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Autore: Melanto    23/05/2011    10 recensioni
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.»
E Yuzo e suo padre hanno smesso di cercarsi.
Si sono persi negli anni, negli obiettivi opposti, nelle spalle girate e nelle porte chiuse. Nelle strade dritte e concrete della famiglia Morisaki, mentre quelle di Yuzo inseguono le linee curve di un pallone; una scelta che suo padre non è disposto ad accettare.
Ma la guerra è fatta di vittime, e mentre si tenta di rimettere insieme i cocci delle certezze in frantumi, ognuno cercherà anche quello che ha perso.
...perché anche le cose perdute si trovano, basta solo saperle cercare.
[lo Shonen-ai è un elemento marginale]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il lungo sonno della Lucciola
- Part III: The Firefly’s long sleep -

 

“Avevi tutto quanto,
anche il mio sogno migliore.
Hai preso ciò che serve
senza ritegno né onore.”

“The colours are flowing from the wall to the floor /
I colori stanno cadendo dal muro al pavimento
and only an outline still remains /

e solo una linea di contorno resta ancora


Gli occhi gli facevano male e quel dolore s’era aggrappato alle tempie, azzannandogli buona parte della testa.
Troppe lacrime. Il pianto non portava mai nulla di buono se non emicrania e senso di colpa per non essere riuscito a controllare la propria emotività. Si sentiva così poco uomo, fuori, da non avere nemmeno il coraggio di guardarsi allo specchio.
Inoltre aveva fatto preoccupare Mamoru, che ora sapeva quanto corti erano divenuti i ferri tra lui e suo padre; quasi inesistenti.
Yuzo sospirò continuando a fissare la strada che scivolava pacifica sotto i suoi passi. Aveva la testa che martellava come un tamburo e il solo desiderio persistente era quello di dormire. Non aveva nemmeno fame, non avrebbe cenato. Sarebbe entrato in casa, avrebbe salito le scale per raggiungere la propria camera, si sarebbe lasciato cadere sul letto e poi avrebbe chiuso gli occhi.
Dormire.
Cancellare il reale per rifugiarsi in un angolino silenzioso della propria mente.
Morire.
Era un po’ questo, in fin dei conti, che avveniva. Anche se il cervello continuava a lavorare, il cuore a battere, il sangue a pulsare, non ne aveva coscienza. Quest’ultima moriva per un breve intervallo di tempo, dimentica degli affanni.
Morire, dormire… forse sognare(1), desiderando di tornare il più tardi possibile o di non tornare affatto.
Yuzo si fermò all’improvviso senza nemmeno sapere dove fosse, quanta strada avesse percorso e quanta ancora avrebbe dovuto percorrere. Continuava a guardare a terra cercando rifugio nell’unica consolazione rimastagli: Shimizu-ku.
Due settimane.
Quindici giorni.
Cos’erano quindici giorni ancora di attesa dopo gli anni spesi a non essere praticamente mai considerato? A essere invisibile?
Non erano niente, sarebbero passati come acqua. Una volta lasciata quella casa, poi, non sarebbe mai potuto tornare indietro, ormai era sicuro. E non ne aveva più paura. Ne aveva avuta fino a quel pomeriggio, fino a che la strada che aveva percorso con suo padre non si era biforcata del tutto e loro avevano preso svincoli diversi.
Forse, però, c’era qualcosa che ancora temeva: le ultime parole che Baiko gli avrebbe rivolto il giorno in cui se ne sarebbe andato. Invettive, forse; magari minacce o, più sicuramente, avrebbe taciuto abbandonandolo ancora nell’indifferenza.
Yuzo scosse il capo cercando di scacciare il silenzio dalle sue orecchie e quando si volse per vedere dove fosse, si trovò davanti al cancello di casa. Per un attimo il cuore ebbe un battito aritmico.
Aveva camminato così meccanicamente che nemmeno se n’era accorto.
Sorrise di sé stesso, doveva imparare a pensare di meno.
Con lentezza aprì l’ingresso, scivolando nel cortile interno dell’abitazione e richiudendo il cancello alle spalle, facendo il più piano possibile.
Quasi non avesse voluto farsi sentire.
Altrettanto adagio entrò in casa. L’ingresso non era illuminato e non c’era odore di cibo; sua madre non era ancora rientrata dal giro di spese. L’occhio gli cadde sulla porta dello studio di suo padre: era aperta. L’uomo l’avrebbe visto passare nel momento in cui avesse tentato di andare a rifugiarsi nella propria stanza, ma non poteva di certo volare.
Con un sospiro pesante, Yuzo lasciò le scarpe all’ingresso, infilandosi le ciabatte, e s’avviò. Non avrebbe potuto evitare suo padre per quindici giorni, tanto valeva iniziare a farsi vedere fin da subito.
Passò davanti la porta, ma non si fermò né si volse. Forse Baiko non l’avrebbe notato, forse non l’avrebbe fermato.
Yuzo lo pregò, lo pregò con tutto sé stesso.
Non venne ascoltato.
«Finalmente ti sei deciso a rientrare.»
La voce era tagliente come vetro.
Yuzo non si volse, ma non avanzò.
«Cos’è, adesso t’hanno mangiato la lingua? Non mi sembrava fossi così silenzioso, prima». Ironia sottile, gli stilettò la schiena. Sentì la nausea che cominciava a salire. «Bene, allora possiamo riprendere da dove abbiamo interrotto.»
- Oh Dio, no. Non di nuovo. Per favore. -
Yuzo lo pensò con una disperazione tale da chiudere gli occhi e deformare le labbra in una smorfia sofferente. Ingoiò a vuoto, ricacciando la frustrazione.
«Non ho niente da dirti.»
«Non fare lo spaccone e vieni qui.»
«T’è così difficile lasciarmi in pace?!»
«Tsk. Ogni volta mi domando come diavolo hai fatto a divenire tanto maleducato. Sembra quasi che io e tua madre non ti abbiamo insegnato nulla. Dovevo aspettarmelo, chissà che razza di gente frequenti.»
Yuzo si volse di scatto, rabbioso, varcando la soglia dello studio con foga.
«Non ti permetto di parlare così dei miei amici! Non li conosci nemmeno, come puoi giudicarli?!»
Seduto in poltrona, Baiko tirò un sorriso trionfante; sapeva sempre quali tasti toccare per avere le reazioni desiderate. Appoggiò i gomiti sulla scrivania, unendo le punte delle dita davanti al viso.
«Di sicuro questi tuoi amici non disobbediscono ai propri genitori.»
«Certo, perché i loro genitori non sono come te, perché i loro genitori li ascoltano, perché i loro genitori sostengono i loro sogni!»
«Ah!» l’uomo emise quell’esclamazione quasi con disprezzo e condiscendenza. Lentamente si alzò, girando attorno al massiccio tavolo in ebano brillante. Sistemando la giacca, si fermò davanti alla scrivania, appoggiandosi al bordo. «I sogni passano in secondo piano quando si hanno delle responsabilità. E tu ne hai verso questa famiglia.»
Yuzo era avanzato all’interno dell’ambiente, sempre in penombra; solo le lampade e sottili fili di sole illuminavano lo studio, mentre le tende restavano perennemente tirate. A suo padre infastidiva il riflesso della luce sullo schermo del computer.
«Io non le ho mai chieste!» esclamò il ragazzo, aveva il camino alle spalle e le armi da collezione di Baiko erano dappertutto: su ogni superficie, attaccate al muro. Erano scariche, ma perfettamente funzionanti, eppure suo padre ne aveva sempre una pronta per l’uso, quella che considerava la sua preferita. Lo mettevano a disagio, di solito, ma in quel momento, in cui sentiva il calore ardente del rancore risalire le vene, tutto il resto passò in secondo piano.
«Non sono cose che si chiedono, Yuzo. Si tratta di onore e rispetto verso il nostro nome. Lo sai da quanti secoli esiste la ‘Golden Gun’
«Non me ne frega niente! Io non prenderò mai il tuo posto, te l’ho già detto! Mai! Detesto le armi, come puoi chiedermi di gestirne un’intera fabbrica?! Non saprei nemmeno da che parte cominciare!»
«E’ ovvio che ti insegnerei io tutto quello che c’è da sapere, come tuo nonno ha fatto con me.»
Suo padre la faceva facile. L’aveva sempre fatta facile perché secondo lui la strada poteva essere solo una e dritta, ma per Yuzo la strada dritta era un’altra mentre quella che Baiko aveva deciso era così tortuosa e contorta che il sol vederla gli faceva venire la nausea.
«No! Non puoi costringermi! E’ il mio futuro, il mio! E io ho scelto e la mia scelta è Shimizu-ku! Si tratta solo di pochi giorni e dopo potrai anche dimenticarti che esisto, tanto non ti sarà difficile, vero papà?»
Baiko colpì la superficie del tavolo per farlo tacere e spezzare quel tono arrogante che lo mandava in bestia. Era sempre stato abituato ad avere tutto sotto controllo, compreso suo figlio, e sapeva che sarebbe riuscito a piegare la sua assurda volontà di uscire fuori da quelli che erano, da generazioni, i binari stabiliti della famiglia Morisaki. Un giorno, anche il figlio di suo figlio si sarebbe occupato dell’azienda.
«Non azzardarti a parlarmi in questo modo! Credi davvero che io rimanga a guardare mentre butti via la tua vita?! Puoi scordartelo! Così come ti scorderai Shimizu-ku: ho già provveduto a parlare con il presidente di quella dannata squadra per la rescissione del contratto. E gli ho anche fatto capire che se si azzarderà a volerti trattenere a tutti i costi, gli sguinzaglierò contro i miei avvocati: sono della famiglia Wakabayashi, dovresti conoscerla bene, no? I più spietati del Giappone, non perdono mai una causa. Domani ci incontreremo alla ‘Golden Gun’ e ci sarai anche tu perché devi imparare a prenderti la responsabilità delle tue azioni sconsiderate, mi sono spiegato bene?!»
Yuzo tentò di non darlo troppo a vedere, ma dentro sentì un brivido scuoterlo fin nelle ossa; avevano vibrato, come se una mano invisibile le avesse afferrate e smosse con forza.
Non era possibile. Lo stava solo minacciando per cercare di intimorirlo e farlo cedere. Non era possibile. Non sarebbe mai arrivato a fare una cosa simile. Non era possibile.
«Stai mentendo! Non potresti mai-»
«Davvero? Non potrei? È questa la differenza tra un ragazzino e un uomo, Yuzo, e vedi di impararla bene: i ragazzini parlano, gli uomini agiscono.» Con un gesto deciso, Baiko sollevò la cornetta del telefono che aveva sulla scrivania e gliela porse. «Chiama. Verifica con le tue orecchie. Vedi se non ti ho detto la verità. Io non mento. Mai.» Fissò l’espressione terrea di suo figlio con una serietà che era gelida come il ferro. Le rughe sul viso, ai lati della bocca, si accentuarono calcandone la severità mentre tra loro l’aria era divenuta di piombo; silenziosa, immota e pesante. In quella frazione di tempo in cui nessuno dei due fiatò, Baiko gli dimostrò come avesse sempre avuto la vittoria nelle sue mani, sempre, fin dall’inizio, e tornò a posare lentamente la cornetta sul supporto. «Hai ancora molto da imparare.»
Yuzo aveva le iridi fisse su dove c’era stato il ricevitore. Gli occhi erano sbarrati, enormi, così increduli da essere privi di reazione. Nessun guizzo, nessun movimento. Le labbra si aprirono adagio e non era più padrone nemmeno della propria voce; sembrava un automa, il corpo agiva da solo, lentamente, con fatica.
«Non puoi… non puoi… tutto il lavoro, tutta la fatica, tutto il sudore… le vittorie, le sconfitte… come hai potuto farmi questo? Come?... a me… che sono tuo figlio… Ti odio… ti odio con tutto me stesso… che razza di padre sei?»
«Che razza di padre sono?!» ruggì Baiko, furente, «Sono quello che ti ha dato tutto ciò che hai!»
Yuzo scosse il capo, arretrando fino a urtare il camino; tremava e lo guardava come se non l’avesse mai conosciuto davvero.
«Tutto quello che avevo l’hai appena distrutto… non ho più niente… io… io non sono più niente…» si volse, appoggiando entrambe le mani alla mensola della cappa. Gli occhi non riuscivano nemmeno a piangere. Dentro si sentiva come se l’avessero sventrato, il corpo aperto da un coltello affilato e gli organi strappati a mani nude. Il passato e il futuro cancellati con una sola telefonata, restava solo un presente, che non era il suo, grigio come il piombo; era come non esistere, la forza di tenersi anche solo in piedi risucchiata via assieme alle viscere.
Cosa gli restava, adesso?
Davanti ai suoi occhi c’erano esclusivamente armi, la collezione del padre esposta come un trofeo, gioielli preziosi, opere d’arte. Tutto quello avrebbe riempito il resto della sua vita. Lo toccò con mano, facendo scivolare le dita sul freddo di una canna lunga e lucida.
La sua individualità era appena stata uccisa, cancellata, come non fosse mai esistita; il sistema resettato. Lui sarebbe divenuto la fotocopia di suo padre, delle sue aspirazioni non sarebbe rimasta nemmeno una briciola.
Il lungo sonno iniziava da lì perché la mente aveva chiuso gli occhi.
Suo padre infierì, dietro di lui, mentre si voltava di nuovo.
«Piantala di farne un dramma, si tratta solo di uno sport! Che figlio smidollato mi ritrovo? Credi non mi costerà nulla questo scherzetto che mi hai giocato? Tsk! Smettila di comportarti come un ragazzino e sii uomo. E’ finito il tempo dei giochi, tu andrai a Economia e ti preparerai a occuparti dell’azienda di famiglia. Questa è la mia decisione.»
Dopo quelle parole, gli occhi di Baiko si focalizzarono con evidente sorpresa sulla pistola, quella preferita, la Smith&Wesson Modello 15 .38 Special(2), una semiautomatica di importazione. Yuzo la stava impugnando mollemente con la sinistra.
Baiko Morisaki inarcò un sopracciglio con sfida, il sorriso ironico che si tendeva al lato della bocca e gli accentuava la ruga d’espressione. «Oh, vuoi già prenderci confidenza? Vedi di fare attenzione: è carica. O forse vuoi spararmi?»
Era divertito, quasi fosse una burla, ma Yuzo non scherzava affatto.
Il portiere rivide gli allenamenti intensivi con Tsubasa, sulla spiaggia; erano solo le elementari. Rivide la fatica per guadagnarsi il rispetto e la fiducia dei suoi compagni. Rivide il lungo e tortuoso percorso per arrivare alle prime convocazioni in Nazionale. Rivide tutti i suoi sacrifici, uno per uno, le soddisfazioni e le delusioni.
La sua espressione si fece imperscrutabile.
«Pensi che potrei farlo? Non hai mai capito niente di me. Per chi mi hai preso?» sibilò, continuando a guardare l’arma, e quando si decise a sollevare gli occhi per puntarli in quelli dell’uomo, Baiko vi lesse qualcosa che non riuscì a comprendere. «Sei mio padre, il rimorso mi ucciderebbe. Ma tu… tu sei forte, vero? E non provi rimorso…» annuì, scrutandolo dalla testa ai piedi, come se ne stesse soppesando la solidità. «Tu sei forte… vediamo se sopravvivrai.»
La sinistra impugnò il calcio della Smith&Wesson, il braccio si alzò deciso, la canna alla tempia aveva un contatto freddo che gli provocò un brivido leggerissimo. Poi sparò.
Assordato, Baiko sussultò e rimase immobile senza dire una parola o fare il minimo gesto. Era avvenuto tutto così rapidamente che era stato come se il colpo lo avessero sparato a lui, uno solo, a bruciapelo. Il sangue era scomparso dalle vene, mentre quello di suo figlio era così rosso e scuro da lasciarlo senza fiato; gli occhi sbarrati, il sorriso dileguato dalle labbra semiaperte e mute.
Lo vide afflosciarsi su sé stesso e toccare il suolo con un tonfo, sembrava un fantoccio, ma Baiko non riuscì a muoversi e dentro il cervello gli parve che qualcosa si fosse fermato, che i neuroni si fossero bloccati all’improvviso perché non capiva quello che stava vedendo, non riusciva a tramutarlo in pensiero. Paralizzato, come un computer andato in sovraccarico.
Il campanello di casa squillò impazzito, ma lui era gelido come un cadavere. Chiavi girarono con fretta nella toppa di ingresso, passi rapidi e qualcuno comparve sulla porta dello studio. Forse Haruko. Non seppe dirlo subito, non si volse, ma riconobbe il grido strozzato in gola, riconobbe la voce che chiamava il nome di suo figlio e poi la vide entrare nel campo visivo per gettarsi sul corpo al suolo, toccarlo, scuoterlo e cominciare a urlare. Urlare, urlare, urlare.
Lui non disse una parola.
Non un gesto, non un fiato. Nemmeno quando quel ragazzo, che ricordava d’aver visto di sfuggita assieme a Yuzo, entrò a sua volta, raggiungendo sua moglie.
«…che hai fatto?... Oddio, che hai fatto?!... che hai fatto… che hai fatto…»
La sua voce aveva l’inflessione di chi era sull’orlo delle lacrime, ma non ne vedeva il viso, tutto ciò che scorgeva era sangue. La pozza s’ingrandiva adagio sul pavimento e Mamoru – era poi questo il suo nome? – vi si era inginocchiato dentro per toccare il volto di Yuzo.
«Sento ancora il battito! Signor Morisaki, ha chiamato l’ambulanza?»
Non rispose.
«Signor Morisaki?!»
La mente non formulava pensieri e la gola non formulava suoni. Tutto si era spento come le luci d’uno stadio alla fine d’una partita. E non c’era similitudine peggiore per lui.
Non ebbe reazioni nemmeno quando il ragazzo s’alzò, il sangue che veniva sparso ovunque: dagli abiti, dalle suole delle scarpe, dalle mani. Non lo vide, ma s’avventò sul telefono che aveva sulla scrivania.
«119? Mandate un’ambulanza, c’è… c’è un ferito d’arma da fuoco… alla testa… fate presto… per favore…» piangeva e tra le lacrime diede loro l’indirizzo.
Lui continuava a non muoversi, Haruko continuava a gridare e davanti ai suoi occhi le immagini ballavano un triste girotondo.

«Come hai potuto farmi questo?… ti odio… ti odio con tutto me stesso… che razza di padre sei?»

Le ultime parole che Yuzo gli aveva rivolto tornarono a sussurrarsi al suo orecchio e sentì qualcosa, in fondo al petto, risalire i battiti che ancora lo scandivano in modo da amplificarlo, ed era dolore. Si diffondeva lungo le vene e arterie gelate come il sangue che aveva perduto, fino ad arrivare alla bocca. Del sangue aveva anche lo stesso sapore e lo stesso colore. Il dolore era rosso, rosso scuro.
Rosse divennero le immagini, rossi divennero anche i suoni per quanto non potessero avere colore. Rosse erano le sirene dell’ambulanza, rossi erano i paramedici che si facevano spazio, allontanando sua moglie.
«E’ mio figlio!» continuava a ripetere.
«Si calmi, signora, ci pensiamo noi.»
«Il battito è debole.»
«Dobbiamo fermare l’emorragia!»
«Stabilizziamolo, deve essere operato d’urgenza!»
«Veloci! Veloci!»
Rossi erano i poliziotti fermi sulla porta che guardavano la scena, tesi e incerti.
Rosso era il tempo mandato avanti velocemente: i paramedici che portavano via Yuzo, Haruko che li seguiva, Mamoru che andava con lei.
Rossa era la stanza vuota e il vociare incuriosito che sentiva provenire dall’esterno.
«Signor Morisaki, sono l’agente Takemiya…»
Rossa era la voce del poliziotto che lo avvicinò per interrogarlo e capire cosa fosse accaduto.
Rossa era la voce del suo collega, quando affermò: «E’ sotto shock.»
Rossa era ogni cosa, ogni colore, ogni odore, ogni rumore, ogni sensazione che lo permeava da capo a piedi. Rosso era il dolore che lo stilettava dal ventre al cuore, tra le vertebre della schiena, in ogni singolo osso, nei nervi, nei muscoli. In ogni lembo di pelle.
Rossa, la chiazza di sangue che era rimasta lì, spalmata dalle suole che l’avevano pestata ed era tutto ciò che i suoi occhi avevano continuato a fissare fino a quel momento.
Si mosse.
Fece un altro passo e un altro ancora, fino a raggiungerla. La guardò dall’alto e in quel tripudio vermiglio solo una cosa era nera, priva di qualsiasi tonalità, fredda. La Smith&Wesson giaceva a terra. La fissò a lungo rendendosi conto di una realtà terribile.

«Smettila di comportarti come un ragazzino e sii uomo! E’ finito il tempo dei giochi, tu andrai a Economia e ti preparerai a occuparti dell’azienda di famiglia!»

La sua pistola, la sua azienda.
Una mano si poggiò piano sulla spalla, ma lui non si mosse.
«Signor Morisaki, mi ascolti per favore: può dirci cosa è successo?»
Baiko non esitò.
«Ho ucciso mio figlio.»

 

“Cause the roof's got a hole in it /
Perché il pavimento ha un buco
and everything's been ruined by the rain /
e ogni cosa è stata rovinata dalla pioggia

 

All’ospedale lo avevano accompagnato l’agente Takemiya e il suo collega, dopo che aveva raccontato loro per filo e per segno quello che era avvenuto. Lui non sarebbe stato in grado nemmeno di arrivarci a piedi, in quelle condizioni, e i poliziotti se n’erano fatti carico.
Quando varcò la soglia della struttura, il temporale era ancora nel pieno del suo vigore e non sembrava disposto a calmarsi. Lui aveva l’aria sfatta, la cravatta allentata, i primi bottoni della camicia aperti, la giacca appesa alle dita e trascinata lungo il pavimento.
Era irriconoscibile, un fantasma che camminava.
Per Baiko, l’intero mondo che lo circondava era come rivestito d’ovatta: i suoni arrivavano attutiti e i pensieri non riuscivano a farsi spazio nella testa, ma restavano chiusi in bolle senza potersi connettere e formulare una sequenza lineare, opinioni, sensazioni e sentimenti. Astronauta nello spazio, il suo cervello orbitava nella scatola cranica e lui si trascinava senza avere la capacità di riuscire a esternare nulla se non un’espressione vacua. A prima vista, sembrava smarrito, a disagio nei suoi stessi panni – quasi come non fossero i suoi –; faceva vagare lo sguardo nell’androne principale dell’ospedale aspettando di ricevere direttive che gli dicessero dove andare e cosa fare. Era come non essere più sé stessi ma nel corpo di qualcun altro e non riuscire a muoverlo bene, non sapere come comportarsi, cosa dire o aspettarsi.
Un’infermiera sembrò accorgersi delle sue perplessità, di quel sezionare lentamente ogni angolo della stanza, sedie, scale, corridoi, soffitto e non riuscire a porre la giusta domanda.
«Posso aiutarla?»
Baiko la guardò pur non vedendola. Lei gli sorrise con gentilezza, inclinando leggermente il capo; si intenerì: un così bell’uomo che sembrava un bambino abbandonato.
«Mio figlio» riuscì a sillabare adagio e ci volle qualche altro momento per formulare il resto della frase, «lo hanno portato qui. Dov’è?»
L’infermiera non seppe che rispondere a una richiesta tanto generica e cercò, con dolcezza, di avere qualche informazione in più. «Venga con me» disse, avvicinandosi al banco dell’accettazione. Baiko la seguì passivamente; sulle spalle, la camicia era puntellata di gocce di pioggia. L’infermiera prese a sfogliare alcune cartelle con i nomi dei pazienti ricoverati nella struttura, compresi gli ultimi arrivi dalle ambulanze. «Può dirmi come si chiama?» chiese, seguitando a mostrargli un sorriso cordiale per cercare di infondergli tranquillità, anche se sul suo volto non leggeva ansia o paura; semplicemente, non era decifrabile.
«Yuzo Morisaki.»
«Vediamo…» abbassò lo sguardo, facendo scorrere il dito sui vari elenchi e quando lo trovò, l’espressione mutò radicalmente. Sollevò il viso per scrutare negli occhi dell’uomo che le stava davanti e non gli vide nessuna reazione per il suo improvviso cambio d’umore. «E’ in sala operatoria, al momento. Vada al quarto piano, sulla sinistra, può aspettare là.»
«Grazie.» Baiko fece per allontanarsi senza aggiungere altro, quando la donna lo fermò, titubante.
«Vuole… vuole che l’accompagni?»
Sembrava che non fosse nemmeno lì. Sembrava non rendersi conto della gravità della situazione. Sembrava senz’anima.
Baiko la guardò per un istante dilatato e distorto in percezioni sballate, «No», e riprese a camminare infilandosi nell’ascensore.
Fuori, al quarto piano, sulla sinistra lo aspettava un corridoio. Era piccolo, in verità, ma a Baiko parve allungarsi all’infinito quando scorse la figura di Haruko seduta su di una sedia in plastica, con le mani strette in quelle dell’anziano padre e la testa sprofondata nel suo collo. Non riusciva a vedere il viso, ma solo capelli spettinati. E comunque non aveva bisogno di guardarla negli occhi per sapere che stava piangendo; poteva già sentirla: una sorta di cantilena sottile, esausta.
«Quanto tempo ci vorrà? Quanto tempo… Quando me lo ridaranno? Quando…»
Vide il profilo dell’uomo tirare un profondo sospiro e udì l’eco della sua voce che arrivava flebile fino a lui, ancora immobile fuori le porte dell’ascensore.
«Presto, vedrai…»
Le labbra non si vedevano sotto i baffi e la barba bianchi come neve.
Lui si decise ad avanzare. I passi erano uno spostare di massi che a stento si sollevavano da terra e lo portavano avanti per forza di inerzia. All’altro lato del corridoio, stanze e pazienti, altro dolore, chi moriva lentamente e chi s’aggrappava alla vita con tutta la forza che aveva. Infermiere e parenti. Movimento continuo. Reflusso del mare.
Sua moglie e suo suocero non erano da soli.
Più isolato riconobbe l’amico di Yuzo, Mamoru. Sì, Mamoru. Adesso era convinto che si chiamasse davvero così. Aveva gli occhi fissi al suolo e la mano che veniva passata sulla fronte in un gesto automatico e ripetitivo. Chissà da quanto tempo lo stava compiendo. I suoi jeans erano sporchi di sangue, e anche le dita. E quel sangue, ora, era stato passato anche sulla fronte, ma il ragazzo continuava a non curarsene. Baiko si rese conto che nemmeno lui era lì, in quel momento, e tutto ciò che lo teneva ancora legato alla realtà circostante erano gli altri due giovani seduti accanto a lui: quello con i capelli ricci gli passava lentamente una mano sulla schiena come fosse un mantra, mentre quello con i denti sporgenti gli teneva appoggiata la mancina sulla nuca; ma di entrambi, questa volta, non riuscì a ricordare i nomi. Quello con i capelli ricci sollevò lo sguardo su di lui, quando si fermò sulla soglia di quella specie di saletta: uno spazio leggermente più ampio dove vi era una fila di sedie in plastica. La sua presenza riuscì a far avere una reazione anche a Mamoru, che lo guardò fissò, trapassando i suoi occhi. Baiko avvertì aghi neri infilzargli le pupille e accecarlo per un momento. Nessuno dei due disse o accennò nulla; lui era ancora perduto in quello stato di sospensione cerebrale da cui non sembrava riuscire a venire fuori.
Perse il duello visivo, se così poteva chiamarlo, con l’amico di suo figlio e guardò il padre di Haruko. Negli occhi di Kyoshi non lesse alcuna ostilità, ma un dolore immenso, quello sì, e l’espressione angosciata che gli rivolse sembrò dirgli che, sotto l’indecifrabilità, lo stesso dolore velava anche le sue iridi, per quanto non fosse in grado di rendersene conto.
Haruko sollevò la testa, smettendo di singhiozzare. Gli occhi rossi. Lo guardò senza agire per un tempo che non seppe quantificare e anche lui rimase immobile, perché non sapeva, davvero, cosa avrebbe dovuto fare. Non sapeva niente; non era capace nemmeno di capire.
Poi, Haruko si alzò. Il passo un po’ incerto, ma la schiena dritta. Gli si fece vicino con lentezza, misurando la distanza in movimenti piccoli.
Quella scena era irreale, loro erano irreali, quel luogo era irreale, il tempo era irreale. Un enorme sogno, un infinito incubo. Baiko l’avvertiva così, come fosse qualcosa di onirico da cui, molto presto, si sarebbe svegliato e dopo avrebbe potuto dimenticare tutto senza sentirsi ancora in quel modo incorporeo, inconsistente. Non era materia, perché si sentiva leggero e pesante assieme. E allora cos’era?
Sollevò una mano verso Haruko, per toccarle il viso; magari, con quel contatto, sarebbe riuscito a spezzare il proprio stato di ‘non-esistenza’. Ma il contatto che ricevette fu di tutt’altro tipo.
La guancia gli pulsò come vi avessero dato una scudisciata, perché quello schiaffo fece esattamente lo stesso rumore.
Baiko non parlò. Troppo sorpreso, forse, troppo incredulo. Negli occhi di Haruko – che erano anche gli occhi di Yuzo –, in quel rosso che sembrava divorare il nocciola, lesse qualcosa che lo trafisse per la seconda volta. E fu solo questo a ricordargli d’avere ancora un corpo.
Era odio.
Quello che aveva velato le iridi di Yuzo, nell’attimo in cui aveva premuto il grilletto, e che lui non aveva capito.
Spietato, sanguinante, folle.
Odio di una portata che non avrebbe mai potuto affrontare, odio che lo travolse come la piena di un fiume nel sibilare delle parole.
«E’ colpa tua.»
Un ago in mezzo al petto.
«E’ tutta colpa tua.»
Un altro al centro del cranio.
«Sarai contento ora, no? Sarai soddisfatto, vero? Tu e la tua dannata azienda! Tu e il tuo dannato nome da portare avanti! Tu e il tuo volere a tutti costi controllarlo come fosse… fosse… un oggetto!» La voce di Haruko era un esplodere di proiettili, revolver che sparava a ripetizione. E ogni colpo andava a segno. Un altro schiaffo. «Se solo l’avessi lasciato libero… se solo avessi provato a capirlo…»
Occhi rossi, sembrava una strega.
«…se solo avessi provato ad ascoltare tuo figlio per una sola volta, tutto questo non sarebbe successo! Lui non avrebbe mai… lui…»
L’uomo venne raggiunto dall’ennesimo manrovescio. Dio, quanto faceva male.
«Ridammelo, Baiko…», un pugno sul petto, «…ridammelo!», un altro e un altro ancora. Le lacrime nascondevano il rosso e facevano nuovamente brillare il nocciola. Poi altri pugni che non avevano forza sufficiente per ferire, fuori, ma dentro lo stavano uccidendo tanto che lui non riusciva nemmeno a reagire. «Ridammi mio figlio! Ridammelo! Ridammelo!»
Mamoru si alzò di slancio, anticipando il nonno di Yuzo: era riuscito a riemergere dalla stasi, almeno lui. «Signora Morisaki! Signora Morisaki, si calmi!» disse, bloccandole i polsi, «Si calmi, non faccia così…»
«Rivoglio mio figlio! Lo rivoglio… ti prego… Baiko… Baiko…»
Mamoru la tenne stretta, cercando di non piangere di nuovo, ma le lacrime erano tutte lì, tra gola e occhi. Haruko s’aggrappò al giovane con una forza insospettabile e la sua voce era il latrato di mamma lupo che cercava i cuccioli uccisi nelle tagliole.
«…ha diciannove anni… solo diciannove anni…»
Baiko guardava, ascoltava e non aveva risposte. Non aveva niente che potesse darle, in quel momento, per esserle di conforto, perché era la causa e aveva già fatto abbastanza. Rimase fermo sul posto fissando quel quadro vivente come fosse un estraneo spettatore, visitatore d’un museo. Davanti a lui c’erano figure a colori: cupi, intensi, che ferivano gli occhi, ma pur sempre colori. Lui era in bianco e nero; un televisore anni ’50 senza più segnale; white noise(3).
La porta in fondo alla sala si aprì all’improvviso spezzando l’attesa e creandone un’altra, diversa, in perfetta sequenza.
Mamoru lasciò lentamente la presa su Haruko. Quest’ultima mosse qualche passo verso gli infermieri che si avvicinavano, trascinando un lettino. Altre infermiere arrivarono alle spalle di Baiko e si muovevano come formichine bianche. Aprirono la porta della stanza lì accanto, dove fino a quel momento erano rimasti ad aspettare, e fecero entrare il letto.
Occhi chiusi, il capo fasciato da bende e garze, un tubo che partiva dalla bocca, un altro dalla testa. Ma in quello spiraglio di viso che era riuscito a carpire aveva riconosciuto suo figlio.
Era stato come immergersi in un lago ghiacciato e restare sotto, senza respirare, mentre sopra il ghiaccio si richiudeva, intrappolandolo per sempre: i brividi l’avevano trafitto in centinaia.
Un’infermiera aveva gentilmente, ma con decisione, fermato sua moglie che aveva tentato di avvicinarsi.
«Non potete ancora entrare» aveva detto «Per favore, aspettate qui» ed era scomparsa all’interno della stanza, chiudendo la porta alle sue spalle.
Haruko aveva flebilmente allungato una mano. Lui era tornato a guardare l’operato delle formiche attraverso il vetro e spiragli delle tende un po’ aperte.
«I signori Morisaki?»
Una voce più profonda li richiamò ed entrambi si mossero all’unisono verso il medico che restava in piedi con aria seria, ma non allarmata.
«Sì?! E’ mio figlio! Ditemi cosa… come…» Haruko non sapeva nemmeno cosa domandare di preciso e se non ci riusciva lei, che era paradossalmente più lucida, Baiko nemmeno ci provò, ma si limitò a farsi avanti, un passo alla volta, pur tenendosi in disparte.
L’uomo sollevò le mani per fermare la foga della donna. Accennò un sorriso. «L’operazione è andata bene e visto che il proiettile era già uscito, non è stata particolarmente invasiva. Tra ventiquattro ore lo potremo anche staccare dal tubo del respiratore. Inoltre, il danno, per fortuna, è più limitato del previsto: il proiettile ha toccato solo in piccola parte la corteccia prefrontale poiché la traiettoria non era dritta, ma leggermente inclinata» annuì. «Potrà recuperare in alcuni mesi, quasi sicuramente senza conseguenze.»
Haruko si coprì la bocca, chiudendo gli occhi e cantilenando quel ‘grazie, Dio, grazie’ anche per lui, che si limitò a inspirare a fondo.
Anche sul viso degli amici di Yuzo, Baiko lesse l’allentarsi della tensione.
Mamoru respirò un paio di volte, nascondendo gli occhi dietro le dita e sforzando sé stesso a non piangere, nemmeno di gioia, ma se da un lato fu in grado di serrare qualsiasi lamento, dall’altro non riuscì a fermare le lacrime che scorsero ai lati del viso prima che le mani le cancellassero.
«Il problema», il medico aveva ripreso a parlare e stavolta sembrava titubante, «…è che, in questi casi, di solito induciamo una condizione di coma farmacologico, monitorata, per permettere all’organismo di facilitare le operazioni di guarigione, ma non abbiamo potuto: il ragazzo era già in coma.»
Silenzio.
I brusii, le cantilene, i sospiri sollevati, ogni suono era stato stroncato. Gli occhi erano di nuovo orbite spalancate, in grado di inghiottire l’universo, e il medico continuava a rivolgersi a quei vuoti cosmici.
«Al termine dell’intervento, ci siamo resi conto che non rispondeva agli stimoli.»
«Ma… ma è momentaneo, no?... vero?»
I ringraziamenti di Haruko agli Dei le erano stati restituiti, tornati indietro, mittente sconosciuto.
«Questo non lo sappiamo. Non è un coma artificiale.» Il medico si strinse nelle spalle, scuotendo il capo. «Il risveglio potrebbe avvenire tra poche ore, giorni, mesi. Anni. Mai più.» Inspirò a fondo. «Si deve solo aspettare, adesso. Mi dispiace» e, detto questo, se ne andò lasciandoli perduti nello spazio a gravità zero, sospesi e immobili come il cervello fluttuante nella testa di Baiko, come l’anima di Yuzo, addormentata chissà dove, in meandri sconosciuti e invisibili ai loro occhi. Tutti volavano, senza smettere di toccare terra. L’irrealtà tornò a essere reale e parte di ciascuno di loro che si trovavano lì e sapevano che Yuzo stava bene, sì, sarebbe guarito, sì, ma avrebbe continuato a dormire.
Dormire.
Morire.
Essere o non essere?(4)
Haruko s’afflosciò al suolo come un palloncino sgonfio. Venne subito raggiunta da suo padre, che tentò di farle coraggio, aiutandola a rimettersi in piedi per avvicinarsi al vetro dove poteva vedere il corpo del figlio, ma erano solo spoglie, perché Yuzo non era lì, non in quel momento.
Alcuni infermieri uscirono e la stessa che poco prima aveva impedito ad Haruko di entrare, le fece cenno che poteva accomodarsi.
«Massimo due alla volta» si raccomandò.
Kyoshi si volse per cercare un cenno in Baiko, ma quest’ultimo non si mosse, gli occhi fermi sul vetro e ciò che riusciva a vedere. Allora accompagnò lui stesso Haruko dentro la stanza.
Di fuori, Mamoru era rimasto in piedi, fermo come un albero in inverno: vivo e morto al contempo, senza le sue foglie. Lo sguardo fisso a terra.
Hajime e Teppei erano nuovamente crollati sulle sedie. Chi aveva la testa sprofondata nelle mani e chi le mani intrecciate all’altezza delle labbra.
Baiko non distolse lo sguardo, nemmeno quando arretrò di un passo, nemmeno quando i passi divennero due e poi tre e girò le spalle a quella piccola saletta, a quel vetro, a quel corpo. Non distolse lo sguardo perché l’immagine era ormai impressa sulla retina e anche se non l’avrebbe avuta di fronte, sarebbe rimasta stampata davanti agli occhi, tatuata nel cristallino.
Trascinando ancora la giacca sul pavimento – che era come trascinare sé stessi, in fin dei conti: il suo spirito era rinchiuso in quell’indumento, ora sudicio e informe, che per anni aveva rappresentato il suo rigore e ordine, mentre il corpo era vuoto proprio come quello di Yuzo –, rientrò nell’ascensore le cui porte metalliche si chiusero con un rumore cupo che gli evocò quello dei grandi portoni dei templi shintoisti.
Baiko rimase fermo al centro della cabina, dando le spalle all’entrata. Il mezzo si azionò, lento, sprofondandolo verso il piano terra con un sottile rollio.
Plin.
«Signore, non esce?»
Quella voce giunse da dietro di lui che si volse a rallentatore. Un medico restava fermo tra le porte aperte dell’ascensore, guardandolo con perplessità.
«Si sente bene?»
«Sì» monosillabica risposta e poi fuori, senza più dare spiegazioni. Percorse l’intero atrio con lo stesso passo e la stessa velocità. Passò davanti al banco dell’accettazione. L’infermiera che l’aveva accolto al suo arrivo lo notò e fece per chiamarlo, ma si fermò: sembrò capire che non avrebbe avuto risposta.
Fuori la pioggia continuava a cadere con un intenso scrosciare. Fitta, folta come le fronde d’una foresta, e ferma, quasi dritta. Cancellava tutto, portava via lo sporco dalle cose, rubandone i colori. ‘Paga pegno! Paga pegno!’, diceva, ‘Per la vita che ti do, paga pegno!’.
Baiko camminò fino alla fine della pensilina che copriva l’ingresso dell’ospedale, camminò per il viale che conduceva all’enorme cancellata delimitante l’intero perimetro della struttura. Un’ambulanza sfrecciò accanto al marciapiede a tutta velocità. Baiko continuò a camminare e nella testa rimbalzò il suono della sirena contro le ossa del cranio, fino a dissolversi.
Fuori dal cancello, si fermò.
La pioggia iniziava a insinuarsi sotto il tessuto della camicia, tra i capelli; era già arrivata alla pelle del viso e delle mani, ma lui sembrò non sentirla né avvertirne il contatto. Della gente correva attorno a lui, aggirandolo e guardandolo per un attimo da sotto gli ombrelli; qualcuno borbottò che doveva togliersi dal centro del marciapiede perché intralciava il passaggio, ma lui non si mosse, poiché non li aveva sentiti.
A terra, l’acqua aveva creato una pellicola sottile che ricopriva il manto stradale. Le suole facevano suoni masticati e acuti. La giacca si era impregnata quasi subito, ma Baiko aveva continuato a trascinarla come fosse stata un peso impossibile da sollevare. Un lampo diffuso cavalcò le nubi sopra la sua testa, accennando un momento di luce in quella sera che era calata senza che nemmeno se ne rendesse conto. L’ora di cena era morta e sepolta tra riso e verdure che altri avevano mangiato al suo posto, eppure sentiva ugualmente lo stomaco pieno, occluso.
Sollevò la testa fino a piantare lo sguardo nelle nuvole grigie. Gli occhi vennero trafitti da centinaia di gocce e il viso venne lavato da lacrime non sue, ma piangevano al suo posto perché il suo volto era ancora immoto, perché ancora si sentiva estraneo nel proprio corpo, perché ancora sembrava un bambino smarrito senza alcuna direzione.
Paga pegno! Paga pegno!
Baiko abbassò il capo e si volse prima a destra e poi lentamente a sinistra, aspettandosi di scoprire cosa c’era da una parte e dall’altra, oltre il fondo della strada, poi si ricordò che doveva andare a destra e si incamminò verso casa. Non prese alcun mezzo e anche per questo ci mise più tempo del previsto per arrivare a destinazione, ma per lui il tempo aveva perso significato nel momento dello sparo. Il suo orologio interno, ciò che lo teneva in contatto con la realtà, che gli dava la tridimensionalità del visibile e lo rendeva reattivo e partecipe si era bloccato, il vetro era spaccato e le lancette spezzate; lui camminava perché non sapeva cosa fare se non quello.
Davanti casa infilò la mano nella tasca dei pantaloni, estrasse le chiavi e varcò il cancello; la stoffa della giacca aveva raccattato sporco e acqua, erba del prato, carta straccia, trascinata per chilometri e a mano a mano che saliva i gradini lasciava qualcosa e prendeva qualcos’altro; il suo simulacro era ricettacolo dei resti altrui e di quella pioggia sudicia che aveva assorbito come una spugna. Entrò in casa, chiuse la porta alle spalle e lì stette, appoggiato contro il legno.
Non si sentiva più alcun rumore, tra quelle mura. Il ticchettare dell’acqua, il ciabattare dei piedi, lo scorrere delle vetture, parole volanti e suoni di vita. Adesso c’era solo il silenzio, il respiro del suo corpo, lo stillicidio delle gocce che cadevano dai capelli e dagli abiti. Lo spazio era cubico, una scatola di cui il cervello iniziava a percepire la forma. La mano smise di reggere il proprio spirito e la giacca cadde al suolo in un fruscio bagnato e pesante; si afflosciò su sé stessa come melma. Le bolle in cui i pensieri erano stati racchiusi cominciarono a rompersi, a esplodere con piccoli scoppi, e l’astronauta solitario rientrò nello shuttle, riscaldando le sinapsi.
Connessioni. Parole.
Non sentiva ancora i sentimenti, però aveva una domanda. Una sola.
Baiko si lasciò scivolare al suolo, guardando il niente.
Parlò, ma nessuno rispose, perché l’unica persona che avrebbe potuto dirgli come stavano le cose aveva deciso di dormire per sempre.
«Yuzo… sono stato io a renderti così spietato?»

 

“Yes, my head's got a hole in it /
Sì, la mia testa ha un buco
and everything's been ruined by the rain /

e ogni cosa è stata rovinata dalla pioggia

Meat PuppetsRoof with a hole

 

“Ti farò male più di un colpo di pistola,
è appena quello che ti meriti.
Ci provo gusto me ne accorgo ed allora?
Non mi vergogno dei miei limiti e lividi.”


SubsonicaColpo di pistola

 

 


[1] [4]: citazioni da “Amleto” di W. Shakespeare.

[2] la Smith&Wesson 15 .38 special è stata la pistola d’ordinanza della polizia americana fino a circa i primi anni ’90, prima di venir sostituita dalla Beretta M9. E’ un revolver a tamburo, sei colpi, precedentemente conosciuta come K-38 Combat Masterpiece (Pistoletta puccia: *clicca qui* e per chi non avesse scoperto l’arcano che avevo indicato nelle note alle canzoni del capitolo precedente, beh, era proprio questa pistola l’elemento presente nel video di “Come as you are”. :3)

[3]WHITE NOISE: il white noise è quel rumore che – almeno fino a quando le televisioni andavano in analogico – si sentiva quando si perdeva il segnale. Il fruscio fastidioso. (qui potete sentire il famoso white noise, e saperne di più sulla sua natura fisica: *clicca qui* )


 

Note Finali:

Due parole prima di lasciarvi alle amenità (per farvi ridere! XD).
Il Giappone, purtroppo, è flagellato dai suicidi/tentativi di suicidio, soprattutto giovanili.
La troppa pressione, le troppe aspettative cui sono pressati i ragazzi, e così gli adulti, li fanno arrivare spesso all’estremo della resistenza psicologica. Molti vanno in paranoia, si chiudono in casa e non escono più, vegetano e altri la fanno finita.
Questo non è il caso di Yuzo e vorrei che questo sia molto chiaro. :D
Yuzo non agisce in quel modo perché si è rotto i coglioni di vivere o perché gli ostacoli sono troppo grandi. La sua è una vendetta, totale.
Come risposi in una recensione su ELF, quando si arriva al limite massimo di sopportazione, due sono le cose: o si soccombe o si tira fuori la parte più spietata che si ha.
Yuzo ha puntato sulla seconda. :3
Ovvio, non ha considerato tutte le conseguenze perché è una decisione presa con la lucidità del momento e in maniera molto egoista.
XD ok, fine ciarle, ci tenevo che il concetto fosse chiaro.
E ora…
MINCHIATE!!! XDDDDD

*parte la musichetta da circo: Pepeperepepepere!*

Beeeenvenuti nell’angolino dal titolo: “Trame Delirio: per di qua --->!” ovvero “Come creare tramoni alla ‘ohmygodwowgenius’ e poi rendersi conto che erano una cazzata” XD
Perché, sì, anche Lucciola ha avuto un passato da Trama Delirio – altrimenti non sarebbe stata cominciata nel 2010 e poi abbandonata a sé stessa.
Dovete sapere che il tutto era stato orchestrato per essere una Genzo/Yuzo, ma poi non ho saputo resistere e sono rimasta nel mio ambiente congeniale: la MamoruYuzo resterà SACRA forevah.
Inoltre, la questione familiare non era il 100% del fulcro, ma solo un 40%.
In primis: Yuzo avrebbe dovuto sparare a suo padre, senza ucciderlo, ovviamente, ma con abbastanza acrimonia da portare Baiko a denunciarlo per tentato omicidio. Yuzo finiva in galera dove avrebbe dovuto scontare un decennio, salvo uscire per buona condotta dopo sette anni.
Quindi, tutta la storia era incentrata su Yuzo e il suo iter dietro le sbarre e poi fuori le sbarre.
Ed è stato lì che mi son detta: “Naaa, ragazzi, che stronzata.”
Correggere il tiro è stata l’idea migliore.
Insomma, quando una trama non si incastra perfettamente e/o cozza con i caratteri dei pg, io la chiudo nel cassetto in attesa di avere il giusto espediente per farla quadrare in tutto. In questo caso, ho rimescolato buona parte degli elementi che volevo tenere e buttato via quelli inutili.
Così fila molto di più, ma vi racconterò poi il resto della storia, giusto per farvi ridere un po’! *ridacchia*

Le Canzoni del capitolo:

Questo capitolo è un po’ particolare perché abbiamo un ‘intreccio’ di due canzoni: una che riguarda più il punto di vista emozionale di Baiko, l’altra il punto di vista di Yuzo.

- Roof with a hole (Meat Puppets): Diciamo che è stata questa a farmi stravolgere la trama e a permettere, quindi, che la storia venisse scritta X3.
Immagino che molti di voi non abbiano idea di chi sia questo gruppo e non vi biasimo. XD Fanno Punk Rock, sono americani e, al momento, ancora insieme. ** da giovane, il cantante era un gran bel pezzo di giovanotto, ma la vecchiaia non l’ha aiutato. XD Ad ogni modo, l’album “Too high to die” l’ho sentito talmente tante volte da aver rovinato il CD e questo è tutto dire. Ci sono moltissime loro tracce che ho adorato, ma questa in particolare mi è sempre piaciuta. Penso marchi bene il modo in cui la situazione sia precipitata, arrivando a toccare il fondo. Come si può immaginare, questa è più legata a Baiko anche se la strofa finale, quel ‘la mia testa ha un buco’, è associabile sia a entrambi: il primo a livello oggettivo, e il secondo a livello concettuale (inteso come ‘vuoto’).
In definitiva, posso dire che questa canzone rappresenta l’atmosfera dell’intero capitolo. :D
(piccola nota: il video non è quello originale perché non ne esiste uno :3)

- Colpo di Pistola (Subsonica): questa canzone dei Subsonica io l’avevo totalmente rimossa! °_° Mi è capitata davanti per puro caso (XD e rivederli così giovani, Samuel addirittura con i capelli, mi ha fatto un po’ specie! XDDD).
All’inizio doveva esserci solo Roof with a hole, poi però ho pensato che ci fosse qualcosa che rimarcasse un po’ meglio il concetto dietro il gesto di Yuzo.
Lo ribadisco: Yuzo non si vuole suicidare, si vuole vendicare, che è molto diverso.
La strofa del ritornello, ‘ti farò male più di un colpo di pistola/è appena quello che ti meriti’, indica proprio l’intento vendicativo.


E anche per questo capitolo è tutto, grazie a chi continua a seguirmi! :3

   
 
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