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Autore: TokyoRose    11/03/2011    0 recensioni
Ha gli occhi leggermente a mandorla,magnetici,color ambra verde e un giardino meraviglioso inciso meticolosamente sulla sua pelle perennemente abbronzata.
Quando la gente la vede,non va oltre quelle cicatrici: ne rimane o ripugnata o affascinata. In ogni caso pochi le rivolgono la parola e nessuno la conosce.
Nemmeno la zia a cui è stata affidata dopo la morte dei genitori o i numerosi dottori che l'hanno visitata in tutti questi anni.
Di loro però lei non si fida e,quando finalmente decide di uscire da quella segregazione in parte imposta e in parte voluta,non sa a chi rivolgersi.
Vuole guarire,ma non può affrontare i suoi demoni da sola.
E nemmeno continuare a rinchiudere i ricordi in immaginarie scatole sigillate con del nastro da pacchi marrone,rinchiuse a chiave nella soffitta della sua mente.
Lei è Itha,una "guerriera" alla ricerca di un modo per tornare a vivere.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non feci caso al riflesso estremamente famigliare nello specchio,l'identità di quella ragazza rimaneva sepolta nella mia memoria,sotto chili di polvere,segreti e capitoli della mia vita sigillati col nastro adesivo marrone,quello estremamente difficile da rimuovere senza fare un baccano tremendo e contemporaneamente rovinare lo scatolone in se.
Ma ero al sicuro,le scatole ermeticamente sigillate si trovavano in un angolo della mia mente che avevo deciso di escludere da tempo. Non lo visitavo da molto,ma anche quando mi capitava di passarci e osservare quella malandata porta rossa,la cui vernice era stata scrostata dal tempo,mi sentivo tranquilla: il contenuto non poteva toccarmi,ero… beh,dire libera sarebbe un'esagerazione,quindi dirò solo… indifferente. Più o meno.
Qualche volta ho anche aperto quella porta: ho afferrato con cautela il pomello bronzeo,come se si trattasse in realtà di fragilissimo cristallo,e l'ho girato,aprendo la dimora di quei ricordi che un tempo mi tenevano prigioniera,ma che adesso ero io a tenere sotto chiave.
Inspiravo profondamente l'aria stantia,sapeva di muschio e polvere,osservavo la microscopica tempesta da me provocata: migliaia di minuscoli granelli di polvere dorata volteggiavano nell'aria,come ballerini di un'opera magica mai composta,ancora in attesa di venir messa per iscritto.
Ma quell'idilliaca contemplazione non poteva durare a lungo: lo sguardo si posava inevitabilmente su uno degli scatoloni o,ancora peggio,su uno dei bauli: resistenti,in vero legno,non di compensato come qualsiasi cosa si trovi all'IKEA,appesantiti da massicce catene in ferro e ingombranti lucchetti. Ma tutto ciò a volte non bastava.
Ormai ero in grado di riconoscere con qualche minuto di anticipo il momento in cui tutte le mie barriere mentali sarebbero crollate e il contenuto,una delle cose più spaventose per persone come me: i ricordi,si sarebbero impietosamente riversati su di me,facendomi ripiombare in quell'abisso.
Non ero pronta per affrontarli,l'ultima volta che l'ho fatto diciamo che è… finita male. Anche se ovviamente sto utilizzando un eufemismo,dato quello che è successo…
A quel punto rimaneva una sola cosa da fare: andarsene. In fretta.
Corsi fuori dalla stanza,sbattendo con forza la porta,che in seguito chiusi a chiave: quattro giri,il massimo che una serratura del genere consentiva.

Ritornai alla realtà: sicuramente la zia avrebbe insistito affinché chiamassi la mia psicologa per ricevere un po' di supporto o perché mi confidassi con qualcun'altro. E per qualcun'altro intende chiunque,anche lo studente di economia che passa sotto casa nostra ogni mattina con la sua pila di libri e un caffè ad asporto oppure la signora DeCao,una nobile decaduta,ormai in età avanzata,che veste unicamente tailleur originali di Chanel e il cui chihuahua porto a spasso per 7 dollari l'ora,basta che non si tratti di lei:Isobel Jenkinson,una trentacinquenne in carriera,per la quale sono solo un peso morto e il cui unico modo di crescermi è stato affidarmi alle cure mediche dei dottori,uomini e donne dall'aria pacifica e dal sorriso clinico che dovrebbe infondere tranquillità ed esternare la loro comprensione,ma in realtà raramente ci riesce: sembra l'espressione di una persona distante,un'anima lontana mille miglia da quel perennemente stanco corpo,costretto a doppi,e a volte tripli,turni. Notte e giorno per loro non hanno più differenza per loro: sanno solo che devono lavorare,esserci per i pazienti. Ma molti di loro hanno ormai perso la passione di un tempo,o sono semplicemente stanchi di lottare per tenere accesa la fiamma che alimentava le loro anime. Probabilmente si erano chiusi dopo aver perso alcuni dei loro pazienti,era stata dura per loro affrontare la loro morte: erano troppo coinvolti e non vogliono,o non possono permettersi,di passarci di nuovo. Perché col tempo le cose non migliorano affatto: le ferite continuano a farci male,semplicemente ci abituiamo al dolore e impariamo a conviverci. E così decidiamo di fare cos'è meglio per noi stessi: smettere di avere tutto così a cuore. E' difficile,una volta fatto non riesce a renderti una persona migliore,ma almeno ti permette di andare avanti. Li capisco,anch'io ho fatto la stessa cosa: ho smesso di permettere agli altri di toccarmi in profondità,semplicemente perché fa male. Tremendamente male.
Ho già perso troppe persone nella mia vita,non posso permettermene altre.
E' da codardi,lo so,ma per ora è l'unica cosa che posso fare.
Un giorno riaprirò il mio cuore al mondo,riderò con gioia come solevo fare e sarò in grado di sopportare nuovi dolori.
Un giorno.
Forse.
  
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