faccio”, disse.
Tacqui, perchè non avevo il diritto di dire niente.
Allungai una mano per sfiorarle un braccio. Ero il responsabile di ogni serio sorriso e di ogni seria lacrima di lei, che mi stava davanti senza più una sola difesa al mondo.
“Starti lontano è una follia. Starti lontano è una eco di dolore perenne, io non...”
Le presi il viso tra le mani e la baciai.
“Sei sempre l'unica. Straordinaria. Non sono più stato a letto con nessuna. Se non mi credi, però, ti capisco.”
Sospirò, e mi prese una mano.
“Dobbiamo cercare di funzionare in qualche modo. Non c'è via d'uscita. Non esiste un modo di stare vicini senza farci male.”
Lo sapevo, altrochè.
“Ci sarai, stasera?”
Sorrisi. Impossibile nasconderle qualcosa.
“Certo.”
Mi sfiorò le labbra con le sue, poi si scostò, per guardarmi negli occhi.
“Mi fai un regalo?”
Portai la mano che le stringevo sulla mia bocca, era soffice e sapeva di buono, e le diedi un bacio sul palmo.
“Tutto quello che vuoi, io te lo darò.”
Sussultò sentendomi ripetere quelle parole che le avevo già detto una volta.
Vittoria contro resa.
Mi sorrise, dolce, bellissima.
“Balla con me, stasera.”
La guardai, un po' sorpreso.
“Tutto qui?”
“Tutto qui.”
Prese la mia mano e, tenendola tra le sue, ci passò su il viso, chiudendo gli occhi, in una muta carezza pilotata.
Era così difficile.
“Ci vediamo più tardi.”, disse, poggiando un lieve bacio sul palmo della mia mano prima di lasciarla.
La guardai scendere le scale, voltarsi a sorridermi, studiai il suo modo di camminare, così innocentemente sensuale, i suoi capelli che seguivano i movimenti dolci della schiena.
“Ciao, bambina.”, dissi.
Ma era già lontana.


“Dove sei stata?”
Un presagio sinistro colpì tutti in piena fronte.
“Dovevo fare una cosa. Quanto manca all'ora X?”
“Quarantacinque minuti.”
“Sarà meglio indossare il vestito, allora.”, disse.
Noi eravamo già tutti pronti.
Quando uscì dalla stanza, fu anticipata da un delicato profumo di vaniglia e una luce ultraterrena. Gli abiti di Vivienne Westwood, sapeste.
“Dobbiamo bendarti.”
Non ribattè affatto.
Si voltò di spalle, il vestito che la seguiva fluttuandole intorno come un fantasma, e attese.
Una striscia di seta nera le tolse la vista di tutto, e io sperai che, momentaneamente cieca, potesse riposare un po'; ma così non fu, ovviamente.
Matt era già fuori dall'Hard Rock, nonostante l'anticipo sull'orario, e aspettava con la Manson nera a tracolla, una rosa rossa in mano, elegantissimo, i capelli neri insolitamente scomposti in una maniera umanamente rinconducibile al passaggio di un parrucchiere, l'espressione assorta e nervosa.
Uno stuolo di fotografi si era già radunato dietro le transenne.
Appena feci il giro dell'auto per aprire lo sportello a Ria, Matt fece qualche passo avanti e, sorridendo, tese una mano verso di lei che, bendata, non poteva vederlo.
Ria allungò la mano fino a prendere la sua, e si lasciò guidare fuori dalla macchina; con un leggero strattone, la attirò a sé, ed erano così vicini che i loro respiri si sfioravano docili.
La dea bendata sorrise, sapeva che era lui, ma non mosse la seta che le impediva lo sguardo. Anzi, si chinò leggermente su sé stessa e si sfilò prima una scarpa e poi l'altra, sotto gli occhi sorpresi dei presenti, cosciente che con i tacchi era ben più alta di lui. E poi, detestava le scarpe col tacco. Così, scalza, sul tappeto rosso che non poteva vedere, avvicinò le mani al viso di Matt e lo baciò, mentre i flash impazzivano creando una coreografia di luci, illuminandoli come fuochi d'artificio.
Poi Matt, con gli occhi pieni di una dolcezza che non ricordavo di aver mai visto prima in nessun altro, le prese delicatamente una mano e le avvicinò le dita ai petali della rosa.
“Posso essere il tuo cavaliere stasera?”
“Devi essere il mio cavaliere, stasera.”, rispose lei.
I fotografi li chiamavano per nome, ignari della scena straordinaria che si parava agli occhi di noi, così vicini a loro, così fuori dal loro metro quadrato di intimità infrangibile.
Ria si tolse la benda, sorridendogli luminosa come non l'avevo mai vista.
“Buon compleanno, bambina.”
Gli sorrise di nuovo, poi lo baciò lievemente, si chinò a prendere le scarpe e la rosa e attraversò scalza al suo braccio tutto il tappeto rosso, ignorando completamente i fotografi.
“Sei la più bella del mondo.”, lo sentii sussurrare al suo orecchio, mentre entravamo in schieramento macedone dentro l'Hard Rock, e potrei giurare che lo pensava davvero con tutto sé stesso, e infatti lei gli sorrise con tutto il corpo, innamorata di un amore antico quanto il mondo; innamorata da sempre, e solo di lui.
Mentre la sala lentamente si affollava, mentre visi più o meno noti facevano il loro più o meno trionfale ingresso salutando a destra e a manca altri visi più o meno conosciuti, mi presi un secondo per osservarli bene. Io sono un critico, e in quanto critico ho un occhio particolare per lo straordinario: lo annuso, lo avverto nell'aria sotto forma di vibrazione, lo studio, lo ricerco, me ne stupisco, quando lo trovo, a volte ne sono spaventato, mi lascio soggiogare, quasi sempre, lo scrivo, quando mi riesce.
Ria stava ridendo con Steven Tyler con in mano un bicchiere di Veuve Cliquòt che faceva roteare ritmicamente sulla scia della musica degli altoparlanti, e Matt stava dall'altra parte della sala, parlava con Keith Richards e un paio di ragazze adoranti. Improvvisamente, come punti da un'identica consapevolezza perfettamente a tempo, si voltarono a guardarsi, l'un l'altra. Fu un secondo, una scossa, un brivido. I loro occhi si incrociarono, visibili e distaccati da tutto il resto della massa caotica di persone lucide e accattivanti.
Uno sguardo che non aveva niente di innocente, niente di casto e niente di riconducibile a un normale sguardo. Erano magnetici, naturalmente attratti l'uno dall'altra, ma non era una questione di sesso, e infatti si sorrisero, dolcemente.
L'amore era tra di loro, tutto intorno a loro, in ogni cosa, in ogni cellula, in ogni drappo dell'arredamento, tintinnava nei bicchieri di champagne, era la eco di ogni risata, di ogni nota, sbatteva sulle pareti e rotolava sul pavimento, si irradiava dalle lampade, colorava le stampe sui muri, pizzicava le corde delle chitarre. Erano loro, la causa.
E' uno spreco di tempo e di energie, vivere, se almeno una volta non si riesce ad amare così , disperatamente. Follemente. Veramente. Profondamente.
E se mai Matt gliel'avesse data, quell'occasione, se mai Ria avesse avuto la possibilità di spiegargli tutte queste cose, spiegargli che lei lo amava non solo con tutto il cuore ma anche con tutto il corpo e l'anima e addirittura con ciò che li prescinde, con il suo passato, il suo futuro, il suo presente, credetemi, lo avrebbe fatto. Perchè era matta, perchè sapeva che crescere non voleva dire smettere di essere bambini, perchè la sua fiaba preferita era sempre stata Peter Pan e perchè Matt gli somigliava incredibilmente, solitario, megalomane, irresistibile stronzo presuntuoso.
Per quello, credo, Ria prese per mano Steven Tyler e lo trascinò verso il gruppo di Matt, e quando gli fu vicino cercò la sua mano con discrezione, in basso, e la strinse, nascondendo quell'intreccio di dita tra le pieghe del vestito che mia madre, così alacremente, le aveva cucito su misura.
Ma poi vidi John, e quando vedevi John così all'improvviso mai niente di buono stava per accadere.

 

Se tu scegliere non sai, scelgo io, che male fa.”
(Adriano Celentano, Per averti.)


“Principessa.”
Ria si voltò meccanicamente verso quello che sapeva, purtroppo, essere suo padre.
“Papà.”
Più che un saluto, una constatazione.
John Montague, tirato a lucido, era più bello che mai.
Matt gli scoccò uno sguardo amichevole, non provava rancore. Aveva perso Dana, ma aveva trovato Ria. Se non l'avesse ritenuto alquanto sconveniente, scommetto che gli avrebbe mandato anche svariati cestini di ringraziamento.
Dana sembrava una scopa di saggina abbigliata a festa, stirata in un abito che le calzava strano, come se non fosse mai stato mosso dall'attaccapanni. Era così nero che sembrava più a un funerale, che a un compleanno, e scommetto che neanche le sarebbe dispiaciuto.
“Auguri, cara.”
“Grazie, Danette.”
Il ritorno del budino in barattolo.
Avevo ricevuto alcune mail di ragguaglio circa la situazione da Bliss per quasi tutta la durata della storia di Ria con Bellamy. Al primo concerto dei Muse c'eravamo andati tutti e quattro insieme, con Mash, ma Ria omette sempre i particolari non finalizzati allo svolgimento della storia. Vezzi da scrittore. Insopportabili, ai più.
Ma comunque.
Osservai con orrore l'avanzata secondo loro trionfale di Morris e Gertie, quest'ultima fasciata, al contrario di Danette, in uno sgargiante abito turchese uccello della felicità, un attentato alla salute di ogni stilista in sala.
Cercai di localizzare Bliss, che si tormentava una ciocca di capelli parlando con una statua greca vestita a festa con ogni sorta di chincaglieria e borchia, cupo, misterioso, sguardo magnetico da mulo, tatuato fino alla punta dei capelli.
“Chi cazzo è quello.”, mi sfuggì di bocca.
“E' Synyster Gates.”
“Dominic, puzzi di alcol.”
“Lo so.”
Squadrai Dominic, che si reggeva – o reggeva, non saprei- ad una bionda slavata con quoziente intellettivo inferiore a meno sei, sospetto di cui trovai conferma quarantuno secondi dopo, quando il nostro amico batterista si allontanò per sbandare pericolosamente in direzione di Bliss.
“Non è bellissimo? Il mio primo figlio si chiamerà Dominic.”, ritenne di dovermi informare la scellerata, con le mani giunte sotto il mento in adorazione. Le stirai un sorriso spazientito.
“E anche il secondo. E anche il terzo. E anche il quarto.”, aggiunse, con aria sognante.
Il suo quoziente intellettivo era gravemente compromesso dal fatto che, se avesse avuto quarantaquattro figli, li avrebbe chiamati tutti Dominic.
Ad ogni modo, localizzai una massa di serici capelli rossi, lisci come la seta, che si muoveva ancheggiando fasciata in un lungo abito grigio perla.
“Vivì.”, la chiamai a bassa voce, ma lei mi udì comunque.
Si voltò, e mi sorrise, facendo scintillare gli occhi azzurri nella penombra a comando. E dico a comando perchè qualunque cosa di lei era perfettamente bilanciata, innocente eppure esperta, era una combinazione letale per qualunque maschio eterosessuale presente nel raggio di quindici chilometri da lei, profumava di sofisticato e, tra le altre cose, era la sorella acquisita di Ria.
“Ho perso Brian.”, disse, mettendo su un broncio perfettamente disegnato sulle labbra carnose.
“E' lì.”, indicai, additando un curioso gruppetto. Molko-Howard-Morrissey-Gates. Niente di buono poteva mai uscirne. Mash stava accuratamente evitando Stephenie Meyer, constatai dal modo furtivo in cui si muoveva per la sala rivolgendo cenni di saluto agli amici scrittori.
Splinter sbuffò sonoramente, quindi si voltò al recupero dell'improbabile compagno.
Ria, da par sua, stava ancora sorridendo a suo padre. Mi avvicinai, circospetto.
“Ciao, Fleur!”, mi salutò. “La mamma è qui?”
“Tre quarti delle tue ex amanti sono qui, Johnny. Ciao.”, replicai, cordiale.
“C'è anche Pluggie.”, aggiunse Ria.
Constatai l'assenza di Matt, e lanciai uno sguardo interrogativo a Ria.
“Tra poco deve suonare, è andato a sistemare un paio di cose con Chris.”, mi disse.
“Tu e Matt state insieme?”
“Che te ne frega?”
Ria e Dana, dopo essersi cordialmente ignorate a vicenda, finalmente si guardarono, ancorchè malissimo come sempre.
“Dovresti dirle qualcosa.”, sibilò Dana all'indirizzo di John, che finse di non aver sentito.
“Dovresti farti i cazzi tuoi.”, sibilò Bliss all'indirizzo di Dana, che invece ci sentiva perfettamente.
“Ma guarda, Barbie borchie e chitarre. Come stai?”, disse Dana tra i denti, sbalordendo i presenti con la dimostrazione che anche lei, di quando in quando, possedeva alcuni cc di senso dell'umorismo.
“Benone, tu? Scelta infelice la frangetta. Ti fa risaltare il naso.”
“Il suo naso non ha niente che non va, Bliss, stai buona.”, cercò di tamponare John.
“Ho chiesto alla tua amica come andava col suo nuovo fidanzato, ma si rifiuta di rispondermi.”, incalzò Dana.
“Va benissimo, a quel che ne so, almeno a letto non si addormenta come succedeva con te.”, ribattè piccata Bliss.
“E' di mia figlia che stiamo parlando, per cortesia.”, intervenne John, scandalizzato.
“E chi lo dice che a letto con me si addormentava?”
“Le statistiche, Danette. E anche lui.”
“Mi pare strano, visto che siamo stati a letto... Quanto? Un mese fa? E non mi sembra che in quella circostanza si fosse lamentato.”
“Cosa?”, disse Ria.
“Cosa?”, disse John.
“Cosa?”, disse Bliss.
“Cosa?”, disse Splinter.
“Cosa?”, disse Brian Molko.
“Cosa?”, dissi io.
“Avete finito di ripetere tutti quanti 'cosa' come uno stormo di pappagalli?”, disse Dominic.
Lo fissammo tutti, con lo sguardo più truce che ci riuscisse di avere vista la quantità di champagne già ingerita.
“Quando Ria telefonò a Matt per dirgli che aveva saputo di Lily Allen, Matt prese il primo volo per Milano per parlarle di persona, ma a Milano non c'eravate già più. Eravate appena partite per Londra. Mi ha raccontato che c'era Dana, e lui era stravolto, e arrabbiato, ed aveva bevuto, ed è, beh... è successo.”
Nessuno parlò, per quello che parve un secolo.
Bliss fumava di rabbia nel suo bel vestito, col suo bel viso, i suoi bei capelli.
“E' successo?”, disse, secca, mentre la furia nella sua voce montava come la piena del Tamigi. “E' successo? Dominic. Il terremoto ad Haiti è successo, lo Tsunami è successo, l'Uragano Katrina è successo, l'incidente a Matthew è successo, qualunque catastrofe naturale, ambientale o personale indipendente dalla volontà umana succede: il resto, invece, SI FA!”
L'urlo ebbe un impatto tale che saltammo tutti, volenti o nolenti.
“Allora diciamo che lo ha fatto.”, disse Danette, soffiandosi sulle unghie con aria di sufficienza.
Ora, non è esatto dire che lo vidi. Fu più che altro un secondo. Un attimo prima non c'era, un attimo dopo invece sì. Sangue. Sulla bocca di Dana, precisamente rosso, e, sì, stonava tantissimo con i capelli.
L'aria che respirava Ria doveva aver raggiunto i cinquanta gradi celsius.
Due amiche di Dana, con i rispettivi fidanzati, corsero verso di noi mentre a noi veniva spontaneo allontanarci un po', allargare il cerchio. Si stavano battendo i leoni, era chiaro, e noi non c'entravamo niente. Nessuno dimostrò il buonsenso di fermarle, nessuno pensò neanche per un attimo all'idea di separarle, fu un secondo, un tentativo di reazione, il rumore dei tacchi che venivano gettati a terra, mia madre che sperava il meglio per il vestito di Ria, Mash che osservava la scena indecifrabile, Splinter che mollava la sua preziosissima borsetta in mano a Brian Molko e faceva ciò che non avrebbe mai creduto possibile fare.
Ria sputacchiò un po' di sangue.
“Questa è la nostra festa di compleanno, cazzo.”, disse, asciutta.
Era furibonda. E non c'era niente che la potesse fermare.
Una delle amiche di Dana cercò di frapporsi tra lei e Ria, ma Bliss la spedì praticamente contro una colonna scomponendosi il minimo possibile.
Era surreale.
Splinter vide l'altra amica affondare le unghie nel braccio di sua sorella nel tentativo di staccarla di dosso a Dana, e con estrema eleganza le afferrò i capelli, torcendoli, e costringendola in ginocchio. E mentre quella si dimenava e il fidanzato dell'altra stava accorrendo a salvarla dalla furia omicida di Bliss, l'efebica bionda si voltò e si sentì afferrare da questo energumeno. Per tutta risposta, lo guardò un secondo circospetta, poi gli assestò una testata sul setto nasale, che lo fece barcollare lasciando la presa, si risistemò il vestito e gli assestò una ginocchiata nei coglioni che fece portare istintivamente le mani a conchiglia a tutti i presenti di sesso maschile.
Un attimo, e Billie Joe reggeva Ria che si dimenava come una piovra, scoprendo le gambe, gridandogli di lasciarla, di lasciarla stare, di lasciarla andare perchè aveva meditato e si era risolta a festeggiare i ventun anni con un omicidio.
“LASCIAMI BILLIE, LASCIAMI!”
Bill, in tutta risposta, serrò ancora di più la presa intorno a lei.
Il vestito era integro, constatò mia madre con suo grande sollievo.
Quando finalmente si fu calmata, Billie acconsentì ad appoggiarla a terra, ma solo perchè glielo chiese per favore.
Bliss scacciava il ghiaccio che Dominic le stava tentando di applicare sul naso con precisissime manate al batterista, che fu chiamato agli altoparlanti per presentarsi sul palco, e la lasciò a malincuore nelle mani di Synyster Gates, riscopertosi premuroso infermiere ben lontano dalla legittima consorte, che Bliss lasciò fare con molta più docilità, tenendogli gli occhi ben piantati sui pettorali. Splinter, dal canto suo, non si era scomposta affatto e, togliendosi signorilmente alcuni ciuffi di capelli estranei che le erano, purtroppo, rimasti incastrati tra le dita, recuperò la borsetta dalle braccia di un allibito Brian Molko e si avviò a passo lieve verso il bagno delle signore per risistemarsi il make up.
Quanto a me, mi toccò fare gli onori di casa.
“John, ritengo che tu debba portare Dana in albergo.”
John aveva riacquisito tutto il suo solito savoir fare, perso per un secondo alla notizia del tradimento, e mi sorrise, smagliante.
“Sono sicuro che gli amici di Dana si prenderanno ben cura di lei. Vai a casa con loro, cara, e aspetta una mia telefonata.”
“Tu non vieni?”
“E' il compleanno di mia figlia.”, la congedò asciutto, rifilandole una risposta che non ammetteva diritto di replica e lasciandola nelle braccia incerte delle due coppie di amici di lei, violentemente scossi per essere stati appena messi a ferro e fuoco da tre ex-groupies ventenni e infuriate.
Ria stava in silenzio, chiusa nell'abbraccio fraterno di Billie Joe.
“Aveva ragione Trè.”, gli confessò, in un moto di lealtà post-faida. Poi si riscosse, e recuperò un sorriso che le invidiai moltissimo, perchè mi resi conto che era autentico.
“No, papà.”
“No cosa?”
“Non stiamo insieme.”
John le scoccò uno sguardo consapevole. Non era mai stato bravo con i sentimenti, ma non ci voleva molto a capire che quel chitarrista le aveva fatto molto, molto male.

 

 

E se è questo che tu mi chiedi,
io ti perdo, ma stavolta resto in piedi,
anche se qui dentro me qualcosa muore.
Per averti farei di tutto,
ma non ti voglio,
non ti voglio senza amore.”
(Adriano Celentano, Per Averti.)

 

 

Da molto tempo lui era diventato Parigi e New York, Istanbul e le isole greche,
il più lungo riassunto di desideri impossibili con cui la vita l'avesse mai tormentata.”
(Angeles Mastretta, Donne dagli occhi grandi.)

 

 

Per amore,
solo per amore di quel viso che non può tornare
della stella che non può cadere giù
la tua mano che non sa tenermi più.”
(Roberto Vecchioni, Per amore.)

 


Come spesso accade, ironicamente, nella vita, cosa dovevo fare mi fu chiaro già mentre lo stavo facendo. Guadagnai l'ingresso delle quinte scostando con rabbia i teloni neri che erano stati eretti a fare da separé improvvisato vicino al palco, e localizzai immediatamente Matthew che, assorto, accordava la Manson nera.
“Ria ha saputo di Dana.”
Lo dissi relativamente a bassa voce, ma il rimbombo di ciò che avevo detto usò le corde per amplificarsi. La gente intorno, affaccendata in tutt'altre faccende, dovette intuire che era giunto il momento di togliersi di torno.
Matthew alzò la testa verso di me.
“Doveva succedere.”
“Solo questo sai dirmi? Doveva succedere? Come la madre di Airton Senna?”
Poggiò la chitarra, e mi fronteggiò con quello che qualcuno avrebbe trovato coraggio. Io sapevo che non era così. Per quel che avevo capito di lui, era lui e basta.
“E cosa vuoi che ti dica, Fleur? Sapevo che l'avrebbe saputo, prima o poi.”
“Dio, non è questo l'uomo che ho amato.”
Perse un momento il filo.
Sbuffai, roteando gli occhi al cielo.
“Eravamo quattro ragazzini. Quattro ragazzini lunatici, cresciuti in un universo troppo lontano per considerarsi parte del mondo, quattro ragazzini che avevano in comune due cose: il rock e l'orientamento sessuale. A tutti e quattro piacevano gli uomini. Abbiamo passato intere serate a fare congetture e guardare video dei Muse. Vi abbiamo immaginati, vi abbiamo scandagliati, ci siamo sforzati di comprendervi, vi abbiamo sentiti vicini, vi abbiamo sentiti amici, tu con le tue stramaledette parole ci hai insegnato l'amore. Ria più di tutti. Ria aveva qualcosa di privato e imperscrutabile con te, infatti di te non parlava mai, se non pochissime volte, e, mentre noi ci divertivamo a ipotizzare e immaginare e farci i fatti tuoi su internet, lei stava in disparte, non si interessava di niente e se parlava di te non parlava mai a vanvera. Ti rendi conto? Sei in grado di arrivare alla sottile differenza tra noi e lei? L'esclusività e l'importanza che ti attribuiva ancora prima di conoscerti, spontaneamente, non per dimostrarti qualcosa, ma perchè le veniva naturale? Le capisci, queste cose?”
“Non del tutto.”
“Bene, allora provo a spiegartelo. Se una persona non sente il bisogno di fare incursioni nella tua vita privata, di violare i tuoi spazi, quando ancora non ti conosce e non potrebbe mai offenderti in nessun modo, essendo tu ignaro della sua esistenza, ti rendi conto di quanto avrebbe fatto standoti affianco? Senza strafare mai, peraltro.”
Abbassò gli occhi, e poi li alzò di nuovo.
“Ah, ma io sto qui a spiegare come stanno le cose a Matthew Bellamy. Paradossale. Tu le hai spiegate a me, tanto tempo fa, e tra di noi ci sono sette anni che sembrano seimila. Io sono troppo posato per te, troppo filosofico ed affettato, me ne rendo conto. Ma tra te e Ria ce ne sono dodici, vorrei non lo dimenticassi. L'hai cresciuta tu.”
Quest'ultima affermazione dovette afferrarlo per la gola, perchè diede un sorso alla bottiglietta d'acqua, e nei suoi occhi passò qualcosa. Qualcosa che somigliava a “lo sapevo, ma avrei preferito non sentirmelo dire”.
“Fleur.”
Gli rivolsi uno sguardo torvo.
“Io tengo molto a Ria, davvero. E ho visto cose straordinarie, di lei. Ma non è il tipo di straordinario di cui io posso occuparmi, non senza fare una marea di danni. Forse non sono pronto per tutte queste responsabilità. Io la voglio trovare una soluzione, non c'è niente che voglia di più al mondo, ma non ho idea di dove iniziare. E' una cosa così difficile, reggere una storia così. Ma vorrei che tu le dicessi un paio di cose da parte mia, è molto importante.”
Alzai gli occhi al cielo, ma il cielo, come di suo solito, mi ignorò affettuosamente.
“E cos'è di preciso questo straordinario di cui vai parlando? Puoi farmi un esempio? Vorrei capire di cosa si tratta, magari posso darti una mano. Perchè, vedi, io di mestiere guardo film: mi pagano per giudicare le proiezioni schermate e perfette di vite ideali. La gioia ideale, il dolore ideale, il padre ideale, il matrimonio ideale, la tragedia ideale... Quindi spiegami. Cos'è straordinario, secondo te? Ria che lascia tutto e viene a Londra, e non crederai che l'abbia fatto per scappare?, Ria che respira contro un vetro ad occhi chiusi, stanca di tutto ma non di te, mai di te, Ria che è qui stasera ed è felice perchè tu ci sei, non 'anche' perchè, ma 'solo' perchè. Te ne rendi conto? Sei un uomo, no? O non lo sei? E cosa dovrei dirle, poi? Diglielo tu, ascolterà te e te soltanto perchè è fatta così, è un'estremista, ha deciso che saresti stato tu anni ed anni prima di conoscerti, come ti ho appena spiegato, e per tutta la vita sarai tu il solo che vorrà ascoltare.
La volete smettere tutti quanti di rifuggire come i topi le responsabilità, sostenendo che chi vi ama non ve ne deve dare, ma non disdegnare nel frattempo di bervelo tutto, questo amore immeritato, ricambiando con molliche e sensi di colpa? Ria si sente in colpa, lo sai da solo e te lo dico io, per averti dato questa immensa responsabilità.
Ed è una cosa difficilissima da gestire, te lo riconosco, ma maledizione... Che sarà mai, in confronto a tutto il resto? Mi vuoi dire che non te la senti? Ma quando mai ve la sentirete, voi. Vigliacchi che ammettono la loro vigliaccheria e ci navigano tranquilli, senza farsi problemi...
Sbagliate tutto, tutto, ogni passo in questa straordinaria vita, sbagliate consapevoli di sbagliare e pretendete il lusso di stare anche male, di sentirvi oppressi... Oppressi da cosa? Non li vedi i chilometri di deserto che hai intorno, non lo vedi che sei tu l'autore di tutti i fallimenti che tanto ti fanno ancora male, e quando incontri l'unica persona in una vita che sia disposta ad amare quello che sei chiedendoti in cambio solo che tu la lasci fare, cosa fai? Le chiudi la porta in faccia e ti aggrappi con le unghie a quelle quattro stronzate di cui hai vissuto fino ad ora, che ormai non ti danno neanche più un sollievo momentaneo, scaricandole addosso la colpa di essere stata oppressiva, dipingendoti in testa un'immagine di lei che non le somiglia per niente e convincendotene nel minor tempo possibile pur di non dover mai ammettere a te stesso la verità.”
Mi stava ascoltando con attenzione, infatti mi chiese, a bruciapelo, “E qual è la verità?”.
Volevo una sigaretta.
Soffiai via aria, veleno e mancanza di spirito di sopportazione.
“Che sei un coglione, ecco qual è la verità.”
Senza alcun preavviso, mi guardò dritto negli occhi e scoppiò a ridere, con grave disappunto di Dominic, che aveva assistito tacito e complice alla scena, ma che mai, mai avrebbe dato torto al suo migliore amico. Io, però, mi accorsi che Matthew aveva capito, e che era consapevole dell'esattezza di ogni sillaba: cosa ne avrebbe fatto di quella consapevolezza, lui stesso me lo disse. Tre secondi dopo.
“Ho capito, va bene. Ci penso io.”
Si voltò verso Dominic, tranquillo come il Dalai Lama.
“Vai a chiamare un attimo Chris.”
Poi, si rivolse nuovamente a me.
“Va' da lei, Fleur. Io ora vado a fare l'unica cosa che riesco a fare senza diffondere terremoto e tragedia tutto intorno a me.”
Gli sorrisi, ieratico.
“Se permetti”, dissi, “non sono d'accordo. Questo è il modo più efficace che hai per creare scompiglio.”
Mi sorrise di rimando.
“Ma è perchè sei maledettamente bravo.”
Mi voltai, lasciandolo là con i suoi dubbi, le sue chitarre e le sue parole in sospeso.

 

Io ti verrò a cercare. Sai che lo farò.
Ma la domanda è: tu faresti lo stesso con me?
E' questo che devi capire.
Perchè un giorno la smetterò di rincorrerti.”
(E. Hawke.)

 

Salì sul palco in un baluginare indistinto di luci rosse e dorate.
Ria stava dalla parte opposta rispetto a me, in un angolo tra i drappi e le chitarre appese al muro: accanto a lei c'era qualcuno che avevo già visto, una fotografa, la migliore. Shots, “scatti”, la chiamava Ria. Si erano conosciute lavorando insieme al Rolling Stone, ma non era importante: la cosa importante è che lei faceva le foto ai Muse da dieci anni, aveva la reflex a tracolla, e quello era un momento che proprio doveva immortalare, a scanso di qualunque equivoco.
Shots le parlava, ma i suoi occhi stavano fissi su un punto, il punto in cui lui trafficava col mixer davanti al microfono, gli occhi concentrati, e lei si chiedeva se il cuore le sarebbe bastato per vederlo altre cento volte, così, pieno di tutto ciò che solo lui sapeva, di sterminati universi di suoni e parole, che semmai avesse smesso di scrivere, di suonare, pace, lei poteva anche morire.
Evey Zonk lì in mezzo la conoscevano tutti. Non era il suo vero nome, ovviamente, quello nessuno lo conosceva. Mentre Shots lasciava il fianco di Ria per approssimarsi a una posizione favorevole per gli scatti, lo guadagnò lei. Era sempre in viaggio, non la si vedeva mai, se non agli eventi. Cosa facesse, non era chiaro. Qualcuno mormorava che scriveva, con un ulteriore pseudonimo sconosciuto a tutti. Comunque, anche lei l'avevamo conosciuta al primo concerto dei Muse. L'aveva capita, l'aveva guardata bene, Ria, e forse era un suo diritto prenderle la mano, nel silenzio prima di quella parola che Ria non avrebbe mai voluto dire. La tenne stretta, quella mano destra magica, capace di così tante cose, mentre note impreviste e imprevedibili invadevano l'aria.
Sul palco, un uomo che aveva sfidato il tempo e sé stesso, perchè qualcuno fosse felice.
“Questa canzone”, disse, e la sua voce risuonò come una miriade di campanelli cristallini, impattando sulle mura, sgusciando tra gli orli dei vestiti, risalendo come una veloce formichina le spalle e il collo dei presenti fino alle orecchie, “la lascio al dottor Gregory Fleur. Sperando che la porti dritta a destinazione.”
Un brusio indistinto ed ignorabile di stupore si diffuse come una macchia, zittito da tre accordi di chitarra ben assestati.

Tell her she is always beautiful,
tell her everything's my fault,
tell her this is not what I had planned,
but tell her I am moving on...
Tell her love will come around, someday.


Ria aveva smesso di respirare. Evey Zonk la accarezzò con lo sguardo, e le strinse la mano più forte che poteva. Gli occhi le si riempirono di note.

Please, tell her not to cry...
I never meant for love to leave her cold tonight...
Please tell her that I try to spare her all my lies,
tell her something.


Eccola lì. Due passi avanti, un tentativo di lasciare la mano di Evey Zonk. Ma Evey Zonk col cavolo che gliel'avrebbe mai permesso.

And tell her I am lost in misery,
and tell her I have lost my mind,
and tell her love is such a mistery...
And tell her tunnels end in light.
Tell her love will come around, someday.


Questo voleva che le spiegassi, con un po' meno solfeggi e un po' più di pratica. Ma io non ne ero in grado. Nessuno era in grado di mettersi tra quei due.

Tell her I cannot say all that my heart wants to tell her,
but nothing can change that all of these words are not enough.


Ria si fece due scalini ai lati del palco al ralenti, insieme ad Evey Zonk. Dominic suonava con gli occhi bassi. Chris cercava una buona ragione nel tavolo degli stuzzichini. Matt, invece, suonava diretto a me, sì, ma guardando lei.

Tell her she is always beautiful,
tell her everything's my fault.


Neanche il tempo di contare fino a zero sul morire dell'ultima strofa, e Ria era sul palco, sotto gli occhi curiosi di Dominic e di Chris.
La meraviglia banale del solito abbraccio era esclusa a quei due.
Evey Zonk le lasciò finalmente la mano, mentre lei si schiantava, nel silenzio, tra le braccia di Matt. Fu allora il boato, e con le lacrime agli occhi che nessuno dei due avrebbe versato, si spiegarono a sguardi quanto di meglio c'era in quella sala, perchè lui non chiedeva scusa, mai, ma un'eccezione, per Ria Montague, l'aveva fatta volentieri.

 

Sei così sempre tu da togliermi il respiro.”
(Roberto Vecchioni, L'amore mio.)

 

Un quarto d'ora dopo, la sbronza serpeggiava palpabile in ben quattro quinti dei convenuti all'evento.
Mi sfrecciò davanti Dominic, con un lampo di luce ancestrale negli occhi che me lo fece apparire diverso da tutto il resto.
Lo seguii con lo sguardo, e lo sorpresi a parlottare con uno dei tecnici, gesticolando all'inglese: poi si voltò, e mi sorrise, brandendo un microfono.
Non capii.
“Perdonate l'interruzione.”
Aveva una bella voce, Dominic Howard.
“Vi prego di spostarvi tutti ai lati della sala, lasciate il perimetro libero quanto più possibile. Velocemente, grazie.”
Una folla di ebeti barcollanti si affrettò ad obbedire al tono perentorio del batterista, assiepandosi in un cerchio imperfetto. La sala vuota sembrava un'arena, delimitata da gente accatastata, stretta e curiosa, in attesa.
“Grazie. Abbassateli!”
All'improvviso crollò, come una nevicata poco comune, un mare di drappi bianchi di seta, spessi al punto di far intuire solo le sagome. Un singolare e fittissimo labirinto di veli bianchi appesi al soffitto, che arrivavano fino a terra rendendo impossibile la visuale, e lasciavano solo intuire appena i contorni degli altri, una volta che ti eri addentrato.
Ancora asserragliati ai lati della sala, nessuno vedeva più nessun altro che non gli stesse già di fianco. La voce di Dominic, invisibile a tutti, risuonò come una eco di un'altra era.
“Stasera è anche il compleanno di Bliss Morrissey, che tutti conosciamo per il suo talento e la sua proverbiale imprendibilità. Parla molto poco, ve ne sarete accorti. Però, una volta, parlando, mi raccontò della sua fiaba preferita. Alice nel Paese delle Meraviglie. Mi disse che la vita è un po' così, un labirinto infinito, e spesso prendere una direzione equivale a cambiare il corso delle cose. Io non sono mai stato bravo con questa roba, ma, visto che il mio miglior amico ha cantato per una donna speciale, io volevo fare una cosa bella per una donna altrettanto speciale, e le ho costruito un labirinto. L'ho costruito a tutti, in realtà. E ora andate, entrate, cercatevi. Vedete un po' se quello che trovate vi sta bene, se è quello che vi aspettavate o no. Incrociatevi in mezzo ai veli come se fosse la prima volta. E divertitevi, soprattutto. Cheers!”
Sorrisi a quell'incredibile salto di qualità di Dom.
E dunque era un romantico.
E dunque era pazzo.
C'era pure un motivo per cui era il miglior amico di Matthew, ci doveva essere per forza: ed eccolo là, il motivo.
Non avevo intenzione di infilarmi nel labirinto per cercare. Avevo intenzione di stare a guardare. Quindi, con un paio di calcoli, mi cercai un punto strategico, e osservai la gente che, con crescente entusiasmo, si infilava in quell'avventura, in quella ricerca. Chissà cosa speravano, cosa pensavano, cosa volevano loro, da quel labirinto.
Ognuno, potrei giurare, ne aveva fatto una questione personale. Un faccia a faccia con l'ignoto.
Vidi Ria muoversi sorridendo, casuale, ringraziando mentalmente Dominic per quell'insperato presagio di chiarezza, la vidi scontrarsi piano con Billie, e scoppiarono a ridere entrambi, così, semplicemente. Senza problemi.
“Bill.”
“Ria.”
Lo stomaco le fece una capriola quando la baciò senza preavviso.
Lo so perchè aveva quell'espressione lì ogni volta che il suo organismo reagiva a stimoli esterni. La vidi, senza colpa, baciarlo all'ombra dei veli bianchi. Un bacio silenzioso, furtivo, lento e breve nel suo esistere. Nato e morto così, tra sogni e disinganni.
“Scusa.”
“No, scusa tu.”
“Scusa se sono stata così...”
Billie si passò una mano tra i capelli.
“Non funziona tra noi, Ria. Non che io abbia mai creduto il contrario. Lo sapevo anche da prima, non hai occhi che per lui.”
Ria gli sorrise.
“Neanche i tuoi occhi sono per me, lo sai.”
“Lo so. Sono stato un placebo. Un ripiego.”
“Una consolazione.”, lo corresse. Come fa un cantante ad essere una catastrofe con le parole, rimarrà oggetto delle mie vaste ricerche sull'indole umana per tutta la vita.
“E tu lo sei stata per me.”
“Una cosa del genere la cantavano i Coldplay.”
“Una cosa del genere la cantava chiunque.”
Sorrisero.
“Ti voglio bene, Billie.”
“Ti voglio bene anche io, Ria.”
“E' stato il nostro bacio d'addio.”
“Non è una domanda, vero?”
Ria rise, gli diede un bacio sulla guancia e svanì tra i veli, lasciandolo a guardare il punto in cui era sparita.

 

Ti sarò per sempre amico, pur geloso come sai;
io lo so, mi contraddico, ma preziosa sei tu per me.”
(Celentano, L'emozione non ha voce.)

 

Fu la volta del trionfo di Bliss Morrissey, che sbattè praticamente addosso a Synyster Gates.
“Bell'idea, il tuo ragazzo.”
“Non è il mio ragazzo.”
Un coltello da bistecca per tagliare la tensione, per cortesia.
“Beh, si comporta come se lo fosse.”
Bliss sorrise.
“Io non ho mai avuto un ragazzo, lo sai bene.”
“Certo, tu hai soltanto frequentazioni.”
“Dimentichi l'aggettivo. Brevi. Brevi frequentazioni.”
Synyster rise, attirando l'attenzione di alcuni vagabondi che scostavano veli intorno a loro.
“Senti, Bryan. E' stato bello. E divertente. E' stato bello e divertente. Ma io sono confusa. E tu sei un cazzone.”
Synyster le sorrise con gli occhi, gettando uno sguardo verso un punto imprecisato alla sua sinistra.
“Ria lo sa?”
“Ria sa sempre tutto di tutti.”
La squadrò, un po' sorpreso.
“Non le hai detto niente di noi?”
“Che c'è da dire di noi?”
Il chitarrista si strinse nelle spalle.
“Una miriade di cose, direi.”
“Dov'è Rev?”
“Tra le braccia di Ria, qualche velo più in là.”
Bliss tacque.
“Senti, Bliss. Bellamy sa di...?”
Ma Bliss lo interruppe, in malo modo.
“No che non sa di. E non devi andarglielo a dire certo tu.”
Cominciai a capire che c'erano parecchie cose che Ria aveva taciuto a Matthew. A giusta ragione, ritengo.
“E' la tua migliore amica. Secondo me dovresti avvertirla della nostra pregressa situazione, comunque.”
Bliss, per tutta risposta, gli sbuffò in faccia.
“La nostra pregressa situazione non dovrebbe essere argomento di discussione.”
“Allora si fa come vuoi tu, come al solito. Belle le foto del concerto, comunque.”
“Sono sempre belle, le mie foto.”
Un bacio a fior di labbra; Synyster Gates aveva corso il rischio. Bliss lo baciò e poi lo guardò, gelida, e lo sorpassò con una spallata. Non l'avrebbe ammesso mai, neanche a sé stessa. Anche lui, come Billie prima, guardò sparire una donna tra i veli misteriosi del nulla.

 

Come back to me, love,
it's almost easy.”
(Avenged Sevenfold, Almost Easy.)

 

Mai più.”
“Non sapevo che lei fosse incinta.”
“La lasci, e improvvisamente scopre che è incinta? Io non sono una groupie, Brian, io sono un'artista, non sono qui per fare la tappabuchi di tua moglie. Mi sembra peraltro una follia che tu venga a dirmi una cosa del genere alla festa di mia sorella.”
“Ma io...”
“Ma niente. Niente, Brian, niente. Niente di niente. Non abbiamo niente da dirci. E' stato bello. Divertiti.”
Brian la guardò, sospirando.
“Fai gli auguri a Bliss e a Ria da parte mia.”
Splinter gli scoccò un'occhiata di marmo, prima di sparire anche lei, come la sua amica, come sua sorella, come tutto il resto. Era un colpo basso, che personalmente non mi sarei mai aspettato da un introverso come Brian. Ed evidentemente neanche lei. Le corsi dietro nel tentativo di consolarla, ma non ci riuscii. Svanì velocemente, e al suo posto giunse qualcos'altro.


 

Tell me, did you fall for a shooting star, one without a permanent scar
and did you miss me while you were looking for yourself out there?”
(Train, Drops of Jupiter)

 

Non volevo guardarli, infatti non li cercai.
Più semplicemente, mi capitarono nel campo visivo mentre rincorrevo Splinter, come due lucciole vagabonde. Le luci avevano subito un crollo strumentale, si vedeva solo un ovattato baluginare di fasci luminosi caldi oltre i drappi di seta.
A proposito di drappi di seta, spostandone un paio Matt e Ria si trovarono, come molte altre volte in sedi diverse da quella era accaduto, l'uno di fronte all'altra: tra loro, un velo più sottile degli altri lasciava l'interlocutore in un alone di sottile mistero. Io li vedevo di profilo, loro due e il velo in mezzo, timorosi anche di sfiorarsi, nell'eventualità di mandarsi vicendevolmente in pezzi, come bolle di sapone.
Alla fine Matt prese coraggio e allungò una mano oltre il velo, cercando quella di lei: la trovò in fretta e la strinse, mentre l'altra mano di Ria asciugava una lacrima sottile nata spontanea e ribelle su un angolo di un occhio e destinata lì a morire, inespressa.

 

E mio padre mi insegnò a lanciare ad occhi chiusi, perchè si mira con il cuore
perchè un vero lanciatore di coltelli ricama la vita, non tira mica per colpire.

 

Sono stata a letto con Billie.”
Una rigidità spontanea, inarrivabile, un piccolo, impercettibile indurirsi dei muscoli delle braccia, del viso e del collo.
E, nonostante questo, la abbracciò stretta.
“E io invece sono stato un vero stronzo.”
“Io vivrò di ogni nota che scriverai. E spero che troverai una donna che sappia amarti quanto ti ho amato io, anche se è difficile, e che saprà metterti il cuore in pace e la testa a posto, anche se è impossibile.”

 

E ti darò la gioia di quelle notti passate con il cuore in gola
quando riuscivo finalmente a far ridere e far piangere una parola.

 

Non so stare con te senza farti del male. Dio solo sa quanto ne ho fatto a...”
Lo zittì con le labbra, dischiudendole appena, lasciando che lui ci passasse sopra un dito, ne intrappolasse l'essenza e poi, un giorno, la regalasse ai tasti di un pianoforte, per scrivere di lei, per la prima volta davvero. Aveva scritto di lei per una vita, anche prima di conoscerla, e questo Ria lo sapeva: perciò l'aveva amato. E lo sapeva anche Matt: perciò l'aveva amata.
“Non importa. Non importa con quante donne sei stato, e chi erano, e cos'hanno fatto, e come l'hanno usata, quella grazia inesorabile dell'averti anche solo cinque minuti, se l'hanno capita o se hanno frainteso, più probabile, ogni secondo che hanno passato accanto a te. Non importa se non sei adatto a una storia d'amore, o ad essere felice, o al mondo. Io so che uomo sei, so guardare oltre tutto questo, io ho capito la tua essenza e Dio solo sa quanto mi sento onorata, e lusingata, e sola... Ma stavamo sfidando le leggi della fisica e dell'universo. Due come noi non possono stare insieme.”
Le sorrise, senza rancore, sulla scia di quelle parole lievi, quei voti sottintesi che lei stessa aveva pronunciato sorridendo, e le aveva risposto la cosa più semplice e straordinaria del mondo.
“Come si vede che sei una scrittrice.”
“Abbiamo giocato con troppe parole, nella vita, per rimanere fuori dai confini del sensazionale, quale che sia la situazione. Credo.”
Si tenevano tra le braccia, in mezzo a quella marea di veli bianchi, erano fuori dal mondo, protetti da qualunque occhio che non fosse il mio: io ero nato, avevo vissuto e avevo scritto per raccontare, un giorno, una storia del genere.

 

Quando ti fermerò tra i due miracoli di averti amata e perduta
e lì ti schiaccerò, e lì sarai finita.

 

Possiamo essere amici?”, gli chiese. Voleva saperlo da lui, ed era normale, perchè lui era sempre stato il suo unico metro di giudizio, l'unico esempio che poteva sopportare, l'unico che avrebbe accettato di ascoltare.
“Non credo.”
Sorrisero, ancora.
“Saremo noi e basta, bambina. Siamo così diversi da tutto il resto. Già dovremmo ritenerci fortunati ad avere due migliori amici che ci sopportano con invidiabile tranquillità.”
Gli accarezzò una guancia con la mano, e dietro quella mano c'era un movimento di tutto il corpo, ogni muscolo teso a quel singolo gesto, ogni fibra protesa verso di lui: verso l'unico uomo che avrebbe mai potuto amare.
“Sarai sempre l'unico.”
“Lo so.”
Si guardarono, in silenzio, come se fosse la prima volta.
“E tu sarai sempre...”
Ma, di nuovo, Ria lo zittì con dolcezza, con un bacio soffuso, circondandogli il collo con le braccia, come nelle fiabe. Che dire di lei, che dirne oramai. Era lei, e basta.
Sembrava non dovesse finire mai.

 

Quando ti avrò battuta, cacciata sulla luna, dimenticata per sempre
e avrò cantato il giorno che tu non sei più niente,
verrà la notte e avrà i tuoi occhi.

 

Sparirono con la semplicità di un sogno che sfuma nei contorni di un deluso risveglio.
Bliss vagava, il solito ferro negli occhi, spostando i drappi con gesti soffici delle mani bianche, e velo dopo velo dopo velo arrivò fino a Dominic, fermo in mezzo a quelle nuvole di seta, in attesa chissà poi di che.
“Ciao.”
“Ciao, Bliss.”
Si sorrisero anche loro.
Forse ci volevano dei veli di seta, per far sorridere tutti. Per sollevarli un po' dal peso delle cose, dietro quella spettacolare scenografia che proteggeva le loro vite intricate, fatte di mancanze, di abbandoni, di meraviglie, di lampi, di tuoni, di chitarre e di stelle.
“La nostra vita di qui in poi non avrà più un attimo di senso.”, constatò Dominic, gli occhi bassi sulle pieghe del vestito di Bliss.
“Perchè, fino ad ora ne ha avuto?”
“No, ma li hai sentiti?”
“No, ero lontana.”
Si guardarono.
“Parliamo un po' di noi.”
Fu Dom a dirlo, ma non per questo ha senso. Non ci si poteva aspettare una frase del genere da Bliss e Dominic, in nessun caso e in nessun modo. E invece.
“Noi?”, chiese Bliss, guardandosi intorno. Se la conosco, e la conosco, si stava chiedendo se accendersi una sigaretta avrebbe causato un incendio madornale. Decise di sì, perchè non lo fece. Invece, ascoltò.
“Noi, sì. Cosa siamo?”
“Che vuoi dire?”
“Beh, ci vogliamo bene.”
Attese, scrutandola in cerca di conferme. Che arrivarono.
“Certo che ci vogliamo bene.”
“E siamo amici.”
“In un certo senso, sì.”
“Andiamo d'accordo.”
“Raramente accade il contrario.”
L'ultima parte era un po' meno logica.
“E andiamo a letto insieme.”
Bliss lo guardò.
“E allora?”
Dominic si strinse nelle spalle, cercando parole senza sapere bene né il perchè, né di cosa si stesse parlando. O forse lo sapeva, ma non era attrezzato a tradurlo in frasi.
“Di che natura è il nostro rapporto?”
“Ma dobbiamo per forza catalogare sempre ogni cosa?”
“No, però sai, se vedi un tavolo e una sedia sai esattamente cos'è l'uno, cos'è l'altro, e in cosa differiscono le loro funzioni. Niente vieta di sedersi su un tavolo, ovviamente, ma non è quella la ragione per cui nasce.”
“E perchè nasce un tavolo?”
“Per appoggiarsi, Bliss. E per appoggiare. Che siano piatti, fogli, lampade, piante o cadaveri, è per appoggiare che nasce un tavolo.”
“E la sedia non nasce per appoggiarsi?”
“Sì, ma è deputata a quello e solo a quello. Mica ci puoi mettere una pianta, su una sedia. Non avrebbe senso.”
“E allora non è limitativo, essere una sedia?”
Dominic la guardò.
“Che vuoi dire?”
“Voglio dire che sul tavolo ti ci puoi
anche sedere. Ma sulla sedia è complicato fare le cose che si fanno sul tavolo. Che cazzo ce lo metti a fare, per esempio, un piatto di fusilli su una sedia?”
Le sorrise.
“Ma noi non siamo un piatto di fusilli. Noi siamo due persone comuni.”
“Io disegno copertine per album, faccio quadri e fotografie e giro il mondo per concerti, e tu sei un batterista che a stento ricorda cosa vuol dire stare a casa, non mi sembra che le nostre vite somiglino a vite comuni.”
Lo abbracciò, così all'improvviso che sorprese anche lui. Dopo qualche secondo di impasse, le circondò la vita con le braccia, come se volesse cullarla. Anche loro, allora, erano capaci di gesti confidenziali. Credevo di no. Ma comunque.
“Non siamo Matt e Ria.”
“Loro sono complessi.”
“No, non sono complessi, Bliss. Sono complicati e basta. Però, straordinari, non c'è che dire.”
“E per questo sempre soli?”
Bliss affondò la testa nella camicia di Dominic, sorridendo lieve.
“Buon compleanno, Bliss.”
Lei poggiò un bacio sul petto del batterista, lasciando che lui la stringesse a sé, accarezzandole i capelli.
“Mi chiamo Juniper.”, soffiò a bassa voce, e lui ne fu così sorpreso che per un secondo si dimenticò di respirare: sapeva che avergli detto il suo nome valeva molto più che avergli detto “ti amo”, cosa che non aveva detto mai, forse l'aveva pensata, qualche volta, ma non l'aveva né l'avrebbe mai detta. Erano virtualmente sposati con i rispettivi migliori amici, e con la loro libertà. Altre relazioni non ne volevano, né avrebbero saputo come gestirle, e infatti si erano trovati. Come a voler dimostrare che quel buontempone del Padreterno non è altro che, in realtà, un simpatico umorista.
Di colpo, come niente fosse, si alzarono i veli, svanendo da dove erano venuti, cioè dal soffitto. La gente, colta da un giusto attacco di labirintite, ci mise un secondo a recuperare l'aplomb. Poi, lentamente, il cigolante meccanismo del nostro piccolo mondo personale si rimise in moto, precipitandoci tutti di nuovo nella realtà. La musica tornò a scorrere dagli altoparlanti, fu restituito al suo originario arredamento con tavolini e banconi l'intero salone, le persone pian piano si riunirono in gruppi e intavolarono inutili conversazioni. Ma quella calma apparente durò giusto lo spazio di un amen.
Perchè, come è giusto che sia, di nuovo, all'improvviso, lo spettacolo prese il sopravvento, inglobando tutto il resto come un fascio di luce.

 

E il suo cuore di cristallo aveva tutti i miei domani,
e tutti i nostri possibili giorni nella tempesta e nella neve,
i sorrisi e i ritorni, gli inverni e le primavere.”
(R.V., La ragazza col filo d'argento.)

 

Era arrivato il momento che tutti attendevano.
In mezzo al caos madornale di incroci a quattro braccia di vite che c'era in quella sala, due compleanni andavano celebrati come si conveniva al calibro delle loro festeggiate.
E fu così che Ria, timida come la rugiada, si affacciò sul palco, in una penombra insopportabile.

Buonasera.”
Ogni sguardo, ogni viso, ogni persona in quella sala si tese, all'improvviso, verso di lei. Verso la sagoma appena intuibile, il candore, la dolcezza.
“Lo so, lo so, un anno in più o in meno non fa differenza. Molti di voi prima di stasera non avevano idea di quanti anni avessi, e dopo stasera lo dimenticheranno completamente.”
Le concessero il favore di una risata, per stemperare il macigno di parole che aveva da dire.
Io lo sapevo già, perchè la conoscevo bene. Qualcun altro seppe intuirlo, senza malizia. Comunque, ci pensò lei a fugare ogni dubbio, di lì a breve.
“La festa è per me e per la mia storica migliore amica, Bliss Morrissey; la vedete, è quella nuvola viola scuro con i capelli bianchi, che è la diretta responsabile della mia salute mentale e della struggente bellezza di alcune delle copertine dei vostri ultimi album.”
Partì un applauso spontaneo e divertito, mentre Bliss accennava profondi, ironici inchini ottocenteschi a destra e a manca.
“Ma qui, stasera, c'è una persona. Di solito è lui che sta sul palco, ed io a guardarlo dal basso, sentendomi unica e privilegiata a poterlo ascoltare: non pretendo che sia reciproco, sia chiaro, ma vorrei che almeno si limitasse ad ascoltare, anche senza sentire niente in particolare. Vorrei che ascoltaste anche voi.”
Un rispettoso silenzio generale le rese difficile scendere a patti con la salivazione azzerata, ma sono sicuro che dentro una calma antica le rilassava i tessuti.
Intercettò lo sguardo di Matthew, ma lo distolse subito: però, in quel contatto visivo di un secondo c'era tutto ciò che doveva esserci. Matthew stava concentrato su di lei, con un sorriso leggero.
“So bene che la festa è per me, dicevo. Ma adesso, se permettete, vorrei parlarvi un secondo di lui.”
Tutti, come una marea umana, ci avvicinammo un po' di più al palco. Sembrava un concerto al contrario, un fan lì sopra e tutti quegli artisti in basso, ad ascoltare. Aveva una bellezza tutta sua, quel momento in cui tutto si rovesciava.
E poi, Ria parlò.
“Lui è narcisista, egotico, eterodosso e iconoclasta, impaziente, dispersivo, lunatico, discontinuo e umorale come Marylin Monroe, criptico, sensazionalista, infantile, esibizionista, superbo, irragionevole, presuntuoso, impressionabile, egoista, intransigente, incomprensibile, incatalogabile, ossessionato, caustico, un professionista delle seghe mentali e della destabilizzazione psicologica.”
Le risate puntellarono qui e là il salone come fasci di luce. Ria sorrise, nella penombra, osservando la scena.
“Però, è giusto che sappiate che lui è anche comprensivo, paziente, presente, affettuoso, autoironico da morire, curativo e balsamico, come se non avessi bisogno di nient'altro al mondo quando lui è con te, è romantico, sì, molto galante, anche, pure se a volte sembra una questione personale... E' sempre poetico, straordinario in ogni cosa, intuitivo, imparziale, onesto, generoso, addirittura dolce, propositivo, elastico, liberatorio, divertente, un ottimo ascoltatore, capace di voli che non sono da tutti.”
Alcuni “Awwwwwww” rimbalzarono tra la folla, scatenando un altro applauso. Ria sorrise di nuovo. Sapevo quanto era brava a tenere la scena, Matthew invece no, e infatti sorrise, sorpreso.
“Ma, fondamentalmente, è insondabile. Inafferrabile. E sapete perchè? Perchè tutte queste cose lui, che è un'icona -di sterminate moltitudini, ma soprattutto di sé stesso-, le è a modo suo. Le reinterpreta, le arrangia come fa con le canzoni. Ha il suo metodo per reinterpretarle, ovviamente, e quel metodo dovrebbe essere oggetto di indagine da parte del reparto antropologia dello Smithsonian Institute di Washington, secondo me.”
Ancora risate, commenti indistinguibili, applausi sparsi. Attese pazientemente che finissero.
“Ma è per questo che io l'ho amato; perchè non somiglia a niente. Niente che io abbia mai visto, e niente che non sia lui. Sembra che qualsiasi cosa detta o fatta nella storia dell'uomo in posizione eretta, detta o fatta da lui abbia un suono, un sapore, un significato completamente diverso: quello giusto. Una volta mi disse, guardando il soffitto di casa mia, che c'era vento. Fu come se l'avesse inventato lui in quel momento, il vento; non importava che esistesse da millenni, che ci avessero giù scritto su miliardi di canzoni, libri e poesie, che ci avessero partorito su un milione di considerazioni diverse e giustissime. Il preciso modo in cui lo disse, ed il momento in cui lo disse, e il tono, e le pause, lui gli stava dando ragione d'esistere, al vento, attraverso di lui il vento si riscattava da decadi di bestemmie delle signore appena uscite dal parrucchiere, gli si perdonavano i disastri aerei e gli uragani, in quell'attimo a casa mia.
Questa stessa, identica cosa lui la fa con le chitarre, i pianoforti e i microfoni. E' bravissimo, lo so, ma ci sono stati chitarristi migliori, e pianisti più capaci, e cantanti più dotati: solo a lui, però, riesce quell'impossibile reazione chimica che fa cambiare il senso di ciò che tocca, che scrive, che dice, che canta, che suona e che fa. E' impossibile capirlo, se non lo avete mai ascoltato suonare. Non sentito, ascoltato: che è un po' più di sentire, proprio come 'guardare' è un po' più di 'vedere'. Tutto torna, direi. Anche lui è un po' così, credo: come c'è 'guardare', e poi c'è 'vedere', c'è 'lui' e poi 'tutti gli altri'. Il concetto di base è quello, sia per guardare che per vedere si usano gli occhi: quello che distingue le due azioni è, in realtà, una sfumatura. Siamo tutti esseri umani, suppongo, incluso lui, ma la differenza tra noi e lui è proprio questa: una sfumatura. La sfumatura che lui ha, in ogni cosa che fa.”
Le regalarono un silenzio rispettoso, tutti quei visi, quelle persone abituate a farsi dare retta, a domare le folle, a fluttuare sul resto. Le regalarono il silenzio che si deve agli eroi.
“Tutte queste parole perchè la deformazione professionale mi impone di essere il più chiara possibile quando esprimo un concetto, e volevo davvero, davvero, credetemi, rendergli almeno l'idea dell'immensità che, esistendo, ha reso mia. Ho imparato moltissimo da lui, da quell'assurdo, incredibile modo di stare al mondo che ha soltanto lui. Dal suo modo contorto, profondo e contraddittorio di farmi presente sempre, in ogni istante della nostra vita insieme, quanto io contassi, per lui.
Ed è per questo che l'unico modo che ho di celebrare me stessa è celebrare lui, che ne è il diretto responsabile. Ogni cosa vera che ho vissuto, ogni emozione che mi ha cambiato la strada, la devo a lui.”

Sospirarono, tutti, gli occhi fissi su quella visione che dalla penombra passava, ora, lentamente alla piena luce di un faretto, e mentre lo faceva la vita si sospese come nel minuto di raccoglimento prima della partita.
Matthew, rigido poco lontano da me, per la prima volta nella sua vita non aveva la benchè minima idea di cosa fare: si stringeva le mani giunte davanti alla cintura, apparentemente inespressivo. Solo gli occhi lo tradivano, e mi gridavano un'emozione violenta.
Ria apparve alla luce. Bella in un modo commovente, praticamente bruciò gli occhi dei presenti. Logorò le galassie. Paralizzò i concetti.
Li sentivi, di colpo, tutti i battiti che acceleravano a dismisura. Tutti. Quelli di uomini e di donne. Il mio, che sono gay dichiarato dal 1994, e quello di Matthew.
Le donne presenti abdicarono all'invidia per lasciare posto all'unico sentimento che consentiva loro ancora di resistere nella vita: l'ammirazione incondizionata.
Le bocche si dischiusero dallo stupore. Si alitò meraviglia.
La vedemmo tutti per la prima volta in quell'istante, comprendendo, finalmente, la sfumatura.
Ria, inguainata in un taglio d'occhi giallo oro da pantera mansueta ma indomabile, consapevole della sua improvvisamente statuaria, inarrivabile beltà, scese le scale davanti al palco, esibendo una matrice di timidezza che moltiplicò il suo erotismo dentro numeri che i matematici non sono ancora arrivati a formulare nemmeno con la fervida immaginazione. Suo padre doveva essere come minimo infastidito da tutti quegli occhi che la osservavano rapiti, ma era troppo occupato a spiegarsi come la figlia ribelle con le Converse , i capelli in perenne ordine sparso e le maglie delle rockband si fosse improvvisamente trasfigurata in quella Dea orientale, degna donna di quello che, se prima non era il più grande chitarrista degli ultimi trent'anni, lo era senza dubbio appena diventato per attribuzione.
Il suddetto chitarrista accusò un sospetto tremore al sopracciglio, ma prese il coraggio a due mani per fare qualche passo verso di lei, riprendendo di colpo coscienza che quella divinità neonata, ex mia amica discontinua, folle e rockettara, era di lui che parlava poco prima.
Mentre il re e la regina dell'universo conosciuto convergevano lentamente verso lo stesso punto, ovvero il centro della sala, la folla si aprì come il mar Rosso, in tacita e catturata osservazione.
Ria avanzava come se dovesse venirsene giù il mondo, sotto gli sguardi pullulanti.
Aspettò che ci fossero due o tre metri, sgombri di qualunque forma di vita, tra lei e Bellamy , quindi finalmente si fermò; e, guardandolo dritto negli occhi come se dovesse spiegargli a sguardi il significato del mondo, facendo onore ad Anna Karenina alzò il calice contenente uno champagne dorato all'indirizzo della volta celeste.
Dopo alcuni secondi di impasse, il pubblico riacchiappò la coscienza dalla fossa delle Marianne e la imitò.
“A Matt Bellamy.”, scandì, sorridendogli.
“A Matt Bellamy!”, le facemmo eco tutti, entusiasti e rincoglioniti, incapaci di reagire, di una produzione propria di pensiero, insomma, di qualsiasi cosa.
Vuotò il bicchiere senza staccargli gli occhi di dosso, e mentre lo mollava in mano a Mike Portnoy- che lo prese senza battere ciglio- partì un chiacchiericcio inframezzato da un applauso e qualche sporadica invocazione a un bacio, pure se aleggiava nell'aria il discreto sospetto che un bacio tra quei due avrebbe potuto rappresentare il colpo di grazia emozionale definitivo alle coronarie degli invitati, già provate da quella scena felliniana.
Ma non era finita, no.
Lui la guardò.
Lei lo guardò.
Tutti guardarono loro due.
Lei aveva momentaneamente smesso i panni di neoventunenne inquieta e insondabile per vestire quelli smessi da Bette Davis alla sua morte; lui trasudava carisma e fascino da ogni poro, come sempre, ma per le persone che ormai vedevano con gli occhi di Ria era improvvisamente l'uomo più desiderabile del creato. Tutte le donne in sala, inclusa Fiorellino, e anche qualche uomo se ne innamorarono perdutamente all'istante.
Ria e Matt ignorarono ogni altra cosa.
Si sorrisero come se si stessero rivelando l'uno all'altro adesso per la prima volta: invece si frequentavano, litigavano, si prendevano e si lasciavano già da diversi mesi.
Tennero la scena che neanche Freddie Mercury e Montserrat Caballè nel video di “Barcelona”.
Poi Ria, lenta e cauta come il serpente a sonagli un attimo prima di ingoiarsi un topo intero, fa qualche passo avanti, verso di lui, scoprendo nel camminare, praticamente per intero – a causa dello spacco a dir poco vertiginoso del vestito alacremente prodotto da mia madre -, una gamba destra lunga e ambrata che non farà finire mai gli aneddoti che si sono susseguiti negli anni su questi quattro secondi epocali.
La sua gamba si protese in avanti nel frusciare delle pieghe del vestito, e allora non si contarono più i malori dei maschi convenuti all'evento. Trè Cool affianco a me, molto semplicemente, stava per cadere a terra. Ho dedicato alcuni secondi allo stringergli con violenza un braccio per fargli affluire un po' di sangue nuovamente al cervello.
Ma non stava provocando nessuno, Ria. La provocazione era estranea alla sua immensità. Sarebbe un giochetto troppo facile, per lei: senza contare che quella gamba di serie A, di solito mai scoperta, come tutto il resto di lei è lì soltanto per Bellamy, il quale infatti la accarezza con lo sguardo.
E' solo che la doveva per forza scoprire, quella gamba, un gesto non volutamente erotico strettamente necessario per coprire la distanza tra lei e Bellamy, afferrargli il bavero della giacca e baciarlo. E infatti si baciarono. Con la lingua dolce. Per quattro minuti. Come gli adolescenti dietro gli armadietti delle scuole, insensibili a quel silenzio ultraterreno e al clic di Shots e degli altri pochissimi fotografi che avevano avuto la presenza di spirito di non imbambolarsi, ebeti, davanti a quella strabiliante performance involontaria.
Mentre si baciavano nel prototipo archetipico del bacio perfetto, immortalato forse solo da Francesco Hayez, il vestito, nel fruscìo causato dai lievi movimenti con cui si stringevano l'uno sull'altra, scoprì' di nuovo un po' di abbaglianti sprazzi della gamba del delitto, che si palesò nell'immaginario collettivo mentre agganciava la vita di Bellamy mentre facevano l'amore, gli si strusciava sulla schiena, si irrigidiva impercettibilmente di quando in quando , mentre lui la reggeva tra le mani e la faceva vibrare di una melodia splendida, come una delle sue Manson.
La gente, praticamente, cessò di respirare. Preda di questa fantasia, stava a guardare, sotto ipnosi, il decorso del bacio.
Slash in un angolo, che avreste giurato tra la tuba e i capelli non aveva visto una beata mazza, prese la decisione migliore dinanzi a questo spettacolo degli spettacoli: proruppe in un applauso. Fu il primo, ma per poco. Seguirono i battimani feroci dei quattrocento presenti, che si produssero nell'applauso più fragoroso della serata. Io non l'ho mai visto un applauso così per un bacio, neanche al cinema, ma qui ne valeva veramente la pena.
Ria, senza distogliere la lingua dal suo chitarrista, sollevò due dita in segno di vittoria. Riecco la rockettara. Fu un boato. L'Hard Rock uscì dal torpore e si vivacizzò. Il bacio terminò. Lui si ricompose. Lei era già composta. Ci vuole altro per smarrirla, l'invincibile Ria Montague.
Bellamy, comprensibilmente su di giri, gridò un “La signora vuole ballare. Di può avere un po' di musica, o devo mettermi a suonare io?” in sol diesis che spaccò quattro vetrate e ci fece riprendere il contatto con la terraferma a tutti quanti ne eravamo.
Non si scherza con la musica in una sala gremita di musicisti.
Non è un passatempo. E' una faccenda seria che anima discussioni che svariate volte sono sfociate nei litigi, nelle rotture ventennali di amicizie, nelle risse furibonde di artisti poco colti abituati a spaccare chitarre e maroni, con le mogli bionde e imbalsamate che si frapponevano per dividere musicisti invasati come rapinatori in disaccordo al momento di spartirsi il bottino dopo il colpo.
Ma non quella sera.
Quella sera, gli altoparlanti che diffondevano il Canon di D Major di Johann Pachelbel, per inappellabile e preciso volere di Matthew Bellamy, misero tutti d'accordo. Pure John Montague, trattenuto per tutto il bacio per un braccio da mia madre, che adesso ballava insieme a lei, soffiando fumo e gratitudine per l'assistenza psicologica ricevuta.
Matthew e Ria si erano congiunti pure loro per ballare, lei sognante come Cenerentola, lui incapace e spavaldo come il principe Filippo. Eppure volteggiavano, sapete. Portati da un sentimento che molti di noi là dentro non avremmo mai neanche potuto concederci il lusso di immaginare, resistenti com'erano a qualunque genere di cosa. Sembrava che Dio volesse metterli alla prova in tutti i modi, prima di lasciarli stare insieme.
Ballavano disegnando ampi cerchi, respirando la stessa aria, fronte contro fronte, raccogliendo quella sfida.
Avrei giurato si potesse morire, di una serie di visioni così.
E invece eravamo vivi, scossi, certo, ma tutti vivi.
Mi lasciai portare in pista da Mash, volendo bene alla mia amica, a tutti i miei amici, perchè altro non si può fare, nella vita, che respirare quell'amore che è un legame e una certezza, più di qualunque altra cosa. L'amore che sta nelle sfumature.

 

Do you know your enemy?”
(Green Day, Know your enemy.)

 

Pachelbel venne lentamente sostituito dal pianoforte di Ludovico Einaudi, in una sequenza dei pezzi preferiti di Bliss e Ria, le luci soffuse creavano giochi di ombre sui muri, sottolineando i profili dei trofei di guerra dello storico tempio del rock londinese: chitarre, mise di scena, 45 giri originali.
A questo punto, si profilò all'orizzonte il momento più atteso della serata.
Ria si stagliava in un angolo, affusolata e incredibile, e guardava con devozione la nuca di Matthew, poco lontano. Poi, questione di un attimo, la sua devozione si tramutò in brutale presentimento. Alla nuca di Matt si contrappose, avanzando verso di lui, la faccia di Tre Cool.
Ci producemmo tutti in rapidi slalom degli invitati per approssimarci alla scena.
La tensione si tagliava col solo ausilio di un grissino.
“Allora Matt, cos'altro hai organizzato per questa sera? Carina, la tua scenografia. Peccato che io sappia la verità.”
La verità, sputò ardendo di sacro sdegno in faccia al frontman dei Muse il batterista dei Green Day.
Matt non si scompose minimamente, mantenne l'assetto molecolare della corazzata Potemkin, e manco lo degnò di una qualsivoglia risposta. Dominic gli scoccò un'occhiata allarmata, che gli scivolò addosso come un sorso d'acqua.
“Non so, qualche fuoco d'artificio, qualche salto con il paracadute, uno spettacolo burlesque di tutte le tue amanti.”
Uno dice, la verità. Ma la verità è una: l'unica vera forza di un uomo, ciò che lo rende tale, è la brevità.
Dunque, ecco Bellamy alle prese con la brevità. Dice: “No”.
Io e Ria, limitrofi, ci sbirciavamo con la coda dell'occhio e prendemmo a ridere sotto i baffi alle spalle di Trè. Il quale fece un passo avanti in maniera piuttosto minacciosa, al che io feci svolazzare una mano tra i due, confermando definitivamente a Gerard Way, rimasto in un angolo tutta la sera, che ero gay, e prendendo -sperai- così due piccioni con una fava: fermare i contendenti e irretire il cantante, ormai in aperta crisi con la moglie.
Ma Trè Cool, in preda a pura stizza, alzò la voce, dispiegando ai quattro venti la sola verità in discussione: quella per Ria non era ormai solo tenera amicizia. (cit. Billie Joe.)
“Ma come? E io che mi aspettavo, che ne so, uno dei tuoi numeri di prestigio. Dopo la festa di compleanno cosa fai, me la lasci?”
Bellamy si accese una sigaretta. Aveva capito che la faccenda presentava improvvisamente una sua articolazione, una sua lunghezza, una sua complessità. I gruppetti di ospiti si allontanarono un po', sapevano che ci vuole discrezione, con questo genere di cose. Localizzai Billie Joe che arrivava dall'altro capo della sala, appollaiata al suo braccio un mucchio di ossa con il trucco evidentemente sbavato dal pianto, che supposi essere, dal racconto di Bliss, l'ormai fidanzata amata e stabile di Trè Cool. A questo proposito, da tutt'altra parte giunse proprio Bliss a larghe falcate, coi capelli corti e bianchi che le svolazzano intorno al viso, perchè, com'è giusto, da miglior amica sentiva odore di casino lontano sei miglia, come un cane da tartufo.
Comunque. Matt buttò fuori il fumo e non disse niente, perchè non sapeva cosa dire. Trè Cool non si faceva capace, non ci credeva, sarebbe stata la prima volta in trentanove anni di sontuosa esistenza che uno non coglieva una provocazione così chiara e sfacciata. Sbraitava, cercando di preservare una compostezza, ma sbraitava, gli occhi lanciavano palle di fuoco, il sudore cresceva, il rossore della sbronza incipiente cedeva il passo a striature violacee di collera, frequentava l'angina pectoris, insisteva: “Ma io non ci posso credere! Hai anche la faccia tosta di atteggiarti a fidanzato modello, quando dai racconti di chiunque traspare nient'altro che il tuo enorme egoismo, oltrechè la tua disumana faccia di...”
Bellamy lo interruppe, morbido e sereno come un ghiro:
“Non sono problemi che ti riguardano, Trè. Ed evidentemente, se c'erano, con stasera si sono risolti. Niente di grave, come puoi vedere. Rassegnati a crederci. Sta con me.”
Trè Cool perse il controllo e scaraventò a terra il bicchiere vuoto, che giunse incredibilmente integro sul pavimento. Io scoprii in me stesso un istinto di inspiegabile conciliazione e andai a raccoglierlo. Glielo porsi. Lo prese distrattamente. Non mi guardò neanche. Invece fissava con aria di sfida Bellamy. Voleva vedere dove voleva arrivare con la sua smodata sfacciataggine, questo Bellamy.
Ma io ora lo vedevo, Bellamy. E tremavo.
Perchè dall'atarassia stava sfociando in quella sua arietta concentrata, stava lentamente aprendo e chiudendo i pugni. Questo mi spaventava. Perchè tutta quella liturgia là è la rabbia pura che gli ho visto negli occhi un giorno in particolare, in cui ero andato a trovarlo su sua precisa richiesta, e avrebbe scassato non solo casa, ma l'intera Londra mattone dopo mattone, scardinata direttamente dal suolo. Ne aveva subito le conseguenze, di quella rabbia, solo il suo bel salotto. Quell'espressione lì è il chiarissimo preambolo a una sola cosa: la furia omicida sparita dalle scene insieme all'ansia da prestazione nel lontano 2001, che pochissimi eletti avevano avuto il privilegio di vedere scatenata, e altrettanti sfortunati ne avevano fatto le spese. Per quella rabbia lì aveva rischiato di stendere Chris con il carrello di un amplificatore, una sera del '99 a Vienna. Che Dio ce ne scampi. Tutto andava bene, ma non poteva picchiare a sangue il batterista dei Green Day la sera del compleanno di Ria e di Bliss. Dovevo intervenire. E azzardai: “Calmiamoci. Non è questa la sede per discutere cose del genere, ed è scortese nei confronti delle fanciulle.”
Al mio segnale tacito, Billie Joe intervenne a sua volta e, abbandonato il frignante mucchio di ossa in un angolo, scoccando uno sguardo sprezzante a Matt, afferrò con forza Trè Cool per le spalle.
Il mio sforzo venne vanificato da Ria. Ci si mise pure lei a complicare le cose e disse: “Lascia stare, Matt. Non degnarlo della benchè minima reazione, non se lo merita.”
Improvvisamente, Trè Cool la odiava. E sibilò come un nazionalsocialista di riguardo: “Credevo fossi intelligente, e invece sei una stupida.”
L'espressione greve di Trè Cool mentre pronunciava queste parole mi provocò un accesso di risate che sarebbe giunto fino a Krasnojarsk, ma mi trattenni, perchè Matt si stava irrigidendo tantissimo. Pensai che di lì a poco sarei scappato più veloce di Fiona May, perchè io non volevo assistere alla tragedia umana che poteva scoppiare da un momento all'altro, rovinando ancora una volta una serata memorabile.
E fu in quel momento che Matt si produsse in una delle esattamente tre volte che avrebbe mai definito Ria in quel modo.
“I really don't see how it can be of your interest, but that girl is my girl, like it or not.”, ringhiò.
Ria represse il solito sussulto di quando la definivano la fidanzata di Matt, ma detto da lui aveva un sapore diverso e lo sapeva.
“E allora tienitela stretta, si sa mai che arrivi qualcuno a portartela via d'un tratto, mentre sei dalle tue amichette. E' ovvio che anche lei è catalogabile tra una delle tue amichette. Una delle tue, come definirle?, ah, sì, puttane. Credo che puttane sia la parola adatta.”, gli sputò Trè, assumendo subito dopo una postura di profilo, quasi di spalle, cioè dichiaratamente ostile a Ria.
Ma quello che davvero mi interessa adesso è registrare la reazione di Matt dopo che, per la prima volta nella storia della sua relazione con Ria, qualcuno aveva avuto l'ardire incosciente, pazzo, assolutamente irresponsabile di mancarle di rispetto. E' una cosa che farebbe paura pure al capo delle forze armate inglesi al riparo dentro un cingolato, ve lo garantisco. E invece Trè Cool lo aveva fatto. Se l'è presa con lei, oltrechè con lui, e non aveva, stavolta, la scusa di una penosa ubriachezza a fargli da salvacondotto. Cosa ben più grave, stavolta era sobrio anche Bellamy.
Vidi Matt che si compattava in un'unica struttura di cemento armato. Nel suo corpo era tutto un via vai di ordini e di emergenze. Gli occhi gli si erano rimpiccioliti a falchetto. La bocca ora appariva un segmento. Compì un passo in avanti. Io chiusi gli occhi e cercai una preghiera, ma non ce n'era una che ricordassi decentemente. Ma poi il colpo di scena. E Ria ne fu la protagonista. Perchè non era solo una bella donna, ma era anche una persona che sa come si sta al mondo. Dunque, allungò le sue dita soffici sul braccio teso di Matt, e poi sentenziò con la voce di velluto che avrebbe inibito eserciti di adolescenti inesperti ed eccitati: “Matt, Trè Cool ha soltanto bevuto un po' troppo, e straparla in preda alla rabbia perchè tiene a me ed ha avuto notizia degli imprevisti che abbiamo attraversato.”
Li definì proprio così, giuro. Imprevisti.
“Ma sono sicura che mi vuole bene, e che è solo per questo che parla così. E' preoccupato, solo questo. Ti prego, lascia stare.”
Trè Cool, come Matt prima di lui, non lo saprà mai, ma grazie a Ria ha scampato la morte per un dettaglio.
Io tirai un sospiro di sollievo come se mi avessero strappato al decesso.
Bellamy si sgonfiò come un palloncino e rientrò all'istante nella civiltà.
Infatti, riagganciò la superiorità e la convivialità e gli disse: “Vai a farti passare un po' la sbronza, Trè. Io vado a prendere un po' d'aria.”
Ria gli sorrise, misteriosa, concedendogli uno sguardo di approvazione, quindi gli prese la mano e lo portò verso il piano superiore, diretta probabilmente al terrazzo.
Io, Bliss e Dominic ci guardammo, esterrefatti.
“San Giovanni Bassista. Che cazzo è successo?”, intervenne Christopher Wolstenholme, materializzandosi dal nulla alla destra di Dominic.
Trè Cool e Billie Joe, ancora inebetiti, si riscossero dal torpore e uno trascinò l'altro verso la porta, per farlo respirare e, plausibilmente, dargli un paio di schiaffi.
“Matthew e Trè Cool stavano di nuovo per darsi al mortal kombat.”, lo informò Bliss, sgranocchiando stancamente un salatino.
“La smetteranno mai?”, chiese Fiorellino, spuntando dietro Chris in maniera alquanto inquietante.
Mi passai una mano sulla fronte. Si materializzavano dal nulla membri dei Muse con allegate consorti, c'era una singolar tenzone in atto da svariati mesi tra Matt e Trè, Ria si era prodotta in una delle scene cinematografiche più riuscite di sempre trascinando come un tiro alla fune quattrocento persone senza alcun ausilio di una cinepresa, John Montague stava circuendo in un angolo una con la metà dei suoi anni e l'alcol scioglieva le lingue. Dovevo proprio andare.

Come on, hide your lovers underneath the covers.”
(Arcade Fire, Rebellion – Lies - .)

 

Fu come sfondare una porta aperta, nel senso fisico e psicologico del termine.
“La porta di vetro è un po' difettosa, bisogna fare un po' di forza per aprirla.”
E infatti Dominic partì sparato alla volta dell'uscio che dava sul terrazzo, spingendolo con forza a due mani, e io lo riacchiappai per la cintura leopardata giusto in tempo per evitargli un volo di alcuni piani. La porta “difettosa” funzionava benissimo.
Ria e Matt scherzavano tra di loro, permettendoci di avvicinarci quel tanto che bastava per rendergli nota la nostra presenza.
La sentii appena dire: “Ti ricordi il concerto di maggio? Quando hai cantato la cover di Creep? Bene. Lo sapevi già, dì la verità. Sapevi dove andavamo a finire.”
Eravamo evidentemente di troppo, mi ero sbagliato. Ma ormai eravamo lì. Eppure, lei sorrideva. Ma certo, che lo dico a fare. Sorrideva sempre.
“Che serata...”, commentò Dominic.
Il cielo su di noi era trapuntato di stelle.
“Allora?”, incoraggiai.
Ria mi parlò, senza voltarsi. Stava fumando una sigaretta, come Matt.
“Allora che?”
“Allora abbiamo deciso di non decidere niente.”
“Mi sembra poco saggio, ma molto da voi.”
Si strinsero in un abbraccio complice.
Mi appoggiai con le spalle al parapetto, per guardarli bene, guardarli meglio.
Forse ce l'avrebbero fatta, con un bel po' di impegno, a superare tutti gli ostacoli e uscire indenni dalla bufera.
“Siete stati, senza dubbio, l'attrazione più spettacolare della serata, insieme al labirinto di Dominic.”
Il batterista rise, soffiando via il fumo.
“Auguri, capitano.”
Ria si voltò verso la voce.
Una ragazza avanzava verso di noi, i capelli legati in una quantità di treccine blu cobalto e occhi azzurri da gatto. “Grazie, Dan.”, poi si rivolse a noi.
“Ragazzi, lei è Danny Trillow.”
Sussultammo di pura sorpresa.
Dominic puntò un dito all'indirizzo della nuova arrivata.
Lei?”, scandì.

Ria sbuffò, divertita.
“Dominc Howard, Matthew Bellamy.”, disse, indicando prima uno e poi l'altro.
Danny Trillow era, probabilmente, il critico musicale più spietato che ci fosse in circolazione. La conoscevo di fama, godeva di un'altissima stima nell'ambiente della critica.
Ma non sapevo assolutamente che fosse una donna. Nessuno lo sapeva, a quanto ho visto.
“Credevo fossi un uomo.”, disse Matt.
“Lo credono tutti. Almeno, quelli che non mi conoscono personalmente.”
“Devo dire che il nome non aiuta.”, commentai.
“Tu devi essere Gregory Fleur.”, mi disse. “Belli, i tuoi articoli.”
“Anche i tuoi.”
“Anche se hai stroncato il penultimo album dei Muse.”
Danny si strinse nelle spalle, guardando i due musicisti con dolcezza. “Se lo meritava.”, aggiunse.
“A me piaceva.”, disse Ria.
“Non avevo dubbi, capitano.”, la apostrofò Danny.
Ria rise, dicendo: “Sto diventando così scontata?”
“No, sei sempre quel che sei, lo sai. Io torno giù, devo parlare con Evey Zonk. Volevo farti gli auguri di persona, Bliss mi ha detto che eri in terrazza. E' stato un piacere, ragazzi.”
“Anche per noi.”
Qualcuno fece capolino dalla porta scorrevole.

Matt? Puoi venire un attimo giù? Ti cerca il caporedattore.”, disse un essere a me ignoto.
Matt indugiò, guardando Ria.
“Vai.”, disse lei, con un sorriso.
“Vado anche io.”, intervenni.
Matt sorrise con gratitudine a Ria, poi, con una spintarella scherzosa, la lanciò tra le braccia di Dominic, che la prese al volo. “Torno subito. Tienimela al sicuro.”, disse, poi alzò una mano in aria in segnò di saluto e se ne andò, insieme a Danny Trillow, donna.
Feci appena qualche metro dietro di lui, con l'intenzione di andarmene di sotto a cercare Bliss, un bicchiere, una risata, quando la voce di Dominic mi bloccò, raggiungendomi dove non né lui né Ria potevano più vedermi.
“Perdonalo.”
“Come, scusa?”
“Perdonalo.”
Ria tacque, e attese.
“Perdonalo per tutto. Per tutto ciò che ha fatto. Non è più la stessa persona.”
“E' questo che mi preoccupa, Dom.”
Sentii un sospiro, non so di chi.
“Matt tratta le persone come tratta le chitarre. Le ama violentemente, follemente, completamente, fino a estrarre da loro l'essenza stessa della meraviglia tradotta in suoni, poi le abbandona lì, in cerca di qualcos'altro. Quelle a cui più tiene, al limite, le omaggia di una fine più gloriosa, e le lancia addosso al batterista. E infatti, eccomi qui.”, disse Ria.
Dom scoppiò a ridere, e io mi affacciai quel tanto che bastava per vederli stringersi in un abbraccio. Dom non aveva mai avuto un'amica, per quel che sapevo io. Dom non aveva mai considerato una donna sotto un punto di vista diverso dall'abitudine.
Bliss mi afferrò per le spalle, provocandomi un infarto.
“Bliss, ma per grazia di Cristo cosa...”
“Non bestemmiare, Fleur.”
“Non ho bestemmiato, ho richiesto un parere. E il Redentore non è poi così permaloso.”
“Guardali, guardali...”, mi ignorò, indicandomi Dom e Ria.
“Bellamy dov'è?”, le chiesi.
“Sta arrivando.”
Quando anche Evey Zonk si materializzò alle nostre spalle, compresi che era ora di andare a disturbare i cinque minuti di tenerezza di Ria e Dom. Ci avvicinammo a loro: io non ero sceso a fare quel che volevo fare, e comunque la serata volgeva verso la sua fine naturale.
“Evey!”, disse Ria, tendendo le braccia alla ragazza.
Matt ci raggiunse di corsa, posizionandosi accanto a Ria, che gli scoccò uno sguardo affettuoso, e poi si rivolse alla Zonk con il suo solito fare, ancora più eterodosso e iconoclasta di quello di Bellamy.
“Ti ho presentato quel gran genio del mio amico?”, le disse, indicandoglielo.
Evey sorrise, tendendogli una mano cerea. “Ci conosciamo già, in un certo senso.”
Matt tradì confusione, e lei sorrise di nuovo.
“Io, Ria e Bliss abbiamo visto insieme, se non sbaglio, 16 concerti dei Muse.”
“17.”, la corresse Ria.
“Quanta gente!”, commentò Billie, giunto in quel momento insieme a Chris e Fiorellino. Fiorellino abbracciò Ria, mentre Matt guardava Billie, non saprei dirvi in che modo.
“Arrivederci amore ciao le nubi sono già più in là.”, mi sussurrò Bliss ad un orecchio, ironica come sempre.
Andai via per alcuni minuti, ma solo per tornare con una bottiglia di champagne e una cameriera spaventatissima con un vassoio pieno di bicchieri.
“Direi che ci vuole un brindisi a queste due icone del rock.”
“Non vi preoccupate, non ce n'è bisogno, io e Matt stiamo bene anche così. E' il compleanno di Bliss e Ria, brindiamo a loro piuttosto.”, disse Billie, prendendosi un cazzotto in pieno braccio da Ria, che però rideva, come tutti.
“Ai labirinti.”, disse Bliss, levando il calice.
“Al rock'n'roll.”, le fece eco Mash.
“A Teignmouth.”, aggiunse Evey.
“Agli stadi.”, intervenne Danny.
“Alla neve di Londra.”, disse Dom.
“Ai legami.”, disse Fiorellino.
“Agli amici.”, disse Chris.
“Alla bellezza.”, disse Matt.
“Agli ostacoli.”, disse Billie.
“A Nick Cave.”, disse Ria.
“Alle groupies.”, conclusi io, “A noi, che siamo artisti, e a tutte le nostre muse.”
Bevemmo, festeggiando un'era, più che un compleanno.
“Il mondo è una sabbia mobile. Vedete di non farvici trascinare.”, disse una voce alle nostre spalle. John Montague era capace di alcune citazioni, di quando in quando, che riecheggiavano ovunque. Sempre. Come se non fosse fatto apposta, e invece lui la intendeva così: l'ennesima performance. Però, come spesso accade quando uno ha tutt'altra intenzione, aveva detto una cosa giusta.
“Comunque, a questo proposito, volevo informarvi che me ne vado un mese e mezzo a fare la groupie del lago Bajkal.”, padellai.
“Dove hai detto che vai?”, mi chiese Bliss, confusa.
“Al lago Bajkal.”
“E dov'è?”
“A Irkutzk.”
La situazione non migliorava.
“Sta a qualche centinaio di chilometri dal confine mongolo. In Russia.”
Risero. Incapaci.
“Devo scrivere un libro su un film di Gus Van Sant. Vado sul set.”
“Oh, che meraviglia! Ti ricordi, da piccoli volevamo farci girare un biopic da Gus Van Sant.”, intervenne Mash.
“Magari succede, che ne sai.”, sorrisi, bevendo lo champagne.
“Quindi dovremo fare a meno di te per un po' di tempo?”, mi chiese Ria, al fianco di Matt come al solito.
“Sembra di sì. A meno che non vogliate venirmi a trovare a Irkutzk.”
“Mi sa che passo, io, grazie.”, disse Bliss.
“Avete visto Splinter da qualche parte?”, chiese John, che forse era di troppo, e forse invece no.
“Sì, è andata via un'oretta fa. Ha lasciato Molko, da quel che ho potuto capire.”, gli rispose Bliss.
“Non ci siamo neanche presentati...”, disse Matt.
“Era anche ora, che lasciasse Molko. Non per altro, ma glielo stavo ripetendo a braccio circolare da tre mesi. Non si possono amare due persone contemporaneamente, checchè ne dica Isabella Swan.”
“Parli di Splinter?”
“No, parlo di Molko. Ci sono certe questioni che richiedono l'esclusività, non importa come la metti.”, chiosò Ria, chiudendo lì la conversazione.
“Lei è sempre stata così.”, sussurrò Bliss a Dominic, “Aut Caesar aut nihil.”
“Non fraintendetemi, sono un'ammiratrice delle storie d'amore.”, rettificò Ria, puntando gli occhi vispi verso di me.
“Di quelle di fantascienza.”, la corressi, dando un sorso distratto allo champagne. “Ad esempio, la bella e la bestia.”
Io, come Dio, sono sempre stato un fan delle provocazioni.
“Le persone cambiano.”, azzardò poco convinta Fiorellino.
“Le persone involvono, Fiorellino. In una ricerca costante della versione precedente di sé stesse. Tipo Facebook. La versione di prima, per quanto la nuova sia sempre più tecnologicamente avanzata e teoricamente efficiente, per qualche motivo sembra sempre funzionare meglio. Non che sia vero, in realtà. E' che la vita è una costante ricerca delle abitudini perse. L'abitudine è l'unica rassicurazione che c'è.”, chiosai.
“Come dire che, quindi, i sentimenti e tutto il resto non hanno alcun significato. Sono solo merda.”, mi interrogò Matthew, interessato a ogni discorso apparentemente improbabile gli capitasse davanti.
“Per molti è così. A dire il vero, è la regola. Poi, ci sono le eccezioni.”
Alzò un sopracciglio. “Puoi farmi un esempio?”
“Certo. Tu e Ria. Siete un'eccezione.”
Tacque.
“Chiunque abbia una percezione lievemente eccentrica della realtà è un'eccezione.”, intervenne Ria, intercettando un pensiero a mezz'aria.
Calò una leggera nebbia, e appresso a lei un leggero silenzio. La nebbiolina oscurò parzialmente la visuale di tutti, in un'imitazione cosmica del labirinto di Dominic.
“Io mi sono innamorata una volta sola nella vita, a tredici anni. Esimi psicologi, tipo il qui presente dottor Montague - in arte 'mio padre', direbbero, rifacendosi a una versione oggettiva dei fatti, che mi sono innamorata di un televisore. Il che è anche vero, parzialmente, visto che è stato un dolore quando la nostra vecchia tv è spirata per le beffe del tempo che passa. Ma in realtà, il primo, l'unico e finora l'ultimo uomo che sono stata in grado di amare è quello alla mia sinistra. Da molto tempo. Molto prima che lo conoscessi, che imparassi a convivere con i suoi lati scomodi, a detestare le sue manie. Pensavo che l'uomo che immaginavo sarebbe stato molto diverso da quello che in realtà esisteva da qualche parte lontano da me, ma sbagliavo. L'amore, quando è autentico, ti conferisce un metro di giudizio che va oltre tutto il buonsenso terrestre. Io lo conoscevo già. L'avevo già scritto. Sarebbe stato folle ritrovarsi davanti una persona diversa da quella che mi ero immaginata, perchè l'avevo immaginata con occhi al di là di qualunque pregiudizio, capaci di guardare l'essenziale. Non è vero che l'essenziale è invisibile agli occhi: l'essenziale è là, sotto il nostro naso. Sono i nostri occhi che, spesso, sono inadeguati a quella vista. Crediamo di vedere, ma non è così. A stento intuiamo i contorni. Invece lui lo avevo visto, già dal primo momento. E non ho mai smesso di vederlo, da allora. Ogni gioia, ogni dolore, ogni cosa che abbiamo vissuto insieme io l'avevo già scritta da qualche parte, forse con altri nomi e in un'altra storia, ma esisteva già. Io l'avevo immaginata. E' un bel talento, immaginare, non credete?”
Sorridemmo tutti.
“Funziona così anche per il resto?”, chiese Chris, che le voleva molto bene. Lo vidi chiaramente, attraverso tutta quella nebbia.
Ria rise.
“Certo che no, Christopher, non sono mica il padreterno. Ricordiamoci che, comunque vada, e questa è una cosa uguale per tutti , dobbiamo fare i conti con gli imprevisti”.
Un occhiolino complice, risate sommesse, mani che si incrociano, chiacchiere che crescono come un'onda, vite straordinarie incastrate come in un complesso disegno di curve e linee.
Immaginatela.
Immaginate la telecamera che sfuma verso il cielo, lasciando quel gruppo allegro e bendisposto, avvolto da una nebbia leggera. Seguitene la traiettoria tra le stelle, mentre indugia un momento sulla luna, su alcune nuvole rade, e si fa spazio inquadratura dopo inquadratura verso il cielo color cobalto.
Ce l'eravamo sempre immaginata così, la nostra vita.
Un crescendo, ininterrotto, verso il cielo.
E in mezzo, cinque parole sussurrate da una calda voce maschile, mai abbastanza piano perchè un vecchio amico di qualcuno non potesse coglierle, lasciandosi sfuggire un lieve sorriso.
“Non intendo rinunciare a te.”

 

Sono mai stato in un attimo che non fosse questo?”
(Alessandro Baricco)

 

 

Vi ho fatto penare, lo so.
Ma, per farmi perdonare, vi ho scritto un capitolo che veramente è una guerra lampo degna di Karl Von Clausewitz.
Ora che ho scoperto come rispondere alle recensioni senza accludere interminabili papielli ad ogni nuovo capitolo, risponderò una ad una anche a quelle sull'11, un attimo che ritrovo il tempo.
E, sia chiaro, di recensioni per questo capitolo ne pretendo una pioggia da giudizio universale, perchè mi è costato:
1)Rischi di liti belluine al suono di “ci sentiamo dopo, devo scrivere”, frase dopo la quale l'amico in questione veniva plausibilmente richiamato quarantott'ore dopo, in alcuni casi anche con un prosaico “allora, che stavamo dicendo?”, al quale veniva puntualmente risposto un secco “vaffanculo”.
2) L'abbandono completo di qualunque funzione vitale non fosse ascoltare musica/battere indemoniata sulla tastiera del computer/fumare/intavolare conversazioni disperate e dispersive con alcune fotografie del Bellamy, pigramente allocate sul mio armadio, che peraltro non mi hanno omaggiato di alcuna risposta. A queste occupazioni hanno seguito in ordine più o meno sparso un casuale aggiornamento di facebook, alcune incursioni all'esterno, uno sporadico nutrirmi per evitare di morire, e condannarvi dunque per sempre al dubbio su cosa cazzo sarebbe accaduto dopo il capitolo 11.
3) Un ritmo sonno-veglia da rockstar, pur non essendo io, come ben sapete, membro di alcuna rockband.
4) Svariati consulti con la gente più improbabile, tra cui peraltro mia madre, che pur essendo innamorata segretamente di Biagio Antonacci dal lontano 97 non ci ha mai scritto su una fanfiction, e dunque non può capire le crisi di panico/rabbia/odio/iperattività/risate demoniache/urla sconnesse che ne derivano.
5) Una vita sociale pressochè azzerata rispetto alla norma, e io di norma a malapena ricordo l'arredamento di casa mia per quanto poco ci sto.
6) Un numero imprecisato di bestemmie da parte dei vicini di casa (scusi, signora Dacomo.) che sono stati sistematicamente svegliati, ogni mattina al levar delle sette e mezza per quasi 20 giorni, da HAARP a tutto volume.
7) Un fratello di nove anni irreversibilmente traumatizzato che confabulava negli angoli coi compagnucci che ogni tanto venivano a trovarci, articolando in fitti sussurri “non disturbate mia sorella, sta scrivendo”.
8) Una serie di sagge discussioni telefoniche con gli amici su, fondamentalmente, questo cazzo, che sfociavano spesso in argute conclusioni sull'universo/Dio/il mondo/la gente/la vita/l'amore/le belle fidanzate incinte (altrui), e che erano in realtà monologhi di irreprensibile equità da parte mia, seduta compunta sul bancone della cucina a fumare distratta studiandomi gli anelli, ma soprattutto a dispensare consigli bipartisan grondanti ulteriori e interessantissimi spunti di conversazione. Il tutto, per i penosi livelli di stress che ho raggiunto con qualche stallo episodico del capitolo.

Per dirvi.
Comunque, volevo ringraziare Evey Zonk e Danny Trillow (donna) dal profondo del cuore per avermi regalato due personaggi così divertenti da scrivere.
Volevo altresì ringraziare il riso in bianco.
E il mio amico Roberto Vecchioni, che mi ha regalato una gioia inquantificabile.
Volevo ringraziare, anche, le scarse ore di sonno, le risate suscitate da idiozie fenomenali (San Giovanni Bassista – La campagna che un tempo si dispiegava qui – Il sangue pattiato di chitemmuort, etc.), una particolare roboante figura di merda (immaginate di essere a Corso Umberto, sottobraccio a un collega, a prendere allegramente per il culo un tizio con la erre moscia, che capita essere il vostro insegnante di Storia del Teatro, e strillare, alla vista dell'insegna di un negozio di nome “Brums”, un sentitissimo e corale “BWUMS!” insieme al collega. Fatto? Ecco. Ora, davanti all'entrata del negozio, visualizzate il tipo con la erre moscia, ossia il vostro insegnante di Stowia del Teatwo, che vi fissa allibito, a voi e al collega, cogliendo perfettamente un velo di presa per il culo nei suoi confronti. E voi fuggite, increduli di fronte a quella roboante, e ho detto roboante, figura di merda.), la signora che oggi in metropolitana mi ha annodato il braccialetto con su scritto “Rosencrantz” e che mi ha fatto gli auguri, per tutto, per tutto. Questo capitolo, un po', è suo.
E ovviamente volevo ringraziare voi, infaticabile motorino a reazione di questa storia. La nostra, vostra, storia.
E Max, che è il tecnico degli effetti speciali dietro ad ogni mio viaggio verso lo straordinario, e che proprio oggi mi ha fatto un biglietto per la prossima fermata.
Fatemi l'in bocca al lupo.
La sempre vostra
Q.

P.S. Heinekrapfen, le pagine sono 31. 

   
 
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