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Autore: Pinca    17/03/2011    4 recensioni
lo so, il titolo fa caga... comunque, è una raccolta di eventi molto romanzati che partono dall'unità d'italia alla fine della seconda guerra mondiale per poi cimentarsi in una costruzione assurda di un futuro prossimo. insomma, se vi va entrate, il prologo è due righe.
Genere: Guerra, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nord Italia/Feliciano Vargas, Nuovo personaggio, Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4riso
 
 
Questo capitolo è in commemorazione a tutte le vittime duosiciliane dell’unità d’Italia, del primo olocausto della storia moderna, non riconosciuto e ignorato dai libri di storia accademici. Dieci anni di guerra contro i civili, e nessuno si chiese come mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
E fatta l’Italia, l’ebbe in guinzaglio, ben assicurata al collo, ed a passeggio si appropinquava a portarvi li capi come canidi obbedienti e fidi. Di sua proprietà, ogni persona, prima la nazione francese e poi quella italica intera, legata ad un debito inviolabile e insolubile, la nuova invisibile catena schiavista.
E pensare che gli era bastato inventarsi l’unità d’Italia….
                           
                                                                                            Il Dio del Nuovo Ordine Mondiale
 
 
 
 
 
 
 
 
L’ennesima frustata squarciò la pelle viva, dilaniata e insanguinata della schiena del ragazzo scuotendolo fin dentro l’animo.
Le catene tintinnarono tagliando i polsi imprigionati, e un urlo gli scappò dalle labbra spaccate e tagliate dai denti nei precedenti tentativi di non piegare il proprio orgoglio al dolore esplicito.
Il petto pesava, sanguinate, imbottito di piombo. Ogni pallottola aveva bucato il suo petto, c’erano tanti buchi e talmente tanto sangue che la sua camicia, quella bella camicia bianca e leggera di cui il suo Re gli aveva fatto dono, di seta, era ridotta a brandelli purpurei.
Un’altra volta la frusta lo scosse fendendo i muscoli scoperti sulla schiena.
Brigante, lo accusava il suo aguzzino, lo stesso che gli aveva promesso grandi cose, lo stesso che prima lo aveva imbottito di belle parole, di sogni che mai l’avevano sfiorato, e dopo di piombo e disperazione.
E gridò testardo, ancora una volta: -Viva o’Re!- e a seguito un altro grido di dolore gli aprì i polmoni.
E guardava in alto, imponendosi di rimanere cosciente, di non perdere di vista quel crocifisso di legno appeso alla parete, l’unico suo ultimo punto di riferimento, l’ultimo appiglio, l’ultima speranza.
E anche il nome di Veneziano, quello che i suoi carnefici gli avevano insegnato a chiamare fratello, aveva invocato tra i lamenti e il nome di Dio e del suo Re.
Ma Veneziano non lo sentiva, non gli rispondeva, era lontano, così distratto. Una mezza volta l’aveva visto, quel 17 marzo, e poi più nulla.
Era stato buttato in un baratro di violenza inaudita, era stato depredato, marchiato, violato. Aveva provato a reagire, ci provava ancora e si guadagnava una pallottola dopo l’altra. Respirava, e si guadagnava una frustata.
Quel calvario, quella passione, e il Cristo in Croce gli ricordava che c’erano ancora tante sofferenze che avrebbe dovuto sopportare, e che tutto quello era solo una minima parte, solo l’inizio. Il suo Cristo era stato forte, lo sarebbe stato anche lui. Chiuse gli occhi e fece suo il penetrante dolore della frusta sulla pelle viva. Li riaprì costringendosi a far entrare l’aria nei polmoni.
Brigante! Continuavano le accuse, e si chiese se anche le sue lacrime fossero diventate di sangue, mentre le sue donne e i suoi bambini venivano fucilati, faccia al muro, in paeselli stravolti dall’arrivo degli invasori piemontesi, e dati a fuoco dai bersaglieri.
Confidava ancora fin troppa speranza Lovino, troppa per i suoi carnefici per permettergli il privilegio di un attimo di respiro.
Era inaccettabile una sua resistenza, era un traditore chi andava contro il Re della nuova e unita Italia, chi si opponeva all’unificazione.
Era un traditore chiunque appoggiasse, supportasse, nascondesse i traditori, i briganti, quella piaga di cui il reale governo sabaudo si stava prendendo coraggiosamente carico in nome del nobile obbiettivo dell’unità italiana, in nome della liberazione e della civilizzazione del sud.
Eppure il suo Re glielo aveva detto, lo aveva avvisato, e ora lo rimpiangeva amaramente, e lo invocava nella speranza che tornasse e lo difendesse, lo liberasse da quel sopruso.
Era stato un ingenuo, si era fatto ingannare, aveva creduto veramente nelle belle parole di quegli uomini e poi in quell’uomo che ora si era ritirato mortificato su quell’isola, Caprera, in preda al rimorso, senza il coraggio di venire in quella cella a vedere il risultato del suo operato, di asciugare la fronte di quel ragazzo e chiedergli apertamente scusa.
Tremò ancora Lovino al suono della frusta.
Il suo Re, Ferdinando, li aveva cacciati quegli uomini, li aveva imprigionati, e lui gli aveva dato del tiranno, mentre cercava solo di proteggerlo dai loro facili inganni, di proteggerlo dalla sua stessa ingenuità.
Maledetto, si ripeteva in Mea Culpa Lovino.
E poi se ne era accorto finalmente, quando arrivarono le camicie rosse col benestare delle navi inglesi.
Era stato pronto a combattere in nome del suo Re, Franceschiello. Così lo chiamava lui, perché gli voleva bene, sinceramente, e non semplicemente come si può amare un proprio sovrano, e solo lui si poteva permettere di appellarlo così, con la stessa bonarietà.
Lovino era così forte, così determinato, ma capitolò. Me mani e le gambe, ogni volta che aveva puntato il fucile contro quegli sprovveduti senza arte ne parte in camicia rossa, perdevano di sensibilità e non funzionavano.
Ma gli era bastato trovare le lettere dei piemontesi nelle tende dei suoi generali.
I più alti generali del suo esercito era stati corrotti, lo avevano tradito, venduto agli invasori!
E gli invasori l’avevano spogliato, legato e imbavagliato. Gli aveva tolto tutto: l’oro nelle casse dello stato, le macchine e gli strumenti che aveva costruito per lavorare, la dignità e la parola.
Ribelle, lo avevano chiamato. Si era semplicemente opposto. La repressione era la loro arma.
E sentiva freddo Lovino, freddo come i suoi soldati, fedeli a lui, a Napoli e a Francesco e ai suoi Re, i suoi unici sovrani, i Borbone. A migliaia deportati nella fortezza di Fenestrelle a morire di stenti, esposti alle intemperie e al gelo di quell’ammasso di pietre, una trappola di morte, orgogliosi e mai disposti a piegarsi e a giurare fedeltà al barbaro Savoia Vittorio Emanuele II.
E si sentiva bruciare, la pelle, la faccia, gli occhi, i corpo, fino allo strazio, come i suoi soldati più coraggiosi gettati vivi e sciolti nella calce viva.
Sentiva i pensieri mancargli e sparire, proprio come tutte quelle persone deportate dall’altro capo del mondo in campi di prigionia stranieri per farli tacere.
Quel re, quel maledetto che non aveva neanche avuto l’accortezza di adattare il suo nome in rispetto del nuovo regno, considerandolo esplicitamente come espansione del suo regno originale, schiacciando così la sua dignità, quella del suo popolo e della sua storia sotto i tacco dei suoi stivali lucidi.    
Alla fine si era veramente ribellato Lovino.
Glielo aveva chiesto al suo Re, perché aveva permesso tutto quello? Perché non aveva fatto impiccare quei generali corrotti? Ma lui aveva un animo bonario, non era forte come il padre, mentre gli parlava teneva gli occhi bassi e le spalle spioventi, gravate dal peso dell’ignavia.
E poi non poteva fare niente, gli aveva spiegato, in un modo o nell’altro sarebbe successo, ci sarebbero riusciti. Ma lui non l’aveva capito e a tutt’oggi continuava a non capirlo.
Non aveva compreso che il suo amato Re non si riferiva semplicemente ai piemontesi e alla conquista.
Il suo Re sapeva che dietro c’erano inglesi, francesi e attori ancora più occulti e spietati, personaggi che avrebbero reso ogni sua opposizione un supplizio in più che Lovino in prima persona avrebbe subito sulla sua pelle. Persone che avevano puntato alla sua distruzione perché troppo bello, troppo promettente. E il suo Re non era stato l’unico consapevole di tutto quel disegno.
Lovino aveva invocato anche l’aiuto di Spagna, prima di trovarsi imprigionato e prossimo alla morte. Ma Antonio era così debole, così stanco, che l’unica cosa che aveva potuto fare era stato mandargli quattro soldati spagliati per cacciare i garibaldini. Niente più fece Antonio, poi era caduto in un penoso silenzio, vietandogli pure quegl’occhi verde oliva.
E ora si ritrovava in ginocchio, mentre la sua gente moriva ammazzata, stuprata, le sue terre venivano bruciate, le sue industrie e i suoi ori saccheggiati e portati via, e chi sopravviveva scappava via. Era una massa infinita a scappare via in preda al terrore dalla sua terra, e le forze gli venivano a mancare. Più emigravano e più perdeva le speranze e le energie.
E a quel crocifisso pregava che il suo Re venisse a salvarlo. Ma oramai era lontano, l’avevano cacciato. Non stava più a Roma, sotto l’ala protettrice del Papa, l’avevano fatto andare ancora più lontano da lui, accolto in Bavaria.
Il sangue scuro e fresco sulle lastre di pietra sotto le sue ginocchia era talmente tanto da sembrare l’acqua torbida di un abisso nero. La testa gli girava, e il suo aguzzino lo scosse con calcio, come una bestia.
-Chi è il tuo Re?- gli chiesero ancora, mettendolo alla prova.
Romano continuava a fissare con ostinazione il Crocifisso. Le orecchie gli fischiavano assordandolo col rumore dei moschetti, delle lacrime del suo popolo violentato, deportato, sterminato.
Sentiva il dolore di ogni omicidio, sentiva lo strazio delle madri e dei figli arsi dentro le case, avvertiva ogni lama che si accingeva a decapitare i ribelli che lottavano senza demordere.
-Il mio Re… Francesco seco…!- un altro urlo di dolore gli fu strappato, e altra gente morì.
Un dottore lì presente lo stava studiando con cinismo. Gli aveva misurato la grandezza del cranio con un compasso di ferro, l’altezza della fronte, da distanza tra gli occhi, le fattezze intere del suo volto annotandosi tutto su dei fogli, proprio come aveva fatto con gli altri suoi figli, con quegli uomini fieri, ribelli al proprio destino, decapitati. Le loro teste erano conservate in delle teche, così le stava studiando il dottore, il criminologo, così lo chiamavano.
E per lui aveva decretato che non c’era niente da fare, che era biologicamente un brigante, un delinquente, un selvaggio. Lui e tutto il suo popolo, nessuno escluso.
Un uomo gli sollevò il viso afferrandogli malamente il mento tra le dita ruvide. Lo conosceva bene quell’uomo, Sicilia lo aveva definito una camurria, perché era assillante, perché ciò che voleva lo otteneva con l’insistenza, e in modo vile per di più, poiché faceva leva sulla debolezza delle persone, sulla loro povertà, sul bisogno.
Sorrise famelico, e Lovino comprese di essere prossimo al diventare la carcassa di quello sciacallo.
Una volta morto per mano di quei barbari invasori, i suoi resti sarebbero stati affidati a quell’uomo che lui era sempre riuscito a tenere a bada, e che ora si sarebbe cibato di lui.
Si aggrappò a quel crocifisso continuando a tremare a ogni frustata, addomesticando il dolore, ma mai nessuna frustata riuscì a farlo tremare tanto quando il pensiero corse alla sua Sicilia. Il cuore se lo sentì improvvisamente svuotato.
A lei, che sorte era toccata? Il destino che strada aveva scelto per quella donna accogliente e indomabile, antica quanto la Madre Grecia?
Non aveva mosso un dito Sicilia quando erano sbarcate le camicie rosse, dopo tutto glielo aveva sempre ribadito, alla prima occasione lei se ne sarebbe andata, e non era bastata neanche la costituzione che le aveva donato Francesco prima che si perdessero di vista, per farla desistere dalla sua decisione caparbia. Forse l’orgoglio le aveva impedito di tornare sui propri passi, ma adesso dove l’avevano portata quei passi impervi?
Il cuore gli tremò e pregò anche per lei, mentre la sua gente continuava a sparire, a scappare, a sciogliersi nella calce viva. Era l’inferno, era arrivava la fine.
E poi un volto dolce e conosciuto gli apparve. Il volto di una donna avanti con l’età, gli sorrideva e negli occhi lucidi per la commozione nascondeva il rimpianto di non essere riuscita a evitare l’inevitabile. Si accorse che le frustate erano cessate. 
Gli fece dono di una carezza materna e di un sorso d’acqua, cose che riuscivano a dare sollievo a qualsiasi figlio partito per la guerra. E aveva sete, non beveva e non mangiava da anni oramai, ne aveva tanta, quel sorso d’acqua gli aveva ricordato che c’erano altri sapori oltre quello del sangue e del piombo. Era bella quella donna, sembrava la Madonna, anzi, sembrava Sant’Anna, ma chi fosse veramente non se lo ricordava più, era passato troppo tempo ormai.
-Maria Sofia…- soffiò debolmente. Le frustate non arrivavano più, era vero. Avvertì un moto di sollievo diffondersi nel petto intorpidito. Spirò sollevato.
Quel Crocifisso povero, appeso proprio  là davanti, danzava ora, etereo dinnanzi ai suoi occhi.
Sorrise, incosciente di stare per abbandonarsi a quell’oblio più profondo contro il quale aveva combattuto e aveva resistito con tanta determinazione per anni. Ma gli anni passano, e al dolore ci si abitua, ma questo Romano non lo capiva più. Non aveva più le forze se non per ripetere ancora, per un’ultima volta quelle parole per il quale era stato disposto a donare la vita mille e più volte.
-Viva o’Re, viva Napoli!-
E il crocifisso scomparve, e il soffitto si fece nero, e la sua memoria si spense nel sangue secco.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Nel precedente capitolo ho introdotto il tema della moneta. Ai tempi nel regno delle due sicilie circolavano solo monete d’oro e d’argento, in sostanza con un valore reale, e non esisteva ancora la carta moneta, essendo un paese ricco. Gli stessi generali duo siciliano corrotti si sentirono truffati dai piemontesi quando vennero pagati con della carta senza valore.
Questo argomento è centrale per comprendere l’intero svolgimento degli ultimi secoli, ed è causa stessa dell’unità d’Italia. Fu una certa famiglia a volere l’unità (non una famiglia reale, ne italiana) e a sobillare e indottrinare gli italiani che prima di allora mai avevano pensato all’italia unita. Il perché è da cercare nell’emissione della moneta, sempre custodita dai sovrani, e che con i movimenti rivoluzionari e liberali passa ai privati.
La moneta è sempre stata del popolo, chi portava la moneta in tasca ne era proprietario, oggi invece la moneta che abbiamo nel portafoglio è il nostro debito grazie ad un meccanismo che si nasconde dietro a paroloni difficili, sigle anonime e numeri fittizi. Chi ha un debito non è libero e, con i meccanismi che si sono creati con l’inganno e a nostra insaputa, lo sarà per sempre.  a questo fa riferimento la prima parte del capitolo. l'unità l'hanno voluta una determinata famiglia di banchieri, gli stessi che ad oggi detengono il 90% della stampa mondiale.
Affronterò anche questo argomento in futuro, non so quando. Se intanto volete approfondire cercate su internet cosa è il signoraggio bancario. Non è difficile da capire come funziona, l’ho capito io XD! Ci sono video su youtube, per chi si secca leggere ;).
Nella parte dedicata a lovino non so che dire. Maria Sofia, nominata alla fine, fu l’ultima regina del regno delle due sicilie, moglie di Francesco II e sorella della ben più famosa principessa Sissi. Amava il suo popolo, tanto che non si arrese mai all’idea di averlo perso e si dedicò quando possibile a soccorrere i suoi coraggiosi soldati.
Le industrie furono saccheggiate e portate al nord, come gli ori e le monete vennero rastrellate dal territorio e sostituite con la banconota che portò con se il debito pubblico e le inflazioni che continuano a minare la stabilità del paese.
Inoltre la resistenza venne repressa nel sangue, fu attaccata la popolazione, i soldati vennero deportati in fortezze come quella di fenestrelle, per morire in massa. Furono i primi campi di concentramento della storia.
Il criminologo a cui faccio riferimento è lombroso, che credeva che determinate fattezze del viso determinassero l’indole di una persona. A torino c’è pure un museo dedicato a lui, dove sono esposte teste imbalsamate di partigiani duo siciliani, o più comunemente chiamati briganti, crani, ossa e strumenti vari di misurazione. Molti hanno protestato, e protestano ancora, affinché questo museo venga chiuso, ma come al solito la voce di romano nessuno se la fila!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, non so quando aggiornerò.
 
Ps: con la nascita del regno d’italia il re Vittorio emanuele II avrebbe dovuto cambiare il suo nome in vittorio emanuele I. questa era prassi quando si formava un nuovo regno, mentre quando il regno si espandeva il nome restava uguale. Quindi il regno d’italia non nasceva, ma era solo un “allargamento” del regno di sardegna. Esempio: ferdinando I delle due sicilie, prima del congresso di vienna era ferdinando IV di napoli e ferdinando III di sicilia, ma era pur sempre lui, solo il regno era cambiato diciamo.
 
 
   
 
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