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Autore: Astrid    22/04/2011    4 recensioni
“E' l'alba. S'illumina il mondo come l'acqua che lascia cadere sul fondo le sue impurità. E sei tu, all'improvviso tu, mio amore, nel chiarore infinito di fronte a me. Giorno d'inverno, senza macchia, trasparente come vetro. Addentare la polpa candida e sana d'un frutto. Amarti, mia rosa, somiglia all'aspirare l'aria in un bosco di pini. Chi sa, forse non ci ameremmo tanto se le nostre anime non si vedessero da lontano non saremmo così vicini, chi sa, se la sorte non ci avesse divisi. E' così, mio usignolo, tra te e me c'è solo una differenza di grado: tu hai le ali e non puoi volare io ho le mani e non posso pensare. Finito, dirà un giorno madre Natura finito di ridere e di piangere, e sarà ancora la vita immensa che non vede non parla non pensa.”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hermione Granger, Severus Piton
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Dedicata a marpy, per l'ultima splendida recensione che mi ha lasciato, e che mi ha dato l'ispirazione per farmi scrivere questa shot tutta d'un fiato. Grazie, perchè mi sento un po' più libera.

Rubai

E' l'alba. S'illumina il mondo
come l'acqua che lascia cadere sul fondo
le sue impurità. E sei tu, all'improvviso
tu, mio amore, nel chiarore infinito
di fronte a me.

Giorno d'inverno, senza macchia, trasparente
come vetro. Addentare la polpa candida e sana
d'un frutto. Amarti, mia rosa, somiglia
all'aspirare l'aria in un bosco di pini.

Chi sa, forse non ci ameremmo tanto
se le nostre anime non si vedessero da lontano
non saremmo così vicini, chi sa,
se la sorte non ci avesse divisi.

E' così, mio usignolo, tra te e me
c'è solo una differenza di grado:
tu hai le ali e non puoi volare
io ho le mani e non posso pensare.

Finito, dirà un giorno madre Natura
finito di ridere e di piangere
e sarà ancora la vita immensa
che non vede non parla non pensa.

( Nazim Hikmet, Rubai )

È perché ti guardo e credi che io ti veda solo da lontano.

È perché quando ti sfioro credi che lo faccia soltanto per errore, e quando chiami il mio nome non sai che per me in esso si protegge un segreto.

Quando parlo di te, mi sembra sempre che le mie parole anneghino in un mare le cui onde trascinino lontano, pericolosamente lontano da una riva di terraferma, dalla sabbia che si può toccare e percorrere e calpestare, e piuttosto viaggino invece oltre un oceano che scivola tra le dita, che sfugge e che ghermisce e che talvolta, quando la sua bellezza si sottrae all’attenzione razionale dello sguardo che la contempla, è capace di sommergere e sopraffare sino a togliere il respiro, e far annegare.

Mi guardo bene dal lasciarmi prendere troppo la mano. Mi costringo a tacere e a parlare per metafore che sono la sola a comprendere – a trattenere un respiro spezzato al suono del tuo nome, ad impedirmi di raccontare il vero motivo per cui luoghi come la foresta, il lago nero, la sezione proibita della biblioteca, sono diventati per me una sorta di santuario.

Dalla finestra del mio dormitorio riesco a scorgere ancora la grande quercia le cui fronde nascondono ai miei occhi ciò che la mia mente può ancora vedere. Ci sono due persone che si respirano l’un l’altra, le lacrime di una che l’altro non vede, uno sguardo cupo che uno vela sotto palpebre stanche che l’altra bacia tremando di un timore ineffabile. Ma i boschi giacciono bui oltre le mie memorie. Tutto torna distorto, chiaramente illuminato, fastidiosamente iridescente sotto le luci del mattino che penetrano dalle ampie vetrate dell’aula. Ho il terrore che ogni mia movenza sotto la luce del sole, tu la possa ben vedere e percepire come un’eco spaventosamente reale di un sogno distante – di una memoria perduta nella lontananza del tempo, fra le pieghe oscure degli anni che ti hanno rubato le parole e reso solo sospiri stanchi e sguardi opachi, quasi non potessero vedere nulla al di fuori di ciò che stanno realmente cercando. Tu non cerchi me – eppure mi trovi e quando lo fai è il mare all’orizzonte che guarda la spiaggia da lontano, e a poco a poco con un’onda si avvicina.

Credo che mi manchi così fortemente la presenza del mare qui a Hogwarts, che non posso fare a meno di trovare un mio oceano dentro di te. Ho creduto inizialmente che si trattasse di questo. Ho aspettato, per anni sull’irta scogliera del mio sentimento, che la grande onda mi si scagliasse contro e mi inglobasse nell’abisso. Ma anche questa era, in qualche modo, paura. Non ho fatto altro che attendere e contemplare – attendere e contemplare e cercare di contenere nel mio sguardo la visione di qualcosa in cui non avevo il coraggio di tuffarmi. Credendo di contemplare l’impetuosità del mare non facevo altro che guardare lo specchio di una mia emozione.

Poi un giorno ho capito.

Ero lì in piedi, ad aspettare come sempre che un’onda mi travolgesse. Ho immaginato di essere nel mio oceano. C’è un posto, al limitare della foresta, appena prima che il buio inghiottisca le fronde. Il vento che danza fra le piante al crepuscolo, in quel punto si insinua fra le foglie quasi arpeggiasse una melodia silvana – ed estraniandosi dall’espressione visiva percepita dagli occhi, si ha come l’impressione di trovarsi in mare aperto. Giuro che quel fruscio emula il suono esatto delle onde del mare. È stato allora, che ho capito. Ho capito di essere il mare. Sei tu la spiaggia che l’onda raggiunge, ghermisce, fonde con sé; sei il perpetuo paradosso che tace. Così io ti scrivo il silenzio – ti guardo ascoltare – e uno sguardo di uno sguardo si nutre – e il silenzio il silenzio divora. C’è musica, nella voce che non vibra, e c’è un fervore nel respiro che muore. La mia bocca si schiude e lo fa per tacere. Per te vorrei essere qualcosa di più di un’onda che giunge per recarti la frescura di un abbraccio, evocando il ricordo di un affetto lontano. Non so come impedirmi di evocare in te il pensiero di un contatto che hai perduto e i cui connotati ritrovi in questo mio continuo andare e venire – nel mio tentativo di starti lontana che tu sai essere vano, e nel mio immancabile venir meno per scivolare ancora una volta verso di te, riversandoti addosso tutto il mio sentimento che tace. Taccio perché non so trovare le parole perfette per dirti ciò che disperatamente tento di esprimere. Taccio perché non ci sono parole che io possa inventare per farti capire quanto ogni mia sicurezza vacilli dinanzi al tuo viso, e ogni mia più profonda parola svapori nella più impalpabile evanescenza se solo si sfiora con le labbra il tuo nome. Non voglio essere l’onda le cui impronte sul lungomare durino solo sino alla prossima carezza del vento. Vorrei essere l’orma che l’acqua non può cancellare, né la sabbia coprire – vorrei essere l’albatro che si libra sul mare sino a inspirarne lo spirito e fonderlo col proprio.

Vorrei rubare tutto di te. I tuoi occhi per restituirteli diversi, con una nuova luce. Le tue labbra per recare loro un sorriso. Le tue mani per ridartele solo dopo averle baciate. Rubai forse in una notte lontana qualche tuo respiro. Sono respiri che custodisco ancora gelosamente dentro di me. Chi sa, forse non ti amerei tanto se le nostre anime non si vedessero da lontano; non saremmo così vicini, chi sa, se la sorte non ci avesse divisi.

È così, Severus, tra te e me c’è solo una differenza di grado: io ho le ali e non posso volare, tu hai le mani e non puoi pensare. L’insegnamento che ho tratto da te va oltre qualunque banco di scuola, e ti giuro che un giorno troverò le parole perfette per dirti quanto sia stato importante, quanto mi abbia cambiato scoprirti un giorno più debole, umano e meraviglioso di tutti gli altri.

Allora sarà ancora la vita immensa, che non vede, non parla, non pensa.

Hermione

  
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