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Autore: Pinca    19/05/2011    0 recensioni
lo so, il titolo fa caga... comunque, è una raccolta di eventi molto romanzati che partono dall'unità d'italia alla fine della seconda guerra mondiale per poi cimentarsi in una costruzione assurda di un futuro prossimo. insomma, se vi va entrate, il prologo è due righe.
Genere: Guerra, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nord Italia/Feliciano Vargas, Nuovo personaggio, Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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prefetto di ferro
 
 
Il ticchettio dell’orologio si propagava pigro nel silenzio dell’aria densa di polvere e calura.
L’uomo li aveva invitati ad entrare e ad accomodarsi nel salotto. I muri bianchi e spogli cozzavano con arredamento sfrontatamente barocco, e le persiane socchiuse proteggevano dal sole pomeridiano, immergendoli in una penombra innaturale.
Il nuovo capo d’Italia, insieme ai due fratelli, erano accompagnati da alcuni uomini dell’esercito, rimasti in piedi alle loro spalle.
Licia si guardava attorno stralunata, sorpresa di conoscere così poco quella parte d’Italia che, in tutta franchezza, aveva sempre creduto parte di suo fratello. Ma quel luogo le sembrava così alieno e lontano da lei e suo fratello che le sembrava di essere arrivata in un altro paese.
Lovino invece scrutava ogni particolare, alla ricerca di quel qualcosa, di quel tassello mancante che avrebbe completato quel senso di vuoto e desolazione che l’aveva accolto dall’arrivo in quell’isola silenziosa e mesta. Era come se qualcosa in quel posto lo tenesse col fiato sospeso, e gridasse nel silenzio il bisogno di farsi notare. Ma, per quanto si sforzasse, quell’insieme di particolari che sembravano riemergere da lui stesso lo stava soffocando.
-Lasciatevi offrire il caffè, per me sarebbe un onore!- disse l’uomo. Anche lui era circondato da qualche uomo e uno di questi uscì dalla stanza.
Sembrava un uomo completamente sicuro di se e del suo potere quel tizio, lo si intuiva dal modo rilassato in cui stava seduto sulla poltrona, o forse dalla maniera abbastanza sfacciata di studiare col suo sguardo acquoso i due fratelli seduti al fianco del nuovo capo d’Italia, e si rivolgeva a quest’ultimo con tono diretto e impavido. Cercava la confidenza che si cerca con un proprio pari, dopo tutto era un capo come un altro, questo sarebbe andato d’accordo con lui tanto quanto gli altri che l’avevano preceduto.
Quell’uomo a Licia non piaceva, non le piaceva il modo in cui li fissava, non avevano niente di innocente quegli occhietti neri, e ciò la metteva in agitazione, ma la grande sicurezza del suo capo la tranquillizzava, perché lui non si scompose, anzi sembrava sempre più sicuro di se.
Dopo pochi minuti di silenzio la porta si aprì. Il ragazzo uscito pocanzi rientrò seguito da una donna vestita di nero con il vassoio che si apprestò a servire il caffè, poggiando le tazzine sul tavolino del salotto.  
-Prego.- li invitò l’uomo sporgendosi per servirsi. I tre colsero l’invito e fecero lo stesso, anche se Lovino tentennò qualche istante, trovando difficile pensare di riuscire in qualche modo anche solo bagnarsi le labbra di caffè con quella strana sensazione che aveva addosso, sempre più forte, sempre più opprimente.
L’uomo alzò la tazzina verso il nuovo capo come per brindare in suo onore.
Dopo il primo sorso, sempre con fare spavaldo, poggiò la tazzina sul piattino tintinnante e tornò a rivolgersi al nuovo capo.
-Comunque, non c’era bisogno di venire con la scorta. Finché è con me non deve preoccuparsi di nulla!-
Licia trovò strano quel commento, le sembrava una semplice e cortese forma di gentilezza, eppure qualcosa stonava. Non si rese conto della gravità di quelle parole finché il non sentì il tintinnio della porcellana sul piattino del suo capo.
-Capisco.- disse solamente Mussolini senza fare una piega.
Spostò l’attenzione dall’uomo e si rivolse alla ragazza in piedi alla sue spalle, che silenziosa continuò a tenere lo sguardo basso.
-Sicilia.-
Si rivolse a lei con quel nome, con voce limpida e chiara che fece tremare il cuore di Romano come la corda di una chitarra.
-Chi è quest’uomo?- le chiese diretto esigendo una risposta pronta e chiara.
Ma La ragazza non rispose, come se non si fosse rivolto a lei. Continuò a tenere il capo basso, nonostante gli occhi penetranti e decisi del Duce la stessero perforando esigenti e senza pietà.
Un uomo della scorta si avvicinò a Mussolini e gli sussurrò all’orecchio l’identità di quell’uomo che li aveva invitati ad entrare. Era proprio come sospettava.
-Bene!- si alzò senza più rivolgere nemmeno uno sguardo all’uomo seduto sulla poltrona di fronte a lui, che incredulo rimase piantato alla poltrona senza dire una poltrona. Licia si alzò di scatto, pronta a seguirlo, mentre Lovino continuò a fissare la donna vestita di nero, incredulo. Si era dimenticato di lei, e ora quasi stentava a riconoscerla.
-Possiamo andare! Chiamate Cesare Mori, nominatelo prefetto, voglio che questa erbaccia venga estirpata.-
L’uomo che prima aveva suggerito al suo orecchio prese immediatamente l’ordine e si precipitò fuori.
Ma intanto Lovino non riusciva a schiodare gli occhi dalla Sicilia, e per un attimo lei gli rivolse uno sguardo fugace, e si sentì mancare per l’intensità e la stranezza di quel nero cupo. Era uno sguardo di fiera ferita, graffiante e aggressivo di un animale selvatico, non c’era più ombra del limpido orgoglio e della giocosa baldanza che lo illuminava.  
-Andiamo Romano!- Licia gli mise una mano sulla spalla, facendogli distogliere l’attenzione dalla Sicilia.
Si alzò titubante, mentre la stanza si svuotava. L’uomo e i suoi tirapiedi uscivano da una porta, mentre I camerati uscivano dalla parte opposta, lasciandolo ultimo in quella stanza.
Rosalia seguì il suo capo, e fu sul punto di richiudere la porta, ma Lovino la bloccò col piede, aggrappandosi al pannello bloccato alla sua sinistra.
Sicilia era proprio di fronte a lui, a pochi centimetri di distanza, come era sempre stato, ma qualcosa in lei lo allontanava.
I capelli neri erano increspati intorno al viso, e acconciati alla meno peggio. Continuava a tenere la testa piegata, ma era bella, nonostante fosse sciupata e povera, e il pallore della pelle la faceva apparire grigia e spenta.
-Rosalì.-
Da che sembra che niente potesse scalfire quello stato di silenzio, quel sospiro, il modo in cui apostrofò il suo nome la fece tremare, divisa tra il tendersi verso di lui e il bisogno di allontanarsi e sparire.
Lovino avvertiva il bisogno di dirle mille cose, di fare qualcosa, ma quel senso di vuoto e confusione lo pietrificava, e l’unica cosa che riuscì a fare fu chinarsi verso di lei, verso il suo viso e le sue labbra, come attirato da una calamita, avvertiva uno struggente bisogno di assecondare quella forza. E tornò ad incrociare quegli occhi, ora tristi.
E come un tempo fu soggiogata da quell’amore che provava per lui e il desiderio bruciò ogni altra cosa.
E furono diversi i secondi sulla distanza di quei pochi centimetri che li separavano, mentre il cuore dei due tuonava rampante, e l’emozione era talmente forte e tesa che i respiri faticavano ad uscire e si mescolavano a tratti.
Ma il contatto visivo si interruppe, e Sicilia si ritrasse, mentre Lui si faceva disperatamente avanti per non perdere quell’occasione che per qualche secondo gli si era presentata e ora gli stava sfuggendo tra le dita come acqua.
Questa volta non fu il vecchio e sopito orgoglio a trattenerla, o la necessità di sparire, ma la consapevolezza che a Lovino sembrava sfuggire.
Gli poggiò una mano sul petto per bloccarlo, e girò il viso dall’altra parte, fermi entrambi in quello spiraglio tra i due pannelli della porta.
-Lovino, siamo fratelli adesso.-
Glielo disse e non ebbe nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi.
E lui parve scioccato. Non poteva desiderarla, eppure l’aveva fatto. Come aveva potuto desiderare sua sorella? Era sbagliato, lo sapeva, eppure… avrebbe dovuto provare disgusto, non trovarlo strano.
-Romano!- come prima la voce di Licia gli arrivo portandolo alla realtà. Lo aveva chiamato dal corridoio, e stava tornando indietro.
-Vai.- gli disse soltanto Rosalia distaccandosi da lui.
Fece a malapena mezzo passo indietro Lovino e si vide chiudere la porta in faccia.
Licia entrò nella stanza e gli prese la mano.
-Dai andiamo! Perché sei così lento?- lo rimproverò tirandolo con se.
Lovino non rispose, la seguì e basta. Se era sbagliato desiderarla, allora non l’avrebbe desiderata. Era sua sorella, nient’altro.
 
 
 
 
 
Mi sono lasciata un po’ andare nell’ultima parte alla romano/sicilia, spero che non faccia tanto schifo. Questo capitolo parla di un episodio veramente avvenuto durante una visita di Mussolini in sicilia, a piana dei greci. L’uomo è il primo cittadino Francesco Cuccia. Le parole che gli dice riguardo la scorta che non era necessaria e che poteva usufruire della sua protezione sono “originali”, non so come dire, sto rincoglionendo di giorno in giorno. Anche la non risposta di sicilia è realmente avvenuta. In capo di sicilia pensava di poter trovare il benestare del fascismo credendo di avere davanti il solito capo italiano pronto a scendere a patti, ma si sbagliò. Negli anni successivi il prefetto di ferro, così viene chiamato Cesare Mori, estirpò letteralmente la mafia dalla sicilia, senza farsi alcuno scrupolo. L’unico fatto negativo fu che alcuni capi mafia scapparono in america, e come sapete gli anni 30 sono famosi per la mafia siciliana a Chicago e in altre città. È un episodio fondamentale per lo sbarco in sicilia nel ’43. penserò poi cosa, come e quando mettere tutto questo sotto forma di capitolo.
Penso che per adesso sia tutto.
Grazie mille a chi legge!
 
 
 
 
   
 
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