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Autore: NeverThink    01/05/2011    6 recensioni
Ferma, lì, persa nei ricordi, guardavo la sedia a dondolo, rovinata dal tempo e dall’umidità. Ferma, immobile, fredda.
L’immagine dai caldi e vividi colori fu rimpiazzata da quella realtà cruda, desolata e piena di struggente dolore e malinconia.
Mi avvicinai alla sedia a dondolo e la sfiorai con i polpastrelli. Sentii le venature del legno sotto la pelle.
Sorrisi, consapevole che non appena mi sarei rifugiata in camera, circondata dalle pareti che un tempo furono la sua dimore segreta, sarei scoppiata a piangere.
«E tu chi sei?»
«Importa?»
«Quello è il mio posto.»
«Oh. Non vedo scritto il tuo nome.»
«E’ il mio posto da sempre. Lo sanno tutti.»
«Ed io ti ripeto che qui sopra non c’è scritto il tuo nome. Finché non trovo scritto il tuo nome io non mi muovo di qui.»
Il sorriso, prima o poi, torna.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart, 
when there is no light to break up the dark 
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I 
can't find my way home anymore 
that's when I look at you.

 

 

 

Capitolo diciassette.
Lilian.


Con le mani affondate nella tasche della giacca mi diressi verso casa.
Nella mia mente i pensieri vorticavano frenetici, giravano in mulinelli, come foglie autunnali carezzate dal vento. Immagini si susseguivano sulla palpebra del mio occhio, ogni qual volta le sbattevo. Vedevo conchiglie, Diane, Cassie… David. La sua immagine non faceva che mettermi in agitazione e, per quanto odiai doverlo ammettere, mi intimoriva.
Paura. Ma paura di cosa? Di sbagliare ancora? Di lasciarmi andare? Dimostrare che mio padre aveva ragione, che avrei accettato tutto questo e continuato una vita che non mi apparteneva? Ma, forse, era proprio questo il punto: il mio orgoglio. Quel maledettissimo orgoglio ereditato da mio padre. E in quel momento l’unica cosa che avrei davvero voluto scoprire era: che ruolo avesse David.
Per qualche inspiegabile motivo, la sua compagnia non mi era dispiaciuta. Per qualche assurdo motivo, in quella cucina, l’uno di fronte all’altra, legati da un cordoncino ed una conchiglia avevo la sensazione di conoscerlo da anni… anche se, in effetti, in parte era così. Tutto era diventato facile. La sua pelle calda sotto le mie dita, i suoi occhi sinceri e gentili, il suo sorriso cordiale. E l’irritazione, l’antipatia erano svaniti, come non ci fossero mai stati. E, per questo, ne ero terrorizzata.
Accettare tutto, a che costo? A che prezzo?
Scossi il capo, cercando di cancellare i numerosi pensieri e alzai gli occhi al cielo, alle nuvole azzurre e grigie, desiderosa di sgombrare la mente… ma non ci riuscii.
Sbuffai, irritata da me stessa, e, scuotendo il capo, mi morsi il labbro inferiore chiedendomi cosa sarebbe accaduto il girono seguente. Cosa sarebbe accaduto a scuola, cosa sarebbe accaduto a casa di David, come si sarebbe comportato lui, Diane.
Basta!, mi rimproverai.
Salii le scale della veranda e le assi del pavimento scricchiolarono sotto il mio passo leggero. Girai la maniglia ed entrai, sfilandomi la giacca e poggiandola sul mobile a sinistra.
«Lily?»
«Sì, nonna, sono io.» risposi dirigendomi in cucina. Sbirciai in salotto, non c’era nessuno.
«Il nonno e papà?» chiesi poggiandomi allo stipite della porta ed incrociando le braccia al petto.
«Sono passati al supermarket.» rispose sorridendo. Indicò la ciotola che teneva stretta fra le braccia. «Vuoi assaggiare?»
Corrugai la fronte e mi sporsi appena in avanti. «Cos’è?»
«Pastella al cioccolato.»
Mi morsi il labbro inferiore e mi avvicinai cautamente, con lo sguardo della nonna fisso sul mio viso. Esitai prima di affondare l’indice nella pastella e portarmelo alla bocca. Chiusi gli occhi, gustandone il sapore.
«Ti piace?» chiese in un risolino.
Aprii di scatto gli occhi ed esclamai: «Sì!» poi affondai ancora il dito nella pastella e mi nonna mi diede un buffetto sul dorso della mano.
«Fila via, signorina!» ridacchiò prendendo una teglia.
Risi, sedendomi sul piano della cucina. Mia nonna, che reggeva la ciotola con un braccio, si voltò e guardarmi con espressione sorpresa.
«Cosa c’è?» chiesi confusa.
I suoi occhi scrutarono per attimi interminabili i miei, poi sorrise scosse piano il capo.
«Nulla.»
Sospirai. «Avanti, parla.»
Scosse il capo.
«Dai.»
Lei si voltò e rispose, titubante. «Sembri felice.»
Quelle parole mi travolsero e mi sentii in colpa. Lei non aveva colpe. Lei non era responsabile di nulla. Le avevo fatto del male, l’avevo ferita.
E, d’un tratto, non potei non chiedermi chi stessi diventando. E il ricordo di mia madre mi colpii in pieno viso, mozzandomi il respiro e lacerandomi il cuore. Lei non avrebbe mai voluto che mi comportassi così, non avrebbe mai voluto vedermi in quello stato, non avrebbe mai voluto che mi… facessi del male.
Feci una smorfia di dolore, piegandomi su me stessa, poggiandomi una mano sul ventre.
La nonna lasciò la ciotola e si avvicinò preoccupata.
«Lily, cosa succede?» mormorò spaventata, carezzandomi il capelli.
Alzai il capo e guardai i suoi occhi, così simili a quelli della mamma, così simili ai miei.
Sentii le lacrime pungermi gli occhi e dovetti sbattere più volte le palpebre per cacciarle via.
«Lily…» gemette la nonna.
Perdonami, mamma.
«Ti voglio bene, nonna.» mormorai, lasciandola senza fiato.

L’acqua calda mi accarezzò il corpo, mi distese i nervi, mi abbracciò e mi tenne stretta per attimi interminabili. Mi massaggiò e mi distese i muscoli. Mi poggiai al muro, lasciandomi cadere fino a toccare il piano in ceramica. Strinsi al petto le ginocchia e lascia andare indietro la testa, poggiandola al muro.
Mi sentivo confusa, stralunata. I ricordi del pomeriggio sembravano appartenere ad una vita passata, ad un girono lontano. In quel momento tutto mi parve irreale, e mi chiesi se fosse davvero accaduto. A darmene conferma fu il battito del mio cuore, troppo veloce.
Sospirai e mi misi in piedi, liberando i capelli dagli ultimi residui di balsamo.
Chiusi il rubinetto e coprendomi con un accappatoio uscii dal bagno, ma prima di dirigermi in camera, mi avvicinai alla finestra nel corridoio, quella che dava sul mare ed osservai l’andirivieni delle onde, il loro accarezzare la sabbia, il loro essere assorbite dalla sabbia, troppo gelosa per lasciarle andare via. Poggiando i polpastrelli sul vetro freddo, osservai le prime gocce di pioggia infrangersi con delicatezza contro esso ed il cielo tuonò in lontananza. Mi chiesi cosa stesse facendo David… cercai di eliminare il suo pensiero dalla testa e, scuotendola, mi diressi in camera, chiudendomi la porta alle spalle.
Inserii nello stereo un vecchio CD di Frank Sinatra e mi stesi sul letto, lasciandomi cadere con un tonfo sordo.
«Cosa ti prende?» mormorai prendendomi il viso fra le mani. «Cosa?»
Con movimento meccanici, persa con la mente nell’oceano, pensando a quanto i delfini fossero mammiferi straordinari, mi vestii, indossando una vecchia tuta grigia e mi asciugai i capelli.
Afferrai il libro di biologia e scesi le scale, lentamente.
«Ciao, tesoro.» disse mio padre, alzando gli occhi dalla sua agenda.
«Ciao, Lily.» mi sorrise mio nonno, distogliendo lo sguardo dalla TV.
Alzai una mano a mo’ di saluto e accennai un sorriso. «Ciao, papà. Ciao, nonno.» poi mi diressi in cucina, dove trovai la nonna indaffarata ad apparecchiare.
«Lascia che ti aiuti.» mormorai lasciando il libro su una sedia e sorridendo flebilmente.
«Grazie, cara.» mormorò baciandomi il capo.
Così afferrai i piatti e le posate. Apparecchiamo insieme, in religioso silenzio, un silenzio che però non era opprimente, ma naturale come l’acqua che scorre in montagna. Non mi sentivo in dovere di parlare dopo ciò che era successo nel pomeriggio, anzi, era come se mi fossi in parte liberata di un peso invisibile, di cui ne ignoravo l’esistenza e la natura.
Cenammo ed, io, mi limitai ad ascoltare mio nonno organizzare con mio padre la prossima mattinata dedicata alla pesca, sorridendo di tanto in tanto.
«Perché non vieni anche tu, Marie?» chiese il nonno.
Lei scosse il capo. «Devo andare in parrocchia sabato mattina.»
«Oh, giusto, giusto.» annuì piano lui.
Mi portai alle labbra un pezzo di torta al cioccolato.
«E tu, Lily? Perché non vieni? Sono certo che a tuo padre farebbe piacere.»
Mi bloccai, con il braccio a mezz’aria. Poggiai la forchetta nel piatto.
Mi morsi il labbro inferiore, abbassando lo sguardo sul piatto. «Non lo so.» mormorai, ignorando la risposta celata nel mio cuore.
Mio nonno schiocco la lingua, per poi ridacchiare. «Le donne. Sempre così indaffarate.»
«Il mondo gira intorno a noi, caro.» sorrise la nonna, carezzandomi il dorso della mano. Quella scena carica d’amore mi lasciò interdetta e mi intenerì.
Finimmo di cenare e mio padre aiutò la nonna a sparecchiare. Io indossai una giacca pesante e, afferrando il mio libro di biologia, uscii in veranda, sperando di riuscire a studiare qualcosa.
L’aria frizzante mi colpii in pieno viso, così chiusi gli occhi e, lì, in piedi, con il libro stretto fra le braccia, inspirai profondamente, assaporando quasi sulla lingua il sapore dell’acqua salata.
Mi sedetti sul dondolo, appeso al soffitto, nella parte destra della veranda. Mi portai le gambe al petto, coprendole con la coperta in lana che la nonna aveva portato quel pomeriggio, aprii il libro e cominciai a leggere. Senza accorgermi di Morfeo che piano aveva cominciato a salire le scale della veranda.

Quando mi svegliai, in un primo momento, non avevo idea di dove fossi. In un paio di secondi misi a fuoco e mi resi conto di essere in camera mia, sotto la trapunta blu.
Sbattei più volte le palpebre, mentre mi mettevo a sedere.
Fuori il sole non era ancora sorto, ma, sì, l’alba era imminente. Guardai la radiosveglia: segnava le sei del mattino.
Mi passai una mano sul viso, prima di sospirare e prendermi il capo fra le mani. La radiosveglia sarebbe suonata venti minuti dopo e di certo rimettersi a dormire avrebbe significato non risvegliarsi più. Così, presi la decisione più folle… e scesi dal letto. Mi resi conto di indossare i calzini, ma non avevo idea di come fossi finita nel mio letto. Non ricordavo cosa avessi fatto la sera precedente.
Mi sedetti sul bordo del letto, poggiando i piedi sul legno fresco. E piano ricordai tutto. Dovevo essermi addormentata in veranda e mio padre mi aveva sicuramente portata in camera, del resto era l’unico a poterlo fare. Quel pensiero mi strinse il cuore e per qualche irrazionale motivo mi si inumidirono gli occhi di lacrime. Ricacciandole indietro mi alzai in piedi e indossando le pantofole scesi in cucina, nella casa silenziosa. Il rumore dei miei passi era l’unico udibile, insieme a stridio dei gabbiani proveniente dall’esterno. Mi strinsi nella felpa della tuta e preparai il caffè. Mi imburrai, inoltre, un paio di fette di pane.
L’odore del caffè nero inondò la cucina, così, dopo essermene versata un po’ in una tazza, uscii in veranda e mi sedetti sui gradini. Osservando il mare, i gabbiani rincorrersi sulla sabbia, le canne ondeggiare al vento freddo del primo mattino, consumai la mia colazione.  In quel momento, mentre bevevo la mio ultimo sorso di caffè, scorsi una figura oltre le dune ed il mio cuore parve bloccarsi per la paura. Trattenni il respiro.
Era un uomo. Un ragazzo. Aveva i capelli scuri. Stava facendo jogging. Voltò il capo. Era David.
Sgranai sorpresa gli occhi e solo quando la testa prese a girarmi mi resi conto di trattenere ancora il respiro. Lui rallentò fino a fermarsi in corrispondenza di casa mia. Per diversi secondi, i suoi occhi rimasero nei miei, e non mossi un solo muscolo, incapace di farlo. Indossava una felpa nera e dei pantaloni di tuta grigio scuro.
Ed ora?, mi chiesi.
Piano lui si avvicinò, camminando sulla sabbia asciutta.
All’istante mi resi conto di non essere passata in bagno prima di scendere. Mi chiesi che aspetto avessi e in che condizioni fossero i miei capelli. Ci mancava solo lui che scherzava sul mio aspetto al mattino. Sospirai piano, rassegnata.
Mi passai velocemente una mano fra i capelli ondulati, cercando di dargli un ordine.
«Buongiorno.» disse in un sorriso. Aveva il fiatone per la corsa.
«Buongiorno.» risposi con un filo di voce. «Non sapevo facessi jogging.»
«Ogni Lunedì ed ogni Giovedì.» disse. Vedendo che non parlavo, continuò. «E tu? Come mai in piedi?» chiese poggiandosi con una mano alla ringhiera in legno.
«Mi sono svegliata presto.» risposi con voce piatta. Mi alzai e mi voltai, dirigendomi verso la porta. Ma prima che potessi aprirla chiusi gli occhi, chiedendomi che stessi facendo. Così, mi voltai, e lui era ancora lì, confuso.
«Ho fatto il caffè. Ne vuoi un po’?» chiesi, quasi lottando contro l’irrazionale desiderio di risponderli con sarcasmo.
Sorrise. «Sì, grazie.»
Gli feci cenno col capo di seguirmi dentro e lui obbedii. Rivolta verso la cucina, dandogli la spalle, lo sentii chiudere la porta e accomodarsi ad una sedia. Gli riempii in caffè in una tazza e ne versai un altro po’ nel mio. Mi sedetti al tavolo, di fronte a lui.
«I tuoi capelli sono così ogni mattino?»
Sbuffai. «Sto cercando di essere gentile. Non farmene pentire, Smith.»
Rise, sommessamente. «D’accordo, Hemsworth.»
La casa era immersa nel silenzio e, dalla finestra della cucina, era visibile il sole che pian piano faceva capolino dall’orizzonte, gettando fioca luce nella cucina.
David si portò la tazza alle labbra, bevendo una lunga sorsata di caffè. «E’ persino più buono del mio.» parlò.
«Oh, modesto.» risposi alzando un sopracciglio e portandomi le ginocchia al petto, poggiando i piedi sulla sedia.
Sorrise, bevendone ancora.
«E così fai jogging? Ti tieni in forma per la miriade di spasimanti –sicuramente dotate di infinita intelligenza?» domandai con sarcasmo.
«Dio, sei sempre così antipatica?» chiese stizzito. «Comunque no. Lo faccio solo perché è liberatorio. E fa bene alla salute. Dovresti farlo anche tu.» annuii.
«Passo. Non fa per me.»
«Giusto. Tu non fai ciò che fa la gente comune, vero?»
«Attento a ciò di dici, Smith.» ringhiai.
Lui alzò una mano in segno di resa. «Scherzavo.»
«Sei impossibile.» ringhiai.
Per alcuni istanti nessuno dei due parlò. Così mi alzai diretta al lavandino, dove vi poggiai la tazza ormai vuota.
La sua voce ruppe il silenzio. «Mi spieghi una cosa, Lily?» mi voltai e, solo allora, mi resi conto di quanto mi fosse vicino. Distanziava di appena un mentreo da me.
«Come mai,» esordì posando la tazza nel lavabo,«mi hai fatto entrare se ti sono così antipatico?» chiese con voce calda e bassa. I suoi occhi, resi neri dalla poca luce, mi scrutarono con attenzione, forse in attesa di una risposta che non arrivò.
Il mio respirò accelerò.
Lui sorrise e schiocco la lingua, poi indietreggiò piano fino alla porta. «Ci vediamo più tardi, Lily.»
Uscii dalla cucina, riprendendo a correre sulla spiaggia. Seguii con lo sguardo la sua figura, l’osservai allontanarsi velocemente, rimanendo lì, immobile, senza parole.
Perché?, mi domandai.
Non seppi darmi risposta, ma, in realtà l’avevo solo ignorata.

 

 

*

Eccomi qui, finalmente.
Mi scuso per il ritardo (ancora una volta), ma è difficile scrivere al momento. Il prossimo capitolo è quasi pronto, quindi, nei prossimi giorni riuscirò a postarlo.
Ringrazio di cuore chi, comunque, continua a seguire questa storia.

Con immenso affetto,
                                  Panda.

   
 
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