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Autore: XShade_Shinra    05/03/2011    3 recensioni
Non potevo certo immaginare che quella mia scelta di non fare alcuna ecografia sarebbe stata la sua sola salvezza, o quei mostri mi avrebbero costretta ad abortire.
E uno dei primi ad attivarsi sarebbe stato proprio lui, Kurama.
Il mio sposo.
Colui che pensavo l’avrebbe amata come non si ama nessun altra persona al mondo.

[ Hiromi + Mariko ]
[ FanFiction partecipante alla Challenge "The COW-T - Terza settimana" indetta su maridichallenge ]
Genere: Generale, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Mariko
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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-Gestation-
Non potevo certo immaginare che quella mia scelta di non fare alcuna ecografia sarebbe stata la sua sola salvezza, o quei mostri mi avrebbero costretta ad abortire.
E uno dei primi ad attivarsi sarebbe stato proprio lui, Kurama.
Il mio sposo.
Colui che pensavo l’avrebbe amata come non si ama nessun altra persona al mondo.
[Hiromi + Mariko]
FanFiction partecipante alla Challenge "The COW-T - Terza settimana" indetta su maridichallenge
 

-Titolo: Gestation
-Autore: XShade-Shinra
-Anime: Elfen Lied 
-Personaggi: Hiromi, Mariko
-Genere: Gen, Introspettivo, Sci-fi  
-Rating: Giallo   
-Warning: Missing Moment
-Capitoli: One-Shot
-Prompt: Attesa 
-Disclaimer: Tutti i personaggi di questa storia sono maggiorenni e comunque non esistono/non sono esistiti realmente, come d’altronde i fatti in essa narrati. Inoltre questi personaggi non mi appartengono (purtroppo...), ma sono proprietà dei relativi autori; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro ma solo per puro divertimento.
-Note: La FF è divisa in due parti, con due POV diversi: il primo è di Hiromi, il secondo di Mariko.
Ringrazio la mia E.P. (Fiamma Drakon) per la betatura lampo! <3



- Gestation -


« Come la chiameremo? » 


Quella domanda mi sta ronzando in testa da quando il mio consorte me l’ha porta.
Ci sarebbero stati ancora cinque lunghi mesi di attesa prima di poter vedere il nostro primo figlio venire alla luce, dopo tutte le volte che abbiamo provato ad averne uno. Nel frattempo mi terrà compagnia e non mi sentirò mai sola mentre mio marito è al lavoro.
Non so se prenderà i miei capelli castani, o il taglio severo degli occhi del padre. Nemmeno cosa vorrà fare da grande, se sarà studioso o meno, se diventerà Presidente o netturbino; ma già lo amo.
L’ho desiderato per così tanto tempo che quando mi hanno detto che il test di gravidanza era positivo e non era uno sbaglio, mi ero messa a piangere dalla gioia – ormai la fecondazione in vitro era rimasta la nostra
ultima speranza.
Poiché tengo particolarmente a questo bambino, che è sia parte di me che parte del mio adorato marito, sto facendo tutte le analisi necessarie e sto prendendo tutte le medicine che possono aiutarlo a nascere e crescere forte e sano, ma non l’ho voluto vedere con un’ecografia. Non voglio sapere se sarà una femminuccia o un maschietto, sarà una sorpresa. 
Una bellissima sorpresa dopo nove mesi. Ma quell’attesa non è solo per me, ma anche e soprattutto per lui, che sicuramente non aspetta altro che venire al mondo per scoprire quanto sia bello e vivere felice con i suoi genitori, che lo ameranno indiscriminatamente da tutto.

~ Non potevo certo immaginare che quella mia scelta di non fare alcuna ecografia sarebbe stata la sua sola salvezza, o quei mostri mi avrebbero costretta ad abortire.
E uno dei primi ad attivarsi sarebbe stato proprio lui, Kurama.
Il mio sposo.
Colui che pensavo l’avrebbe amata come non si ama nessun altra persona al mondo. ~


« Come la chiameremo? » 

« Se sarà una bambina, voglio che si chiami Mariko. »
« Va bene. Mi piace. »


~†~


Quando ero ancora là dentro, mi chiedevo spesso cosa ci fosse al di fuori di quello spazio troppo piccolo per potersi muovere all’interno di esso e troppo grande per poterlo definire una tomba.
Le uniche cose che sapevo di ciò che c’era fuori da quel liquido, che non permetteva che mi si formassero le piaghe da decubito e manteneva il mio corpo ad una temperatura ottimale, mi veniva raccontato dalle dolci parole della “mamma”, la Dottoressa Saitou, colei che era stata incaricata di fornirmi un supporto psicologico per poter sopravvivere senza impazzire.
Ma è difficile non diventare pazzi per una creatura che possiede un Q.I. così elevato e che è costretta a vivere in una gabbia, non trovate, sciocchi umani? Anche le fiere diventano matte dentro le loro prigioni, arrivando ad auto-lesionarsi una volta precipitati nella spirale bianca e nera della pazzia.
Oltre la poca compagnia che potevo avere dalla mamma, cos’altro mi avete offerto se non la solitudine e la noia?
A parte dormire, non avevo nulla che riempisse le mie giornate e che mi fungesse da valvola di sfogo. Mi nutrivate attraverso dei tubi – quelle cose che chiamate flebo –, senza farmi conoscere il vero sapore del cibo, e scartavo il superfluo attraverso altri tubi, senza che dovessi fare nulla.
Vivevo come una pianta e soffrivo silenziosamente per non far notare agli scienziati che, piano piano stavo diventando pericolosa – sia per loro che per me stessa.
Nonostante mi avessero messa in quella cella di contenimento, creata per isolarmi dal mondo esterno per più di undici metri, perché i miei ventisei vettori non potessero nuocere, ero certa che non si sentissero sicuri a lavorare a stretto contatto con me.
« Mamma, perché non posso venire da te? » domandai una volta alla ricercatrice, durante una delle nostre tante chiacchierate.
« Perché per il momento devi rimanere là. » mi spiegò calma.
« Ma io qui non ho nulla da fare… sto male se non ci sei tu. » pigolai.
Quelle parole cariche di dolore, furono lette come una dichiarazione d’amore per la mamma, che quasi scoppiò a piangere dicendo ai suoi colleghi « Avete visto? Sono importante per lei! Mi vuole bene! », e io avrei tanto voluto dirle che non era importante, ma fondamentale per me, perché altrimenti mi sarei uccisa con le mie stesse mani, anzi con i miei vettori, se non avessi avuto quel poco di tempo impegnato.
Quella prigione nella quale ero stata tenuta reclusa per ben cinque anni – e che a me ricordava tanto un feto materno, come se in realtà non fossi mai nata o come se fossi figlia di quei freddi pannelli di acciaio – mi aveva insegnato solo una cosa: mai fidarsi di quegli esseri mostruosi così simili a noi Silpelit che si fanno chiamare “umani”.
Potevo avvertire la presenza di altri Diclonius come me dentro quella struttura di contenimento, quel laboratorio che utilizzavano per studiarci, e potevo sentire chiaramente la loro sofferenza; non solo fisica, ma anche e soprattutto psicologica, ed ero certa che anche loro riuscissero a captare la mia, nascosta in un guscio di freddezza ed impassibilità che si infranse come uno specchio buttato a terra quando finalmente la mia lunghissima attesa – l’aspettare qualcosa che non sapevo nemmeno cosa fosse, perché ignoto – finì.
E finalmente mi sentii viva.
Quando aprirono le paratie dell’unità di contenimento, mi sentii come nascere per la prima volta, come se avessi atteso nell’utero materno per ben cinque anni e nove mesi.
La luce artificiale di quella stanza mi riscaldava appena e mi ridava vita, come un fiore nato nel buio ed esposto finalmente al sole, i cui raggi effettivamente mi ferivano gli occhi – i quali non avevano visto altro se non il nero delle tenebre e il tenue led delle lucine all’interno della mia prigione –, ma ne valeva la pena.
Le gambe non riuscivano a reggere il mio corpo, poiché non avevo sviluppato i muscoli necessari per sostenere il mio stesso peso, anche se i miei vettori sarebbero stati abbastanza forti per tenermi in piedi. L’unico problema fu che non riuscii ad utilizzarli subito e caddi a peso morto sul pavimento, facendomi un po’ male.
Il dolore.
Non avevo mai provato una cosa simile.
Era… bellissimo.
Vista, tatto, gusto, odorato, udito.
Tutti i miei cinque sensi si erano affinati, e si stavano svegliando piano piano a causa della lunga attesa, come quelli di un bruco che intacca la pupa e poi la rompe, uscendo dalla crisalide sottoforma di farfalla, riuscendo a vedere il mondo dall'alto.
Mentre cadevo, mia “madre” mi corse incontro, preoccupata.

Ora mi ha presa in braccio, ed io le sto abbozzando un sorriso.
L’attesa è finita.
Sono finalmente nata.
E posso sentirmi viva.



« Come la chiameremo? » 

« Se sarà una bambina, voglio che si chiami Mariko. »
« Va bene. Mi piace. »

« Ah, Kurama? »
« Sì, Hiromi? »
« Secondo te, di quale colore potrebbe piacergli la tutina? »
« Non lo so, Hiromi. Io gliela comprerei rossa, dopotutto è un colore che piace ad entrambi… »




E la mia vita – la mia vera vita – ha inizio con il colore più bello.
Il rosso del sangue.


§Owari§
XShade-Shinra

  
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