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Autore: Anjulie    31/01/2006    2 recensioni
A volte si cerca nella vita qualcuno da amare e, a volte, non lo si cerca affatto ma capita... l'importante è che sia sempre l'altra metà del cielo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Dominic Monaghan, Orlando Bloom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Care voi, vi ringrazio tantissimo della somma pazienza con cui seguite la mia storia e mi scuso profondamente per essere così discontinua nell’aggiornare. Abbiate tanta pazienza!!!

Fr@: non credere che Orlando stia rinsavendo così di botto: il lupo perde il pelo…; Dom è sempre il solito, ma spero piano piano di regalargli un po’ più di spessore.

Niniel82: ti ringrazio di seguire le vicende dei “miei ragazzi” e spero anch’io di riuscire ad aggiornare un po’ più frequentemente.

Moon: cara! Sapevo che questo capitolo ti piace! Ora sto sputando sangue su due capitoli intermedi che mi stanno facendo vedere i sorci verdi, nel mezzo del milione di cose che ho da fare. Quando avrò un pochettino di tempo in più ti aggiornerò sugli stravolgimenti che in questo periodo sta subendo la mia vita.

Vi ringrazio tutte moltissimo della pazienza che avete e per le bellissime recensioni che mi lasciate. Grazie di cuore.

Ad maiora. Julie

 

 

CAPITOLO VI

 

  Gli invisibili atomi dell’aria

palpitano e s’infiammano intorno;

la terra sussulta rallegrata;

il cielo si dissolve in raggi d’oro

 

Odo, fluttuando in onde di armonia,

suoni di baci e battere un’ala;

le mie palpebre si chiudono… Che succede?

Dimmi…? Silenzio!

- E’ l’amore che passa!

(G.A. Bequér)

 

 

- Finirai con l’addormentarti qui, bambina. -

Ashton sussultò e si raddrizzò a sedere, dopo avere sbattuto le palpebre più volte. Sollevò gli occhi verso suor Mary, in piedi accanto al tavolo da cucina. Si stropicciò leggermente la fronte

- Mi scusi suor Mary, non mi ero accorta di essermi appisolata. -

- Hai avuto una lunga giornata e forse sarebbe meglio che salissi in camera tua a riposare. -

Ashton gettò un’occhiata all’orologio a muro - Sono solo le sette! – esclamò sorpresa e poi scosse il capo – No, preferisco restare alzata e fare ancora qualcosa – disse, alzandosi in piedi e stiracchiandosi – E’ sicura di non avere bisogno di nulla? -

Gli occhi penetranti di suor Mary seguirono attentamente ogni suo movimento. Nelle ultime settimane Ashton era un tantino dimagrita e i segni della stanchezza stavano iniziando a farsi evidenti sul viso pallido.

- Dovresti smetterla di affannarti, Ashton, e dovresti smetterla di sentirti responsabile della morte di Martha Simmons. Non è stata colpa tua. Devi cercare di andare avanti con la tua vita. -

La ragazza le sorrise debolmente – E’ quello che sto cercando di fare. -

- Lo fai senza impegno, mia cara. – replicò la religiosa con il tono asciutto che le era tipico – Quando non sei a scuola o al lavoro sei sempre qui all’Oratorio che giri indaffarata come un’anima in pena, occupandoti di mille cose. Apparentemente sembri essere la solita Ashton ma qui non stiamo parlando della tua presenza fisica. – cercò di spiegarle - Perfino i bambini si sono accorti di quanto ti sei chiusa in te stessa. -

Un ombra di dispiacere velò lo sguardo di Ashton – Mi dispiace. Forse ho solo bisogno di un po’ di tempo per accettare il fatto che lei non c’è più. Dopo la morte della mamma nonna Martha era diventata la mia famiglia. -

Reprimendo un sospiro suor Mary prese posto nella sedia accanto a lei – Lo so, bambina. E so anche che ti sei sempre presa cura di lei, ma ormai quel tuo ruolo è finito. Devi iniziare un capitolo nuovo della tua vita e pensare a cosa farai adesso. -

Ashton sollevò lo sguardo fino ad incontrare quello serio della religiosa

- Non riesco a trovare i mezzi per andare avanti. – sussurrò piano.

Suor Mary scosse la testa rattristata. – Li troverai e attingerai le tue risorse da dove meno te lo aspetti. Il dolore ha delle strane forme con cui manifestarsi e, per qualche motivo, a te impedisce di guardare avanti e proseguire il tuo cammino. Sei una ragazza forte, Ashton, piena di entusiasmo, di gioia di dare, ma in questo momento è come se fossi solo un’enorme secchio bucato da cui colano via tutti i buoni sentimenti, tutti i pensieri positivi. Per quanto tu ti sforzi di riempirlo rimane sempre vuoto. Come pensi di aiutare gli altri se non sei in grado di trattenere nulla dentro di te? –

Ashton non riuscì a rispondere e suor Mary continuò, impartendole con ferrea dolcezza un’altra lezione di vita – Devi dividere con gli altri il dolore che ti porti dentro: solo così sarà più leggero. E non devi rinunciare alla speranza di migliorare la tua esistenza. –

Ashton si rese conto che suor Mary aveva perfettamente ragione. Non avrebbe risolto nulla commiserandosi. Però non riusciva a condividere l’idea di spartire con gli altri il dolore che provava.

- Ci proverò – concesse tuttavia, sforzandosi di sfoderare un sorriso convincente. 

Suor Mary prese con noncuranza a ripiegare il mucchio di biancheria pulita contenuta dentro un cesto in vimini , suddividendola in tanti ordinati mucchietti – Padre Dowell mi ha detto che quel signore che è venuto l’altro giorno è un attore e cercava te… -

Ashton raddrizzò la testa e sospirò piano - Sì, vuole che gli tenga in ordine la casa. Ha un appartamento bellissimo e molto grande a Belgravia con tanto di terrazza, sauna e palestra e … -

- Hai accettato? -

Ashon cincischiò un po’ il suo lavoro di cucito, sapendo che non sarebbe riuscita a mentire di fronte agli occhi penetranti di suor Mary – Non ancora. Gli ho detto che ci devo pensare. Lui vorrebbe una governante a tempo pieno e sarebbe disposto anche ad offrirmi vitto e alloggio. Lo stipendio è ottimo ma… non penso che accetterò. In sostanza avrei meno tempo da dedicare qui all’Oratorio. -

Suor Mary la fissò in volto, scrutandone attentamente i lineamenti tesi

- Sei sicura che questo sia il vero motivo? -

Ashton la fissò per un istante in silenzio – No – ammise in un soffio – ma non mi chieda di dirle la ragione per cui sono tanto indecisa e poi…  – riprese con un breve sorriso, scuotendo leggermente il suo lavoro di cucito – …è vero che stare all’Oratorio mi aiuta. Lo so che sarà ancora per poco tempo ma mi piace vivere qui. E’ una sorta di terapia contro la tristezza e la malinconia e poi c’è sempre così tanto da fare. –

- Hai già trovato un appartamento? – le chiese Suor Mary, continuando il suo lavoro.

- Si, Mrs. Smith mi ha detto che mi affitterà la mansarda dal mese prossimo. E’ piccola, molto carina e, soprattutto l’affitto è ragionevole. – Sorrise felice – Per la verità non vedo l’ora! Finalmente ho qualcosa di tutto mio! -

Suor Mary aggrottò leggermente la fronte – Sono un po’ preoccupata ma, dopotutto, non puoi certo rimanere qui all’Oratorio per sempre. -

- No, infatti. Ma non starò lontano e poi verrò sempre qui a dare una mano. Non vi libererete di me tanto facilmente. – scherzò Ashton

La suora annuì brevemente - Peter e i ragazzi mi hanno detto che avete in mente di un grande progetto… -

La ragazza annuì con vigore - Stiamo preparando una recita per l’anno nuovo e sono tutti parecchio entusiasti, perfino i più piccoli. Si stanno impegnando moltissimo ad imparare le battute e io do una mano a preparare i costumi e le scenografie. – disse, mostrandole la tunica che stava cucendo – Se tutto va bene abbiamo intenzione di mettere in scena la “La Bella e la Bestia” il giorno dell’Epifania. -

Suor Mary sorrise e le prese dalle mani la tunica, piegandola per riporla nel cesto da lavoro.

- Sono sicura che verrà benissimo. – disse, iniziando a tirare fuori una grossa teglia. – Ma adesso accetterei volentieri quell’aiuto di cui mi hai parlato prima per preparare la cena. -

Le due donne iniziarono a trafficare tra i fornelli ma suor Mary alzò quasi immediatamente il capo dalla ciotola dove stava rimescolando alcuni ingredienti visibilmente costernata – Ho dimenticato di prendere il latte! – esclamò – E questa sera è il compleanno di Susan. Le avevo promesso la torta e… -

- Vado io. – Ashton lanciò un’occhiata veloce all’orologio – Il mini-market in fondo alla strada dovrebbe essere ancora aperto a quest’ora. – disse, afferrando il giaccone.

Fuori era già buio e Ashton si avviò a passo spedito verso il piccolo supermercato la cui insegna si illuminava ad intermittenza decorata da una cascata di lucine colorate. Faceva parecchio freddo e la ragazza affondò le mani coperte dai guanti nelle tasche del giaccone. Tra un mese sarebbe stato Natale e il pensiero di quel Natale solitario le mise addosso una certa malinconia. Comperò i cartoni di latte che servivano per preparare il dolce e si avviò verso l’Oratorio, percorrendo la medesima strada a ritroso. Mancavano più pochi isolati quando un tonfo sordo nel vicolo la fece rabbrividire. Cosa era stato? Un gatto randagio? Un topo?

Affrettò il passo un tantino allarmata.

- Ciao, Ashton. Che piacere incontrarti. – esclamò un’ombra alla sua sinistra.

Il suono di quella voce conosciuta la fece girare di colpo, mentre la paura prendeva rapidamente il posto della sorpresa. Quel timbro strascicato e insolente poteva appartenere solo ad una persona: Goyle Burnett, il delinquente più brutale di tutto il quartiere.

Ashton non sopportava neppure di incrociarlo per strada mentre lui si era soffermato più volte a fare commenti volgari e battute piccanti sul suo conto. Lei non lo aveva mai preso sul serio, limitandosi a far finta di nulla, ma perché quella sera era lì da solo, quando di solito lo accompagnava sempre Lola, la sua procace e aggressiva compagna? Perché stava lì, nel buio del vicolo, aspettando… lei?

Ashton sentì il sangue gelarsi nella vene ma si impose di rimanere calma e, quando parlò, cercò di mascherare il tremito nervoso della voce – Che cosa vuoi Goyle? – gli chiese affrettando il passo

Anche nell’oscurità le sembrò che lui spostasse il peso da un piede all’altro come per valutare meglio le loro posizioni – Non mi sembra che questo sia il modo di rivolgersi a uno che venuto a farti le condoglianze. -

Quelle parole non la tranquillizzarono per niente. Il fatto che Goyle sapesse della morte di nonna Martha significava che ultimamente l’aveva tenuta d’occhio. E parecchio, anche.

- Arrivi tardi. – replicò lei irrigidendo la mascella – Il funerale è stato più di una settimana fa. -

- Sai che mi piace scegliere da solo il momento in cui muovermi e quando la Simmons è morta avevo altre cose per le mani.  -

- Affari poco puliti, immagino - ribatté lei duramente – E comunque direi che questo è sicuramente il momento sbagliato. -

- Non essere scontrosa, Ashton. Per la verità ho pensato che adesso tu sei sola e, guardacaso, anche io sono solo. Potremmo farci compagnia, che ne dici? -

Ashton deglutì a fatica – No, grazie. Non mi interessa. -

- Ehi, tesoro, mostra un po’ di rispetto. – risuonò in quel momento un’altra voce dietro di sé - Il signor Burnett ti ha appena fatto un invito. Non è affatto gentile da parte tua rifiutare. -

Era in trappola.

Ashton si girò di scatto verso l’altro delinquente che aveva parlato e riconobbe alle sue spalle Bob Chackle, una delle peggiori fecce che bazzicavano in zona.

Era stata un stupida ad illudersi che Goyle fosse venuto da solo.

L’uomo uscì dal cono d’ombra e le si mise di fronte, impedendole di passare, il volto arrogante attraversato da una smorfia di disprezzo. – Bella e impertinente, come sempre, Ashton. Ma scommetto che quando avrò finito con te non sarai più tanto altezzosa. Imparerai presto chi comanda qui. -

Ashton si sentì accecare dal terrore. Non aveva via di scampo e non c’era niente di accidentale in quell’incontro.

Goyle Burnett era venuto per lei.

 

La sera in cui Dom era riuscito a strappare un appuntamento a Selene sembrava essere proprio una di quelle serate che per le strane e imperscrutabili congiunture del destino sono destinate ad riuscire bene fin dall’inizio.

Dom si presentò sotto casa di Selene alle nove in punto e scese dal taxi, facendo cenno al conducente di aspettare proprio davanti al cancello della palazzina in Upper Brook Street dove la ragazza viveva con il padre. Fece due passi davanti al citofono prima di decidersi a suonare, chiedendosi per la milionesima volta, il motivo per cui si sentisse tanto agitato.

Certo, Selene era una bella ragazza ma lui era sempre uscito con ragazze molto carine. Poi, soprattutto da quando era diventato famoso, attrici, modelle, cantanti erano entrate e uscite dalla sua vita con la regolarità di agenti del fisco. Eppure c’era qualcosa in Selene che lo costringeva a restare a guardarla meravigliato, come se sotto la spesa patina di ironia mista a sfacciataggine, e dietro quell’aria da ragazza perbene, ci fosse qualcosa che gli sfuggiva, un particolare ancora vago e misterioso ma non per questo meno intrigante. Fissò la punta delle sue nike bianche e rosse che spuntavano dall’orlo un po’ sfilacciato del largo paio di jeans scoloriti che aveva indossato sotto il pesante giaccone scuro con cappuccio, e affondò le mani nelle tasche. Il fruscio filigranato dei biglietti a contatto con la sua mano destra lo calmò un pochino: aveva preparato una serata un po’ alternativa e, se Selene era la persona che lui credeva, si sarebbero divertiti moltissimo.

Il pesante portone di legno verde si aprì e Dom alzò di scatto la testa e la vide uscire di casa, imbacuccata in un piumino color panna lungo fino ai piedi e stretto in vita da una cintura, mentre alcune ciocche dei lunghi capelli color rame sfuggivano ribelli da sotto il berretto di maglia scura.

David Portrainy scrutò dietro le tende abbassate del suo salotto la figlia correre lungo il vialetto e salutare allegramente un giovane biondo, non tanto alto, che doveva essere il suo accompagnatore per quella sera. Era rimasto stupito quando Selene gli aveva detto di avere un appuntamento ma aveva trattenuto la curiosità, impedendosi di chiederle notizie su chi fosse tale Dominic Monaghan e su come lo avesse conosciuto. Era la prima volta da quando si trovavano in Inghilterra che Selene usciva dal suo volontario isolamento e si decideva a frequentare un ragazzo come facevano tutte le sue coetanee e, forse, questo era il segno che qualcosa in lei stava cambiando e che i ricordi iniziavano ad essere meno dolorosi.

David era stato vicino a Selene dopo la morte di Ariel, preoccupato del profondo stato di depressione in cui era precipitata. Era stato difficile riconoscere un quel pallido spettro che vagava tra le pareti candide della loro casa a Gerusalemme la sua allegra ed esuberante bambina ma, avendo sperimentato egli stesso il medesimo devastante dolore, poteva ben comprendere come si sentisse la figlia. Non c’erano giustificazioni, ragionamenti o parole di conforto in grado di lenire quella perdita straziante. Selene si era lasciata scivolare lentamente nell’ombra, come se quel giorno in mezzo alla sabbia della striscia di Gaza fosse stata seppellita anche la sua giovinezza e la sua gioia di vivere. Il trasferimento a Londra e l’amicizia con Ashton avevano aggiustato un po’ le cose e, in apparenza, tutto sembrava tornato alla normalità, come se il sergente Ariel Mordecai non fosse mai esistito, e lei fosse la stessa Selene di sempre.

Eppure era solo apparenza.

David sapeva che il ricordo di Ariel era custodito intimamente nel cuore di Selene come qualcosa di inestimabile e, il fatto che lei non ne parlasse mai, indicava quanto ancora fosse profonda la sua sofferenza. Era solo una ragazzina quando aveva incontrato per la prima volta Ariel Mordecai, ma tra i due ragazzi era nato un sentimento ben più grande e intenso di quello che la loro giovane età avrebbe fatto pensare. Era stato l’incontro di due anime gemelle e complementari e David era pienamente convinto che, se quella terribile tragedia non si fosse verificata, Selene avrebbe amato Ariel per tutta la vita.

L’appuntamento di quel sabato sera era stata un’incredibile novità e osservò con un tantino di ansia paterna i capelli di lei volare nel vento come un ricco gonfalone d’oro rosso, mentre si precipitava verso il taxi in attesa fuori dal cancello.

Vide il giovanotto che l’aspettava farle un cenno di saluto con la mano alzata.

- Ciao – la salutò Dom con allegria.

Lei gli sorrise - Scusami se sono in ritardo – disse, dando un’occhiata rapida all’orologio.

Dom le aprì la portiera del taxi – Non preoccuparti, non dobbiamo andare molto lontano. -

Lei gli scoccò un’occhiata curiosa – Dove mi porti? -

- Sorpresa. - Dom le si sedette accanto e date alcune brevi istruzioni al conducente si lasciò andare contro i sedili mettendosi comodo – Sono sicuro che non rimarrai delusa. – disse facendole un occhiolino malizioso.

 

Libero finalmente!

Orlando uscì di corsa dal portone del Blake’s Hotel e prese un taxi al volo, al termine di una lunga intervista per il settimanale Vanity Fair. Sbuffò, lasciandosi cadere a peso morto sul sedile, e bevve un lunga sorsata d’acqua dalla bottiglietta che aveva con sé.

Le interviste erano la parte che meno amava del suo lavoro, quella che lo lasciva più a disagio, forse a causa dell’incompatibile combinazione risultante dal suo carattere riservato e dell’insaziabile curiosità della gente nel sapere ogni più recondito particolare della sua vita privata. Amava il contatto con le persone, con i suoi ammiratori e l’affetto che gli veniva rivolto, ma soffriva parecchio per quei continui tentativi di intromissione. Gli era stato chiesto di parlare della solita fiera banalità, più o meno assemblate, condite con il tentativo di mettere nero su bianco qualche pettegolezzo gustoso, e lui aveva risposto meccanicamente. La giornalista, una ragazza carina che aveva ammiccato per tutta la durata del loro colloquio prima di chiedergli se aveva impegni per la serata, gli aveva fatto ripetere il racconto della caduta nella quale si era spezzato la schiena, cercato di scandagliare nella sua vita sentimentale alla ricerca del nome della sua nuova fidanzata, e aveva di nuovo tirato fuori la storia di suo padre: di Harry e Colin,

Che cosa si aspettava che rispondesse?

Certo che amava Harry. Da bambino l’aveva creduto suo padre e, con un simile modello davanti agli occhi, chi altri avrebbe mai potuto amare? Colin era stato il suo tutore, il suo guardiano, un amico e gli era molto affezionato ma non avrebbe mai potuto offuscare completamente la figura di Harry.

Sospirò stancamente. Si sentiva insofferente di fronte a quelle che erano state solo delle domande di ordinaria amministrazione e non riusciva a capire il perché. Si chiese onestamente se la sua fosse solo stanchezza. Veniva da un periodo di in cui era stato super impegnato e presto si sarebbe gettato nuovamente nella mischia. Amava il suo lavoro, lo faceva sentire bene e aveva lottato per farlo, ma adesso, arrivato a questo punto, gli sembrava come se gli mancasse qualcosa anche se, d’altronde, nemmeno lui era sicuro di sapere poi cosa. Sapeva soltanto di volere qualcosa di diverso, un nuovo traguardo da raggiungere, una vetta più alta da scalare.

Il nuovo film che sarebbe andato a girare l’anno seguente, “The Kingdom of the Heaven” sembrava avere tutte le carte in regola per essere progetto giusto ma, in realtà, la sfida che Orlando cercava aveva una natura più personale. Sentiva di avere bisogno di un’emozione forte, qualcosa che gli impegnasse la mente, coinvolgendolo e aiutandolo ad incanalare le sue energie pulsanti.

Ashton

Il suo volto gli ritornò alla mente come un lampo improvviso. Chissà come se la passava? Sicuramente lei non doveva preoccuparsi di soffrire la noia. Pensava a lui di tanto in tanto? Probabilmente no. Era solo uno degli uomini che aveva conosciuto, uno dei tanti.

Quell’uomo… quel Peter, che lei aveva salutato quel giorno all’oratorio, sembrava conoscerla piuttosto bene e lei lo aveva trattato con familiarità…

Il senso di fastidio che derivò da quel pensiero estemporaneo in un certo senso lo lasciò perplesso. Perché Ashton lo aveva colpito tanto? 

Da quando si erano visti quel pomeriggio a casa sua lei era sparita e non si era fatta più sentire. Gli aveva detto che avrebbe pensato alla sua proposta ma il telefono era rimasto inspiegabilmente muto e, se ci pensava seriamente, la cosa lo faceva incazzare come una iena.

E perdiana! Almeno una telefonata poteva sprecarsi a farla!

Le donne lo adoravano, per la miseria! E questa, invece, sembrava non voleva avere nulla a che fare con lui. Da quando l’aveva conosciuta non aveva fatto altro che ripensare a lei e a provare un’irrequietezza e un desiderio con i quali non si sentiva affatto a proprio agio.

Improvvisamente gli venne voglia di sapere da Ashton stessa il motivo per cui non gli aveva più telefonato, anche soltanto per rifiutare la sua offerta e, impulsivamente, decise che voleva una risposta e la voleva adesso. Si chinò in avanti a dare all’autista l’indirizzo di Keeley Street.

Dopo circa un ventina di minuti il taxi svoltò a sinistra e, improvvisamente, illuminò con i fari tre figure che si scazzottavano per strada.

Il primo istinto di Orlando fu quello di voltarsi dall’altra parte e ignorare quei bulli ma, proprio quando si accingeva a farlo, individuò tra le due figure corpulente una più piccola e minuta.

E quella figura aveva lunghi capelli scuri.

In quel momento fu come se il corpo di Orlando avesse inserito il pilota automatico. Urlando al tassista di fermarsi si lanciò fuori dall’auto e corse verso la rissa, dimentico del fatto che, a parte qualche bisticcio da ragazzino e il ruolo da boxer nel film “The Calcium Kid”, in ventisette anni di vita non aveva mai fatto a pugni. 

Le urla di Ashton annullarono qualsiasi riflessione razionale.

Accecato da un’emozione senza nome si fiondò all’attacco, colpendo con tutto il peso del proprio corpo il più robusto dei due aggressori e spedendolo malamente a gambe all’aria.

- Che cazzo… - Il più basso dei due uomini, che ancora teneva Ashton per il braccio si voltò verso Orlando, ma quell’attimo di distrazione gli costò caro. Ashton lo aggredì divincolandosi e rigirandoglisi contro come una gatta inferocita, mentre Orlando lo colpiva di sorpresa al volto con un pugno, facendogli mollare la presa istantaneamente.

L’attore aveva ignorato troppo a lungo l’uomo che aveva spinto a terra e, quando quest’ultimo gli piombò addosso colpendolo, lo avvertì soltanto ad un secondo livello.

Non voleva fermarsi, non avrebbe potuto e, anche se avesse voluto, l’urlo di Ashton glielo avrebbe impedito. Colpì l’uomo al viso e probabilmente avrebbe continuato a percuoterlo ancora e ancora…

Fu solo quando si ritrovò faccia a faccia con il viso di Ashton, la mano che afferrava il tessuto della sua giacca, che riuscì finalmente a fermarsi, il pugno ancora teso nell’aria.

Guardandosi attorno si accorse che i due assalitori stavano scomparendo dietro l’angolo messi in fuga anche dal tempestivo intervento del corpulento tassista che, vedendolo correre in aiuto di una ragazza, si era precipitato a sua volta verso quei due delinquenti, urlando come un indemoniato.

Orlando si tirò in piedi lentamente, mentre dieci lame gli trapassavano le dita della mano destra. Trovando a malapena il respiro si voltò a guardare Ashton

- Stai… stai bene? – riuscì a chiederle balbettando.

L’autista aiutò la ragazza a rimettersi in piedi e Ashton annuì lentamente

- Figli di puttana! – esclamò l’uomo, che doveva avere all’incirca cinquant’anni – Stai bene signorina? Io ho una figlia della sua età e se gli mettevo le mani addosso le assicuro che li ammazzavo di botte quei fetenti! -

Ashton gli rivolse un pallido sorriso di ringraziamento

- Grazie – mormorò con voce fioca – Se non foste arrivati voi… - Sollevò lo sguardo verso Orlando, meravigliata di vederlo lì, davanti a lei, stropicciato e pesto, ma circondato da quell’aura di fierezza che hanno solo gli angeli vendicatori.

- Che… che cosa ci fai tu da queste parti? – gli chiese, mentre i profondi occhi blu percorrevano il suo volto bruno stupiti e riconoscenti.

Lui pensò a tutte le persone che avrebbero potuto porgli la stessa domanda, dal medico del Pronto Soccorso, alla Polizia, alla sua agente, a sua madre… e preferì non rispondere nulla, limitandosi ad una scrollatina di spalle.

Ashton strinse le spalle – Volevi fare un giretto, eh? – gli chiese insospettita.

- Qualcosa di simile. – borbottò lui, tirando fuori dal portafoglio una banconota da cinquanta sterline e ringraziando il tassista.

- E’ sicuro che non vuole che l’accompagni in ospedale? – gli chiese l’uomo accennando alla mano che già iniziava a gonfiare ma Orlando rifiutò cortesemente.

- Non direi che è proprio una scelta intelligente. – commentò lei, mentre il taxi si allontanava.

Orlando le lanciò un’occhiata obliqua – Senti chi parla. Non mi pare molto furbo andare in giro di sera da sola. Capita – disse, sottolineando ogni parola – di fare brutti incontri. -

Mentre lui borbottava per il dolore, scuotendo per aria la mano, Ashton raccolse i cartoni del latte che si erano sparsi sul selciato e raddrizzò la schiena, stringendo fra le mani la busta di carta.

Fu in quel momento, guardandolo imprecare, mentre si esaminava le nocche gonfie, che la paura ebbe la meglio su di lei. Rabbrividì sgomenta e strinse convulsamente i manici della borsa di carta, come se in quel modo sperasse di tenere a bada i fremiti che la scuotevano.

Orlando si voltò verso di lei e, alla luce del lampione che illuminava la via, la vide pallida come un cencio e più vulnerabile che mai.

Tutt’a un tratto dimenticò il dolore e, seguendo un impulso le si avvicinò e le strinse le braccia attorno alle spalle – Non è successo nulla, non pensare ad altro. -

Ashton non rispose ed emise un sospiro mentre un brivido gelido le correva da capo a piedi – Volevano portarmi via… - riuscì a mormorare infine, e lui si accorse che si era aggrappata al suo giaccone con tutte le sue forze – Ho avuto paura… -   

- Shh… se ne sono andati. – la zittì lui.

- Perché sei arrivato tu. -

Somigliava più ad una semplice constatazione che ad un ringraziamento in piena regola ma Orlando avvertì una strabiliante sensazione di contentezza prendere il posto della furia che lo aveva animato fino ad un attimo prima.

- Adesso andiamo via anche noi. Vieni. – disse, sospingendola e sforzandosi di riprendere il controllo, cercando di ignorare il lieve sentore di gelsomini che si sollevava dai capelli di Ashton e contemporaneamente il dolore che gli saliva ad ondate pulsanti dalla mano ferita. 

- Devo tornare all’Oratorio – mormorò lei – Suor Mary aspetta il latte per la torta di compleanno di Susan. -

- Al diavolo la torta di compleanno! – Orlando esplose, a metà strada tra l’attonito e l’arrabbiato – Adesso ti accompagno a casa dove ti metterai tranquilla e… - poi, vedendo che non rispondeva, le passò l’indice sotto il mento, sollevandole lo sguardo – Ce l’hai una casa, vero? -

- No – Ashton sfuggì i suoi occhi terribilmente indagatori – Vivo momentaneamente all’Oratorio in attesa di trovare una sistemazione. La signora con cui abitavo è mancata e… - Si interruppe, e non perché volesse ignorare la domanda, ma solo perché aveva le lacrime agli occhi.

Orlando non aveva mai sopportato di vedere piangere una ragazza. Kate aveva sempre usato le lacrime come un’arma per intenerirlo oppure per farlo sentire in colpa e adesso si sentiva del tutto impreparato di fronte all’infelicità di Ashton. Davanti a quelle lacrime disperate si sentì allarmato e impotente.

La notte si fece più buia e la giovane donna che teneva ancora fra le braccia mille volte più fragile.

In un istante Orlando prese una decisione – Vieni – ripeté, indicando il portone dell’Oratorio, distante solo alcuni isolati – Non possiamo restare qui. Tu hai bisogno di sederti… - disse, togliendole dalle mani la busta con i cartoni del latte e continuando a sorreggerla con l’altro braccio  - … e io ho decisamente bisogno di qualcosa di forte. -

Percorsero a piedi i pochi isolati che li separavano dal cancello dell’Oratorio e Orlando sospinse la ragazza attraverso il cortile illuminato.

Vennero accolti da Suor Mary con il grembiule sporco di farina

- Ashton ci hai messo un sacco di tempo… – esclamò, vedendola entrare in cucina, reggendo i cartoni del latte. Poi si accorse del suo volto pallido e di Orlando che era entrato in silenzio dietro di lei e si interruppe - … cosa è successo? – chiese preoccupata.

- Goyle Burnett. – Ashton si lasciò scivolare su una sedia accanto al tavolo da cucina – Mi aspettava per strada… - tacque non riuscendo ad andare avanti e, dopo una rapida occhiata, Orlando intervenne a spiegare al suo posto

- E’ stata aggredita da due uomini. Quando sono arrivato li ho visti che la stavano strattonando per obbligarla ad andare con loro. Con l’aiuto dell’autista del taxi che mi accompagnava li abbiamo messi in fuga. – disse semplicemente.

Lo sguardo acuto della suora corse dal volto di lui al viso di Ashton e mise una mano sotto il mento della ragazza – Stai bene, cara? –

Lei annuì – Sono solo un po’ ammaccata. Fortunatamente sono arrivati in tempo prima che mi trascinassero via. -

Suor Mary fissò i suoi occhi penetranti sul volto dell’uomo che era rimasto in piedi alle spalle di Ashton - La ringrazio per l’aiuto, mister… -

- Bloom. Orlando Bloom. -

La suora annuì piano e accarezzò la spalle di Ashton con affetto – Si accomodi Mr. Bloom. Vado a chiamare Padre Dowell. Non sarà per niente contento di quanto è successo: Goyle Burnett è un delinquente della peggiore specie e sapere che bazzica qua intorno non ci rende affatto tranquilli. Potrebbe cercare di fare di nuovo del male. -

Il suo tono di voce era così autoritario che Orlando obbedì e si sedette. Incrociò stancamente le braccia sul piano del tavolo e tirò un sospiro. Tra i colpi dati e ricevuti si sentiva come se qualcuno gli fosse passato sopra con un autotreno, ma aveva di fronte Ashton, che lo guardava con un misto di diffidenza e gratitudine e, inspiegabilmente non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte per nulla al mondo.

Lei gli fissò la mano gonfia – Tu hai bisogno di un dottore! – esclamò, sfiorandogli leggermente le nocche bluastre.

Il contatto con le dita di lei gli diede un leggero brivido

- No, non è necessario. Hai del ghiaccio? -

Ashton si alzò, aprì il freezer, gli preparò un impacco e glielo tese, avvolto dentro un tovagliolo pulito.

- Certo che ogni incontro con te possiede una componente di rischio piuttosto alta. – commentò lui sibillino - Sono abituato agli incidenti ma se va avanti così dovrò alzare il massimale della mia assicurazione. Non sono certo di riuscire a riportare a casa la pelle la prossima volta. -

Ashton lo guardò mortificata - Mi dispiace – mormorò piano e Orlando fece una smorfia, premendo l’impacco contro la mano ferita. La vide distogliere lo sguardo e fissare nel vuoto un punto in lontananza, come se non vedesse nulla davanti a sé. Aveva entrambi i polsi graffiati, dove i due uomini l’avevano afferrata tentando di immobilizzarla e la gota sinistra era paonazza, segno che doveva avere ricevuto uno schiaffo piuttosto forte. Eppure quando lui era arrivato stava lottando come una tigre contro quei due energumeni che erano grossi il doppio di lei. Fissò il suo corpo irrigidito, i lineamenti stravolti e comprese che stava ripensando all’aggressione. Avrebbe preferito vederla arrabbiata, oppure in lacrime, tutto piuttosto che quello stato di torpore che sembrava esserle calato addosso come una pesante cappa soffocante. Si schiarì la voce e aprì la bocca per dire qualcosa ma, Padre Dowell entrò di corsa nella stanza seguito a ruota da Suor Mary

- Ashton! Come stai? Suor Mary mi ha detto… - 

- Sto bene, padre – la ragazza lo interruppe con voce atona – Non è successo nulla di grave. Fortunatamente, prima che Burnett riuscisse a farmi del male, è arrivato lui… - disse, indicando Orlando.

Il sacerdote si voltò verso l’uomo seduto al tavolo della sua cucina

- Mr. Bloom, di nuovo lei. Sembra che ultimamente sia parecchio nei paraggi – commentò facendolo arrossire e poi, senza attendere una risposta, lo abbracciò con entusiasmo – Grazie, grazie mille… - esclamò, strizzando un po’ il povero Orlando che non sapeva più che pesci pigliare.

 - Non è nulla – bofonchiò lui, recuperando il proprio impacco e continuando a tenerlo premuto sulla mano ferita – Non ho fatto niente di speciale. – disse scoccandole un’occhiata al volto che continuava ad essere chinato in direzione del pavimento - Piuttosto vorrei tanto capire perché Ashton fosse sola là fuori a quest’ora. -

Si trovò puntati contro tre paia d’occhi che lo fissavano allibiti per quell’implicito rimprovero.

- A quest’ora? – Ashton fu la prima a recuperare l’uso della parola – Sono appena le sette di sera e vorrei ricordarti che sono sempre andata e venuta per le strade di questo quartiere senza problemi. – affermò un pochino risentita.

- Mah, veramente, ha sempre fatto quello che voleva… - commentò Padre Dowell con tono un tantino imbarazzato.

- E’ proprio questo il punto. Non si dovrebbe permettere ad una ragazzina come lei di andare e venire a suo piacimento e senza nessun controllo su dove va e su chi frequenta – puntualizzò Orlando.

Il sacerdote annuì - Si, è vero ma Ashton è sempre stata molto giudiziosa e noi ci siamo sempre fidati… –

Orlando si allungò indietro, spostando il peso sulla sedia – A volte la fiducia non basta e contro le cattive compagnie si può fare ben poco. Bisogna essere più severi. - replicò, trovando pieno consenso da parte di Padre Dowell.

Ashton fissò sconcertata prima uno e poi l’altro, incapace di credere che stessero parlando di lei ignorando completamente la sua presenza ma, prima che potesse aprire bocca, Orlando si girò verso di lei –  Eppure alla tua età dovresti sapere che non è prudente per una ragazza sola uscire a gironzolare la sera. –

- Gironzolare?! – Ad Ashton uscirono gli occhi fuori dalle orbite – Io non stavo “gironzolando”. Ero andata a comperare il latte! – esclamò con foga.

Orlando la fissò con un’aria di sufficienza che, lì per lì, la lasciò di stucco e poi la fece infuriare ancora di più – Questo non è un quartiere sicuro - prese a pontificare lui con aria saccente – in più tu te ne vai in giro a provocare i peggiori elementi che circolano in giro… - Ashton quasi soffocò ma Orlando non si scompose minimamente – Una ragazza sola, di notte, per la strada. E’ evidente che quei due hanno equivocato. E chi potrebbe dare loro torto? In questo quartiere ci sono prostitute quasi ad ogni angolo di strada. -

- Vorresti dire che è colpa mia se quei due mi hanno aggredita? – gli chiese incredula.

Orlando non rispose direttamente alla domanda e continuò la sua filippica come se fosse stato un agente della buoncostume alle prese con una passeggiatrice di professione – Quel tipo di uomini non va tanto per il sottile e non si accontenta di un semplice ed educato “no”. Vanno evitati il più possibile e non devono assolutamente essere incoraggiati, altrimenti ti puoi ritrovare in una situazione come quella di stasera. - 

- Orlando… -

Il tono basso della voce di Ashton lo avvertì che lei si stava seriamente arrabbiando di fronte a quelle cattiverie gratuite ma lui non vi fece caso e continuò - Sei troppo avventata e devi imparare a non ficcarti in situazioni dalle quali non sei sicura di uscirne fuori. Le attenzioni di quell’uomo erano piuttosto esplicite ma forse hai ragione, avrei dovuto tirare dritto dopotutto te la saresti cavata benissimo da sola, vero? -

Ashton impallidì di fronte a quell’esplicito riferimento alla sera della festa e poi il suo volto si fece paonazzo per la rabbia – Sei un disgraziato! – esplose, alzandosi di scatto in piedi fronteggiandolo – Ne saresti stato anche capace, eh? E poi avresti anche il coraggio di dire che è colpa mia! – urlò fuori di sé – Di tutti gli imbecilli, idioti e sbruffoni tu sei certamente l’esemplare capostipite! Sei solo un grandissimo figlio di… -

- No, non credo che Ashton intenda dire… - la interruppe bruscamente padre Dowell con un’occhita di disapprovazione, vedendo che l’atmosfera si stava rapidamente surriscaldando.

- Oh, si intendo proprio! – intervenne lei, fuori di sé, piazzando sulla faccia di Orlando i suoi sconcertanti occhi blu – Sentimi bene, signor so-tutto-io non ti permetto di sindacare quello che faccio, né di cercare di farmi sentire in colpa perché stasera sono uscita a comprare due stupidissimi cartoni di latte senza una adeguata scorta armata, cosa alla quale un pallone gonfiato come te sarà certamente abituato. Ti vorrei ricordare che non avevo scritto in fronte la parola disponibile e che…  - Tacque improvvisamente.

Orlando la guardava sereno, come se lei, invece che degli insulti gli stesse rivolgendo degli splendidi complimenti. E capì. Aveva preso a provocarla deliberatamente per scuoterla dal suo torpore e dopo un’occhiata al viso sereno e comprensivo di padre Dowell si rese conto che anche il sacerdote si era reso conto della manovra dell’attore e lo aveva assecondato. 

Si sedette di botto. - Sembra proprio che io sia vittima di una congiura. – rifletté a voce alta, fissando prima uno e poi l’altro.

Padre Dowell ridacchiò compiaciuto ma Orlando si limitò ad abbozzare un mezzo sorriso

- Questo non toglie che il problema di fondo rimane. – riprese gravemente – Quell’uomo ti ha aggredita e… - 

- Burnett è un delinquente, poteva capitare a me come a chiunque. – replicò Ashton, non ancora del tutto placata.

- Ma è capitato a te. - Il tono di voce di Orlando era calmo e serio come se stesse rapidamente valutando il da farsi – E nessuno ti può assicurare che quel teppista non ci riproverà. -  

- Ha ragione. – Suor Mary incrociò le braccia sul petto – Anche se avvisassimo la polizia Goyle Burnett potrebbe sempre riprovare a farti del male. – disse con calma - Pensa se con te ci fosse stata Susan o un altro dei bambini. Quell’uomo non si ferma di fronte a nulla per avere quello che vuole. Pensa a quello che avrebbe potuto fare… -  

Ashton rabbrividì involontariamente – Che cosa suggerite? – si sforzò di chiedere ben sapendo dove Suor Mary voleva andare a parare.

- Devi andare via. Allontanarti per un po’. Se Burnett non ti avrà di continuo sotto gli occhi la smetterà di bazzicare qua intorno. -

Padre Dowell le prese una mano fra le sue – Suor Mary ha ragione, cara. Non puoi restare qui. Sarebbe pericoloso vivere all’Oratorio ma, ancora di più, lo sarebbe se tu andassi a  vivere da sola come avevi progettato. Non passerebbe molto tempo che Burnett lo verrebbe a sapere da qualcuno e potrebbe riprendere a importunarti. Cosa farai quando lo troverai sotto casa che ti aspetta per finire quello per cui era venuto stasera? Anche se sporgessi denuncia nessun agente potrebbe vigilare sulla tua incolumità ventiquattrore su ventiquattro e tu saresti costantemente nel timore che quell’uomo possa farti del male o farne alle persone che sono con te. Per il tuo stesso bene devi allontanarti da qui per un po’. Domani stesso scriverò alla Curia e al mio Vescovo perché ti ospitino in qualche struttura in un altro quartiere. -

Ashton si sentì morire.

Un collegio! Altro che “struttura della Curia”! Un luogo lontano dai suoi amici, dalle persone che conosceva, un luogo dove avrebbe dovuto seguire nuove regole e nuove imposizioni. La sua tanto agognata libertà, il suo piccolo appartamento, la sua indipendenza, svanirono come una bolla di sapone scoppiata da dito di un bambino. Considerò brevemente l’idea di rifiutarsi di andare ma il pensiero di Burnett la fece desistere immediatamente. Sapeva che Padre Dowell e Suor Mary avevano ragione. Crollò le spalle e annuì impercettibilmente.

- Potrebbe venire a stare da me. -

Per la seconda volta in quella sera Orlando si ritrovò gli occhi di tutti i presenti puntati addosso e si affrettò a spiegare – Ero venuto qui per questo stasera. Volevo avere una risposta all’offerta di lavoro che avevo fatto. Dopo Natale partirò per la Spagna e poi andrò in Marocco per lavoro e starò via a lungo. Come avevo già detto ad Ashton mi serve una governante che si occupi della mia casa, faccia le pulizie e la tenga in ordine quando sarò lontano. Nel frattempo potrebbe vivere lì, in attesa di trovare un’altra sistemazione. Se accetti, - disse rivolgendosi direttamente a lei - questa potrebbe essere la soluzione ideale per entrambi. -

Ashton rimase in silenzio, basita per quella proposta inaspettata.

Le stava offrendo una scappatoia ma poteva fidarsi di lui? Possibile che dietro alla sua proposta Orlando non avesse un secondo fine?

Devi semplicemente stabilire le tue priorità, fissarti una meta e poi fare di tutto per raggiungerla.

In che terribile ginepraio stava andandosi a cacciare?

Certo il pomeriggio a casa sua si era scusato, però…

Lo guardò attentamente, ma il volto di lui era calmo e composto come se invece che proporle di trasferirsi a casa sua le avesse offerto un caffè, e poi fece scorrere lo sguardo prima su Padre Dowell e poi su Suor Mary che la guardavano esitanti, in attesa di una sua decisione.

  
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