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Autore: LoveChocolate    10/04/2011    1 recensioni
Un antico forziere contenente la Spada del Potere, due re a contendersela, un ladro e una schiava con il compito di trovarla.
Ramis, capo della banda di ladri chiamata Banda del Vento, viene incaricato da un re creduto morto di recuperare il forziere contenente la Spada D'oro, custodito su un'isola creata e protetta da un mago, che da a chiunque la possiede l'autorità di sovrano del regno di Arcuanta. Ma Ramis non conosce il contenuto del forziere e affronta, insieme al resto della banda, un viaggio pieno di pericoli e difficoltà, accompagnato da una misteriosa schiava con capacità innate e segrete...
Genere: Avventura, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ramis si alzò di scatto, sorprendendo tutti.
-D’accordo, adesso basta.-, disse con aria risoluta. L’impressione era che fosse lui il capo, non il capitano.
Tutti lo guardarono basiti, tutti tranne Massur.
Lui l’aveva visto fremere mentre il capitano si comportava con tale arroganza, aveva visto il suo sguardo trasformarsi da freddo a sorpreso alle parole della ragazza, e le sue narici allargarsi in segno di stizza quando il capitano le aveva parlato.
Per quanto lo riguardava, la sua reazione era arrivata addirittura con qualche frazione di secondo di ritardo.
Il capitano, evidentemente infastidito da quello scavalcamento di potere, domandò: -Qualche problema?
Ramis cercò di respirare con regolarità per calmarsi, dopodiché parlò: -Conducete la ragazza nella mia cabina.-, ordinò rivolto ai due marinai.
I due guardarono il loro capitano, il quale alzò una mano segnalando loro che dovevano attendere.
-Sono io che do gli ordini.-, gli ricordò.
-Allora date ordine che la ragazza venga portata nella mia cabina.-, ribatté lui tranquillo, anche con una certa impertinenza nella voce.
Il capitano sorrise difficoltosamente, probabilmente non abituato a simili comportamenti.
-La ragazza è mia, non lo dimenticate. Decido io cosa farne.-, gli rammentò. -E ho il diritto di darle personalmente ciò che si merita.-, continuò.
 
Il capitano era sbigottito.
Fece un cenno di assenso ai marinai, ed essi eseguirono l’ordine del ragazzo dagli occhi azzurri.
Non aveva ceduto con tanta facilità perché era un debole, no. Lo aveva fatto semplicemente perché non aveva idea di cosa fare.
Continuare a discutere si sarebbe potuta rivelare un’umiliazione contro quel ragazzo dalla lingua tagliente.
E non era abituato a dover trattare con gente che scavalcava la sua autorità.
Pensò a qualcosa da dire, possibilmente qualcosa di brillante. Ma non gli venne in mente nulla.
Fortunatamente, il ragazzo lo precedette: -Mi è passata la fame: torno in cabina.-, annunciò.
Il capitano lo seguì con lo sguardo fino a quando non fu uscito dalla sala da pranzo; poi, come se niente fosse, riprese posto a capotavola e iniziò una nuova conversazione su quanto fosse difficile procurarsi una nave in quei tempi.
 
Clio era stata portata in una cabina minuscola munita di una branda e di un semplice comodino, sul quale era posata una lampada ad olio.
C’era un baule che fungeva da armadio e poi nient’altro.
Era la cabina del suo padrone, quel ragazzo dagli occhi azzurri che poco prima l’aveva in un certo senso salvata dalle grinfie di quei rozzi mariani.
Ma, d’altra parte, adesso era nelle sue, di grinfie.
Si chiese cosa le sarebbe successo di lì a poco.
Quel ragazzo l’avrebbe davvero punita, come aveva detto al capitano?
Oppure l’avrebbe trattata come la più squallida delle prostitute, come faceva il mercante di vasi?
O, magari, nessuna delle due. O tutt’e due.
L’aprirsi della porta la strappò dai suoi stessi pensieri, il che fu una cosa positiva.
Il suo padrone chiuse la porta alle sue spalle e, ignorandola completamente, si diresse verso il baule.
 
Ramis aprì il baule e ne estrasse una borraccia d’acqua e un pezzo di stoffa che conteneva qualche pagnotta.
Non avrebbe di certo viaggiato sprovveduto.
Ancora non aveva degnato la ragazza dietro di lui in tunica bianca neanche di uno sguardo.
Sapeva che, invece, il suo sguardo era su di lui.
Ramis si sedette sulla branda, prese una pagnotta e la addentò.
Finalmente guardò la ragazza, che subito distolse lo sguardo quando i suoi occhi neri incontrarono quelli azzurri di lui.
 
Clio arrossì impercettibilmente.
Distolse lo sguardo da quel ragazzo dai modi freddi e distaccati e guardò un punto indistinto sul pavimento.
-Hai fame?-, le chiese lui.
Lei alzò lo sguardo di scatto guardandolo stranita.
Era la seconda volta in un giorno che qualcuno le faceva quest’insolita domanda.
Sì, di fame ne aveva e come. Ma accettare del cibo due volte in un giorno dai suoi padroni non era esattamente un comportamento consono al suo stato di schiavitù.
Scosse la testa cercando di non guardare gli occhi indagatori del ragazzo e ringraziò sommessamente.
Il ragazzo aspettò qualche minuto: lei rimase in piedi.
Dopodiché domandò: -Che cosa è successo in cucina?
 
La ragazza esitò. Sembrò cercare una scusa plausibile o provare ad inventare una storia credibile.
Poi cominciò: -Sono mortificata. Io… ho bruciato la carne e ho bagnato il resto della cena.-, spiegò.
-Avevi detto di saper cucinare.-, ribatté Ramis fulmineamente.
Lui la guardava fisso negli occhi, mentre quelli neri di lei cercavano di evitare i suoi.
Lei esitò ancora: -Lo so fare. È stato il cuoco che mi ha spinta sulla pentola piena d’acqua.-, spiegò con un tono di stizza nella voce.
-E la carne?
 
Il ragazzo sembrava divertirsi a quell’insensato interrogatorio.
Che cosa gli importava di cos’era successo in cucina?
Che cosa voleva?
Clio cercò di spiegarsi: -Io… mi sono bloccata.-, disse. Era l’unica cosa che potesse rivelare, ed era la verità.
Il ragazzo distolse finalmente lo sguardo posandolo sulla lampada ad olio, pensoso.
-Non va bene.-, disse dopo qualche secondo di riflessione.
Poi il suo sguardo tornò a posarsi su di lei: -Non va affatto bene. Cos’è una malattia?
-Che cosa?-, domandò, per la prima volta interessata, Clio.
Una malattia? La sua?
-Una malattia? È curabile, almeno?
-Non capisco.-, finse lei.
-Questi momenti di assenza.-, spiegò lui.
Clio, per qualche secondo, rimase interdetta.
La sua preveggenza, una malattia? Le veniva quasi da ridere al pensiero.
Ma non poteva di sicuro dirgli la verità. E non poteva dire di non sapere che cosa fosse, altrimenti lui l’avrebbe fatta visitare da un dottore – magari da un mago – e forse avrebbe potuto scoprire qualcosa.
Optò per l’unica opzione possibile: mentire.
-Ne soffro fin da quando ero piccola. Non è qualcosa che si può curare.
-Lo ha detto un dottore?
 
-Sì.-, rispose lei con troppa foga.
Ramis decise di chiudere l’argomento: sapeva che quella ragazza non gliela raccontava giusta.
Ma sapeva che insistere non sarebbe servito a nulla.
Del resto, pensò, era a conoscenza di questo disagio quando l’aveva comprata, ma aveva deciso di farlo lo stesso.
Stupido. Era stato stupido e avventato.
 
-Ti chiami Clio, vero?
-Sì, padrone.
Altri secondi di silenzio.
-Sei armata?-, domandò improvvisante Ramis.
Finalmente, la ragazza lo guardò negli occhi con uno sguardo indecifrabile.
Dopo un po’ rispose: -No.
Ramis decise che quella pausa era troppo lunga.
La ragazza non era brava a mentire: rispondeva troppo in fretta o con troppa calma.
Senza dire una parola, si alzò e le si avvicinò.
Lei, probabilmente abituata a farsi mettere le mani addosso, non si oppose.
 
Il padrone le prese un polso e cominciò a tastare il suo braccio con entrambe le mani.
Poi fece lo stesso con l’altro.
La fece poggiare al muro con le mani di fronte a sé e tastò anche le gambe, l’addome, i glutei e i seni.
Non c’era malizia, però, nei suoi gesti. Solo una fredda sistematicità, tipica dei criminali, pensò Clio.
Nel controllarla, esaminò anche la Ganà, assicurandosi che fosse fissata bene e che non nascondesse nessun’arma.
Clio sorrise impercettibilmente: forse quel tipo non era così in gamba come aveva pensato.
 
Probabilmente la ragazza non si accorse del fatto che Ramis aveva notato quel suo sorrisetto.
Poteva voler significare solo una cosa: lui ci aveva visto giusto e lei era armata.
Clio, aveva detto di chiamarsi.
Magari non era neanche quello il suo vero nome.
Gli aveva mentito già due volte in poco tempo, e la cosa non gli piaceva.
Si diede ancora una volta dello stupido per averla comprata, scegliendola fra tante altre. Poi, però, ripensò ai suoi occhi, a quel qualcosa che vi aveva visto, e si ricordò del perché aveva fatto quella scelta.
E poi, loro erano ladri. Criminali. Mentire faceva parte del loro mestiere, e se lei era così abituata e a suo agio a farlo, beh, sarebbe giovato a tutti.
Ma, di certo, non avrebbe dovuto mentire a loro.
“Ai mali estremi, estremi rimedi”, pensò.
-Spogliati.-, ordinò.
 
A Clio occorse uno sforzo immane per non scoppiare in lacrime.
Ancora una volta quel comando. Ancora una volta quell’umiliazione.
Rimase immobile, con i pugni chiusi, per dei secondi che le sembrarono anni.
Ed, evidentemente, anche il suo padrone pensò che quel tempo fosse troppo, perché le si scaraventò addosso come un felino sulla sua preda, facendola cadere per terra.
Le piantò un ginocchio contro la schiena, togliendole il respiro, e le puntò la lama del coltello della volta precedente alla gola.
Stavolta, però, non era attenzione che voleva. Era qualcosa di ben più concreto.
 
Ramis sapeva che la ragazza non si sarebbe opposta.
Era una schiava, ed era stata educata a comportarsi come tale.
Prima di poter formulare qualsiasi pensiero, la sua attenzione fu attirata da un cordone che attraversava il collo di lei, il cordone di una collana.
O meglio, di un medaglione.
Il medaglione in questione ricadeva proprio accanto alla testa della ragazza, in legno, vecchio e apparentemente malandato.
Senza muovere la lama, lo afferrò e lo esaminò: sul davanti recava una frase, intagliata nel legno: “il più grande potere deriva dalla più grande umiltà”.
Ramis non ebbe il tempo – né la voglia – di soffermarsi su quella frase: fu, invece, attirato da una piccola levetta, quasi invisibile, che si trovava fra il retro e il davanti del medaglione in legno.
La fece scattare e, improvvisamente, la lama di un coltello di circa sette o otto centimetri apparve come per magia.
Il coltello era in oro puro e aveva la punta in diamante.
-Non eri armata, vero?-, la provocò.
 
Clio si sentì bruciare dentro.
Fino ad allora nessuno aveva mai scoperto il doppio uso di quel medaglione. Tutti si erano soffermati a guardarlo, avevano letto la frase, ci avevano sputato sopra, a volte, e poi non si erano neanche curati di appropriarsene perché il suo valore era talmente minimo che non poteva neanche essere quantificato.
La schiava fu costretta a rimangiarsi ciò che aveva pensato: quel ragazzo era davvero in gamba.
E aveva scoperto uno di quelli che fino ad allora erano stati i suoi pochi ma importanti segreti.
Normalmente, non avrebbe reagito.
Era una schiava, non poteva reagire.
Ma quello fu troppo: si sentiva violata.
Si sentiva spoglia, non tanto fuori – quello era abituata – ma dentro.
Così posò i palmi delle mani per terra e si fece forza, improvvisamente, cogliendo il ragazzo alla sprovvista.
Il suo ginocchio posato sulla sua schiena scivolò per terra, lui imprecò impercettibilmente.
La lama gli cadde quasi di mano e, prima che lei stessa potesse rendersene conto, era in ginocchio di fronte a lui, coricato per terra.
Ma non aveva il suo medaglione.
 
Ramis era stato colto di sorpresa. Non aveva preso in considerazione la possibilità che quella ragazza potesse in qualche modo ribellarsi, ma fu costretto a ricredersi.
Clio non aveva ancora smesso di sorprenderlo.
Lui, però, aveva in mano il suo coltello d’oro sottoforma di medaglione – un’invenzione ingegnosa, non c’era che dire.
In un’improvvisa situazione di svantaggio, fu costretto a reagire: diede un potente calcio nelle costole della ragazza che si accasciò per terra.
 
Clio rispose istintivamente a quella mossa, infilò la gamba fra quelle del padrone, dall’equilibrio ancora instabile, e la mosse talmente velocemente da farlo cadere, ancora una volta.
Aveva imparato a combattere nei primi tempi della sua schiavitù.
I suoi ricordi partivano da quel periodo, quando era stata comprata per allietare le notti dei soldati in un campo di allenamento militare. Durante il giorno, lavorava in cucina e, quando non aveva nulla da fare, osservava i soldati in allenamento.
Col tempo i più sensibili di loro si erano perfino affezionati a quella presenza silenziosa, e le avevano insegnato come difendersi, quando e se fosse stato necessario.
Lo avevano considerato un passatempo, un modo alternativo di passare le giornate, era l’unico periodo lieto della sua esistenza.
Poi gli allenatori si erano resi conto che la presenza di Clio distraeva i soldati, così l’avevano mandata via.
Aveva circa sedici anni, allora. Il fatto di saper combattere era uno dei suoi più oscuri segreti che aveva mantenuto fino ad allora.
Era il secondo di cui il nuovo padrone veniva a conoscenza in poco tempo.
Sentì le lacrime salirle fino agli occhi e bloccarsi appena prima di scendere, sentì un nodo alla gola e una disperazione che non riusciva a calmare.
Ora si trovava per terra, in una minuscola cabina di una nave, col suo padrone di fronte, anche lui per terra, che la guardava con occhi che avrebbero potuto trafiggerla.
Lei respirava affannosamente, aspettandosi una prossima mossa del ragazzo, che arrivò lenta e preannunciata.
Come se lui non si aspettasse una reazione da parte di Clio, si alzò lentamente sulle mani e le si avvicinò minaccioso, mantenendosi rasente al suolo.
Altrettanto lentamente, lei cercò di raddrizzarsi e poggiò la schiena sulla parete.
 
Ramis la raggiunse.
Era al contempo furioso, incuriosito, stranito e confuso.
Chi c’era in quella stanza con lui? Di certo non era la schiava ingenua e malata che aveva creduto di comprare.
Lei si era poggiata alla parete, lui la raggiunse e con un movimento fulmineo le bloccò le mani dietro la schiena, premendo il suo corpo contro il suo, che automaticamente premeva contro le braccia, e mettendole un braccio sotto il mento, in modo da tenerglielo alzato verso i suoi occhi.
L’altra mano era poggiata sul muro.
I loro visi erano vicinissimi, lui poteva sentire il suo fiato affannato sul collo, il suo odore di pulito e la sua paura.
Non era perché lui era il padrone e lei una schiava. Di questo non gli era mai importato nulla.
Del resto, uno nella sua situazione non poteva sentirsi in condizione di essere padrone di niente di nessuno.
Avrebbe reagito così anche se si fosse trattato di una sconosciuta, per il semplice fatto che lei lo aveva umiliato e ingannato.
Se c’era una cosa che Ramis odiava quasi più di perdere il controllo, era di essere ingannato.
-Allora,-, disse in un sussurro con fare provocatorio.
 
La voce di lui le ricordava un caminetto acceso in una stanza buia.
Era calda, tenue, ma allo stesso tempo prorompente.
Continuò: -te lo chiederò un’altra volta. Sei armata?-
-Sì.-, disse lei cerando di trovare un po’ d’aria nei suoi polmoni compressi.
La sua voce, di un tono normale, contrastava con il tono basso usato dal padrone. Sembrava quasi che avesse urlato.
L’unico rumore che si poteva sentire era quello del suo respiro. Quello del suo padrone era silenzioso, rilassato.
Lui non la lasciò subito. Si trattenne in quella posizione scomoda e dolorosa ancora per un po’, lei serrò gli occhi per ricacciare le lacrime ancora una volta.
Quando il suo padrone la lasciò andare, lei si accasciò a terra tirando un lunghissimo respiro e portandosi automaticamente una mano al petto.
Il padrone uscì dalla stanza lasciandola sola. Clio tossì.
 
  
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