Care voi, vi ringrazio tantissimo della somma pazienza
con cui seguite la mia storia e mi scuso profondamente
per essere così discontinua nell’aggiornare. Abbiate tanta pazienza!!!
Fr@: non credere che Orlando stia
rinsavendo così di botto: il lupo perde il pelo…; Dom
è sempre il solito, ma spero piano piano di
regalargli un po’ più di spessore.
Niniel82: ti ringrazio di seguire le vicende dei “miei
ragazzi” e spero anch’io di riuscire ad aggiornare un po’ più frequentemente.
Moon: cara! Sapevo che questo capitolo ti piace! Ora sto sputando sangue su due capitoli intermedi che
mi stanno facendo vedere i sorci verdi, nel mezzo del milione di cose che ho da
fare. Quando avrò un pochettino di tempo in più ti aggiornerò sugli stravolgimenti che in questo periodo
sta subendo la mia vita.
Vi ringrazio tutte moltissimo della pazienza che avete
e per le bellissime recensioni che mi lasciate. Grazie di cuore.
Ad maiora. Julie
CAPITOLO VI
Gli invisibili atomi dell’aria
palpitano e s’infiammano intorno;
la terra sussulta rallegrata;
il cielo si dissolve in raggi
d’oro
Odo, fluttuando in onde di
armonia,
suoni
di baci e battere un’ala;
le mie palpebre si chiudono…
Che succede?
Dimmi…? Silenzio!
- E’ l’amore che passa!
(G.A. Bequér)
- Finirai con l’addormentarti qui,
bambina. -
Ashton sussultò e si raddrizzò a sedere,
dopo avere sbattuto le palpebre più volte. Sollevò gli occhi verso suor Mary,
in piedi accanto al tavolo da cucina. Si stropicciò leggermente la fronte
- Mi scusi suor
Mary, non mi ero accorta di essermi appisolata. -
- Hai avuto una lunga giornata e
forse sarebbe meglio che salissi in camera tua a
riposare. -
Ashton gettò un’occhiata
all’orologio a muro - Sono solo le sette! – esclamò sorpresa e poi scosse il capo – No, preferisco restare alzata e fare ancora
qualcosa – disse, alzandosi in piedi e stiracchiandosi – E’ sicura di non avere
bisogno di nulla? -
Gli occhi penetranti di suor Mary
seguirono attentamente ogni suo movimento. Nelle ultime settimane Ashton era un tantino dimagrita e
i segni della stanchezza stavano iniziando a farsi evidenti sul viso pallido.
- Dovresti smetterla di affannarti, Ashton, e dovresti smetterla di sentirti responsabile della
morte di Martha Simmons. Non
è stata colpa tua. Devi cercare di andare avanti con la tua vita. -
La ragazza le
sorrise debolmente – E’ quello che sto cercando di fare. -
- Lo fai senza impegno, mia cara. –
replicò la religiosa con il tono asciutto che le era tipico
– Quando non sei a scuola o al lavoro sei sempre qui all’Oratorio che giri
indaffarata come un’anima in pena, occupandoti di mille cose. Apparentemente
sembri essere la solita Ashton ma qui non stiamo
parlando della tua presenza fisica. – cercò di spiegarle - Perfino i bambini si
sono accorti di quanto ti sei chiusa in te stessa. -
Un ombra di dispiacere velò lo sguardo di Ashton – Mi dispiace. Forse ho solo bisogno di un po’ di
tempo per accettare il fatto che lei non c’è più. Dopo
la morte della mamma nonna Martha era diventata la mia famiglia. -
Reprimendo un sospiro suor Mary prese posto nella sedia accanto a lei – Lo so, bambina. E so anche che ti sei sempre presa cura di lei, ma ormai
quel tuo ruolo è finito. Devi iniziare un capitolo nuovo della tua vita e
pensare a cosa farai adesso. -
Ashton sollevò lo sguardo fino ad incontrare
quello serio della religiosa
- Non riesco a trovare i mezzi per
andare avanti. – sussurrò piano.
Suor Mary scosse la testa
rattristata. – Li troverai e attingerai le tue risorse da dove meno te lo
aspetti. Il dolore ha delle strane forme con cui manifestarsi e, per qualche
motivo, a te impedisce di guardare avanti e proseguire il tuo cammino. Sei una
ragazza forte, Ashton, piena di entusiasmo,
di gioia di dare, ma in questo momento è come se fossi solo un’enorme secchio
bucato da cui colano via tutti i buoni sentimenti, tutti i pensieri positivi.
Per quanto tu ti sforzi di riempirlo rimane sempre
vuoto. Come pensi di aiutare gli altri se non sei in grado di trattenere nulla
dentro di te? –
Ashton non riuscì a rispondere e suor Mary
continuò, impartendole con ferrea dolcezza un’altra lezione di vita – Devi dividere con gli altri il dolore che ti porti dentro:
solo così sarà più leggero. E non devi rinunciare alla
speranza di migliorare la tua esistenza. –
Ashton si rese conto che suor Mary aveva
perfettamente ragione. Non avrebbe risolto nulla commiserandosi. Però non riusciva a condividere l’idea di spartire con gli
altri il dolore che provava.
- Ci proverò – concesse tuttavia,
sforzandosi di sfoderare un sorriso convincente.
Suor Mary prese con noncuranza a
ripiegare il mucchio di biancheria pulita contenuta dentro un cesto in vimini , suddividendola in tanti ordinati mucchietti – Padre Dowell mi ha detto che quel signore che è venuto l’altro
giorno è un attore e cercava te… -
Ashton raddrizzò la testa e sospirò piano -
Sì, vuole che gli tenga in ordine la casa. Ha un
appartamento bellissimo e molto grande a Belgravia
con tanto di terrazza, sauna e palestra e … -
- Hai accettato? -
Ashon cincischiò un po’ il suo lavoro di
cucito, sapendo che non sarebbe riuscita a mentire di fronte agli occhi
penetranti di suor Mary – Non ancora. Gli ho detto che ci devo pensare. Lui
vorrebbe una governante a tempo pieno e sarebbe disposto anche ad offrirmi
vitto e alloggio. Lo stipendio è ottimo ma… non penso che accetterò. In
sostanza avrei meno tempo da dedicare qui all’Oratorio. -
Suor Mary la fissò in volto,
scrutandone attentamente i lineamenti tesi
- Sei sicura che questo sia il vero
motivo? -
Ashton la fissò per un istante in silenzio
– No – ammise in un soffio – ma non mi chieda di dirle
la ragione per cui sono tanto indecisa e poi…
– riprese con un breve sorriso, scuotendo leggermente il suo lavoro di
cucito – …è vero che stare all’Oratorio mi aiuta. Lo so che sarà ancora per poco tempo ma mi piace vivere qui. E’ una sorta di
terapia contro la tristezza e la malinconia e poi c’è sempre così tanto da
fare. –
- Hai già trovato un appartamento? – le chiese Suor Mary, continuando il suo lavoro.
- Si, Mrs. Smith mi ha detto che mi affitterà la mansarda dal mese
prossimo. E’ piccola, molto carina e, soprattutto l’affitto è
ragionevole. – Sorrise felice – Per la verità non vedo l’ora! Finalmente ho
qualcosa di tutto mio! -
Suor Mary aggrottò leggermente la
fronte – Sono un po’ preoccupata ma, dopotutto, non
puoi certo rimanere qui all’Oratorio per sempre. -
- No, infatti. Ma
non starò lontano e poi verrò sempre qui a dare una mano. Non vi libererete di
me tanto facilmente. – scherzò Ashton
La suora annuì brevemente - Peter e i ragazzi mi hanno detto che avete
in mente di un grande progetto… -
La ragazza annuì con vigore - Stiamo preparando una recita per l’anno nuovo e sono tutti
parecchio entusiasti, perfino i più piccoli. Si stanno impegnando moltissimo ad
imparare le battute e io do una mano a preparare i costumi e le scenografie. –
disse, mostrandole la tunica che stava cucendo – Se tutto va bene abbiamo intenzione di mettere in scena la “La Bella e la
Bestia” il giorno dell’Epifania. -
Suor Mary sorrise e le prese dalle mani la tunica,
piegandola per riporla nel cesto da lavoro.
- Sono sicura che verrà benissimo. –
disse, iniziando a tirare fuori una grossa teglia. – Ma
adesso accetterei volentieri quell’aiuto di cui mi
hai parlato prima per preparare la cena. -
Le due donne iniziarono a trafficare
tra i fornelli ma suor Mary alzò quasi immediatamente il capo dalla ciotola
dove stava rimescolando alcuni ingredienti visibilmente
costernata – Ho dimenticato di prendere il latte! – esclamò – E questa
sera è il compleanno di Susan. Le avevo promesso la torta e… -
- Vado io. – Ashton
lanciò un’occhiata veloce all’orologio – Il mini-market in
fondo alla strada dovrebbe essere ancora aperto a quest’ora.
– disse, afferrando il giaccone.
Fuori era già buio e Ashton si avviò a passo spedito verso il piccolo
supermercato la cui insegna si illuminava ad
intermittenza decorata da una cascata di lucine colorate. Faceva parecchio
freddo e la ragazza affondò le mani coperte dai guanti nelle tasche del
giaccone. Tra un mese sarebbe stato Natale e il pensiero di quel Natale
solitario le mise addosso una certa malinconia. Comperò i cartoni di latte che servivano per preparare il
dolce e si avviò verso l’Oratorio, percorrendo la medesima strada a ritroso.
Mancavano più pochi isolati quando un tonfo sordo nel vicolo la fece
rabbrividire. Cosa era stato? Un gatto randagio? Un
topo?
Affrettò il passo un
tantino allarmata.
- Ciao, Ashton.
Che piacere incontrarti. – esclamò un’ombra alla sua
sinistra.
Il suono di quella voce conosciuta la
fece girare di colpo, mentre la paura prendeva rapidamente il posto della
sorpresa. Quel timbro strascicato e insolente poteva appartenere solo ad una
persona: Goyle Burnett, il
delinquente più brutale di tutto il quartiere.
Ashton non sopportava neppure di
incrociarlo per strada mentre lui si era soffermato più volte a fare commenti
volgari e battute piccanti sul suo conto. Lei non lo aveva mai preso sul serio,
limitandosi a far finta di nulla, ma perché quella
sera era lì da solo, quando di solito lo accompagnava sempre Lola, la sua
procace e aggressiva compagna? Perché stava lì, nel
buio del vicolo, aspettando… lei?
Ashton sentì il sangue gelarsi nella vene ma si impose di rimanere calma e, quando parlò,
cercò di mascherare il tremito nervoso della voce – Che cosa vuoi Goyle? – gli chiese affrettando il passo
Anche nell’oscurità le sembrò che lui
spostasse il peso da un piede all’altro come per valutare meglio le loro
posizioni – Non mi sembra che questo sia il modo di rivolgersi a uno che venuto a farti le condoglianze. -
Quelle parole non la
tranquillizzarono per niente. Il fatto che Goyle
sapesse della morte di nonna Martha significava che
ultimamente l’aveva tenuta d’occhio. E parecchio,
anche.
- Arrivi tardi. – replicò
lei irrigidendo la mascella – Il funerale è stato più di una settimana
fa. -
- Sai che mi piace scegliere da solo
il momento in cui muovermi e quando la Simmons è
morta avevo altre cose per le mani. -
- Affari poco puliti, immagino -
ribatté lei duramente – E comunque direi che questo è
sicuramente il momento sbagliato. -
- Non essere scontrosa, Ashton. Per la verità ho pensato che adesso tu sei sola e, guardacaso, anche io
sono solo. Potremmo farci compagnia, che ne dici? -
Ashton deglutì a fatica – No, grazie. Non mi interessa. -
- Ehi, tesoro, mostra un po’ di
rispetto. – risuonò in quel momento un’altra voce dietro di
sé - Il signor Burnett ti ha appena fatto un
invito. Non è affatto gentile da parte tua rifiutare. -
Era in trappola.
Ashton si girò di scatto verso l’altro
delinquente che aveva parlato e riconobbe alle sue spalle Bob Chackle, una delle peggiori fecce che bazzicavano in zona.
Era stata un
stupida ad illudersi che Goyle fosse venuto da
solo.
L’uomo uscì dal cono d’ombra e le si mise di fronte, impedendole di passare, il volto
arrogante attraversato da una smorfia di disprezzo. – Bella e impertinente,
come sempre, Ashton. Ma
scommetto che quando avrò finito con te non sarai più tanto altezzosa.
Imparerai presto chi comanda qui. -
Ashton si sentì accecare dal terrore. Non
aveva via di scampo e non c’era niente di accidentale
in quell’incontro.
Goyle Burnett
era venuto per lei.
La sera in cui Dom
era riuscito a strappare un appuntamento a Selene
sembrava essere proprio una di quelle serate che per le strane e
imperscrutabili congiunture del destino sono destinate ad riuscire bene fin
dall’inizio.
Dom si presentò sotto casa di Selene
alle nove in punto e scese dal taxi, facendo cenno al conducente di aspettare
proprio davanti al cancello della palazzina in Upper Brook
Street dove la ragazza viveva con il padre. Fece due passi davanti al citofono
prima di decidersi a suonare, chiedendosi per la milionesima volta, il motivo per cui si sentisse tanto agitato.
Certo, Selene era una bella ragazza
ma lui era sempre uscito con ragazze molto carine. Poi, soprattutto da quando
era diventato famoso, attrici, modelle, cantanti erano entrate e uscite dalla
sua vita con la regolarità di agenti del fisco. Eppure
c’era qualcosa in Selene che lo costringeva a restare a guardarla meravigliato,
come se sotto la spesa patina di ironia mista a
sfacciataggine, e dietro quell’aria da ragazza
perbene, ci fosse qualcosa che gli sfuggiva, un particolare ancora vago e
misterioso ma non per questo meno intrigante. Fissò la punta delle sue nike bianche e rosse che spuntavano dall’orlo un po’
sfilacciato del largo paio di jeans scoloriti che aveva indossato sotto il
pesante giaccone scuro con cappuccio, e affondò le mani nelle tasche. Il
fruscio filigranato dei biglietti a contatto con la sua mano destra lo calmò un
pochino: aveva preparato una serata un po’ alternativa
e, se Selene era la persona che lui credeva, si sarebbero divertiti moltissimo.
Il pesante portone di legno verde si
aprì e Dom alzò di scatto la testa e la vide uscire
di casa, imbacuccata in un piumino color panna lungo fino ai piedi e stretto in
vita da una cintura, mentre alcune ciocche dei lunghi capelli color rame
sfuggivano ribelli da sotto il berretto di maglia scura.
David Portrainy
scrutò dietro le tende abbassate del suo salotto la figlia correre lungo il
vialetto e salutare allegramente un giovane biondo, non tanto alto, che doveva
essere il suo accompagnatore per quella sera. Era rimasto stupito quando Selene
gli aveva detto di avere un appuntamento ma aveva trattenuto la curiosità,
impedendosi di chiederle notizie su chi fosse tale Dominic Monaghan e su come lo
avesse conosciuto. Era la prima volta da quando si trovavano in Inghilterra che
Selene usciva dal suo volontario isolamento e si decideva a frequentare un
ragazzo come facevano tutte le sue coetanee e, forse, questo era il segno che qualcosa
in lei stava cambiando e che i ricordi iniziavano ad essere
meno dolorosi.
David era stato vicino
a Selene dopo la morte di Ariel, preoccupato del profondo stato di
depressione in cui era precipitata. Era stato difficile riconoscere un quel
pallido spettro che vagava tra le pareti candide della loro casa a Gerusalemme
la sua allegra ed esuberante bambina ma, avendo sperimentato egli stesso il
medesimo devastante dolore, poteva ben comprendere come si sentisse la figlia.
Non c’erano giustificazioni, ragionamenti o parole di conforto in grado di
lenire quella perdita straziante. Selene si era lasciata scivolare lentamente
nell’ombra, come se quel giorno in mezzo alla sabbia della striscia di Gaza
fosse stata seppellita anche la sua giovinezza e la sua gioia di vivere. Il
trasferimento a Londra e l’amicizia con Ashton
avevano aggiustato un po’ le cose e, in apparenza, tutto sembrava tornato alla
normalità, come se il sergente Ariel Mordecai non
fosse mai esistito, e lei fosse la stessa Selene di
sempre.
Eppure era solo apparenza.
David sapeva che il ricordo di Ariel era custodito intimamente nel cuore di Selene come
qualcosa di inestimabile e, il fatto che lei non ne parlasse mai, indicava
quanto ancora fosse profonda la sua sofferenza. Era solo una ragazzina quando
aveva incontrato per la prima volta Ariel Mordecai, ma tra i due ragazzi era nato un sentimento ben
più grande e intenso di quello che la loro giovane età avrebbe fatto pensare.
Era stato l’incontro di due anime gemelle e complementari e David era
pienamente convinto che, se quella terribile tragedia non si fosse verificata,
Selene avrebbe amato Ariel per tutta la vita.
L’appuntamento di quel sabato sera
era stata un’incredibile novità e osservò con un tantino di ansia
paterna i capelli di lei volare nel vento come un ricco gonfalone d’oro rosso,
mentre si precipitava verso il taxi in attesa fuori dal cancello.
Vide il giovanotto che l’aspettava
farle un cenno di saluto con la mano alzata.
- Ciao – la salutò Dom con allegria.
Lei gli sorrise
- Scusami se sono in ritardo – disse, dando un’occhiata rapida all’orologio.
Dom le aprì la
portiera del taxi – Non preoccuparti, non dobbiamo andare molto lontano.
-
Lei gli scoccò un’occhiata curiosa –
Dove mi porti? -
- Sorpresa. - Dom
le si sedette accanto e date alcune brevi istruzioni
al conducente si lasciò andare contro i sedili mettendosi comodo – Sono sicuro
che non rimarrai delusa. – disse facendole un occhiolino malizioso.
Libero finalmente!
Orlando uscì di corsa dal portone del
Blake’s
Hotel e prese un taxi al volo, al termine di una lunga intervista per il
settimanale Vanity Fair. Sbuffò, lasciandosi cadere a
peso morto sul sedile, e bevve un lunga sorsata
d’acqua dalla bottiglietta che aveva con sé.
Le interviste erano la parte che meno
amava del suo lavoro, quella che lo lasciva più a
disagio, forse a causa dell’incompatibile combinazione risultante dal suo
carattere riservato e dell’insaziabile curiosità della gente nel sapere ogni
più recondito particolare della sua vita privata. Amava il contatto con le
persone, con i suoi ammiratori e l’affetto che gli veniva
rivolto, ma soffriva parecchio per quei continui tentativi di intromissione.
Gli era stato chiesto di parlare della solita fiera banalità, più o meno assemblate, condite con il tentativo di mettere nero su
bianco qualche pettegolezzo gustoso, e lui aveva risposto meccanicamente. La
giornalista, una ragazza carina che aveva ammiccato per tutta la durata del
loro colloquio prima di chiedergli se aveva impegni per la serata, gli aveva
fatto ripetere il racconto della caduta nella quale si era spezzato la schiena,
cercato di scandagliare nella sua vita sentimentale alla ricerca del nome della
sua nuova fidanzata, e aveva di nuovo tirato fuori la storia di suo padre: di Harry e Colin,
Che cosa si aspettava che rispondesse?
Certo che amava Harry. Da bambino l’aveva creduto suo padre e, con un simile
modello davanti agli occhi, chi altri avrebbe mai potuto amare? Colin era stato il suo tutore, il suo guardiano, un amico e
gli era molto affezionato ma non avrebbe mai potuto
offuscare completamente la figura di Harry.
Sospirò stancamente. Si sentiva
insofferente di fronte a quelle che erano state solo
delle domande di ordinaria amministrazione e non riusciva a capire il perché.
Si chiese onestamente se la sua fosse solo stanchezza. Veniva da un periodo di in cui era stato super impegnato e presto si sarebbe
gettato nuovamente nella mischia. Amava il suo lavoro, lo faceva sentire bene e
aveva lottato per farlo, ma adesso, arrivato a questo punto, gli sembrava come
se gli mancasse qualcosa anche se, d’altronde, nemmeno lui era sicuro di sapere
poi cosa. Sapeva soltanto di volere qualcosa di diverso, un nuovo traguardo da
raggiungere, una vetta più alta da scalare.
Il nuovo film che sarebbe andato a
girare l’anno seguente, “The Kingdom of the Heaven” sembrava avere tutte le carte in regola per essere
progetto giusto ma, in realtà, la sfida che Orlando cercava aveva una natura
più personale. Sentiva di avere bisogno di un’emozione forte, qualcosa che gli impegnasse la mente, coinvolgendolo e aiutandolo ad
incanalare le sue energie pulsanti.
Ashton…
Il suo volto gli ritornò alla mente
come un lampo improvviso. Chissà come se la passava? Sicuramente lei non doveva
preoccuparsi di soffrire la noia. Pensava a lui di tanto in tanto?
Probabilmente no. Era solo uno degli uomini che aveva
conosciuto, uno dei tanti.
Quell’uomo… quel Peter,
che lei aveva salutato quel giorno all’oratorio, sembrava conoscerla piuttosto
bene e lei lo aveva trattato con familiarità…
Il senso di fastidio che derivò da
quel pensiero estemporaneo in un certo senso lo lasciò
perplesso. Perché Ashton lo
aveva colpito tanto?
Da quando si erano visti quel
pomeriggio a casa sua lei era sparita e non si era
fatta più sentire. Gli aveva detto che avrebbe pensato alla sua proposta ma il
telefono era rimasto inspiegabilmente muto e, se ci pensava seriamente, la cosa
lo faceva incazzare come una iena.
E perdiana! Almeno una telefonata
poteva sprecarsi a farla!
Le donne lo adoravano, per la miseria!
E questa, invece, sembrava non voleva avere nulla a
che fare con lui. Da quando l’aveva conosciuta non aveva fatto altro che
ripensare a lei e a provare un’irrequietezza e un desiderio con i quali non si sentiva affatto a proprio agio.
Improvvisamente gli venne voglia di
sapere da Ashton stessa il motivo per
cui non gli aveva più telefonato, anche soltanto per rifiutare la sua
offerta e, impulsivamente, decise che voleva una risposta e la voleva adesso.
Si chinò in avanti a dare all’autista l’indirizzo di Keeley
Street.
Dopo circa un
ventina di minuti il taxi svoltò a sinistra e, improvvisamente, illuminò
con i fari tre figure che si scazzottavano per strada.
Il primo istinto di
Orlando fu quello di voltarsi dall’altra parte e ignorare quei bulli ma,
proprio quando si accingeva a farlo, individuò tra le due figure corpulente una
più piccola e minuta.
E quella figura aveva lunghi capelli
scuri.
In quel momento fu come se il corpo di Orlando avesse inserito il pilota automatico. Urlando al
tassista di fermarsi si lanciò fuori dall’auto e corse
verso la rissa, dimentico del fatto che, a parte qualche bisticcio da ragazzino
e il ruolo da boxer nel film “The Calcium Kid”, in ventisette anni di vita non aveva mai fatto a
pugni.
Le urla di Ashton annullarono qualsiasi riflessione razionale.
Accecato da un’emozione senza nome si
fiondò all’attacco, colpendo con tutto il peso del
proprio corpo il più robusto dei due aggressori e spedendolo malamente
a gambe all’aria.
- Che cazzo… - Il più basso dei due uomini, che ancora teneva Ashton per il braccio si voltò verso Orlando, ma quell’attimo di distrazione gli costò caro. Ashton lo aggredì divincolandosi e rigirandoglisi
contro come una gatta inferocita, mentre Orlando lo colpiva di sorpresa al
volto con un pugno, facendogli mollare la presa istantaneamente.
L’attore aveva ignorato troppo a
lungo l’uomo che aveva spinto a terra e, quando quest’ultimo
gli piombò addosso colpendolo, lo avvertì soltanto ad
un secondo livello.
Non voleva fermarsi, non avrebbe
potuto e, anche se avesse voluto, l’urlo di Ashton glielo avrebbe impedito. Colpì l’uomo al viso e
probabilmente avrebbe continuato a percuoterlo ancora
e ancora…
Fu solo quando si ritrovò faccia a
faccia con il viso di Ashton,
la mano che afferrava il tessuto della sua giacca, che riuscì finalmente a
fermarsi, il pugno ancora teso nell’aria.
Guardandosi attorno si accorse che i
due assalitori stavano scomparendo dietro l’angolo messi
in fuga anche dal tempestivo intervento del corpulento tassista che, vedendolo
correre in aiuto di una ragazza, si era precipitato a sua volta verso quei due
delinquenti, urlando come un indemoniato.
Orlando si tirò in piedi lentamente,
mentre dieci lame gli trapassavano le dita della mano destra. Trovando a
malapena il respiro si voltò a guardare Ashton
- Stai… stai
bene? – riuscì a chiederle balbettando.
L’autista aiutò la ragazza a
rimettersi in piedi e Ashton annuì lentamente
- Figli di puttana! – esclamò l’uomo,
che doveva avere all’incirca cinquant’anni
– Stai bene signorina? Io ho una figlia della sua età e se gli mettevo le mani addosso le assicuro che li ammazzavo di botte quei fetenti!
-
Ashton gli rivolse un pallido sorriso di ringraziamento
- Grazie – mormorò con voce fioca –
Se non foste arrivati voi… - Sollevò lo sguardo verso Orlando, meravigliata di
vederlo lì, davanti a lei, stropicciato e pesto, ma circondato da quell’aura di fierezza che hanno solo gli angeli
vendicatori.
- Che… che
cosa ci fai tu da queste parti? – gli chiese, mentre i profondi occhi blu
percorrevano il suo volto bruno stupiti e riconoscenti.
Lui pensò a tutte le persone che
avrebbero potuto porgli la stessa domanda, dal medico del Pronto Soccorso, alla
Polizia, alla sua agente, a sua madre… e preferì non rispondere nulla,
limitandosi ad una scrollatina di spalle.
Ashton strinse le spalle
– Volevi fare un giretto, eh? – gli chiese insospettita.
- Qualcosa di simile. – borbottò lui,
tirando fuori dal portafoglio una banconota da
cinquanta sterline e ringraziando il tassista.
- E’ sicuro che non vuole che l’accompagni
in ospedale? – gli chiese l’uomo accennando alla mano che già iniziava a
gonfiare ma Orlando rifiutò cortesemente.
- Non direi che è proprio una scelta
intelligente. – commentò lei, mentre il taxi si allontanava.
Orlando le lanciò un’occhiata obliqua
– Senti chi parla. Non mi pare molto furbo andare in
giro di sera da sola. Capita – disse, sottolineando
ogni parola – di fare brutti incontri. -
Mentre lui borbottava per il dolore,
scuotendo per aria la mano, Ashton raccolse i cartoni
del latte che si erano sparsi sul selciato e raddrizzò la schiena, stringendo
fra le mani la busta di carta.
Fu in quel momento, guardandolo
imprecare, mentre si esaminava le nocche gonfie, che la paura ebbe la meglio su
di lei. Rabbrividì sgomenta e strinse convulsamente i manici della borsa di
carta, come se in quel modo sperasse di tenere a bada i fremiti che la
scuotevano.
Orlando si voltò verso di lei e, alla
luce del lampione che illuminava la via, la vide pallida come un cencio e più
vulnerabile che mai.
Tutt’a un tratto dimenticò il dolore e,
seguendo un impulso le si avvicinò e le strinse le braccia attorno alle spalle
– Non è successo nulla, non pensare ad altro. -
Ashton non rispose ed emise un sospiro
mentre un brivido gelido le correva da capo a piedi – Volevano portarmi via… -
riuscì a mormorare infine, e lui si accorse che si era aggrappata al suo
giaccone con tutte le sue forze – Ho avuto paura… -
- Shh… se
ne sono andati. – la zittì lui.
- Perché sei
arrivato tu. -
Somigliava più ad una semplice constatazione
che ad un ringraziamento in piena regola ma Orlando
avvertì una strabiliante sensazione di contentezza prendere il posto della
furia che lo aveva animato fino ad un attimo prima.
- Adesso andiamo via anche noi.
Vieni. – disse, sospingendola e sforzandosi di riprendere il controllo,
cercando di ignorare il lieve sentore di gelsomini che si sollevava dai capelli
di Ashton e
contemporaneamente il dolore che gli saliva ad ondate pulsanti dalla mano
ferita.
- Devo tornare
all’Oratorio – mormorò lei – Suor Mary aspetta il latte per la torta di
compleanno di Susan. -
- Al diavolo la torta di compleanno!
– Orlando esplose, a metà strada tra l’attonito e l’arrabbiato – Adesso ti
accompagno a casa dove ti metterai tranquilla e… - poi, vedendo che non rispondeva,
le passò l’indice sotto il mento, sollevandole lo sguardo – Ce
l’hai una casa, vero? -
- No – Ashton
sfuggì i suoi occhi terribilmente indagatori – Vivo
momentaneamente all’Oratorio in attesa di trovare una sistemazione. La signora
con cui abitavo è mancata e… - Si interruppe, e non
perché volesse ignorare la domanda, ma solo perché aveva le lacrime agli occhi.
Orlando non aveva mai sopportato di
vedere piangere una ragazza. Kate aveva sempre usato
le lacrime come un’arma per intenerirlo oppure per farlo sentire in colpa e
adesso si sentiva del tutto impreparato di fronte all’infelicità di Ashton. Davanti a quelle
lacrime disperate si sentì allarmato e impotente.
La notte si fece più buia e la
giovane donna che teneva ancora fra le braccia mille volte
più fragile.
In un istante Orlando prese una
decisione – Vieni – ripeté, indicando il portone dell’Oratorio, distante solo
alcuni isolati – Non possiamo restare qui. Tu hai
bisogno di sederti… - disse, togliendole dalle mani la busta con i cartoni del
latte e continuando a sorreggerla con l’altro braccio - … e io ho decisamente
bisogno di qualcosa di forte. -
Percorsero a piedi i pochi isolati
che li separavano dal cancello dell’Oratorio e Orlando sospinse la ragazza
attraverso il cortile illuminato.
Vennero accolti da Suor Mary con il
grembiule sporco di farina
- Ashton ci
hai messo un sacco di tempo… – esclamò, vedendola
entrare in cucina, reggendo i cartoni del latte. Poi si accorse del suo volto
pallido e di Orlando che era entrato in silenzio dietro
di lei e si interruppe - … cosa è successo? – chiese preoccupata.
- Goyle Burnett. – Ashton si lasciò
scivolare su una sedia accanto al tavolo da cucina – Mi aspettava per strada… -
tacque non riuscendo ad andare avanti e, dopo una rapida occhiata, Orlando
intervenne a spiegare al suo posto
- E’ stata aggredita da due uomini. Quando sono arrivato li ho visti che la stavano strattonando
per obbligarla ad andare con loro. Con l’aiuto dell’autista del taxi che mi
accompagnava li abbiamo messi in fuga. – disse semplicemente.
Lo sguardo acuto della suora corse
dal volto di lui al viso di Ashton
e mise una mano sotto il mento della ragazza – Stai bene, cara? –
Lei annuì – Sono
solo un po’ ammaccata. Fortunatamente sono arrivati in tempo
prima che mi trascinassero via. -
Suor Mary fissò i suoi occhi
penetranti sul volto dell’uomo che era rimasto in piedi alle spalle di Ashton - La ringrazio per
l’aiuto, mister… -
- Bloom.
Orlando Bloom. -
La suora annuì piano e accarezzò la spalle di Ashton con affetto –
Si accomodi Mr. Bloom. Vado a chiamare Padre Dowell. Non sarà per niente contento di quanto è successo: Goyle Burnett è un delinquente
della peggiore specie e sapere che bazzica qua intorno non ci rende affatto
tranquilli. Potrebbe cercare di fare di nuovo del male.
-
Il suo tono di voce era così
autoritario che Orlando obbedì e si sedette. Incrociò stancamente le braccia
sul piano del tavolo e tirò un sospiro. Tra i colpi dati e ricevuti si sentiva come se qualcuno gli fosse passato sopra con un
autotreno, ma aveva di fronte Ashton, che lo guardava
con un misto di diffidenza e gratitudine e, inspiegabilmente non avrebbe voluto
essere da nessun’altra parte per nulla al mondo.
Lei gli fissò la
mano gonfia – Tu hai bisogno di un dottore! – esclamò, sfiorandogli leggermente
le nocche bluastre.
Il contatto con le dita
di lei gli diede un leggero brivido
- No, non è necessario. Hai del
ghiaccio? -
Ashton si alzò, aprì il freezer, gli
preparò un impacco e glielo tese, avvolto dentro un tovagliolo pulito.
- Certo che ogni incontro con te
possiede una componente di rischio piuttosto alta. –
commentò lui sibillino - Sono abituato agli incidenti
ma se va avanti così dovrò alzare il massimale della mia assicurazione. Non
sono certo di riuscire a riportare a casa la pelle la prossima volta. -
Ashton lo guardò mortificata - Mi dispiace – mormorò piano e Orlando fece una smorfia,
premendo l’impacco contro la mano ferita. La vide distogliere lo sguardo e
fissare nel vuoto un punto in lontananza, come se non vedesse nulla davanti a
sé. Aveva entrambi i polsi graffiati, dove i due uomini l’avevano afferrata
tentando di immobilizzarla e la gota sinistra era paonazza, segno che doveva
avere ricevuto uno schiaffo piuttosto forte. Eppure quando lui era arrivato
stava lottando come una tigre contro quei due
energumeni che erano grossi il doppio di lei. Fissò il suo corpo irrigidito, i
lineamenti stravolti e comprese che stava ripensando
all’aggressione. Avrebbe preferito vederla arrabbiata, oppure in lacrime, tutto
piuttosto che quello stato di torpore che sembrava esserle calato addosso come
una pesante cappa soffocante. Si schiarì la voce e aprì la bocca per dire
qualcosa ma, Padre Dowell entrò di corsa nella stanza
seguito a ruota da Suor Mary
- Ashton!
Come stai? Suor Mary mi ha detto… -
- Sto bene, padre –
la ragazza lo interruppe con voce atona – Non è successo nulla di grave.
Fortunatamente, prima che Burnett riuscisse a farmi
del male, è arrivato lui… - disse, indicando Orlando.
Il sacerdote si voltò verso l’uomo
seduto al tavolo della sua cucina
- Mr. Bloom,
di nuovo lei. Sembra che ultimamente sia parecchio nei paraggi – commentò facendolo arrossire e poi, senza attendere una
risposta, lo abbracciò con entusiasmo – Grazie, grazie mille… - esclamò,
strizzando un po’ il povero Orlando che non sapeva più che pesci pigliare.
- Non è nulla – bofonchiò
lui, recuperando il proprio impacco e continuando a tenerlo premuto sulla mano
ferita – Non ho fatto niente di speciale. – disse scoccandole un’occhiata al
volto che continuava ad essere chinato in direzione del pavimento - Piuttosto vorrei tanto capire perché Ashton
fosse sola là fuori a quest’ora. -
Si trovò puntati contro tre paia
d’occhi che lo fissavano allibiti per quell’implicito
rimprovero.
- A quest’ora?
– Ashton fu la prima a recuperare l’uso della parola
– Sono appena le sette di sera e vorrei ricordarti che
sono sempre andata e venuta per le strade di questo quartiere senza problemi. –
affermò un pochino risentita.
- Mah, veramente, ha sempre fatto
quello che voleva… - commentò Padre Dowell con tono
un tantino imbarazzato.
- E’ proprio questo il punto. Non si
dovrebbe permettere ad una ragazzina come lei di andare e venire a suo
piacimento e senza nessun controllo su dove va e su chi frequenta – puntualizzò Orlando.
Il sacerdote annuì - Si, è vero ma Ashton è sempre stata
molto giudiziosa e noi ci siamo sempre fidati… –
Orlando si allungò indietro,
spostando il peso sulla sedia – A volte la fiducia non basta e contro le
cattive compagnie si può fare ben poco. Bisogna essere
più severi. - replicò, trovando pieno consenso da parte di Padre Dowell.
Ashton fissò sconcertata prima uno e poi
l’altro, incapace di credere che stessero parlando di lei ignorando
completamente la sua presenza ma, prima che potesse aprire bocca, Orlando si
girò verso di lei – Eppure alla tua età
dovresti sapere che non è prudente per una ragazza
sola uscire a gironzolare la sera. –
- Gironzolare?! – Ad Ashton uscirono gli occhi fuori dalle
orbite – Io non stavo “gironzolando”. Ero andata a comperare
il latte! – esclamò con foga.
Orlando la fissò con un’aria di
sufficienza che, lì per lì, la lasciò di stucco e poi la fece infuriare ancora
di più – Questo non è un quartiere sicuro - prese a
pontificare lui con aria saccente – in più tu te ne vai in giro a provocare i
peggiori elementi che circolano in giro… - Ashton
quasi soffocò ma Orlando non si scompose minimamente – Una ragazza sola, di
notte, per la strada. E’ evidente che quei due hanno
equivocato. E chi potrebbe dare loro torto? In
questo quartiere ci sono prostitute quasi ad ogni angolo di strada. -
- Vorresti dire che è colpa mia se
quei due mi hanno aggredita? – gli chiese incredula.
Orlando non rispose direttamente alla
domanda e continuò la sua filippica come se fosse stato un agente della buoncostume alle prese con una passeggiatrice di
professione – Quel tipo di uomini non va tanto per il sottile e non si
accontenta di un semplice ed educato “no”. Vanno evitati il più possibile e non
devono assolutamente essere incoraggiati, altrimenti ti puoi ritrovare in una
situazione come quella di stasera. -
- Orlando… -
Il tono basso della voce di Ashton lo avvertì che lei si
stava seriamente arrabbiando di fronte a quelle cattiverie gratuite ma lui non
vi fece caso e continuò - Sei troppo avventata e devi imparare a non ficcarti
in situazioni dalle quali non sei sicura di uscirne fuori. Le attenzioni di quell’uomo erano piuttosto esplicite ma forse hai ragione,
avrei dovuto tirare dritto dopotutto te la saresti cavata benissimo da sola, vero? -
Ashton impallidì di fronte a quell’esplicito riferimento alla
sera della festa e poi il suo volto si fece paonazzo per la rabbia – Sei un
disgraziato! – esplose, alzandosi di scatto in piedi
fronteggiandolo – Ne saresti stato anche capace, eh? E
poi avresti anche il coraggio di dire che è colpa mia! – urlò fuori di sé – Di
tutti gli imbecilli, idioti e sbruffoni tu sei
certamente l’esemplare capostipite! Sei solo un grandissimo figlio di… -
- No, non credo che Ashton intenda dire… - la interruppe bruscamente padre Dowell con un’occhita di
disapprovazione, vedendo che l’atmosfera si stava rapidamente surriscaldando.
- Oh, si intendo
proprio! – intervenne lei, fuori di sé, piazzando sulla faccia di Orlando i suoi sconcertanti occhi blu – Sentimi bene,
signor so-tutto-io non ti permetto di sindacare
quello che faccio, né di cercare di farmi sentire in colpa perché stasera sono
uscita a comprare due stupidissimi cartoni di latte senza una adeguata scorta
armata, cosa alla quale un pallone gonfiato come te sarà certamente abituato.
Ti vorrei ricordare che non avevo scritto in fronte la
parola disponibile e che… - Tacque improvvisamente.
Orlando la guardava sereno, come se
lei, invece che degli insulti gli stesse rivolgendo
degli splendidi complimenti. E capì. Aveva preso a
provocarla deliberatamente per scuoterla dal suo torpore e dopo un’occhiata al
viso sereno e comprensivo di padre Dowell si rese conto che anche il sacerdote si era reso conto della
manovra dell’attore e lo aveva assecondato.
Si sedette di botto. - Sembra proprio
che io sia vittima di una congiura. – rifletté a voce alta, fissando prima uno
e poi l’altro.
Padre Dowell
ridacchiò compiaciuto ma Orlando si limitò ad abbozzare un mezzo sorriso
- Questo non toglie che il problema di fondo rimane. – riprese gravemente – Quell’uomo
ti ha aggredita e… -
- Burnett è un delinquente, poteva capitare a me come a chiunque. –
replicò Ashton, non ancora del tutto placata.
- Ma è
capitato a te. - Il tono di voce di Orlando era calmo
e serio come se stesse rapidamente valutando il da farsi – E nessuno ti può
assicurare che quel teppista non ci riproverà. -
- Ha ragione. – Suor Mary incrociò le
braccia sul petto – Anche se avvisassimo la polizia Goyle
Burnett potrebbe sempre
riprovare a farti del male. – disse con calma - Pensa
se con te ci fosse stata Susan o un altro dei bambini. Quell’uomo
non si ferma di fronte a nulla per avere quello che vuole. Pensa a quello che avrebbe potuto fare… -
Ashton rabbrividì involontariamente – Che cosa suggerite? – si sforzò di chiedere ben sapendo dove
Suor Mary voleva andare a parare.
- Devi andare via. Allontanarti per
un po’. Se Burnett non ti avrà di continuo sotto gli occhi la smetterà di bazzicare qua intorno. -
Padre Dowell
le prese una mano fra le sue – Suor Mary ha ragione,
cara. Non puoi restare qui. Sarebbe pericoloso vivere all’Oratorio ma, ancora
di più, lo sarebbe se tu andassi a
vivere da sola come avevi progettato. Non passerebbe molto tempo che Burnett lo verrebbe a sapere da qualcuno e potrebbe
riprendere a importunarti. Cosa farai quando lo
troverai sotto casa che ti aspetta per finire quello per cui
era venuto stasera? Anche se sporgessi denuncia nessun
agente potrebbe vigilare sulla tua incolumità ventiquattrore su ventiquattro e
tu saresti costantemente nel timore che quell’uomo
possa farti del male o farne alle persone che sono con te. Per il tuo stesso
bene devi allontanarti da qui per un po’. Domani
stesso scriverò alla Curia e al mio Vescovo perché ti
ospitino in qualche struttura in un altro quartiere. -
Ashton si sentì morire.
Un collegio! Altro che “struttura della Curia”! Un luogo lontano
dai suoi amici, dalle persone che conosceva, un luogo dove avrebbe dovuto
seguire nuove regole e nuove imposizioni. La sua tanto agognata libertà,
il suo piccolo appartamento, la sua indipendenza, svanirono come una bolla di
sapone scoppiata da dito di un bambino. Considerò brevemente l’idea di
rifiutarsi di andare ma il pensiero di Burnett la
fece desistere immediatamente. Sapeva che Padre Dowell
e Suor Mary avevano ragione. Crollò le spalle e annuì impercettibilmente.
- Potrebbe venire a stare da me. -
Per la seconda volta in quella sera
Orlando si ritrovò gli occhi di tutti i presenti puntati addosso e si affrettò
a spiegare – Ero venuto qui per questo stasera. Volevo
avere una risposta all’offerta di lavoro che avevo fatto. Dopo Natale partirò
per la Spagna e poi andrò in Marocco per lavoro e starò via a lungo. Come avevo
già detto ad Ashton mi serve una governante che si
occupi della mia casa, faccia le pulizie e la tenga in
ordine quando sarò lontano. Nel frattempo potrebbe vivere lì, in attesa di trovare un’altra sistemazione. Se accetti, - disse rivolgendosi direttamente a lei - questa
potrebbe essere la soluzione ideale per entrambi. -
Ashton rimase in silenzio, basita per
quella proposta inaspettata.
Le stava offrendo una scappatoia ma
poteva fidarsi di lui? Possibile che dietro alla sua proposta Orlando non
avesse un secondo fine?
Devi semplicemente stabilire le tue
priorità, fissarti una meta e poi fare di tutto per raggiungerla.
In che terribile ginepraio stava
andandosi a cacciare?
Certo il pomeriggio a casa sua si era
scusato, però…
Lo guardò attentamente, ma il volto di lui era calmo e composto come se invece che
proporle di trasferirsi a casa sua le avesse offerto un caffè, e poi fece
scorrere lo sguardo prima su Padre Dowell e poi su
Suor Mary che la guardavano esitanti, in attesa di una sua decisione.