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Autore: _Ayame_    17/03/2011    0 recensioni
Fanfiction a quattro capitoli sull'unità d'Italia, dalla fine di Nonno Roma, alla presa di Roma, fino al 17 marzo 2011.
[accenni guerra]
Citazione: "«Dovete promettermi che qualsiasi cosa accade veglierete sulla vostra gente», il volto smunto del nonno, l’espressione fiacca eppure fiera, gli occhi pieni di malinconia, mentre scompigliava le chiome brune dei suoi nipotini, «sulla nostra gente».
Non avevano lasciato che il suo ricordo li lasciasse neanche quando era scomparso, un giorno del lontano 476 d.C., e anche dopo quel fatto, l’Italia era rimasta unita anche sotto quei popoli germanici."
Spero vi piaccia, e auguri a tutti♥
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Nord Italia/Feliciano Vargas, Nuovo personaggio, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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aph centocinquanta insieme NOTE: I nomi di alcuni personaggi.
Impero Romano: Romanus, chiamato più semplicemente 'Roma', visto che è uguale in tutto il Mondo e mi pareva molto più 'intenazionale' e giusto, in qualche senso,
Stato della Chiesa/Vaticano: Tiziana

Centocinquanta insieme

Capitolo 1: Da Roma al predominio spagnolo~

 

Ricordava come Nonno Roma li preferisse a tutte le altre sue province, di come li trattasse con amore, crescendoli e insegnando loro  la lingua latina, l’arte della guerra e l’arte del cuore, donando loro lo splendore perché la loro base era il sentirsi simili, avere fondamenta in comune: loro erano i suoi preziosi, preziosi nipotini.

Poi erano cominciate ad arrivare altre popolazioni, avevano deturpato la bella Roma, derubandola di quanto c’era di bello, di quanto era stato costruito.

«Dovete promettermi che qualsiasi cosa accade veglierete sulla vostra gente», il volto smunto del nonno, l’espressione fiacca eppure fiera, gli occhi pieni di malinconia, mentre scompigliava le chiome brune dei suoi nipotini, «sulla nostra gente».

Non avevano lasciato che il suo ricordo li lasciasse neanche quando era scomparso, un giorno del lontano 476 d.C., e anche dopo quel fatto, l’Italia era rimasta unita anche sotto quei popoli germanici.

Prima gli Eruli, che deposero l’ultimo imperatore Romolo Augustolo, poi giunsero gli Ostrogoti: entrambi i fratelli sapevano che uno dei loro re, Teodorico, ammirava la civiltà romana e aveva tentato di far convivere – seppur separatamente – in modo pacifico i Romani e il suo popolo. I Goti governarono per 60 anni, tra il malcontento del popolo.

Ciò fino al 536, quando l’Imperatore d’Oriente, Giustiniano volle conquistare i loro territori.

Lovino aveva visto il console Belisario conquistare la Sicilia, percorrere lo Stretto di Messina per poi procedere più a nord lungo le sue terre con facilità, senza incontrare resistenza, fino ad arrivare a Roma, anche quella conquistata facilmente, pareva che il destino dei Goti fosse segnato.

Infine, Giustiniano decise di far concludere quella guerra: il generale Narsete riuscì lentamente a cacciare Franchi e Goti dalle zone più a nord, e nel  562 finì l’opera: l’Italia era un presidio dell’Impero Bizantino.

Se fino a quel momento gli stranieri avevano lasciato intatte le istituzione romane, Giustiniano introdusse un nuovo codice di leggi, e cercò di sollevare le condizioni dell’Italia.

«Maledetto! Lui e le sue leggi!», gridava Romano.

«Zitto, Lovi! O ci sentirà!»

«Digli che viene, allora!», Sud Italia faceva il prode, ma allora un’ombra oscurò la sua figura.

Poi ricordava che vennero nel  568 i Longobardi, che occuparono la sua terra, e lo divisero dal suo prezioso fratello: Nonno Roma gli aveva insegnato che l’unione era la forza, che non c’era nulla di più importante e prezioso dei propri cari.

Poi, quegli stessi invasori che avevano tanto mantenuto le distanze dalla sua gente, erano rimasti affascinati da quella cultura, e volevano estendersi a sud per creare un regno che sapesse più di unità, visto che la base c’era; ma lo stato della Chiesa, temendo che diventassero più forti, chiamò i Franchi.

Delusi, i due fratelli capirono che potevano fidarsi solo l’uno dell’altro, non di Vaticano, non di Francia, per quanto gli potessero essere parenti.

Ma la grandezza che l’Impero di Roma aveva impresso nella mente di tutti aveva portato Francia, con il suo sovrano Carlo Magno, a cercare di riunire quelle terre.

Feliciano ricordava quanto desiderasse sottrarsi a quella sottomissione, ricordava i patrioti che avevano cercato di sottrarre l’Italia a quel destino, di come i vari territori desiderassero autonomia.

E l’impossibilità di star insieme, aveva frammentato l’Italia ancora di più: la Serenissima di Venezia, la Repubblica marinara di Genova, quella di Pisa e anche quella di Amalfi e tutti gli altri comuni.

C’era la malinconia della grandezza di Roma; Tiziana pareva l’erede di quella istituzione, eppure spesso suo nonno l’aveva osteggiata, e in modo anche pesante.

Durante il periodo delle tre corone, poeti e letterati, cantarono delle bellezze antiche dell’Italia, dispiacendosi della divisione, perché quelle due piccole pesti avevano la stessa base culturale: nonostante la distanza, con un po’ di difficoltà, raggiunsero anche l’unità linguistica: la lingua italiana, sì, derivava dal latino, e all’inizio era la lingua del popolo, ma era una bella differenza rispetto a tutti quei dialetti che si erano formati subito dopo la scomparsa di suo nonno.

Veneziano pensò a quando lui e suo fratello erano costretti a vedere tutti quegli stati unificarsi e diventare potenti, formati da popoli diversi, quando loro erano divisi e separati, eppure simili, ma poi, una piccola ma grande svolta: se ci fosse stato un equilibrio tra i vari stati, non sarebbero più stati soggetti agli altri.

Cosimo de’ Medici aveva compreso ciò ma non tutti concordavano: dopo la morte del suo successore, Lorenzo, questa politica fu lasciata da parte.

Nord Italia rivide un piccolo se stesso seduto all’ombra di un faggio, la testolina piegata in avanti, i piedi che penzolavano nel vuoto per circa cinque centimetri, e la sensazione di tante, troppo lacrime che scendevano sul suo volto troppo caldo e ormai secco. Aveva paura. Paura, ma non solo: vergogna. Possibile non riuscisse a difendere la sua terra? La sua popolazione? Vergogna e paura: paura per sé e la sua gente, vergogna perché non riusciva a mantener fede alla promessa fatta al suo adorato nonno.

Spesso le altre Nazioni, vedendo quella penisola solare e rigogliosa, in una posizione favorevole al commercio, si scontravano per qualsiasi suo lembo di terra, alternandosi in un circolo continuo, combattendosi.

 

“Che stupidi” piangeva Romano, cercando di trattenere le lacrime, un bambino perso tra la polvere di battaglie di stranieri, per conquistare la sua terra, per conquistare lui, “che stupidi”.

Due bambini, persi in un campo di battaglia, i loro “fratelloni”, Francia e Spagna, si colpivano e lasciavano che i loro uomini si uccidessero per il puro spirito di espandere i propri domini.

Il bambino se ne andò: non sopportava il clangore delle armi, non sopportava vedere la gente cadere e morire e i suoi lamenti e ancora di più non sopportava quel soldato che sorridendo era morto.

[10 novembre 1441 – Napoli]

Gli Spagnoli hanno messo sotto assedio la sua città. Guarda con gli occhi di un fantasma intorno a sé.

Non gli è mai piaciuta, la guerra: non gli piaceva allora, che veniva conteso come oggetto, non gli piaceva quando Nonno Roma partiva e li lasciava soli, non gli piaceva perché glielo aveva portato via, non gli piaceva perché lo separava del fratello.

[2 Giugno 1442 - Napoli]

A fine battaglia erano rimasti feriti e sopravvissuti, che però avevano la morte in faccia e in cuore, per le perdite e l’espressione che mostravano non avevano nulla da invidiare ai morti sparsi a terra di entrambe le Nazioni.

“Perché almeno in qualcosa si è tutti uguali” ragionò Sud Italia, il suo solito comportamento accantonato, gli occhi mesti e tristi, gli angoli delle labbra abbassati, mentre con le mani stringeva il tessuto bianco della tunica, macchiata di sangue e sabbia.

Renato d’Angiò era scappato via, i francesi erano scappati via, Francia stesso era scappato, ferito, regalandogli prima un ultimo sorriso, che gli era parso triste; poi l’aveva abbandonato.

Era un sorriso di scuse.

Perso com’era nei suoi pensieri, si accorse troppo tardi per fuggire che qualcuno si stava avvicinando a lui.

Vide una capigliatura bruna e mossa avanzare a passo deciso verso di lui, forse un po’ caracollante, ma decisa.

Fece per alzarsi, brandì una delle pietre che trovò lì vicino e alzò la mano.

«Ehi, ehi! Calmati!», la figura levò in alto le mani come in segno di resa.

Mai fidarsi di cose del genere…

«Non ho intenzione di farti del male»

Quant’erano false quelle parole?

«¡Yo soy España!»

«EH?», il piccolo gridò. Che quello straniero parlasse più chiaramente!

«Io … io sono España! Spagna!», chiarì la Nazione. Il bambino lo guardò scocciato: beh, che genio era quell’uomo!

«Non sai proprio presentarti come si deve, bastardo», mormorò tra sé.

«Cosa?», lo straniero era curioso.

«Niente, niente. Cosa vuoi? Dimmi quello che devi dire e-»

«Benvenuto nel Regno delle due Sicilie!», lo spagnolo lo interrupe, un sorriso enorme sul volto beffardo sporco di terra, polvere e sangue. Il ragazzo pareva ferito, ma al momento a Lovino non poteva importar di meno.

Così ora sono gli spagnoli, pensò amaramente. Si sentiva come una palla, sbalzato da un lato all’altro.

«Sì, certo», disse il bambino alzandosi.

Avevi detto che non mi avresti fatto male, si disse tra sé, la testa abbassata mentre altre lacrime scendevano giù dagli occhi ambra che avevano già visto troppo ai suoi zigomi.

«Ehi, pequeño!», disse Antonio seguendolo, «Vieni con me! D’ora in poi passeremo moolto tempo insieme», rise solare il ragazzo.

Romano si sentì consolato in qualche maniera: non essere solo, avere qualcuno che non ti faccia cadere in te stesso e perderti. Poi quello spagnolo pareva molto solare e ottimista, spensierato quasi, e gli ricordava tanto suo nonno. Un’altra lacrima al pensiero scese giù: mai a dirsi, suo nonno era suo nonno, Antonio era solo qualcuno che momentaneamente aveva conquistato la sua terra, e molto probabilmente un giorno avrebbe fatto come Francia.


Qualche giorno dopo Spagna ripartì: «Yo devo andare», salutò il piccolo con un buffetto in testa.

«Si dice ‘io’, bastardo», Romano era tornato ai suoi soliti modi: doveva nascondere il dolore, in modo che neanche lui non lo potesse vedere, così non sarebbe mai esistito.

Il ragazzo accovacciato davanti a lui rise di gusto: «Va bien»

«España, dobbiamo partire!».

Non aveva neanche il tempo di correggere quello spagnolo.

«A tra poco, Romano», Antonio si alzò e iniziò ad incamminarsi; Lovino rimase sulla soglia della casa in cui alcune sere prima aveva alloggiato con lo spagnolo. Questo all’improvviso si voltò e lo salutò ancora una volta.

«Tsk», il bambino storse la bocca per il disappunto e si voltò, tornò in casa e sbatté la porta: prima sentì un’ultima, sonora risata. Inconfondibile.

 

[26 febbraio 1443 – Napoli]

«Stanno arrivando!», delle voci gridano forte, troppo forte e svegliano il piccolo Sud Italia. Eppure è mezzogiorno.

«Buon giorno, signorino!», un servitore lo salutò.

«Che succede?», chiese, ma l’altro scosse la testa.

Sbuffando, uscì fuori, andò fino alla fonte della confusione che lo aveva svegliato.

La gente era in subbuglio; cercò di spingersi sulle punte, ma non vide nulla, così si spinse tra la folla, borbottando improperi in tutti i dialetti che conosceva.

Poi li vide: la bandiera era inconfondibile.

«Lovi!», un grido, un uomo che si sbraccia; Sud Italia sbuffò, lo conosceva. Incrociò le braccia e voltò lo sguardo da un’altra parte.

Poi sentì un’ombra su di lui: quel dannato si era avvicinato a lui.

«Vieni con me!», disse sorridendo e lo prese per mano.

E mentre sfilavano, aggiunse: «Ho raccolto tutti i territori della tua terra, felice?»

«Mh», borbottò il bambino.

Antonio sorrise, guardando quel bambino: gli avrebbe dato un bel po’ da fare. Ma era il prezzo di ottenere ciò che si vuole.

Dopo quella entrata trionfale, il papa riconobbe la sovranità della Spagna e Tonio e il suo capo rimasero, per gioia di Lovino, a casa di quest’ultimo.

«Ahah, Romano!», lo spagnolo si divertiva a infastidire il piccolo italiano.

«Mia moglie vuole che torni ...», Alfonso non sembrava d’accordo. Sospirò, chiudendo la lettera, poi tornò sereno, guardando il sole che illuminava il Sud Italia.

Questo periodo durò fino al 1445, quando Spagna e Alfonso tornarono nella loro patria per contrastare la Castiglia, a seguito di notizie non positive per i due.

   
 
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