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Autore: Dew_Drop    24/04/2011    2 recensioni
Dal primo capitolo,
"Un foulard verde raggomitolato in un angolo, timido nella bianca luce d'estate, che se ne stava a fissarmi dal suo nero nascondiglio"
Bristol, Inghilterra: Aiolia Iracà, un ragazzo come tanti, dovrà condividere l'esistenza terrena con un nuovo, scomodo coinquilino. La storia di come un fazzoletto di seta verde gli abbia cambiato la vita.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Leo Aiolia, Virgo Shaka
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Parte quarta - De Tactu




Parte quarta - De tactu



Era una bella mattina d'estate.
La classica apertura di una favola a lieto fine, direte voi; ebbene, la stessa sensazione di tranquillità l'ebbi anch'io quando scostai le tende e la luce del dì bristoliano mi trafisse gli occhi ancora intorpiditi dal sonno. Ma cambiai decisamente umore quando, una volta seduto in cucina a sorseggiare del latte fresco, un qualcuno che non subito riuscii ad identificare mi piazzò davanti agli occhi il volantino di una mostra d'arte.
La scritta "Arnolfini, Monet's Art Exhibition [1]" troneggiava su un tripudio di colori.
A momenti mi scappò la tazza di mano. I musei non mi piacevano
(e intanto il latte mi si rovesciò nello stomaco con la violenza del Diluvio Universale)
e mai avevo avvertito la necessità di cambiare regola.
- Una bella mostra di Monet all'Arnolfini, signor Iracà - mi punzecchiò una voce che ben conoscevo.
Sbatte teatralmente le ciglia con l'espressione più inebetita possibile e le labbra mi si schiusero appena: - Camus Giraud.
- A rapporto.
- Si può sapere che ci fai a casa mia alle sette del mattino? Non mi pare d'averti concesso il trasferimento.
- Non mi sono trasferito, appunto. Mi sono invitato.
Gli scoccai un'occhiataccia e lui lasciò il volantino sul tavolo scivolando a sedere sulla sedia di fronte alla mia. - Allora non ti va?
- Cosa?
Camus mi fece un cenno: - La mostra d'arte. Quella su Monet.
- Sai benissimo che i musei mi stanno sullo stomaco - risposi secco, e ritornai a dedicare tutta la mia attenzione al latte fresco che mi aspettava nella tazza. Ma evidentemente il francese non aveva intenzione di battere in ritirata, perché accavallò le gambe, appoggiò il mento sul pugno chiuso, inclinò la testa di lato e mi sorrise con squisita ipocrisia.
Modalità Maestrino attivata.
- Aiolia, verrò anche io...
- Rimango molto interessato.
- ...forse anche Delgado.
- Cento punti in più, certo.
- Ah, dimenticavo -, e qui sfoderò un sorrisetto angelico che mi fece accapponare la pelle, - vuole venire anche Sha.
La mia fu una reazione alquanto assurda perché fui costretto ad allontanarmi la tazza di bocca per evitare di sbrodolarmi il mento. Mi concessi un colpo di tosse, mi asciugai le labbra con la manica della camicia e tornai negli occhi di Giraud, che aspettavano pazientemente una mia parola; e quella fu:
- ...prego?
- Shaka Mudaliar, il tuo coinquilino - mi spiegò lui con il tono più rilassato del mondo. - Appena gli ho detto della mostra, ieri, si è subito interessato. Vorrebbe andarci.
- Ma... non credo proprio che un museo sia il posto adatto per uno come lui.
Mi sentii in imbarazzo, ma il mio Ego si giustificò con la benevola convinzione d'essere statao sincero. Portare un cieco ad una mostra di Monet era per me una sorta di colmo, dopotutto. Camus dovette leggermi nella mente perché gli sfuggì una risata e si alzò:
- Tranquillo che gli piacerebbe in ogni caso, ne sono sicuro. Allora?
Guardai prima lui e poi il volantino.
- Quando? - domandai senza spostare gli occhi dalla scritta.
- Anche questo pomeriggio - lo sentii rispondere.
- Allora va bene.
- Ma non hai una partita di baseball, oggi?
- Sul serio?
Il mio tono era quasi ironico. Alzai gli occhi nei suoi e gli mostrai che stavo sorridendo.
- Non ha importanza. Vada per il museo - conclusi.



Dovetti immergermi nel guardaroba di mio padre per trovare qualcosa di convincente da indossare. La mia mente non si era mai posta domande sul "come" attinente ad un certo ambiente,
(ti ricordi quando sei andato in chiesa col costume addosso, Aiolia Iracà?)
eppure in quel momento sentivo l'impellente bisogno di armonizzarmi con quanto mi sarei trovato attorno. E così come non si poteva andare in un pub in giacca e cravatta, così non si poteva entrare in un museo in bermuda. A onor di cronaca, forse quella fu la prima volta in cui cominciai a capire l'importanza dell'abbigliamento. Probabilmente la colpa era in gran parte di Camus Giraud, che in ogni occasione riusciva a sposarsi con l'habitat in cui si trovava ad essere protagonista: la sua fede nuziale vincente? I vestiti. Mai una volta che sbagliava un accento su ciò che indossava. Quel francese, ecco, era lo sposo perfetto per ogni tipo di ambiente.
Un poco lo invidiavo. Probabilmente fu proprio la gelosia a buttarmi nel guardaroba di mio padre in vista della mostra di Monet. Ne pescai un bel completo bianco, una camicia azzurra e un bel paio di mocassini da figlio di papà. Non che mi piacesse passare per tale, ma il problema era che nella mia stanza avrei trovato solo qualche scarpa da tennis divorata dal tempo.
- I capelli - mi ammonì Camus una volta che fui davanti allo specchio a parete. Gli lanciai uno sguardo da cane bastonato e gli soffiai letteralmente addosso:
- Hanno qualcosa che non va?
- Non si sposano con quanto indossi.
- Per me è già tanto essermi infilato questa roba.
- Pettinali all'indietro. Una foresta tropicale che domina su una prateria ordinata ed impeccabile non è certo un bell'abbinamento.
Feci come mi era stato detto. Non avevo voglia di bisticciare e in poco meno di mezz'ora, piazzato com'ero davanti allo specchio, vidi un altro me. Mi sentivo scomodo nelle fattezze del bravo ragazzo figlio di un avvocato, ma il sorrisetto appagato di Camus Giraud mi confermò che ero perfetto.
La mostra d'arte che mi aspettava non stuzzicava i miei sensi da nessun punto di vista. Eppure, il tempo di sedermi sui sedeli posteriori della macchina del francese e già l'idea non mi dispiaceva.
Avrei potuto vincere l'oro alla gara di Cambio Idea Troppo Velocemente.
L'Arnolfini distava un poco da casa mia, forse una ventina di minuti di viaggio. Ci ero già stato parecchie volte per visite scolastiche, ma mai per conto mio. Speravo tanto che nessuno dei miei conoscenti mi vedesse ridotto così, un biondino infilato in un completo da cerimonia, con i capelli diligentemente pettinati all'indietro e un francese dalle ambigue preferenze sessuali alla guida della macchina su cui viaggiavo. Per non parlare del cane, Diego: Shaka aveva voluto portarselo dietro e io ovviamente non seppi dirgli di no; soprattutto non quando, per tutto il tragitto verso il museo, proprio lui si era concesso un angelico pisolino sulla mia spalla ed io avevo finito col passargli un braccio attorno alle spalle per farlo stare più comodo.
Ogni tanto Camus Giraud sbirciava dallo specchietto retrovisore e quando me ne accorsi optai per un bel medio alzato. Ironico ed affettuoso, s'intende, perché il rosso cominciò a ridere e riprese da bravo a guidare. Quella fu anche la prima ed unica volta in cui Diego, su mia gentile concessione, poté spaparanzarsi sul sedile e sonnecchiare contro lo sportello.
Stavo diventando veramente troppo buono, eppure la cosa non mi dispiaceva.



Scesi dalla Mercedes e mi fermai con il braccio steso sulla portiera. L'Arnolfini non era cambiato di una virgola dall'ultima mia visita
(Forse quella volta avevo scorto uno Pterodattilo appollaiato sul cornicione?)
e la facciata era della zuccherosa eleganza tipica di ogni museo che si rispetti. Nell'atmosfera invasa dal chiacchericcio dei turisti pescavo i gridi dei gabbiani e l'asprigno profumo del mare, accompagnati dal cozzare degli alberi maestri nel porto poco distante.
Diego rotolò buffamente dallo sportello aperto e cominciò a ronzarmi tra le gambe con atteggiamento impaziente. La luce del pomeriggio era così invadente che dovetti schermarmi gli occhi con la mano nel rivolgermi a Camus, smontato in quell'istante dal posto di guida:
- Giraud!
- Ouais mon cher [2]?
- Non possiamo certo portarci dietro il cane, nel museo.
Lui rise mentre si infilava la giacca. - La domanda ti ronza in testa da un bel po', eh?
- Come?
- Starò fuori io con lui - mi rispose rifilandomi un sorriso, e fece cenno al museo con un movimento del capo. - Tu e Sha andate pure, io porterò Diego a passeggio nel parco qui vicino.
Mi venne voglia di strozzarlo. Richiusi lo sportello con un botto e Diego fece appena in tempo a ritirare la coda con un mugolio di disapprovazione.
- Mica la mostra ti interessava, Cam?
- Qualcuno deve pur badare al cagnone - disse facendo girare la chiave. E poi aggiunse immediatamente un: - Ici Merveille... [3]! -, pescando il cane per il guinzaglio e allontanandosi con lui al trotto. A me dedicò solo una scarna sventolata di mano. 
Seguii con gli occhi il Labrador con l'estatica attenzione del padre che sbircia la figlia ed il nuovo fidanzatino, finché cane e francese non scomparvero nel vialetto del parco dall'altra parte della strada.
Merveille. Preferivo non sapere cosa significasse. Lasciai che Shaka mi prendesse a braccetto, com'era solito fare, e insieme ci tuffammo nel trafficato fiume di visitatori che scorreva borbottante fino all'ingresso.




 
E' assurdo come, in un'esperienza che a primo tatto ci pare subito scomoda ed insignificante, si riesca inaspettatamente a trovare uno spunto interessante. Anche oggi mi ritrovo a pensare che quella visita al museo fu proprio un'esperienza del genere. Ebbene, quel giorno l'unico accento degno di attenzione lo posi su un aspetto che mai mi sarei aspettato di prendere in considerazione; un aspetto che non c'entra nulla con Monet ma che mi interessò più della mostra.
L'atteggiamento di Shaka Mudaliar. Fu spaventoso realizzare che lui vedeva meglio di me i quadri davanti cui ci soffermavano. Lui vedeva e io mi limitavo a guardare. Leggevo sul suo volto l'espressione di chi veramente si trova in un campo di grano, o su un ponte immerso nel verde, mentre io, pur possedendo certo il senso della vista, riuscivo a malapena ad apprezzare i colori di quel che avevo di fronte.
Tra i due quella volta il cieco fui io. Non capivo come fosse possibile partorire un pensiero del genere,
(Lui non vede, non vede, Aiolia!, non può vedere!)
eppure questa scomoda consapevolezza mi si arrampicava sulla schiena e mi stritolava lo stomaco. Quando lo vedevo sorridere capivo che non era perché io ero al suo fianco, ma perché Monet, senza parlare e senza essere fisicamente presente, riusciva a fargli vedere nonostante quelle palpebre eternamente abbassate.
Eravamo seduti su una cassapanca imbottita, faccia a faccia con "La Promenade sur la Falaise [4]", quando lui, con la braccia abbandonate sulle ginocchia e un candido sorriso a fior di labbra, mormorò:
- Mi sembra di non conoscere questo quadro, Aiolia.
- No? - mi agganciai io in un bisbiglio, sotto l'ordine delle luci abbassate e del religioso silenzio che dominava in quell'angolo di mondo. - Ne sei sicuro?
- Sicurissimo.
Ora che osservavo meglio, colsi sul suo volto un'espressione quasi perplessa. Il quadro allora non lo conosceva proprio.
- "La Promenade sur la Falaise" - gli dissi, facendo ricorso alla mia scarsa abilità con il francese. Shaka negò appena con il capo:
- Zero assoluto.
- Se vuoi provo a descrivertelo.
Abbracciai il suo silenzioso assenso e mi umettai le labbra. Sapevo cosa dovevo fare: se lui riusciva a vedere ad occhi chiusi, io avrei fatto la stessa cosa.
- E' caldo. C'è un poco di brezza, ma giusto un poco, Sha, e profuma d'estate. Ma non di quella di Bristol, è un'estate più frizzante, che si trascina verso l'autunno portando con sé il profumo delle campagne. Siamo su uno spuntone chiazzato di fiori di campo, davanti al mare. Ti dirò -, e mi sfuggì una lieve risata, mentre i miei occhi guizzavano a cogliere il sorriso soddisfatto di Shaka, - non so che mare sia, ma ci sono tante schegge di schiuma bianca. Un paio di onde. Non siamo in alto, il loro accavallarsi ci tuona nelle orecchie. Sotto di noi prende il volo la salsedine.
- Ho paura di cadere.
- Il cielo è limpido, chiazzato da nuvole. Sembra troppo vicino, non ci permetterà di cadere.
- Che mi dici dei fiori?
- Rossi, viola... ma adesso che mi chino e tocco bene, gran parte dell'erba è fulva.
- E' quasi autunno, allora avevi ragione.
- Già, e si è alzato il vento. Lo vedi, l'orizzonte?
- Da qui sembra vicinissimo.
- Allora restiamo un po' qui a guardarlo?
- Aspetta Aiolia. La brezza si è fatta più birichina.
Lo vidi ridere. Mi sentii benissimo. Gli passai un braccio attorno alle spalle e gli permisi di accoccolarsi a me. Fui meravigliato di cogliere, al contatto con la sua pelle,  i brividi di freddo che gli rotolavano sulla carne.
Trassi un respiro e rimasi con lui sullo spuntone erboso.
I fiori di campo.
Il mare.
Il cielo e le soffici nuvole.
Alla fine un po' di freddo venne anche a me, ma non smisi di sentirmi in Paradiso.



Uscimmo dall'Arnolfini solo verso sera. Una volta fuori mi stupii nel vedere Shura Delgado intento a stropicciare il musone di Diego, che a sua volta uggiolava mielosamente e sferzava l'aria con la coda. Il tramonto di Bristol si scioglieva allora in deliziose sfumature rosso-arancioni nel porto e dietro le fronde delle querce.
- Buonasera Aiolia - mi salutò Shura lanciandomi un sorrisetto da bravo ragazzo al di sotto dal basco a scacchi. - Giretto al museo?
- A quanto pare. Tu che ci fai qui?
- Ho incrociato Giraud al parco, tutto qui -, e poi si drizzò in piedi e si stiracchiò la schiena. - Interessante, il Monet?
- Non male - fu la mia schiva risposta.
Shaka, che aveva pescato dal mio tono una nota di apprezzamento, mi sorrise di striscio e scivolò a sedere nell'abitacolo. Io mi occupai di sbrigliare il guinzaglio di Diego e di trascinarlo in macchina contro la sua volontà, dal momento che sembrava più intenzionato a festeggiare l'incontro con il suo padrone originario che a fare il bravo cagnone. Quando riuscii nell'impresa, richiusi lo sportello e me ne stetti fuori, appoggiato sul cofano, a fumarmi una Philip Morris prontamente offertami da Delgado.
Parlammo un po', io e lui, con il fumo a fiorirci sinuoso dalle labbra. A dire il vero saltammo su tutte le giostre rinunciando a quella di nome "Aiolos Iracà", perché ben sapevo che lo spagnolo mal avrebbe sostenuto un discorso del genere, ed io non potevo certo biasimarlo. Giraud fu gentile nel concederci una completa pausa sigaretta e mi fece saltare in macchina solo dopo ch'ebbi schiacciato per terra l'ormai consumato spuntino. Così salutammo Shura e ritornammo vittoriosamente a casa, giusto in tempo per una bella cena a base di spaghetti all'italiana. Immancabilmente, Camus si trattenne con noi fino a tardi, quando finalmente levò baracca e burattini e rimontò sulla Mercedes.
Quando mi infilai in doccia, quella stessa sera verso le dieci, la mia mente era già scappata al mondo dei sogni. Mi pareva di aver pensato troppo e i miei neuroni, ubriachi di stanchezza, si aggrappavano alla massa cerebrale per non cascare nel regno di Morfeo. Mi stavo asciugando i capelli con un asciugamano quando sentii la porta della mia camera aprirsi. Arricciai le labbra, sfidando l'espressione incuriosita del me stesso riflesso allo specchio, e mi infilai una canottiera e dei pantaloni acciuffati a casaccio prima di lanciare un'occhiata fuori dal bagno.
- Uhm? Sha?
Shaka si era appena seduto sul mio letto ed aveva alzato il capo al sentire la mia voce.
- Scusami Aiolia - mi rispose allungando un sorriso chissà perché imbarazzato, - volevo solo farti vedere una cosa. Non ti ho disturbato, vero?
- Tranquillo - lo benedìì io, e mi richiusi in bagno giusto il tempo di buttare l'asciugamano sul mobile prima di fare capolino in camera e sedermi di fronte a lui a le gambe incrociate: - Dimmi tutto.
Eravamo accomodati faccia a faccia come dei bambini che giocano ai pirati, io con le mani artigliate alle caviglie e lui immobile, a guardare il vuoto, anzi no, a guardare me, senza rinunciare a quel suo serafico sorriso. Allungò verso di me quella che sembrava una superficie solida velata dal foulard verde.
- Dove lo hai preso? - gli domandai a bruciapelo.
- Chi? Cosa, Aiolia?
- Il foulard.
- Era nel taschino interno del completo che hai indossato oggi. Deve aver sentito anche lui tante cose interessanti, all'Arnolfini.
- Sì... forse.
Certo che era come essere bambini. Parlavamo piano, consapevoli dell'ora tarda,
(orecchie rizzate al benché minimo suono di passi sulle scale, attenti a mamma e papà!)
con la luce del lampadario che ci pioveva addosso e teneva ben lontana l'oscurità della notte estiva in cui fischiavano le cicale e qualche clacson lontano.
- Ha tante cose da dirci - riprese Shaka sempre tendendomi l'oggetto velato.
- Il foulard?
- Sì, lui.
- Secondo me ha origliato parecchio.
Lui rise. In quel momento la sua pelle mi parve improvvisamente più pallida. Fu una sensazione orribile, ma non volli darle peso. Così sorrisi e aggiunsi:
- Cosa volevi farmi vedere?
- La vista, Aiolia - attaccò lui affilando appena il tono di voce, che pur rimase soffice e carezzevole, - non è altro che la somma di tutti gli altri sensi. Ciò che vediamo è esattamente ciò che sentiamo, tocchiamo, odoriamo e gustiamo allo stesso momento. E tutte queste sensazioni formano la capacità elaborativa del nostro cervello.
- Sha, che stai...?
- Ecco perché io vedo. Purtroppo gli esseri umani abusano troppo della vista e tendono ad emarginare gli altri sensi. Qusto mondo è costruito sulle fondamenta dell'esteriorità, te ne sei reso conto?
- Sha, ma...? Sì.
La risposta mi uscì spontanea. Mi sentii a disagio e non seppi il perché.
- Ti insegnerò a vedere - mormorò Shaka, e mi prese per mano. Era un tocco delicato e freddo.
Morto.
Il primo istinto fu quello di allontanarlo, ma qualcosa dentro di me ammansì questa mia reazione sconsiderata. Lasciai che guidasse le mie dita sulla superficie velata e stendesse il palmo sul dorso della mia mano. Allora avvertii del calore.
Mi sentii subito meglio.
- Cosa vedi, adesso? - mi domandò in un bisbiglio, inclinando il capo e sorridendo mite.
Sostenni per un istante il suo sguardo. Le mie iridi tremavano appena.
Stupido me.
Poi abbassai gli occhi sul foulard, o meglio, su ciò che il foulard copriva. Premetti le labbra in un gesto di intensa perplessità prima di rispondere:
- Sento il mare. Avverto i fili d'erba sotto le mie dita. Il profumo della salsedine nelle narici. Il gusto rustico dell'autunno sul palato. Vedo -, e in quel momento mi percorse un brivido, un fremito incondizionato mi solleticò le corde vocali: - ...vedo che l'orizzonte è troppo vicino.
Allora Shaka chiuse la mano sulla mia e mi sorrise. Era un sorriso meraviglioso. - Se ci teniamo per mano non cadremo - mi disse.
Quelle parole le ricordo ancora.
Ricordo tutto di quel momento.
Indimenticabile il formicolio che mi velò lo sguardo. Indimenticabile proprio come le sue labbra di pesca sulle mie, come la melodia del nostro silenzio, le carezze delle nostre lingue, il profumo della sua pelle, il gusto della sua saliva.
Il foulard scivolò via delle nostre mani quando mi lasciai avvolgere da quel momento e mi coricai con lui.
Sotto al verde del fazzoletto, a sbirciarci taciturno, c'era l'orizzonte della Promenade sur la Falaise.





Nel salotto di casa Iracà...

Signore care, eccovi il regalo di Pasqua! Era anche ora, contando che sono estremamente in ritardo. Ho avuto un problema all'occhio, un sacco di studio, un nuovo anime da seguire... insomma un sacco di distrazioni XD
Alors, cominciamo con il dire che il capitolo mi è scivolato via dalle dita come petali al vento, nel senso che avevo già tutto in mente e quindi non è stato particolarmente impegnativo. Spero sia di vostro gradimento, e come al solito chiedo venia per eventuali errori/orrori di battitura **
Il prossimo sarà l'ultimo capitolo, credo più corto degli altri, e avrà titolo "de visu", ergo la tanto sospirata vista! °v°
Ecco a voi le note, cui aggiungo anche il quadro di Monet, "La Promenade sur la Falaise", uno dei miei preferiti ** Auguri di buona Pasqua!
Fe'

NOTE

Arnolfini, Monet's Art Exhibition [1] - Arnolfini (museo d'arte di Bristol), mostra d'arte di Monet.
"Ouais mon cher?" [2] - "Sì mio caro?"
"Ici Merveille...!" [3] - "Qui Meraviglia...!", riferito al cane.
La Promenade sur la Falaise [4] - quadro di Monet


A



 





   
 
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