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Autore: cabol    26/03/2011    1 recensioni
Il salvataggio di una fanciulla in difficoltà scaraventa due viandanti nel cuore di un sanguinoso mistero.
Perché terrificanti ululati si levano dai boschi?
Perché sono scomparse alcune persone?
Cosa sparge il terrore in una tranquilla campagna?
Quale perversa oscurità sta avvolgendo la rocca di Luna Splendente?
Mille e mille sono le leggende che i bardi raccontano, sull’isola di Ainamar. Innumerevoli gli eroi, carichi della gloria di imprese epiche. Eppure, in molti cantano anche le imprese di un personaggio insolito, che mosse guerra al suo mondo per amore di giustizia.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I misteri di Ainamar'
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Capitolo 5: Il tempio


Frontale del tempio

Il sole rosseggiava all’orizzonte, dipingendo il mare e le poche nuvole di fiamme dorate, mentre si avvicinava sempre di più alla culla dove avrebbe riposato fino all’alba successiva. La luce del giorno, per quanto al tramonto, riscaldò immediatamente l’animo di sir Raoul Velmont. Uscendo dal palazzo, gli venne spontaneo respirare profondamente l’aria primaverile. Attraversò il cortile con passo leggero, felice di poter godere ancora un po’ del tepore del sole.

Sulla soglia della stalla, un uomo basso e tarchiato stava finendo di scaricare un carretto di fieno. Si voltò lentamente verso il nuovo arrivato osservandolo con i suoi piccoli occhi immersi nel grasso delle palpebre. Il viso apatico non mostrava quali pensieri stessero attraversando la sua mente.

«Buonasera, messere, cosa desiderate?». Parlava con voce atona e strascicata, con un marcato accento locale.

«Sono passato a vedere i nostri cavalli. Sono sir Raoul Velmont. Voi dovreste essere Jack, il palafreniere».

«In persona, messere. Avete già sentito parlare di me?». Lo stalliere drizzò le spalle con orgoglio, nella voce comparve una nota giuliva.

«Ehm, sì… mi ha parlato di voi la signorina Lucy… a proposito, come sta la giumenta?».

L’uomo assunse un’aria pensosamente preoccupata che il gentiluomo trovò alquanto ridicola. Trattenne a stento un sorriso.

«Morella? Ha una brutta piaga… non capisco come se la, ehm, abbia… sia… insomma come se l’è procurata. Eppure, stamani stava benissimo».

«L’avete sellata voi, stamani?». Sir Raoul entrò nella stalla, dirigendosi a passo lento verso il proprio cavallo. Si guardò intorno con noncuranza mentre si avvicinava al placido animale e si rese conto che le selle erano conservate ognuna vicino al rispettivo cavallo.

«Fatemi pensare, ehm, no… anzi, s… sì, sono stato io… perché?». Una punta di tensione comparve nella voce di Jack. Sir Raoul si voltò verso di lui. Chiunque avrebbe potuto mettere un ramo spinoso sotto la sella della giumenta senza che questo venisse notato perché le stesse spine lo avrebbero mantenuto attaccato all’arcione. A meno che lo stalliere non controllasse ogni volta attentamente ciascun basto, prima di porlo sull’animale, non si sarebbe accorto di nulla. Eppure, Jack era certamente quello che avrebbe avuto le maggiori possibilità di farlo e il gentiluomo non intendeva trascurare nessuna ipotesi.

«Per capire come una cavalla sellata possa ferirsi sotto la sella… Non vi sembra strano?».

Un’ombra di confusione velò gli occhi dell’uomo. Guardò il suo interlocutore con aria interrogativa, il problema pareva troppo complesso, per lui. Il giovane aristocratico studiava con intensità il volto stolido dello stalliere.

«Co… come? Si è ferita sotto la sella?». Gli occhi porcini ruotarono nel grasso del volto e finirono per fissarsi sulla sella della giumenta. «Ma com’è possibile?».

«Non lo so, forse c’era qualcosa sotto la sella…». Sir Raoul cercò di catturare nuovamente lo sguardo di Jack, cercandovi un lampo qualsiasi.

«Ieri no. Controllo tutte le selle tutte le sere, messere. La sella di Morella, ieri, era a posto».. Lo sguardo dello stalliere si fissò in quello del gentiluomo. Curiosamente, in quegli occhi, era comparsa una luce nuova e la loro espressione apparve meno vacua.

«E… se qualcuno ci avesse messo qualcosa stamani?».. Il gentiluomo si avvicinò a Jack guardandolo fisso negli occhi.

«Beh… io le controllo alla sera… la mattina ho da fare a pulire e cambiare il fieno, poi devo portare il cavallo di Sir Mordred a fare un giro, se non ci va lui, poi devo…».

«Insomma, qualcuno avrebbe potuto?».

«Er… ehm… sì… immagino di sì…». Imbarazzo. Sir Raoul ebbe l’impressione che Jack sapesse più di quel che voleva far credere. Decise che sarebbe stato meglio non dargli il tempo di riflettere e organizzare una difesa.

«Da quanto lavorate qui?».

«Da cinque anni…».

«Davvero, Jack? E non avete mai notato nulla di strano? Nessuno poteva avere motivo di voler fare del male a Lucy?»..

«Non capisco… io…».

«Voi siete amico di Lucy, vero?».

«Sì, signore, certamente… Lucy è tanto buona con me».. Il volto rotondo e senza età si distese in un sorriso.

«Allora fidatevi di me. Voi sapete chi è venuto alla stalla stamani?».

«Sir Mordred… ma non è nemmeno entrato… dama Lavinia per dirmi di sellare la giumenta… il signor Thornbow, cioè il padre di Lucy…».

«Nessun altro?».

«Il maniscalco… messer Bellingham... il cavallo di sir Mordred aveva un ferro consumato… ».

«Quanto si è trattenuto?».

«Non so… forse un’ora… forse più… non sono sempre stato qui… non avrei mai immaginato…».

Il gentiluomo scorse un autentico sconcerto negli occhi dello stalliere. Forse era giunto il momento di lasciarlo riflettere. Se non aveva nulla a che fare con l’attentato alla giovane ancella, quell’uomo sarebbe potuto diventare un’importante fonte d’informazioni.

« Va bene, Jack. Ma se vi tornasse in mente qualcosa, cercatemi ».

Uscì fuori nella pallida luce del tramonto. Le ombre allungate nel cortile gli parvero una beffarda rappresentazione dei suoi pensieri. Troppa gente era passata dalla stalla per poter fare delle ipotesi sensate, inoltre il giovane aveva la netta impressione che molte persone nascondessero qualcosa. Forse tutte. Si chiedeva quale mistero si celasse fra le possenti e tetre mura della rocca. Giunto davanti al palazzo, il suo sguardo si soffermò sul frontone decorato dai simboli di Sergaries. Possibile che non rimanesse nulla della benefica influenza della dea? Le ombre diventavano sempre più lunghe e opprimenti.

«Sir Raoul, la cena è pronta. Siete atteso in sala da pranzo». L’alta e spettrale figura di August Thornbow comparve sulla soglia della villa.

«Grazie, August. Vi seguo immediatamente».

Salì rapidamente la scalinata e raggiunse il maggiordomo, osservandone con attenzione il viso allungato, il naso grifagno e gli occhi castani. Aveva i modi semplici derivati da un’origine contadina, ma gli occhi vivi e intelligenti e l’appropriatezza del linguaggio dimostravano che la sua vita non doveva essersi svolta esclusivamente fra le campagne circostanti.

«Mi hanno detto che siete stato un valente cacciatore, vero?».

«Sì, signore. Ma è passato tanto tempo. Non so se saprei più tirare con l’arco. L’età avanza e quella vita non è adatta ai vecchi».. La voce dell’uomo era incrinata dalla malinconia ma il gentiluomo ebbe l’impressione che un peso ben più grave opprimesse il padre di Lucy.

In breve tempo, giunsero alla grande sala da pranzo. Ricavata da parte del piano terreno della grande e antica torre circolare che costituiva il nucleo più antico della rocca, alla sala si accedeva da un ampio arco a tutto sesto che richiamava continuamente il motivo del disco lunare.

Il grande salone era illuminato da numerose torce attaccate alle pareti. Quattro ampie finestre protette da inferriate massicce si aprivano sulle pareti laterali. Al centro della parete opposta all’arco troneggiava un enorme camino di pietra, sulla cui cappa spiccava il simbolo argenteo della luna circondato dalle sette stelle dette lacrime di Sergaries.

Sulla destra, un’ampia scalinata saliva fino a un vasto ballatoio, che si apriva sulla sala seguendo la curvatura della parete da dove il gentiluomo era entrato. Sul ballatoio si aprivano alcune porte che conducevano alle camere per gli ospiti.

La cena fu vivacizzata dagli aneddoti e racconti di sir Raoul che rallegrarono un ambiente altrimenti tetro e malinconico. Sir Ernest con gli occhi persi nel vuoto, raramente diceva qualche parola e sir Mordred teneva un contegno cortese ma alquanto distaccato. Si interessò alla conversazione solo quando sir Raoul chiese garbatamente informazioni sulla situazione locale.

«Consentitemi, sir Raoul, questa zona è stata amministrata in modo disastroso per anni. Le casse della rocca erano desolatamente vuote, quando giunsi da queste parti. La strada aveva urgenti necessità di riparazione, il villaggio era mal difeso e nessuno si occupava di mantenere l’ordine. La gente era povera e le imposte eccessive, soprattutto quelle che gravavano sui grandi proprietari terrieri e sui principali mercanti. Coloro che mantenevano viva l’economia di questi luoghi erano soffocati da tutte quelle tasse».

«E allora cosa faceste, sir Mordred?».

«Presi le decisioni più opportune, mi pare chiaro! Ridussi quei balzelli, soprattutto quelli sulle rendite, diedi piena autonomia e sicurezza al villaggio nominando uno sceriffo e invitando la popolazione a eleggere un proprio rappresentante. Da allora, la popolazione paga molte meno tasse e, in compenso, si occupa della manutenzione del villaggio e della strada».

«Cioè, le spese legate al villaggio e alla strada sono tutte a carico degli abitanti di Brightmoon?».

«Esatto. Purtroppo, mi illudevo che fossero capaci di gestire queste semplici cose ma mi sbagliavo. Consentitemi, sono solo una massa di idioti, limitati in tutto, incapaci di prendere il loro destino sulle proprie spalle, inadatti a vivere liberi. La strada è sempre più malridotta e il villaggio è tenuto malissimo. Poi hanno cominciato ad accogliere profughi e le cose sono precipitate».

«Che genere di profughi?».

«Gente del sud. Vigliacchi che scappano dal loro paese con la scusa della guerra e vengono qua a vivere alle nostre spalle e a rubarci le nostre terre. Dovrebbero tornarsene a casa loro. Se laggiù hanno dei problemi non capisco perché debbano portarli fin qui».

«Comprendo il vostro punto di vista, sir Mordred… ma avete fatto qualcosa per risolvere questo problema?».

«Due volte ho individuato il loro campo e ci sono andato con lo sceriffo ed un gruppo di armati ma, entrambe le volte, qualcuno li ha avvertiti ed hanno potuto sfuggirci. Cribbio, se trovo chi è stato, lo impicco alla torre del villaggio, così capiscono cosa succede a chi disubbidisce all’autorità».

«Ma avete qualche sospetto?».

«Sicuramente è qualcuno dei contadini più poveri. Oppure quel vecchio rimbecillito di Clarence, gli venisse un colpo! Non si rendono conto che sono proprio i più poveri a rimetterci».

«Ma non si parlava di un favoloso tesoro che avrebbe dovuto essere custodito dalle sacerdotesse?».

«Sono vent’anni che mi raccontano questa storia. Il tesoro, consentitemi, non esiste. Se ci fosse stato, l’avrei trovato. Abbiamo cercato dappertutto, ma senza risultato».

«E allora perché questa diceria?».

«Me lo sono chiesto anch’io e vi dirò come la penso: le sacerdotesse facevano credere di mettere da parte il tesoro che ricavavano dalle pesanti tasse che esigevano ma, probabilmente, hanno inviato buona parte di quelle ricchezze alla loro chiesa, lasciando che circolasse questa leggenda per tener buona la gente».

«È un’ipotesi interessante, sir Mordred. Molto interessante».

«Vedete? Basta un po’ di buon senso per svelare certi misteri».

La conversazione si spostò su argomenti più frivoli per l’intervento di dama Lavinia e sir Mordred si esibì a sua volta in una serie di aneddoti divertenti anche se spesso di dubbio gusto. A tratti pareva sovreccitato, in altri momenti cadeva in un tetro torpore.

Solo quando Lucy entrava nella sala, portando le pietanze, il suo sguardo, come quello di sir Ernest, seguiva ogni mossa della ragazza con sospettosa attenzione. Negli occhi di sir Ernest, invece, compariva una triste tenerezza e l’ombra di una lacrima.

Solo dama Lavinia pareva davvero interessata ai racconti di sir Raoul, al quale riservava attenzioni e sguardi al limite della decenza. Chiacchierava e interloquiva spesso, sottolineando con risolini e commenti il suo gradimento per la brillante conversazione del gentiluomo.

Al termine, la dama chiese a sir Raoul di trattenersi anche la sera successiva, quando avrebbe dato una festa alla quale avrebbero partecipato numerosi notabili della zona.

«Ma certamente, mia signora, ne sarò onorato».

«Mi raccomando… preparate una delle vostre storie così appassionanti, i miei ospiti saranno felici di ascoltarvi».

«Farò del mio meglio, dama Lavinia… ci penserò fin da stasera».

Sir Mordred intervenne, col tono di chi intende chiudere una discussione.

«Grazie, sir Raoul, saremo felici di ascoltarvi… mia cara sorella, purtroppo domani sarà una giornata impegnativa e faresti bene a far portare Ernest a letto. Visto come dorme, non credo sarà facile svegliarlo».

Sir Ernest, infatti, dormiva profondamente, completamente ubriaco, col capo poggiato sulla tavola.

«Bene, signori. La giornata di oggi è stata stancante per me e Robert, dunque vi chiedo il permesso di ritirarmi nella mia camera».

«Buonanotte, sir Raoul». Lo salutò sir Mordred, con distaccata gentilezza.

«Buonanotte, sir Raoul, vi auguro dolci e piacevoli sogni». Lo salutò, ammiccante, dama Lavinia.

Sir Raoul salì in camera pensieroso. Troppi misteri apparentemente slegati fra loro. Eppure si era convinto che tutto si potesse ricondurre a un unico problema: il favoleggiato tesoro. Forse sir Mordred aveva ragione ma era difficile pensare che una simile menzogna potesse essere sostenuta per oltre due secoli. Qualcuno avrebbe finito col far trapelare qualcosa. Invece, il tesoro poteva essere un movente sufficiente a giustificare la misteriosa catena di eventi che stava opprimendo quelle terre. Ma chi mai poteva essere dietro a tutto ciò? Il giovane non riusciva a capirlo, anche se qualcosa cominciava ad assumere un senso. Si voltò per osservare il salone, ormai deserto, sotto di lui. Anche la forma semilunare di quella stanza riportava al tema della dea Sergaries. Sospirò. Forse Yavië e Sergaries avrebbero dovuto unire le forze per aiutarlo a capire e risolvere quell'enigma. Si chiese se sarebbe stato in grado di farcela da solo.

Appena entrato nella stanza trovò Robert che aveva finito di sistemare i bagagli nella cassapanca. Il giovane maggiordomo, sentendolo entrare, si voltò per indirizzargli uno sguardo interrogativo.

«Ti stai chiedendo perché non ho detto il mio vero nome?». Il gentiluomo sorrideva divertito.

«Beh… in effetti… non capisco perché».

«Ti confesso che non lo so ancora bene neanche io. È stato un moto istintivo. Penso che Lucy corra un grave pericolo e ho voluto essere libero di agire come meglio mi aggrada». Robert spalancò gli occhi.

«Perché pensate così? Mi sembra che tutti le vogliano bene».

«Forse. Però qualcuno ha cercato di ucciderla, oggi». Sir Raoul si lasciò cadere sulla poltrona, incrociando le mani dietro la nuca.

«Perché pensate che abbiano tentato di ucciderla? Non è la prima volta che un cavallo s’imbizzarrisce…».

«La giumenta aveva un ramoscello spinoso sotto la sella, Robert. Per questo si è imbizzarrita. E quel ramo non è arrivato lì per caso. Qualcuno ce l’ha messo e vorrei capire chi».

«Oh Cielo! Allora, potrebbero cercare di ucciderla anche stanotte». Il giovane maggiordomo spalancò gli occhi, impallidendo notevolmente.

«Ne dubito, hanno cercato di farlo passare per un incidente, non credo arriverebbero a tentare una mossa diretta. Dovremo stare in guardia, però. Potrebbero verificarsi altri incidenti».

«Volete che sorvegli la stanza della ragazza?».

«Assolutamente no. Nessuno deve sapere dei nostri sospetti. D’altronde, se avessero voluto ucciderla nella sua camera, avrebbero potuto farlo già da un pezzo. No, provocheranno qualche altro evento che la metta in pericolo mortale, senza che si possa risalire ai colpevoli. Dobbiamo stare in guardia, certamente, ma quando siamo fuori di qui».

«Allora, volete andare a dormire? Io non so se ci riuscirei...».

«Veramente, avrei intenzione di dare un'occhiata a quel famoso tempio… senza farmi troppo notare». Sir Raoul ammiccò sorridendo al suo maggiordomo.

«E come intendete fare? Non sappiamo nemmeno dov'è, esattamente...».

«Potrei condurvici io, sir Raoul».

Lucy era comparsa sulla soglia della camera. Era pallida, i suoi occhi spalancati dimostravano come fosse spaventata, ma la sua voce era risoluta. I due giovani le corsero incontro e la fecero entrare. Robert controllò che nessuno fosse nei paraggi, poi chiuse la porta.

«Lucy…».

«Sir Velmont… purtroppo ho udito le vostre ultime parole… davvero sono in pericolo?».

«Temo di sì. Mi dispiace dovervi allarmare. Però avete la mia parola che faremo di tutto per proteggervi».

«Avete già fatto tanto per me… ma chi potrebbe desiderare la mia morte? Io sono solo una fantesca … ».

«Non so cosa dirvi, Lucy. Non c’è nulla che avete visto o udito di strano, insolito? Qualcosa che qualcuno potrebbe voler mantenere segreto?».

«Non saprei dirvi… no… davvero non mi viene in mente nulla…».

«Va bene, Lucy. Non preoccupatevi e andate pure a riposare. Qui siete al sicuro, ne sono certo».

La ragazza parve non aver neppure sentito le ultime parole del gentiluomo. Pareva assorta in chissà quali riflessioni. A un tratto parve riscuotersi e i suoi grandi occhi si fissarono risoluti sui due giovani.

«Ho sentito che volete visitare il tempio. Io vi ci posso condurre, è qui nel cortile ma è chiuso da anni… è pericolante… sir Mordred ha dato ordine che nessuno ci entri… dice che potrebbe crollare».

«Non preoccupatevi ragazza mia. Nessuno lo saprà, avete la mia parola».

Un’ora dopo, tre figure furtive si introdussero nella corte interna del torrione, mentre in cielo una splendida luna spandeva la sua luce argentea.

Racchiuso dalle massicce mura dell'antico cassero si trovava un delicato chiostro a pianta circolare, al quale si accedeva da un portico sostenuto da snelle colonne di marmo bianco. Cespugli di rose e piccoli alberi da frutto circondavano una struttura rotonda ed elegante, coperta da una bassa cupola, rivestita di marmo bianco e delicatamente ornata da bassorilievi che riportavano i simboli della luna e della dea Sergaries.

Sull’architrave dell’ingresso, lo stemma della dea era inciso in uno splendido disco argenteo, accompagnato da due quartine scolpite ai lati:

Viandante benvenuto
chi in questo loco scende:
sulla sua chioma splende
la luce di Sergaries.

Prega pio viaggiatore,
onora Luna madre,
nella sua luce il cuore
inebria di Sergaries.


«Lucy, restate qui fuori, avvertiteci se qualcuno dovesse avvicinarsi».

«Preferirei entrare, sir Velmont. È sempre stato il mio sogno poter visitare questo tempio. Keira ha atteso per anni senza potercisi avvicinare».

Il gentiluomo guardò pensieroso la ragazza, quasi a soppesarne la determinazione. Poi annuì.

«Bene. Allora sarai tu, Robert, a fare la guardia». Dopodiché si rivolse al portone del tempio, cominciando ad armeggiare con la serratura. Lucy spalancò gli occhi, quando il portone si aprì al secondo tentativo.

«Serratura un po’ arrugginita… nulla di complicato. Robert, mi raccomando a te. Venite Lucy».

La ragazza lanciò un’occhiata perplessa al giovane maggiordomo che le rispose con un sorriso e una strizzata d’occhio e si avviò verso il portone dentro il quale era già scomparso sir Raoul.

Una volta entrata, si trovò in un ambiente circolare, coperto da una cupola decorata con un immenso mosaico color cobalto, sul quale erano rappresentate le costellazioni della volta celeste. L’interno del tempio era arredato semplicemente, con sette file di panche convergenti verso l’altare, anch’esso rotondo, di marmo candido, illuminato dalla luce che irrompeva, vincendo la tenebra delle ombre, da un’apertura circolare al centro della cupola e si diffondeva in tutto il tempio. Intorno all’altare c’erano quattro colonne marmoree che si innalzavano fino alla cupola.

«Ma questa luce… è davvero la luna?».

«Sì, Lucy. D’altronde questo tempio è dedicato a Sergaries ed è naturale che sia stato costruito per esaltarla, soprattutto in notti come questa». Il gentiluomo si aggirava con passo leggero, quasi felino, in quell’ambiente fatato, osservando attentamente tutto quel che lo circondava.

La polvere era depositata un po’ dappertutto, testimone dell’incuria e dell’abbandono di quel luogo sacro, eppure, prendeva riflessi argentei, ricordando costantemente la presenza della dea. Mosaici e affreschi decoravano le pareti del tempio, illustrando episodi della perenne lotta fra la dea e il dio oscuro Engwhir. In numerose parti, erano danneggiati, come da colpi di martello picchiati contro il muro. Altri segni analoghi erano rilevabili su buona parte dei marmi che rivestivano il prezioso pavimento.

Su ogni colonna, un cartiglio argenteo riportava altre coppie di quartine.

 

Luna d’ariento pare
come la vita nasce,
di gioia etterna pasce
la luce di Sergaries.
Luce sia la tua guida,
unica fiamma vera.
Nella fede confida,
ama la gran Sergaries.
Benedicasi l’amore
in sulla fide nato,
ché esso ha consacrato
la luce di Sergaries.
Dove i tuoi passi poni,
ospite benvenuto,
vedi i sontuosi troni
ergersi per Sergaries.
Duca sia la tua fide,
volgi alla luna il core,
ti donerà calore
la luce di Sergaries.
Fiamma di vera fede,
ergiti sacra Luna,
donaci tua mercede,
emblema di Sergaries.
Vergine della Luna
alla preghiera arridi,
è forza de’tuoi fidi
la luce di Sergaries.
Vivi la tua preghiera
in ogni tuo momento,
vedi ogni dolce sera
empirsi di Sergaries.

Lucy lesse con curiosità quei cartigli e, alla fine, si volse verso sir Raoul.

«Questa preghiera… alcuni versi li conoscevo… altri invece mi vengono completamente nuovi».

«Davvero? Immagino ve l’abbia insegnata dama Keira, vero?».

«Sì… però era molto più breve».

«Nulla di strano mia cara, succede spesso che esistano versioni più brevi delle preghiere, per consentire ai fedeli di recitarle con maggiore facilità».

Avvicinatosi all’altare, il gentiluomo notò come fosse decorato da bassorilievi che richiamavano i simboli cari a Sergaries, che convergevano al centro, dove era inciso lo stemma della dea, circondato da caratteri che formavano un’ultima quartina:
 

Apre la via al mistero
il disco della fide,
nel core, ov’è merzide
la luce di Sergaries.


«Questo l’ho già visto al villaggio e sul portone della rocca… In effetti, c’è qualcosa di curioso in questa preghiera».

Rimase a lungo assorto, meditando su quegli strani versi. Dopo un po’, tornò a osservare i mosaici danneggiati, chiedendosi perché fossero stati colpiti da mani sacrileghe. Gli tornarono in mente le voci udite al villaggio, relative a un presunto tesoro che doveva essere nascosto nella rocca. Forse, quei segni sui muri erano le testimonianze di tentativi di trovare un possibile ripostiglio nascosto. Anche Lucy guardava con occhi atterriti quello sfacelo.

«Questi mosaici… ma chi può avere osato tanto?». Nella sua voce c’era timore misto a sdegno.

«Temo che questo sia solo il sacrilegio minore, Lucy… Cos’è quello?».

Stava indicando un’apertura nel pavimento, addossata alla parete, esattamente dalla parte opposta alla porta d’ingresso del tempio.

«…sembra l’ingresso alla cripta… c’è una scala. Scendo a vedere, attendetemi qui». La ragazza annuì, visibilmente scossa.

Mentre l’agile figura del gentiluomo scompariva nell’apertura, Lucy sentì l’aria del tempio farsi più fresca e quasi profumata. Senza quasi accorgersene, cominciò a camminare, irresistibilmente richiamata da quel misterioso, dolcissimo effluvio.

Sir Raoul scese prudentemente la scala, immergendosi in un buio fitto e umido, in un locale dove da molti anni non doveva essere sceso nessuno. Adattò rapidamente la vista all’oscurità e si rese conto di trovarsi in un ampio corridoio che pareva girare attorno al perimetro del tempio. Avanzò con prudenza, con tutti i sensi all’erta, con la fastidiosa sensazione di non essere solo. La mano si strinse intorno all’elsa della spada. Rassicurato da quel contatto, proseguì con maggior sicurezza. A intervalli regolari, sul lato che dava verso il centro del tempio, si aprivano delle cappelle di elegante semplicità, ognuna delle quali ospitava un sarcofago. Aguzzò la vista, individuando le linee aggraziate di rune antiche che riconobbe immediatamente come una forma un po’ arcaica della lingua comune e che interpretò con grande facilità.

Anika Silverhart. Quasi certamente una delle prime sacerdotesse.

Proseguì lungo il corridoio, con la sensazione sempre più inquietante che qualcun altro fosse là sotto, insieme a lui. Aveva superato otto cappelle, quando si arrestò improvvisamente.

La sua vista acutissima aveva scorto un movimento, nell’oscurità del corridoio, proprio di fronte a lui.

Sguainò la spada.

  
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