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Autore: BeGD    13/04/2011    2 recensioni
una fuga d' amore mette scompiglio nel mondo della musica e all' interno dei Green Day. Vecchi rancori emergono nella preoccupazione, mentre la compagna d' avventura di Billie Joe, Eleonora, vive esperienze straordinarie con colui che credeva essere solo un sogno. E' la mia prima ff.. gradita clemenza..
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-portami via di qui..- mormorò lui, sbiancando.

Era incredibile come fosse drammaticamente bello, in quel momento: gli occhi vuoti, trasparenti, trasudavano dolore, imploravano aiuto, cercando, però, di non perdere l’ onore, di conservare l’ apparenza. I capelli ricadevano scomposti a nascondere la fronte, ad accarezzarla e tormentarla. La mano sinistra si agganciò saldamente al braccio esile di Jess, mentre la destra, grondante sangue, copriva convulsamente il taglio nell’ addome.

Jess era immobile, e rivolgeva i profondi occhi scuri al cielo, in cerca d’ aiuto: possibile che Dio non fosse accanto a lei, possibile che rifiutasse di mandarle un’ illuminazione, possibile che.. l’ unica cosa che si sentisse di fare era di portare quell’ uomo a casa sua?

Egoista, ecco cosa si sentiva di essere, la ragazza: egoista perché voleva prendere Billie e portarlo con sé a casa, per averlo tutto suo, egoista perché se ne fregava della sua salute, egoista perché pensava a quanto le avrebbe fruttato in denaro rilasciare interviste su Billie accoltellato che girava per New York.

Doveva portarlo in ospedale, di corsa, avrebbe potuto spirare avvinghiato al suo braccio solo per il suo egoismo e la sua indecisione, doveva farlo curare e lasciarlo ai suoi cari. Ma non l’ avrebbe visto mai più, ne era sicura.

-venga.- gli disse, e lo portò alla sua macchina, parcheggiata in un garage sotterraneo lì vicino.

Vendetta era fatta, ora tutto sarebbe stato più giusto. Ora avrebbe potuto riposare in pace, la sua furia era stata calmata, era stata disciolta nel sangue del suo carnefice. Tutto sembrava avere sfumature diverse, ora, tutto aveva più colori: si avvertivano profumi diversi, si vedevano colori più vivi, come se tutto il mondo fosse più felice, ora. Anche il sangue sul coltello era più rosso, colmo di riflessi, densa vernice che calzava a pennello sul metallo argentato della lama. Che bella, che era, slanciata, aguzza, fiera, si stagliava nella notte brillando di luce propria, come una stella, come una donna impettita nel suo vestito rosso fiammante. Il vestito gocciolava, lento, scandiva i secondi; i secondi di una vita che finiva, ogni goccia toglieva qualcosa. Doveva togliere il respiro, la vista, la voce, i sensi tutti, finchè la vita non sarebbe volata via, voltando le spalle al corpo, inorridita da ciò che aveva compiuto, e pronta alla sua fine.

Era stata l’ ora di porre fine alle sue sofferenze, a quel fuoco che ardeva incessante nel suo petto, che bruciava tutto ciò che incontrava, che non guardava in faccia a nessuno e non risparmiava vittime. Vittime, vittime, vittime che sparivano, si disintegravano, annientate. Stavolta era stata lei ad annientare il suo fuoco, la causa di tanti disastri.

Rigirò il coltello tra le piccole mani e, quasi per caso, ci si vide riflessa: una piccola parte non coperta di sangue, un minuscolo pezzo lucido di metallo, le rimandò un occhio, inconfondibile: l’ occhio della vittima e del carnefice, il filo che l’ avrebbe sempre tenuta legata a chi aveva ammazzato, che sarebbe vissuto con lei. Il verde brillava feroce, mischiato all’ azzurro e venato del nero di quella notte tremenda.

Il parcheggio sotterraneo era illuminato dai neon e pullulava di barboni che dormivano sulla carta, proteggendosi alla meglio dalla notte newyorkese. Accoccolati su se stessi, sognavano una speranza, sognavano che qualcuno li portasse via, via dalla frustrazione, via dalla miseria, via dalla vergogna della loro condizione.

Billie si aggrappava alla ragazza, accasciandosi ogni tanto per il dolore. Era quello che si meritava, e che il colpo gli fosse stato inferto da una persona o dall’ altra non importava: doveva soffrire fisicamente, doveva provare le pene dell’ inferno ancora prima di scenderci, doveva pagare per quello che aveva fatto.

Talvolta, quando si provoca talmente tanto dolore da non riuscire a immaginarlo, quando le sofferenze causate ci permettono solo di essere spettatori delle loro manifestazioni, è bene sperimentarle, anche se solo in parte, sul corpo: è bene torcersi dalle fitte, piangere, credere che non si vivrà più.

Così la pensava Billie, arrivando alla piccola utilitaria di Jess.

-non mi portare all’ ospedale, ti prego..-

-dove vuoi che ti porti?- rispose, esterrefatta, la voce argentina della cubana.

-in un luogo dove possa soffrire a fondo, dove possa capire con quanta forza il colpo mi è stato dato, dove il volere dell’ assassino possa compiersi. Me lo merito, ti prego. Non lasciare che rimanga impunito.-

Fu allora che Jess prese la decisione definitiva. Che cosa le interessavano le interviste, la fama, i soldi? C’ era di mezzo la vita di un uomo, la vita di un uomo che non si poteva gettare al vento per del denaro.

Mentre gli occhi verdi che tanti malanni avevano dato al mondo si chiudevano, stanchi, mentre un sipario morbido calava sul palco della bellezza più assoluta, Jess uscì dal parcheggio, sapendo dove dirigersi.

Il carnefice diventa vittima, la vittima carnefice. Paradosso della vita. Ed è proprio quando ciò accade, quando le parti si invertono, quando la Terra gira attorno alla Luna, quando il disco bianco latte che vediamo la notte si vendica della sua condizione di schiavo che insegue i continenti, che il cerchio si deve chiudere, che tutto deve avere una fine. Ciò che è fatto è fatto, gli errori, gli spargimenti di sangue, le scuse.. è finito il tempo della vendetta.

Il telefono squillò nella piccola macchina. Un nome faceva la sua bella mostra sulla schermata: Glenn. Jess si sentì gelare il sangue, mentre il suo dito indugiava sul tasto di risposta. Se non avesse risposto, sarebbero stati guai seri. Schiava, ecco cos’era: schiava di un uomo che la usava, schiava di un mondo che non le aveva permesso di realizzarsi, schiava di quelle maledette serate in discoteche di periferia. Uscì dalla macchina con le gambe che le tremavano, pronta all’ ennesima umiliazione.

-ehi, negra, tu sei fuori.-

Jess si appoggiò alla macchina, intontita. –che vuoi dire?!-

-sei stata rimpiazzata, c’è una tipa che prenderà il posto tuo, ecco. Sembra pronta a tutto e mi sono scocciato di te.-

-co..com..come sarebbe a dire?! Senti, Glenn, non sono stata abbastanza soddisfacente? Dimmelo, dammi il tempo di fare una cosa e vengo, aggiustiamo tutto, ma, per favore, quel lavoro è tutto quello che ho!-

-senti, cerca di non essere isterica, Livia è una ragazza che ci sa fare. Addio.-

Glenn chiuse violentemente la chiamata, sbattè il cellulare dall’ altra parte della camera e cominciò a dedicarsi a qualcosa di più interessante. La ragazza lo aspettava sdraiata sul letto, completamente nuda. Non aveva altro da fare che approfittarne. La prese, la usò, e lei nulla, non si lamentò. Sorrideva, appariva trionfante, quella era la sua vera dimensione.

-ci sai fare, Livia, domani sera si comincia il lavoro serio..- esclamò Glenn, subito dopo, una sigaretta in mano e l’ aria di chi ha trovato una miniera d’ oro dipinta sul volto.

-non vedo l’ ora.- ammiccò lei, sogghignando e inarcando la bocca in un sorriso felino. Era davvero bella: sbarazzina, dai capelli corti e rosso vivo, le forme perfette, pareva disegnata da uno scultore greco. E sapeva lavorare, soprattutto. Doveva essere abituata a quel genere di prestazioni, conosceva come muoversi. Glenn era convinto che il giro sarebbe impazzito per lei, e con un po’ di polvere bianca avrebbe potuto dare dei festini grandiosi.

-hai esperienza? Nel campo, intendo.-

-ho fatto qualcosa, in Italia.-

Quante cose aveva fatto, Livia, e quanto si era pentita, tempo addietro. Ma che senso ha opporsi, se non si può fare altro nella vita? Che senso ha non seguire il proprio destino?

Poteva sentirlo ancora cantare, poteva sentire ancora la sua voce diffondersi nella sua stanza, anche in quel maledetto aereo. I motori rimbombavano, e fuori dall’ oblò non si vedevano altro che nuvole, soffici, bianche.

Doveva fargliela pagare, doveva raggiungerlo e sbattergli in faccia tutto ciò che aveva fatto, una volta per tutte. Aveva distrutto famiglie intere, quell’ uomo senza scrupoli e senza vergogna. Doveva soffrire, e non le sarebbe importato nulla, se fosse dovuta andare in carcere. Ammazzare l’ uomo che l’ aveva così profondamente ferita era l’ unico modo per porre fine a tutto, e distinguersi, una volta.

Ma Clarissa non sapeva che stava viaggiando invano, che tutti i suoi sogni si sarebbero a breve sbriciolati di fronte alla realtà, e a ciò che era compiuto. Non era destino, e che senso ha andare contro il destino?

 

Jess rimase immobile, impassibile, una statua di cera. Aveva perso tutto, aveva distrutto i suoi sogni con le sue stesse mani. Rifiutare Glenn era stata la sua rovina, ora nessuno l’ avrebbe più presa in considerazione. Glenn era troppo influente, una sua parola contraria e tutto saltava via, ogni volta. Quante vite aveva spezzato, quell’ uomo, quante donne aveva rovinato, quante dignità aveva leso.

Eppure, se Jess avesse accettato di passare con lui quella maledetta notte, se avesse accettato di vendersi, forse sarebbe già stata sulla cresta dell’ onda. Ora si ritrovava con un pungo di mosche in mano, e senza un soldo in tasca. Restava un’ unica cosa da fare: speculare sul corpo dell’ uomo che teneva in macchina, fare delle foto e venderle al miglior offerente. La situazione era disperata, e la ragazza si sentì ribollire le carni quando mise in funzione la fotocamera del cellulare e si voltò verso il sedile dell’ auto.

Ma, lì, non c’ era nessuno. Ed era destino anche quello, che senso ha opporsi la destino?

Eccolo, avvolto in una coperta raccattata in un angolo. Eccolo, alla fine della sua vita. Era nato nella povertà materiale, e stava morendo nella povertà dell’ anima. Aveva cantato la giustizia, l’ amore, ed ora spirava nel rimorso, nella coscienza del male che aveva fatto.  Era la fine.

Quel corpo, bello, sodo, toccato da tante mani e bramato da tante labbra, si torceva, conscio della sua imminente disfatta. Era la fine.

Il sangue macchiava il pavimento, fuggiva dalle membra, liquido, inchiostro rosso e rovente; quanti respiri aveva trasportato, quanta adrenalina si portava via seccandosi sul cemento. Era la fine.

E quegli occhi, lucidi, vivi, quegli occhi stregati, colpevoli di tutto, quegli occhi che avevano incantato, istigato, violentato, imprigionato, quegli occhi che avevano portato persone alla rovina, quegli occhi che mai nessuno avrebbe dimenticato, quegli occhi che avrebbero rincorso per sempre le loro vittime, quegli occhi che non si sarebbero mai più rivisti su nessun uomo, quegli occhi capaci di cambiar colore nel giro di un secondo si chiusero, straziati, incapaci di bagnarsi di nuovo di vita. Era la fine.

E i capelli, ribelli, scompigliati, che avevano inseguito tanti venti e si erano venduti alla brezza di mare tante volte, quei capelli che parevano sempre voler volare via, raggiungere il sole, giacevano nella polvere, abbandonati, spenti, opachi. Era la fine.

Aveva deciso di morire così, Billie, aveva deciso di non salvarsi, di non tentare di riprendersi la sua vita. Aveva provocato troppi dolori, per continuare a vivere. Sarebbe stato meglio se lui non fosse mai nato, ma almeno valeva la pena di farla finita.

Se ne era andato via senza scandalo, senza far rumore, si era confuso con la gente trasparente, quella cui mai nessuno volge uno sguardo. Era volato via in punta di piedi.

E quando, la mattina dopo, quel barbone nel parcheggio sotterraneo non voleva svegliarsi, tanti lo chiamarono, tanti gli urlarono gli insulti più atroci. Ma lui no, lui non si muoveva, rimaneva nel suo giaciglio improvvisato.

In realtà, non c’ era più da tempo, e solo una frase accompagnava il suo cadavere: “che senso ha andare contro il destino?”.

 

   
 
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