In
volo con l’angelo
Bella,
La parola Bella è nata insieme a lei,
Col suo corpo e con i piedi nudi, lei
E’ un volo che afferrerei e stringerei,
Ma sale su l’inferno a stringere me
- Devo confessarmi, padre
Questo
mormorò, respirando lentamente.
Non era stato facile. Niente lo era mai stato. Anche
pronunciare quelle semplici parole, come ogni altra cosa, gli era sembrata
un’impresa immane. Del resto, lui era Alessandro. Non meritava niente.
Mai.
Chiuse gli occhi, le mani congiunte fiaccamente in grembo.
- Ho peccato, padre – sussurrò, espirando
silenziosamente. Un sospiro mal trattenuto risuonò a lungo nel confessionale,
unico rumore oltre le grida. Ma quelle, lo sapeva, le sentiva solo lui. Nella
sua testa.
Alessandro socchiuse gli occhi, reclinando piano il capo
all’indietro e poggiandolo contro il legno alle sue spalle. Non erano le
urla a spossarlo: si era abituato ad ascoltarle, a conviverci. Seppur a
malincuore, si era convinto di non potersene mai
liberare. In nessun luogo, in nessun momento. O almeno, così credeva.
Così aveva sempre creduto. Fino a lei.
- Ho peccato – ripeté, la gola che gli si chiudeva
– Ho peccato, ho peccato, ho peccato -
Non riusciva a dire altro, bloccato su quelle parole.
Sembravano semplici a pronunciarsi. E a lungo andare perdevano quasi il loro
significato più vero. Sbiadivano, opacizzando, allontanandosi dalla sua
visuale.
Un tremore diffuso si era impadronito delle spalle del
giovane, le labbra che instancabili continuavano a ribadire le stesse due
parole. Una litania soffusa, avvolgente. Quasi cantilenante, a tratti
inquietante.
Alessandro, però, non aveva paura. Non più.
Non era paura quella che sentiva. Il senso di abbandono,
di nausea, di impossibilità più totale.
Non era paura, quella. Era il terrore più puro.
- Non è stata colpa mia – fu la frase che gli sfuggì
dalle labbra, prorompente.
E un singhiozzo lo scosse, il volto che si irrigidiva.
Scosse la testa, smettendo per qualche breve istante di respirare. Cosa…
cosa aveva appena detto? Si riscosse, allucinato. Non
era vero. Non era vero. Non era per niente vero. Lo sapeva benissimo, che non
era così. Aveva mentito. Lui. L’uomo sincero.
- Non è vero – soffiò alla fine, i pensieri che
cozzavano gli uni contro gli altri.
Alessandro non mentiva. Non avrebbe certo cominciato
adesso.
- E’ stata colpa mia – disse, il tono piatto,
incolore – Lo ammetto. Non sono pentito -
“Perché sei qui, allora?” fu la domanda che
spiazzò ogni altro pensiero.
La domanda che ebbe il potere di zittire per pochi secondi
le grida, la domanda che aveva formulato lui stesso. La domanda da un milione,
quella che continuava a farsi dal momento in cui aveva messo piede nella
chiesa. Dall’istante in cui era entrato nel confessionale.
Dall’attimo in cui aveva chiuso gli occhi.
Poi le grida tornarono e assieme ad esse trovò il coraggio
di rispondere.
- Non ancora – concluse il suo pensiero Alessandro
– Non sono ancora pentito -
Voleva rimediare… forse.
Non ne era sicuro. Gli sembrava di non capire più niente.
Non sapeva cosa era giusto e cosa no. Temeva di non essere più nemmeno in grado
di distinguere ciò che era vero, reale, da ciò che non lo era.
Gli girava la testa, i sensi ovattati. Come se fosse sotto
l’effetto calmante e intorpidente di medicinali.
Un sorriso gli incurvò le labbra. Non era un vero sorriso:
somigliava più a un ghigno, ad una smorfia di dolore sordo. Alessandro
s’inumidì le labbra, la sensazione di non avere più alcuna percezione.
- Inizio – balbettò, le lettere che sembravano
inciampare sulla lingua – Inizio a raccontare -
Cercò di concentrarsi, di fare mente locale. Per decidere
da dove fosse opportuno cominciare, cosa avesse scatenato tutto. Quale
scintilla avesse dato fuoco alla miccia… come aveva fatto a finire
all’inferno?
Solo più tardi avrebbe capito che la domanda era posta nel
modo sbagliato.
Alessandro sospirò, tornando decisamente troppo indietro
con i ricordi. Quando aprì gli occhi, non vedeva più il confessionale. Non era
più avvolto nella penombra, non c’era la calura di agosto ad opprimerlo.
Ciò che i suoi occhi vedevano era un altro Alessandro. Più
giovane di diversi anni, ragazzo.
Un Alessandro non ancora maggiorenne. Un Alessandro già
fermo nelle sue decisioni.
Si rivide sorridente, i capelli tagliati di fresco. Un
occhio nero, un labbro spaccato. E rideva, una lattina
di coca cola stretta fra le mani. Rideva, fuori la parrocchia del paese. La
bevanda che rischiava di andargli di traverso. Rideva,
una scintilla di speranza ad illuminargli gli occhi neri. Quegli stessi occhi
che prima di allora non erano mai riusciti a sorridere, taciti spettatori di
cose che non andrebbero raccontate.
Era tornato troppo indietro, si disse Alessandro, mentre
quell’immagine sbiadiva lentamente.
Se fosse partito dai suoi primi anni da seminarista, non
sarebbero bastate ore a raccontare ogni cosa. Era inutile ripercorrere tutti
gli anni di studi, i sacrifici cui si era sottoposto. Inutile rammentare ogni
singolo libro sfogliato, ogni messa studiata, ascoltata, adorata. Era troppo,
decisamente troppo indietro.
Alessandro sospirò, le immagini dei suoi anni di lavoro
che gli annebbiavano la mente, scorrendo rapide, come il trailer di un film o
un album di fotografie sfogliato con molta velocità. Le notti di viaggio, le
ore di preghiera… voleva prendere i voti, voleva diventare prete. E
niente lo avrebbe fermato.
Scorse in un lampo i suoi diciott’anni,
poi i suoi vent’anni e subito dopo i venticinque. Era quasi arrivato alla
meta. Altri due, tre anni e sarebbe tornato in prossimità del presente. Di
quella che avrebbe dovuto essere la realtà. La sua attuale vita. Ventotto anni,
a un passo dalla sua vittoria personale.
Mancava poco, pochissimo a che il suo desiderio si
avverasse.
Un ultimo sforzo e, finalmente, avrebbe sentito un qualche
senso di remota soddisfazione. L’impressione di star facendo ciò che
doveva fare, di star percorrendo la giusta strada. Risentì quelle sensazioni,
le emozioni che rischiavano di avere il sopravvento su di lui. Era sempre così:
ogni qualvolta muoveva un passo in più verso l’obiettivo che si era
prefissato… eccolo, il senso di approvazione.
Alessandro aveva l’impressione che provenisse
dall’alto.
Allora, sollevava gli occhi verso il cielo e sorrideva.
Gli piaceva pensare che lei lo stesse
guardando. E immaginava, sperava, pregava che fosse fiera di lui. Che fosse
orgogliosa, anche solo un pochino.
Perché lui lo faceva per lei. Solo per lei.
Alessandro rabbrividì, il momento in cui tutto era
iniziato che si avvicinava ogni istante di più.
Eppure, silenzioso, senza che se ne accorgesse, un drappo
era come calato su di lui. Invisibile, morbido, confortevole. Una coperta
fittizia che riuscì incredibilmente a calmarlo e che gli impedì di impazzire.
Non era mai stato una persona impulsiva. Tutt’altro.
Era apatico.
Passivo, indifferente, completamente impassibile. Non si
lasciava prendere dalle emozioni, credeva anzi di non sapere nemmeno cosa
realmente fossero. O almeno, era sempre stato così da quel giorno in poi.
Per sedici anni, sedici lunghi anni, Alessandro non aveva
provato assolutamente niente.
Poi, era arrivata Aurora.
- A questo punto… - biascicò il giovane, la vista
appannata – A questo punto bisogna rallentare -
Andare per gradi, lentamente. Era necessario spiegare ogni
cosa con il dovuto tempo, con le dovute spiegazioni e precauzioni. Altrimenti,
non sarebbe stato facile capire. Impossibile, in realtà.
Alessandro inclinò la testa di lato, i muscoli già
intorpiditi.
- Bisogna andare per sensi -
I cinque sensi. Udito, olfatto, vista, gusto e tatto. I
nostri cinque, unici, insostituibili sensi.
Era stato attraverso essi che Alessandro aveva conosciuto
Aurora.
Era stato per i sensi che aveva rischiato di perdere il
senno.
Per i sensi che era arrivato sull’orlo del baratro,
in punta di piedi.
Con i sensi, che aveva assaggiato l’inferno.
I sensi, il suo inizio e la sua fine. I sensi, tutto.
- Il primo è stato l’udito - sussurrò, consapevole
di non poter più tornare indietro.
- Devo confessarmi, padre -
Alessandro sussultò, il cuore che gli saltava in gola.
Era entrato nel confessionale solo per prendersi una pausa
caffè.
Un libro troppo grosso poggiato in grembo, la camicia che
gli andava larga, i capelli spettinati. Doveva dare un esame di lì ad una
settimana e sentiva di starsi avvicinando alla fine del suo lungo percorso.
- Non… - balbettò, sentendo l’aria farsi
tremendamente pesante - … non ho il permesso di… -
Non lo aveva. Non poteva ascoltare la confessione di
nessuno. Non era suo diritto.
- Lo so -
La risposta lo colse di sorpresa.
Alessandro aggrottò le sopracciglia, girando
d’istinto il viso verso il punto da cui proveniva la voce.
Era stato un impulso. Non era riuscito a frenarsi.
Tempo due secondi, però, che tornava a fissare il
pavimento. Di scatto. Senza che avesse modo di vedere la persona seduta a così
poca distanza da lui, senza che potesse incrociarne lo sguardo.
- Non fa niente – diceva la voce, femminile, dolce,
amichevole.
Una voce fresca come l’acqua, travolgente e
accattivante.
- Parliamo solo, allora – stava proponendo,
maliziosa ed aggraziata.
- Non credo che… - cercò di intervenire Alessandro,
chiudendo maldestramente il tomo fra le mani.
- Dove sarebbe il problema? – chiese la voce,
sinceramente confusa.
- Non dovrei essere qui – sussurrò Alessandro, un
tremore di premura che lo invadeva.
- Nemmeno io –
Era stato in quel modo che aveva conosciuto Aurora.
Chiuso in un confessionale in cui non avrebbe dovuto
essere.
Non l’aveva guardata. L’aveva sentita, solo quello. Con l’udito. Per ore, tante,
tante ore.
Pochi centimetri a dividerli, un misero strato di legno a
separarli. Niente di più e niente di meno.
Vicinissimi e al tempo stesso così lontani.
Avevano parlato. Di tutto e di niente.
Passando semplicemente il tempo, chiacchierando.
Conoscendosi, per quanto potesse sembrare strano. Assurdo. Inverosimile, certo.
Ma bello, terribilmente bello.
Alessandro si era prima rilassato, dimentico del suo
libro, dell’esame, dei suoi doveri.
Non aveva più preoccupazioni, viveva il momento. Lì, in
quell’angusto confessionale. Con una voce sconosciuta e bellissima.
Carezzevole, lenitiva. Nuova eppure già insostituibile.
Calmo, disteso, si era messo comodo. La tensione che lo
abbandonava.
Aveva cominciato a divertirsi, a lasciarsi prendere e trasportare
lontano dalle parole della ragazza.
Si era lasciato rapire, privo di alcuna forza e difesa.
Discorsi frivoli, alle volte senza senso. Eppure non
importava, non contava di cosa parlassero bensì che lo facessero. Che
comunicassero. Che rompessero il silenzio, annientandolo e vincendolo.
Alessandro uscì come rinato da quel confessionale. Minuti
interi dopo che ne era uscita lei.
Si sentiva diverso, ma non capiva perché.
Ci avrebbe messo del tempo, come al solito, ad unire i
pezzi del puzzle.
- Il secondo – bisbigliò – è stato
l’olfatto -
- Fragole -
Alessandro chiuse gli occhi, prendendo un lungo respiro.
Era di nuovo nel confessionale, senza il libro questa
volta. Seduto, il capo reclinato all’indietro.
E non era solo. C’era Aurora con lui, la stessa
ragazza della volta precedente.
La ragazza che ancora non aveva visto, ma che continuava a
sentire. La voce, la risata… e ora anche il profumo. Quell’odore
particolare che apparteneva solamente a lei. La fragranza di Aurora.
Così l’aveva chiamata. La fragranza di Aurora.
L’aveva cercata ovunque, ma non era riuscito a
trovarla da nessun altra parte.
Solo in quel confessionale la sentiva. Solo quando
c’era lei.
- Fragole – ripeté, il
solito senso di calma che lo invadeva poco a poco – E cioccolato -
Cercava di spiegarle cosa sentiva, tentava di convincerne
se stesso.
- Ma non solo questo – continuò, scuotendo appena la
testa – Sento il mare, quando ci sei tu. Un aroma soffuso di Natale,
anche… e di tramonto -
Alessandro gemette, capacitandosi di star dicendo cose
senza senso.
- Scusa – mormorò, a disagio – Non so cosa mi
è preso -
- Tramonto? – chiese la voce, sorpresa e divertita.
- Sì –
- Sono… - risatina nervosa – Sono contenta di
ricordarti tutte queste cose, Alessandro –
- Sembra assurdo, vero? –
- Gli odori… - cominciò la voce, pensierosa -
… gli odori sono in grado di risvegliare i ricordi, in quanto
profondamente e strettamente legati ad essi. Nell’inconscio –
Alessandro sorrise, di un sorriso quasi vero questa volta.
Solo uno dei primi.
- Non ti offendi, quindi, se ti associo ad una fragola
ricoperta di cioccolato, sulla spiaggia davanti ad un tramonto, il giorno di
Natale? -
- No – rise dolcemente la voce – No, se con me
ci sei anche tu su quella spiaggia –
Alessandro non riuscì mai a dimenticare quel profumo.
Né i ricordi che scatenava prorompenti in lui. Gli
sembrava di sentirlo ovunque e da nessuna parte.
Lo cercava, bramava di sentirlo, di potersene beare…
perché, senza volere, senza nemmeno riuscire a realizzarlo, ne era diventato
dipendente. Pochi incontri, sempre al chiuso, sempre in quel confessionale.
Loro. Due voci e due profumi. Solo quello, niente di più.
Due sensi.
Poi, venne il momento del terzo: la vista.
- Alessandro? -
- Sì? – rispose lui, le mani nelle tasche dei jeans,
gli occhi chiusi. Come al solito.
- E se uscissimo? –
Alessandro non reagì, il tempo che quelle parole lo
colpissero. Il tempo di focalizzarle, di realizzarle.
E trasalì, spalancando improvvisamente gli occhi, preso in
contropiede.
- Come? – balbettò, forzandosi ancora una volta per
non voltarsi, per non guardarla.
Si sentiva come Orfeo, quando gli era proibito di girarsi
verso Euridice.
- Un caffè, un gelato, una pizza – proponeva la
voce, angelicamente – Quello che preferisci -
Alessandro si sentiva annichilito, gettato in uno stato di
confusione in cui solamente Aurora era capace di scaraventarlo. Aurora. La sua Euridice.
- Non possiamo – mormorò in risposta, socchiudendo
gli occhi. La gola che gli si chiudeva, una goccia di sudore freddo a bagnargli
la tempia. Cosa gli stava succedendo?
Aurora sbuffò, divertita e seccata assieme.
- Sempre negativo, tu – lo riprese, amichevolmente
– Sempre non si può, non si deve -
Alessandro respirava a fatica, una lotta che gli dilaniava
il petto e la testa.
Una battaglia fra il cuore e la mente.
La sua guerra personale.
- Mai un mi va, mi piacerebbe, lo voglio – continuò
Aurora – Sei sicuro di star vivendo, Alessandro? -
- No – sussurrò lui, alzandosi in piedi incerto.
Poggiò una mano contro il legno, cercando di trovare la forza, il coraggio,
qualunque cosa gli servisse per andare avanti. Per vincere. Per vivere.
Avrebbe capito in seguito che quel qualcosa era Aurora.
- Vieni? -
Alessandro sgranò gli occhi, fissando la piccola mano
pallida appena apparsa nel suo campo visivo.
Vedeva solo quella, solamente la mano. Aperta, il palmo
rivolto verso l’alto.
Un invito, una proposta. L’aiuto che necessitava e
non chiedeva.
- Sì – rispose, un tempo
indeterminato dopo.
Istanti, secondi, minuti o forse ore. Un tempo in cui la
mano non si era spostata di un millimetro.
Alessandro la strinse, avvolgendola interamente.
Coprendola con la sua.
Sentendola minuscola, fragile, sicura nella propria. Ed
ebbe l’impressione che il suo posto fosse proprio lì, stretta nella sua.
Come se fosse sempre stata lì, come se fossero modellate per essere unite.
Uscì dal confessionale, guidato e sorretto dalla mano di
Aurora. La stessa che non avrebbe più voluto lasciar andare. Uscì, un passo
dopo l’altro, socchiudendo gli occhi per il cambiamento di luce.
- Per cosa hai deciso? – gli chiese la voce, solare,
carezzevole come mai.
Alessandro sorrise, gli occhi incatenati in quelli
chiarissimi di Aurora. Azzurri, di un celeste così tenue da tendere
assurdamente al bianco. Pieni di luce, brillanti di natura. Come il sorriso di
lei.
Alessandro sorrise, scorrendo la figura di quella esile
ragazza, piccola e aggraziata. Sottile, appariva fin troppo fragile, eppure la
cosa gli piaceva da impazzire. Come il modo in cui si muoveva, agile e leggera.
Sorrise, provando l’impulso irrefrenabile di
attorcigliarsi attorno al dito uno dei boccoli biondi di lei.
Sorrise, pensando che sembrasse troppo bello per essere vero.
Temendo che fosse tutto un sogno.
- Una passeggiata in riva al mare? – propose alla
fine, stentando a credere di essere stato proprio lui a parlare –
E’ quasi sera, potremmo fermarci a guardare il tramonto -
Sorrise, rispondendo all’espressione raggiante di
lei. Un angelo, aveva conosciuto un angelo.
Alessandro non dimenticò mai l’effetto che gli fece
vederla per la prima volta.
Bionda, fragile. Perfetta.
Un angelo, era stata la prima cosa che gli era venuta in
mente. Non poteva essere altrimenti.
Ricordava il modo morboso in cui stringeva la mano di
Aurora nella sua, terrorizzato all’idea che lei potesse scappare,
sparire, volare via. Non sapeva come avrebbe potuto
andare avanti, poi.
Ma lei non gli sfuggì, non ci provò nemmeno. Non si
allontanò neanche per un secondo, il pollice sottile che disegnava piccole
linee sul palmo grande di lui. Armonioso, capace di sconvolgergli i sensi.
E rammentò il pensiero che lo aveva colpito, assalendolo
per primo e abbandonandolo per ultimo: l’idea che lei fosse un angelo.
Immagine così appropriata ad Aurora. Combaciava alla perfezione. Come il
sorriso che gli aveva increspato le labbra, mentre
passavano davanti alla vetrina di un negozio… specchio che rifletteva le
loro figure assieme, così diverse da sembrare scherzose. Un angelo e un demone.
Gli opposti, dentro e fuori.
Alessandro era sempre stato scuro. Tormentato
nell’anima, contorto nell’aspetto.
Vestiva di nero, quasi volesse abbinare gli abiti alla
propria figura. Jeans neri, camicia nera, capelli neri e occhi neri. Tutto pece, un’unica, distorta macchia nera. Non
avrebbe mai smesso di chiedersi il motivo per cui, quella preziosa gemma di
luce avesse scelto di passare il tempo proprio con lui.
Il quarto senso era stato il gusto.
Non sapeva come fosse accaduto.
Come avesse fatto ad arrivare a quel punto, ad abbassare
tutte le sue difese, a cedere.
Definitivamente, nella mente e nel corpo. Non riusciva a
capacitarsene, tanto gli sembrava impossibile.
Non stava vivendo la sua vita, quello non era Alessandro.
Non era la stessa persona che era stato per sedici anni.
Non l’Alessandro che voleva diventare prete, non l’Alessandro che
voleva prendere i voti, non l’Alessandro che, semplicemente, non viveva.
O forse, era il vero lui quello seduto in riva al mare?
Forse, era davvero lui, Alessandro, su quella spiaggia con
Aurora.
Alessandro, che la stringeva fra le braccia.
Alessandro, che la baciava.
Il suo primo bacio. Non ci aveva neanche fatto caso, in
quel momento. Non riusciva a pensare a niente, troppo assorto ed impegnato nel
vivere quel sogno fino all’ultimo. Nel saggiarne ogni più piccola goccia.
Giocava con le labbra di lei, carezzandole,
mordicchiandole dolcemente, scherzosamente.
Sentendole sue, provando la certezza di non volerle
lasciare più. La certezza che fossero sue, da sempre.
La baciava, chiedendosi perché avesse aspettato tanto.
Un bacio, infinito e indescrivibile, che sapeva di
fragole, di cioccolato, di mare, tramonto e Natale.
Un bacio che sapeva di lei, di Aurora.
Un qualcosa che era tutto.
Il primo bacio di Alessandro, era sicuro non avrebbe
potuto essere migliore.
Né più vero, vivo, unico e perfetto. Come lo era lei, come
si sentiva quando era assieme a lei.
Un boccolo dorato che gli sfiorava la guancia,
un’esile manina che gli stringeva la camicia, due labbra che non
lasciavano le sue… Aurora, Aurora che lo aveva portato a conoscere e
vivere anche il quinto senso.
Il tatto.
E quel senso, quella notte, li coinvolse tutti.
Non c’erano più confini, non c’erano limiti né
doveri.
Il non si può e il non si deve erano scomparsi, lasciando
un aroma di lei al loro passaggio.
E Alessandro aveva scoperto il tatto, fondendolo ed
amalgamandolo con tutti gli altri sensi. Viveva.
Per la prima volta, viveva.
Sentiva la pelle liscia e vellutata di Aurora sotto le
dita, la carezzava, disegnando linee immaginarie e visibili
solo ai suoi occhi innamorati e luminosi. Scendeva piano, per poi
risalire, in un nuovo gioco appena scoperto.
Prima la guancia, la linea del naso, il contorno della
bocca. Con calma, senza alcuna fretta.
Poi il collo, la spalla e giù fino alla vita. Saggiando
con le mani, vivendo la sorpresa, la scoperta, la felicità.
Sorrideva, le labbra che non lasciavano mai
Aurora. Percorrendo la strada già intrapresa dalle sue mani.
Dita inesperte, tremanti e spaurite che aiutate da lei,
dai suoi baci e dalle sue parole, imparavano in fretta.
E al tatto, a quella nuova scoperta, presto si aggiunsero
e mischiarono tutte le altre.
Alle carezze si unirono i baci, i respiri confusi e
accavallati, i sorrisi e gli occhi che non si staccavano mai. Sussurri
sconnessi, alle volte senza senso. Giochi con la sabbia, sdraiati in riva al
mare. Il mare che scherzava con loro, con i loro piedi che si incatenavano,
minacciando ogni volta di bagnarli. Del resto,
che importava?
Fruscii di vestiti che scivolavano via, forme e contorni
che assumevano nuove sembianze, scomposti dai riverberi della giornata che
finiva. Baciati e accarezzati anche dagli ultimi raggi di un sole che
scompariva, inghiottito dal mare. Un cerchio infuocato, bollente come loro,
come le emozioni e la passione che nasceva.
Bruciandoli dentro. In un tripudio di sensi.
Alessandro ricorderà ogni particolare di quella notte.
Ogni singolo respiro, ogni gemito, ogni sorriso.
Le onde del mare, il profumo di sale, i giochi di ombre,
il sapore di lei e il contatto con la sabbia.
Impossibile da dimenticare, immagini impresse a fuoco
nella sua mente sconvolta.
Ricordi di un tempo che sembrava lontano, bloccato in un
luogo irraggiungibile. E Alessandro non sapeva come tornarci, non sapeva se
voleva tornarci. Perché la storia non si fermava a quella notte, ma proseguiva.
Con la mattina successiva, con le loro risate e le loro
parole. Fino a quel punto in particolare, fino al momento in cui avrebbe
cominciato ad unire i pezzi del puzzle. Il momento in cui si sarebbe finalmente
accorto della presenza di un puzzle, prima del tutto al di fuori della sua
mente e poi, d’improvviso, al centro dei suoi pensieri.
- Come fai a stare con me? -
Aveva chiesto Alessandro, stringendo Aurora fra le
braccia, il volto affondato nella spalla di lei.
- Cosa credi? – rise lei, carezzandogli una guancia
– Non ti ho scelto a caso -
E aveva riso anche Alessandro, non capendo, non
immaginando di starsi avvicinando al punto cruciale.
- Ti ho sempre tenuto d’occhio – continuò
Aurora, rallentando il ritmo delle carezza, indugiando
quasi con la mano vicino all’angolo della bocca di lui – Davvero
non te ne sei mai accorto? –
La risata si spense piano, incredula, nella gola di
Alessandro.
- Tenuto d’occhio in che senso? – domandò,
respirando il profumo di lei.
- Nel senso che non riuscivo a lasciarti solo –
sussurrò Aurora, portando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio
e poggiandosi di più contro il petto di Alessandro – Da quel
giorno… - bisbigliò, sentendolo subito irrigidirsi e chiudere gli occhi -
…dal 5 dicembre –
E Alessandro si allontanò da lei, incapace di canalizzare
il terrore che lo stava invadendo.
- Cosa… che stai dicendo? – balbettò,
strusciando via da lei, incapace di leggere il dispiacere che animava gli occhi
di Aurora, lo sconforto che l’animava, la tristezza che le spezzava il
respiro.
- Non è possibile – mormorava, incapace di dire
altro.
I sensi che gli si offuscavano, vinti dalla paura e dal
dolore più puro.
Alessandro aveva vissuto sedici anni di apatia.
Dai dodici ai ventotto anni. Per sedici anni non aveva
vissuto, era vero.
E solo lui conosceva il perché. Solo lui sapeva come aveva
passato i precedenti dodici anni. Solo lui sapeva perché aveva abbandonato ogni
emozioni, allontanando i sentimenti, non permettendosi di conoscere i sensi.
Disconoscendo il piacere, la felicità, la vita. Decidendo
di prendere i voti ed aggrappandosi solo a quello.
Solo lui sapeva che terribile lotta interiore avesse
affrontato, decidendo di dare una possibilità ad Aurora, una possibilità a se
stesso. A loro.
Erano cose che sapeva solamente Alessandro.
O almeno così credeva…
Capì di essersi sbagliato quando Aurora pronunciò quella
data, nel suo orecchio, in un sussurro.
Una data impressa come un marchio nel cuore di Alessandro.
Una data che era il cuore di tutto. Della sua vita. La
spiegazione di ogni cosa.
E Alessandro soffrì ancora una volta, ricordando di nuovo,
come quella mattina in spiaggia.
Ricordando la sua casa, i suoi genitori, il pesciolino
rosso.
Ricordando le liti, le urla, le
botte.
L’alito cattivo del padre che sapeva di alcol, la
sua mano che, implacabile, colpiva la madre. E di seguito, rapide e impossibili
da bloccare, le lacrime della donna, la paura nei suoi occhi. Il suo sentirsi
inutile, il terrore che lo attanagliava, pietrificandolo. E le urla, le urla, le urla… quelle che continuava a sentire,
sempre.
E fu pensando a quelle urla che Alessandro cominciò a
capire.
Spalancò gli occhi, realizzando finalmente il motivo per
cui con lei si sentiva talmente in pace.
Rendendosi conto di colpo che assieme a lei non
c’erano più urla.
Assaporando per la prima volta il silenzio, incredulo.
Non c’erano urla, nella sua testa.
- Alessandro – lo chiamò Aurora, mentre lui si
prendeva il viso fra le mani.
- Il 5 dicembre – ripeté lui, citandola.
E Aurora non disse più niente, limitandosi a chiudere gli
occhi, una lacrima che le solcava la guancia.
Sapeva che Alessandro stava ricordando, cedendo a quel
fiume di immagini che purtroppo non lo avrebbero mai abbandonato. Sapeva che
con quella semplice e terribile data lo aveva costretto a tornare indietro di
sedici anni. A quando ne aveva appena dodici, di
anni. Al giorno in cui, tornando a casa, avrebbe trovato il padre ubriaco,
addormentato in poltrona. Al giorno in cui, basito, avrebbe visto una pistola
stretta nella sua mano.
La pistola che aveva usato, neanche un’ora prima. La
pistola che aveva puntato contro sua madre, premendo il grilletto. La stessa
pistola che un Alessandro tremante, scosso dai singhiozzi e quasi incapace di
allontanarsi dal corpo ancora caldo di lei, avrebbe preso in mano. Quella
pistola che avrebbe puntato contro l’uomo che non aveva mai visto come un
padre, contro quel mostro, contro… la pistola che non avrebbe più fatto
fuoco, solo portata via da un ragazzino in lacrime e sporco di sangue. Bambino
che si sarebbe nascosto in una chiesa.
- So dov’è – mormorò a quel punto Aurora,
incapace di restare in silenzio come le lacrime che bagnavano il volto di
Alessandro – Posso portarti da lui -
Alessandro non rispose, fissandola con sguardo vacuo.
Qualcosa ancora non tornava.
- Chi sei? – domandò, guardandola come se la vedesse
per la prima volta – Cosa sei? -
- Lo sai, Alessandro – sussurrò lei, accennando un
tenue sorriso – Lo hai saputo fin dal primo momento –
E il ragazzo annuì, passandosi la
mani sulle guance, ripensando alla loro immagine nella vetrina.
Un angelo e un demone.
Ci era andato vicinissimo, davvero. Da subito.
Lo aveva detto che era bellissima, dolcissima, perfetta.
Come solo un angelo può essere.
Come solo un angelo è…
Aveva incontrato un angelo.
Un angelo che lo stava portando all’inferno.
E Alessandro non era scappato quella volta.
Sentendo che grazie ad Aurora iniziava a sentire e vivere
un nuovo sentimento.
Qualcosa che avrebbe dovuto provare e che non aveva mai
sentito suo: il desiderio di vendetta.
Profondo, bruciante, dilaniante.
Il desiderio di avere vendetta, di combattere una buona
volta per risanare tutte le ferite che gli erano state inferte e che non si
erano né si sarebbero mai rimarginate. Graffi, schiaffi, offese che ancora
scottavano in lui.
Dolore, un’angoscia estrema, capace di essere
arginata solo con l’oblio totale dei sensi.
Le urla della madre, incancellabili.
E Alessandro aveva detto di sì.
Tremava, guardando quella figura che usciva dal bar.
Tremava, incappucciato, incurante della pioggia che
cadeva. La sentiva ma non sembrava toccarlo.
Serrò le dita, avvolgendo quel piccolo oggetto nero nella
mano destra.
Lo conosceva quell’oggetto, quel dannato,
dannatissimo oggetto.
Una pistola, uguale a quella usata dall’uomo che
stava attraversando la strada in quel momento.
L’uomo che aveva osato definirsi suo padre.
L’uomo ubriaco che era stato lasciato libero di uscire di prigione,
l’uomo che si avvicinava sempre più ad Alessandro. L’uomo che,
soltanto, aveva ucciso sua madre.
Alessandro cercò di sollevare la pistola, vedendolo
avvicinarsi.
Tentò di tenere ferma la mano, di prendere la mira. Ci
provò, vedendoselo passare davanti.
- Non ci riesco – sussurrò alla fine, lasciando
ricadere il braccio.
- Non ci riesco – ripeté, la pistola che scivolava
via dalla sua mano, le gambe che cedevano – Non ci riesco, non ci riesco,
non ci riesco… - continuò a ripetere, in ginocchio, su un asfalto reso
ancora più scuro dalla pioggia. Ed era pronto a sentirsi di nuovo solo, come
quel giorno. Le lacrime che scendevano copiose.
Non fu così, però.
Sentì due braccia stringerlo, avvolgerlo completamente.
Due labbra che si posavano sulla sua guancia, tremanti. E
scoprì di riconoscerle. Di averle attese.
Di averle sperate.
Alessandro chiuse gli occhi, una lacrima che
inevitabilmente, percorreva una strada fatta già troppe volte.
Serrò le labbra, stringendo con dita tremanti la grata in
ferro alla sua destra.
- Non ho sparato – biascicò, la voce roca –
Non ci sono riuscito, non sono stato capace di uccidere quel mostro -
Alessandro sapeva il perché.
Non era uno, erano tanti.
Perché non voleva diventare anche lui un mostro, perché
lui non era così. Lui non uccideva.
Era perché le urla di sua madre si erano finalmente
placate, lasciandolo libero di respirare e sorridere.
Perché aveva tradito anni di studi per Aurora.
Perché non sarebbe stato in grado di perdonarsi se lo
avesse fatto anche spargendo il sangue di qualcuno.
Alessandro rivide il viso della madre, la speranza di
compiacerla che rinasceva in lui.
La chiesa, stava pensando. Voleva
diventare prete per lei, per farla essere fiera di lui, anche solo un pochino.
Alessandro guardò oltre la grata che ancora stringeva.
Guardò e vide il vuoto.
Sorrise, un sorriso amaro e consapevole.
Gli era sempre piaciuto parlare da
solo, lo faceva sentire pazzo e vivo al tempo stesso.
Con passi tremanti uscì dal confessionale, dal solito
confessionale. Il suo, il loro.
Camminò, una mano sempre poggiata al muro per sorreggersi.
E scese gli scalini, lasciandosi quella chiesa alle
spalle. Con tutti i sogni di sedici vuoti e apatici anni.
Gettandosi alle spalle anni di studi, ore trascorse sui
libri, giornate di preghiera.
Dimenticando in pochi secondi ogni momento passato fra
quelle mura.
Passeggiò sul selciato, sfiorando con le dita l’erba
alta e sorridendo.
Non aveva ancora capito perché stesse sorridendo, ma non
gli interessava più di tanto.
Percorse metri, chilometri, forse. Senza farci caso.
Superò la periferia, inoltrandosi in aperta campagna.
Si avvicinò al piccolo ponte in marmo e vi si appoggiò, il
mento sulle mani intrecciate, gli occhi scuri che involontariamente si
perdevano nell’immenso dirupo che aveva sotto di sé. Di solito
c’era un fiume, a scorrere lì. Ma d’estate quel fiume moriva,
lasciando il niente dietro di sé. Alessandro contemplò quella desolazione,
riconoscendovi ciò che prima, tanto a lungo, aveva occupato il suo cuore.
Pensò a sua madre, convincendosi che fosse orgogliosa di
lui. Che lo avesse sempre seguito, osservato da lassù. In ogni suo passo, in
tutte le sue scelte. Approvandone i desideri e le decisioni. Si sentiva in pace
con il lassù.
E si accorse, con sorpresa, di sentirsi in pace anche con
il quaggiù.
Grazie ad Aurora, al suo angelo personale.
A lei, che lo aveva portato a piedi nudi sulla spiaggia. E
che a piedi nudi lo aveva spinto sull’orlo del baratro.
Si accorse di non poter fare a meno di lei, del suo
sorriso.
Di voler abbandonare per sempre il non si può e il non si
deve.
Di voler avere con sé la fragola, il cioccolato, il mare,
il tramonto e il Natale. Per sempre.
Di voler volare con lei, assieme al suo angelo.
Alessandro vedeva quel volo come un rifiuto dei limiti,
delle costrizioni. Lo vedeva come una promessa di libertà e amore,
un’affermazione di potere, di coraggio. Lo associava semplicemente a lei,
ad Aurora.
E capì di essere pronto, di volerlo intraprendere quel volo.
Sorrise, poggiando i palmi aperti sul bordo del ponte.
Fece leva sulle braccia, issandosi su e fermandosi così, in piedi, sopra quel
ponte. Si tolse le scarpe, assurdamente. Rimanendo a piedi nudi.
Sorrise, chiudendo gli occhi e alzandosi ancora, sulle
punte dei piedi, come gli aveva insegnato lei.
Voleva volare. Ora che si sentiva bene, desiderava solo
unire quei due mondi: il lassù e il quaggiù. Poteva.
Bastava lasciarsi andare. Accettare di fare quel volo.
Alessandro allargò le braccia, perdendo il contatto con il
ponte sotto i suoi piedi.
Rise, intraprendendo il volo. Iniziando a volare, come un
angelo. Volando, verso il niente. E verso il tutto.
Sentì una risata unirsi alla sua e capì. Capì di star
volando, di essere in volo con l’angelo.
E non solo.
Rise, sapendo di essere finalmente in volo con il suo
angelo.
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