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Autore: eclinu    05/03/2011    6 recensioni
Bella nasconde un segreto. Un segreto che la distrugge, che la uccide.
Nessuno sa cosa le è successo, sanno solo che la ragazza vivace ed allegra di un tempo non esiste più, sostituita da una figura sfuggente e timorosa, coperta da camicie più grandi della sua taglia e pantaloni sempre più larghi.
E' diventata androfoba, Bella, a causa di quel segreto, teme gli uomini come i lupi temono il fuoco.
Tutti la evitano, tutti la giudicano pur non sapendo; tranne una persona: il suo compagno di banco del corso di latino.
[...]Rabbrividii, ma non perché non mi piacesse la materia, l’unico motivo di disagio stava nel fatto che quello era l’unico corso in cui avevo un compagno di banco, maschio per di più. (Capitolo 1)
Genere: Generale, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Papilio Ulysses

Amicus -i

(3/5)

 

Mi svegliai quando sentii bussare alla porta della mia camera, avevo il sonno leggero.

Mio padre fece capolino e mi sorrise, «Buongiorno.»

«Buongiorno.» Sbadigliai e mi strofinai un occhio col dorso delle dita.

«C’è il tuo amico, quello che è passato ieri, dovete studiare?» M’informò.

«E’ già qui?» Guardai la sveglia: le lancette segnavano le nove del mattino; era sabato, non avevamo scuola, non gli piaceva stare a letto?

«Sì, sono già qui.» La sua voce allegra mi fece arrossire e sobbalzai dalla sorpresa: credevo aspettasse al piano inferiore.

Afferrai i bordi della coperta e me la portai sopra la testa; non doveva vedermi in pigiama, non volevo che le maniche si alzassero per sbaglio e notasse i graffi ed i lividi sulle braccia.

Mio padre entrò in camera e scostò di poco le coperte dalla mia testa «Bells, che hai?»

«Sono in pigiama, non voglio che mi veda.» Stavo tremando.

Sbatté le palpebre «D’accordo, lo faccio aspettare giù?»

Annuii e mi coprii di nuovo col piumone.

Sentii la porta chiudersi e dei passi che scendevano le scale.

Prima di uscire dalle coperte presi tre respiri profondi: poggiai i piedi sul linoleum e poi iniziai a vestirmi, indossando una camicia di flanella a quadri rossi che mi copriva anche le mani ed un paio di pantaloni da tuta neri.

Andai al bagno, lavai i denti, legai i capelli e poi andai al piano di sotto.

Edward era seduto alla tavola, al lato opposto a mio padre ed aveva una tazza di caffè fumante di fronte; stava parlando con Charlie: «Quindi sei il figlio del dottor Cullen?» Chiese mio padre.

«Non proprio.» Rispose Edward.

«In che senso?»

«Io sono stato adottato, Carlisle è mio zio in realtà. Zio materno per la precisione; è il fratello di mia madre. Il mio nome intero è Edward Anthony Masen Cullen.» Spiegò.

«Ah, ed i tuoi genitori sono…» Charlie lasciò la frase in sospeso.

Edward scosse il capo «No, sono vivi, non so dove sono ma so che sono vivi. Per la famiglia di Carlisle, però, è come se fossero morti: vede, mia madre era la pecora nera della famiglia, rimase incinta di me a soli quindici anni e dopo avermi dato alla luce mi ha lasciato alle cure di suo fratello; finché, però, mio padre non ha voluto riavermi a casa. Sono stato con loro fino all’età di quattro anni e di quel periodo riesco a ricordare solo le percosse.» Prese un sorso di caffè. Sembrava così tranquillo nel raccontare quella storia, come se non fosse la sua. «Mio padre mi causò un trauma cranico e fu a quel punto che gli assistenti sociali, avvertiti dall’ospedale, tolsero il mio affidamento ai miei genitori: sono stato per qualche mese in un collegio ma poi Carlisle firmò le pratiche di adozione e dopo aver ottenuto la mia custodia, insieme a sua moglie Esme, decisero che il trasferimento era la soluzione migliore per non farmi accadere più nulla e per tenermi lontano dai miei genitori naturali. Carlisle professava da qualche mese come chirurgo, chiese il trasferimento in un qualsiasi altro ospedale e capitammo qui.» Mentre parlava, la sua espressione restò serena e gentile.

Non sapevo nulla di quella storia, a scuola nessuno l’aveva mai sentita: ricordo che c’erano voci su una sua possibile adozione perché non somigliava a nessuno dei suoi genitori, ma erano solo voci.

«C’è stato un periodo in cui se facevo la pipì a letto tremavo e piangevo dalla paura, perché a casa era d’abitudine che venissi picchiato per questo; invece, Esme mi accarezzava, mi cambiava il pigiama e le lenzuola e mi portava a dormire nel suo lettone.» Sorrise. «Carlisle dice che soffrivo anche di autolesionismo: mi graffiavo le guance, il collo, fino a sanguinare; questo accadeva quando avevo sei anni. Forse lo facevo per attirare l’attenzione, forse per punirmi, ma ricordo che quando succedeva, Carlisle mi medicava e poi mi rassicurava dicendomi che c’erano lui ed Esme con me, che non dovevo più subire maltrattamenti e percosse e che farmi del male ne faceva anche a loro.

Ero un bimbo buono e la mamma ed il papà mi volevano bene. Fu allora che capii di avere altri due genitori; una mamma ed un papà che usavano le mani solo per accarezzarmi.»

«Mi dispiace ragazzo.» Mormorò mio padre, scioccato quanto me.

«Non deve dispiacerle, ora sto bene.» Rispose Edward.

Avevo le lacrime agli occhi, non pensavo avesse dovuto subire quell’inferno che era solo un bambino.

Lui riusciva a parlare apertamente dei suoi traumi, io non ce la facevo. Lui era riuscito a superarli, io mi chiudevo in un guscio e li tenevo conservati.

Mi appoggiai alla parete e chiusi gli occhi, prendendo fiato silenziosamente.

Non appena le lacrime svanirono e il respiro si rilassò, mi presentai in cucina con i libri sotto braccio, che poggiai sul tavolo.

Mossi la bocca per salutarlo ma non ne uscì fuori nulla.

«Ciao.» Disse lui sorridendomi, i suoi occhi verdi erano luminosi, belli, gentili, sereni.

Come faceva ad essere così forte?

Insegna anche a me ad esserlo.

«Ciao…» Bisbigliai sotto il mio respiro, non credevo mi avesse sentito «Ciao.» Ripetei a voce più alta.

«Vuoi fare prima colazione?» Chiese.

Scossi il capo e mi accomodai accanto a lui, alla sua destra, come a scuola: mio padre si alzò ed andò in salotto: «Vi lascio studiare.»

«Grazie.» Rispose Edward. «Allora? Da cosa iniziamo? Facciamo prima un ripasso di Virgilio e l’Eneide in generale o vuoi prima tradurre?» Domandò aprendo i suoi libri.

«Come preferisci.» Il mio tono di voce non riusciva ad aumentare di un’ottava.

«Io comincerei col ripasso, sono poche pagine e sono cose che già sappiamo. Non credi?»

Annuii.

«Allora inizia tu a parlarmi della vita di Virgilio.» Piegò teneramente la testa verso sinistra e mi sorrise.

Il mio cuore prese a palpitare senza una ragione ben precisa, ma mi piacque.

 

Edward dovette interrompermi varie volte per chiedermi di aumentare la voce e quando io terminai con la vita dell’autore, lui attaccò con la spiegazione dell’Eneide: era molto più veloce di me, il suo discorso era liscio e la cadenza era decisa; non balbettava, non incespicava, non aveva vuoti di memoria ed il suo tono era abbastanza alto da permettermi di ascoltarlo senza dover sforzare l’udito.

Mentre stavamo traducendo sbuffò ed io lo guardai: ricambiò lo sguardo ed unì le sopracciglia in un’espressione che mi sembrava dispiaciuta.

«Bella,» sussurrò avvicinandosi un po’ per farsi ascoltare, «Non è che potremmo andare da qualche altra parte? Non riesco a concentrarmi con la tv nelle orecchie.» Chiese dispiaciuto.

In effetti, la tv che urlava dal salotto era fastidiosa e pensai che la mia camera era l’unico luogo dove potevamo stare in pace, ma era anche l’ultimo luogo dove avrei voluto portarlo; però, mio padre era in casa, se fosse accaduto qualcosa mi avrebbe sentita urlare.

Annuii e prendemmo i libri accompagnandolo verso camera mia; era ordinata, il letto era sistemato e gli abiti stirati erano piegati sulla sedia a dondolo.

Presi la sedia della scrivania e gliela porsi, mentre io andai ad accomodarmi sul materasso; Edward poggiò il suo dizionario sulla scrivania e alzò gli occhi verso la bacheca a cui avevo appeso delle immagini delle Farfalle di Ulisse.

«Le Papilio Ulysses.» Mormorò. «Sono le tue preferite?» Chiese, continuando ad osservare le foto.

«Sì…»

«Sono anche le mie preferite. Il blu è il colore che preferisco e poi sono bellissime vederle volare.»

Annuii ma lui non mi vide.

«Sai perché si chiamano “Farfalle di Ulisse”?» Mi guardò.

Feci di no con la testa.

«Si dice che quando Ulisse tornò ad Itaca, nella sua villa, le crisalidi si ruppero e nacquero queste splendide farfalle dalle ali blu per dargli il bentornato. Non so se sia vera, a me l’hanno raccontata ma su internet non ho trovato nessun riscontro, infatti si pensa che probabilmente il nome è associato all’Ulisse dell’Odissea ma non è detto che sia vero.»

«Ah… non lo sapevo…»

«Su, ricominciamo!» Si sedette e ricominciò a tradurre.

 

Passarono le ore, si sentiva solo il rumore delle penne che graffiavano la carta e le lancette della sveglia.

Io ero in ansia, lui sembrava essere a suo agio ma quando il mio stomaco brontolò e lui scoppiò a ridere l’ansia si trasformò in imbarazzo.

Decidemmo di fare una pausa e quando scesi le scale, restai di sasso: mio padre non c’era.

Aveva lasciato un biglietto dove mi diceva che c’era stata un’emergenza in centrale e che doveva correre.

Lo appallottolai e lo strinsi fino a sbiancarmi le nocche delle  mani.

Guardai Edward ed arretrai finché non fui bloccata dal lavabo della cucina; lui si stava accomodando al tavolo e si passò le mani sul viso, in un gesto di stanchezza.

Mi voltai di scatto: non dovevo far notare la mia ansia, non dovevo dimostrare di aver paura di lui.

Non dovevo avere paura di lui. O Sì?

Presi il pane per fare dei toast, dell’insalata e del formaggio e poggiai tutto sul davanzale; presi un coltello e mi accorsi che le mani mi tremavano: le ignorai ed iniziai a tagliare via la crosta dal formaggio e fu proprio in quell’istante che il tremito aumentò, il coltello perse la presa sulla crosta, il formaggio mi cadde e la lama si conficcò nel palmo della mano.

Urlai dal dolore e tolsi i denti della lama dalla carne.

La stanza iniziò a girare e prima che chiudessi gli occhi per il sopraggiungere dello svenimento, vidi una figura avvicinarsi e prendermi al volo.

 

La mano mi bruciava ma la sentivo calda e qualcosa mi sfiorava la fronte: era delicato e soffice, sembrava una piuma.

Aprii piano gli occhi e quando misi a fuoco urlai dallo spavento, arretrando sul divano e rimpicciolendomi contro lo schienale, iniziando a tremare.

Avevo visto una mano scostarmi i capelli dal viso, degli occhi azzurri ed i capelli biondi che popolavano i miei incubi: ma poi la figura cambiò e gli occhi azzurri diventarono verde smeraldo, i capelli assunsero un colore tendente al rame e l’incubo svanì.

«Sta calma, sono io…» Sussurrò Edward, inginocchiandosi accanto a me.

Allungò una mano nella mia direzione: gli occhi mi si appannarono a causa delle lacrime, il corpo tremava e chiusi gli occhi spaventata di rivivere le stesse sensazioni di impotenza e dolore di due mesi prima.

Ma la mano calda si appoggiò sulla mia guancia, asciugando le lacrime; sfiorò la fronte, portando via i capelli che cadevano sul viso.

E non faceva male.

Schiusi gli occhi ed arrischiai un’occhiata traballante poiché ancora tremavo.

«Tranquilla, non ti faccio del male.» Sussurrò ancora con voce rassicurante. «Respira insieme a me.» Disse e gli ubbidii: iniziai a respirare al suo stesso ritmo ed i contorni sbiaditi ripresero il loro posto.

«Posso vedere la tua mano?» Mi mostrò il palmo della sua ed io, lentamente, gli diedi la mia, poggiandola sulla sua: la ferita sanguinava ancora un po’ ma non era profonda. «Fra poco sarà cicatrizzata. Vuoi andare in ospedale?» Mentre mi poneva la domanda, poggiò l’altra mano sulla mia, chiudendola fra le sue: il suo calore non era spaventoso, ma rassicurante.

Mi piaceva. Allora le loro mani non facevano solo del male?

Scossi il capo.

«Dove hai le medicazioni? Ti metto una benda.»

«In bagno, nel mobile accanto allo specchio.»

Si mise in piedi.

«Edward?»

Mi guardò e sorrise mostrando i denti: era la prima volta che pronunciavo il suo nome. «Sì?»

«Perché… perché ti preoccupi per me?» La mia voce era spezzata.

«Beh, non voglio che tu muoia dissanguata.»

«No, mi riferivo in generale non… non alla mano…»

«Perché voglio esserti amico e gli amici si prendono cura a vicenda, ma visto che io non ne ho bisogno, avrò tutte le attenzioni per te senza che tu mi ricambi di nulla, mi basterà solo presentarti agli altri come mia amica.»

«A nessuno interessa essermi amica, perché dovrebbe interessare a te?»

«Perché mi piaci, sei interessante e voglio conoscerti meglio.» Disse con calma.

Arrossii. Nessuno mi aveva mai definita interessante, neanche prima di…

S’inginocchiò di nuovo. «Perciò, possiamo essere amici?»

Edward mi dava sicurezza, mi faceva stare bene con piccoli gesti anche se avevo ancora qualche timore a restare sola con lui.

Annuii. Avevo un amico.

Ma si sarebbe rivelato come tutti gli altri?

«Allora siamo amici.» Mi porse il mignolo.

Voleva che lo stringessi col mio.

Guardai a lungo quel dito con terrore: volevo stringerlo col mio per sigillare il patto di amicizia.

La mia mano destra tremava, ma quando lui chiuse il mignolo intorno al mio, il tremito smise di esistere e mi sentii rilassata, tanto da sciogliere anche le spalle perennemente tese ed espirai, come se avessi tolto un peso.

«Amici.» Disse sorridendomi.

«Amici…» Bisbigliai.

 

Entrambi, prendemmo una A++ per il lavoro da svolgere in coppia.

 

   
 
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