Disclaimer: i personaggi sono copyright della sensei Amano Akira.
Prompt: 43. Questa è la fine di un attimo, o solo
un bellissimo sviluppo di un amore che non ci sarà mai per me e per te?
(Tabella)
Note: sempre siano maledette le
canzoni trovate random sugli amv.
D: *fan della G/Giotto che si ritrova a scrivere di
codeste cose*
Note utili alla lettura: si tratta di un prequel alla Prima Generazione, ossia
un’ipotesi di come il nostro amato Boss abbia raccattato quegli altri cinque sciambroccati dei suoi Guardiani a parte G. Qui, nello
specifico, si tratta di Daemon. Si segnala quindi la presenza di versioni
14-15-16Years Old!Character
;D
Nota due: mettetevi tutti una mano sul cuore, perché io stavo per mettere
Daemon come tuttofare in un circo, il che avrebbe almeno spiegato il suo dubbio
gusto nel vestire, ma mi sono trattenuta per amor vostro.
No, non sto scherzando. Lo stavo davvero piazzando in un circo. *muore*
Questa è la fine di un attimo,
o solo un bellissimo sviluppo di un amore
che non ci sarà mai per me e per te?
A quel tempo, Giotto non ci pensava minimamente, al gruppo di vigilanza, men che meno alla Famiglia che si sarebbe sviluppata da
esso gli anni seguenti.
D’altra parte, quello di Giotto era solo un sogno da ingenui, come se ne fanno
tanti quando si è giovani.
La città in cui era cresciuto fino a quel momento – quindici anni di vita tutto
sommato spensierata, per come può esserlo quella di un ragazzo a cui, insieme
ai valori comuni a tutti i suoi coetanei, viene insegnato anche il significato
di parole spaventose come “omertà” – era bella.
Ai suoi occhi quel posto aveva dei lati bui, ma era anche bello, e degno di
essere protetto; c’erano persone a cui Giotto voleva bene, che avrebbe voluto
sempre tenere lontane dal pericolo. Per questo non se ne sarebbe mai andato
abbandonando quella città.
Quella era una cosa che aveva deciso fin da bambino, ma lo aveva confidato solo
a G., e a nessun altro.
«Giotto.» si sentì chiamare, e alzò lo sguardo istintivamente in direzione
della voce, notando proprio il compagno arrivare.
Gli sorrise, facendogli un cenno con la mano per dar segno di averlo visto;
quando gli fu vicino, si scostò dal muro contro il quale si era poggiato in
attesa.
Si avviarono quindi insieme, lungo la strada principale del mercato mattutino.
G. si stiracchiò, le braccia stese verso l’alto, sbadigliando apertamente;
Giotto ridacchiò sommessamente: «Ti ho buttato giù dal letto?» domandò
scherzoso.
G. ricambiò con un sorrisetto divertito: «Sì, ora sentiti in colpa per questo.»
lo prese in giro.
Erano soliti camminare per le strade spesso, specialmente con il mercato:
passavano molto tempo ad osservare chi girava affaccendato per le bancarelle, a
volte si fermavano nei pressi della piazza, altre in una strada parallela meno
affollata. Parlavano di tutto, dagli argomenti più leggeri ad altri più
importanti, dagli avvenimenti che scivolavano non visti fra i vicoli della loro
città a quelli più felici che erano invece esposti alla luce del sole.
Uno dei posti preferiti, però, era sempre la fontana in piazza: con un po’ di
fortuna, a volte vi era qualche artista di strada che offriva spettacoli
divertenti, specialmente per i bambini.
«Ehi Giotto» lo richiamò il compagno: «guarda lì.» aggiunse, indicandogli con
un discreto cenno della testa uno dei lati della strada principale che portava
alla piazza.
Il biondo si voltò in quella direzione, notando una donna – la conosceva, era
del suo quartiere – che con la figlioletta si affrettava quasi furtivamente
lungo la strada, come se avesse fretta di tornare a casa.
O di allontanarsi da lì.
Si scambiò uno sguardo d’intesa con G., attraversando quindi la via fino a
raggiungere il lato opposto a quello dove si trovavano precedentemente; senza
velocizzare troppo il passo, presero ad avanzare nella direzione opposta a
quella in cui si era mossa la donna.
Fu presto chiaro il perché di tanta urgenza: arrivavano – sempre più
chiaramente man mano che si avvicinavano all’incrocio giusto – due voci
concitate, che si rivolgevano probabilmente alla stessa persona, una terza
evidentemente.
Stavano ponderando come fosse più saggio muoversi quando i due probabilmente
abbandonarono la via in cui erano dall’altra entrata, che dava sul mercato.
Sia G. che Giotto si mossero a quel punto più velocemente, raggiungendo
finalmente l’angolo giusto e voltandolo: capire cosa fosse accaduto fu anche
troppo facile quando inquadrarono una figura inginocchiata a terra. Gli furono
velocemente accanto, e nell’avvicinarsi poterono notare che si trattava
praticamente di un coetaneo, anno più, anno meno.
Parlare di rissa sarebbe stato sbagliato: dubitavano entrambi che qualcuno
oltre quel ragazzo le avesse prese; qualunque fosse la loro congettura,
tuttavia, fu brutalmente interrotta dallo sguardo seccato che l’altro rivolse
sia a G. che a Giotto, l’aria rabbiosa.
«Beh, che avete da guardare?!» sbottò, tutt’altro che amichevole, cosa che
bastava già di per sé a non risultare esattamente il massimo della simpatia per
G. che era – indubbiamente – il meno accomodante dei due.
Giotto al contrario gli rivolse un sorriso gentile, con un’impercettibile
sfumatura di disagio: di certo per l’altro non doveva essere granché mostrarsi
appena dopo essere uscito un po’ malconcio da un litigio.
Gli porse la mano con l’intento di aiutarlo ad alzarsi: «Scusa, non volevamo
fissarti.» assicurò con le migliori intenzioni.
«Io sono Giotto e lui è G.» aggiunse, rimanendo in attesa. L’altro, però, si
limitò ad osservare la mano per poi allontanarla con un gesto brusco della
propria: «Bene, tanto piacere ma non mi serve aiuto.» rispose scortese,
alzandosi da solo. Portò un braccio vicino al viso, pulendosi sulla manica un
punto imprecisato del volto.
Gli abiti erano sporchi laddove avevano toccato terra probabilmente, e
sembravano rammendati alla bene e meglio in qualche punto; il ragazzo portò le
mani a darsi un paio di pacche sui pantaloni, tanto per togliere la polvere
evidentemente, dopodiché senza aggiungere altro si voltò con tutta l’intenzione
di andarsene.
G. si allungò verso di lui per posargli una mano sulla spalla e trattenerlo: «Ehi,
un grazie non sarebbe male, sai?» sbottò innervosito da quell’atteggiamento;
l’altro lo osservò da sopra la propria spalla, spostando lo sguardo dalla mano
del ragazzo a lui. Incurvò le labbra in un sorrisetto lieve, arrogante, come se
fosse nella posizione di guardarlo dall’altro in basso.
«Non mi ricordo quand’è che avrei chiesto aiuto.» fece notare: «Cos’è, vuoi un
biscottino per premio? O devo dirti qualcosa tipo “grazie, mio eroe”?»
continuò, voltandosi completamente a guardarli entrambi direttamente ma
sfuggendo alla presa di G. su di lui.
«Per me siete solo degli impiccioni.» concluse, portando entrambe le mani in
tasca e incamminandosi per uscire dalla via.
«Tch, ma guarda tu. Spero che affoghi nella fontana.» sputò fuori G., mentre
Giotto sospirava rassegnato e gli dava una pacca leggera sulla spalla, come a
consigliargli di lasciar stare.
A Giotto era capitato di
incontrarlo di nuovo, anche se non gli aveva mai rivolto la parola; la
situazione non lo aveva permesso, dal momento che lo aveva visto di nuovo nel
mezzo di… uno spettacolo. O almeno, supponeva che
fosse da considerarsi tale.
Proprio in piazza Giotto aveva notato una piccola folla, formata
prevalentemente da genitori con i propri figli, nei pressi della fontana. Gli
venne da sorridere: lui stesso ricordava che da bambino, con G. le cose più
divertenti da fare a parte giocare in strada erano gli artisti che di tanto in
tanto passavano dalla cittadina, e che costituivano la massima attrazione.
Avvicinandosi a sua volta, in realtà non aveva notato subito quel ragazzo, ma
prima l’adulto che era con lui – forse suo padre? – e che si stava esibendo.
Lo spettacolo era stato bello, i bambini si erano divertiti e anche quel
ragazzo era stato abile, benché Giotto non se ne intendesse granché. Si era
trattenuto aspettando che la folla scemasse e, accortosi di essere stato visto
nonché riconosciuto dall’altro probabilmente, aveva alzato la mano in un cenno
di saluto.
Totalmente ignorato.
«Daemon, cosa vuoi mangiare per pranzo?» sentì chiedere all’uomo, apprendendo
finalmente anche il nome del ragazzo; l’artista di strada notò in quel momento
Giotto e gli si rivolse con espressione amichevole: «Ehi, giovanotto, serve
qualcosa?»
Giotto indicò Daemon, l’aria di genuino divertimento: «No, ho riconosciuto
Daemon e mi sono fermato.» replicò con semplicità.
L’uomo sorrise più ampiamente, alternando lo sguardo fra i due ragazzi: «Oh,
quindi sei un amico di Daemon—»
«Non è mio amico per niente!» sbottò seccato il diretto interessato, voltandosi
verso l’uomo appena interrotto: «Vado a prendere da mangiare» comunicò «e
quando torno non ti voglio trovare qui.» aggiunse duramente, rivolto a Giotto,
per poi allontanarsi.
Il biondo fu sorpreso dalla reazione, che non riuscì a comprendere del tutto.
«Ah, quel ragazzo è proprio impossibile.» sentì commentare al più grande, il
tono che aveva però una nota bonaria più che di rimprovero.
Giotto abbozzò un sorriso leggero: «Voi siete suo padre?» chiese, incuriosito.
L’uomo lo fissò una manciata di secondi prima di scoppiare in una fragorosa
risata.
«Suo padre? Certo che no!» chiarì subito l’equivoco: «Sono una specie di
maestro, se vogliamo metterla su questo piano. L’ho trovato in un’altra città
da cui sono passato. Era già in strada, già solo e già con quel pessimo
carattere. Purtroppo come lui ce ne sono anche troppi di ragazzi.» commentò con
una nota amara nella voce.
«Ah, non con il suo talento però. È eccezionale, presto non avrò più nulla da
insegnargli. Eh, diventerò un vecchio inutile.» scherzò su, strappando un
sorriso a Giotto.
«Ho visto lo spettacolo.» prese parola il biondo: «Siete un prestigiatore?»
domandò, provando ad indovinare. L’uomo sorrise furbo: «Non esattamente. Quelli
come noi si definiscono “illusionisti”. Ma per molti la differenza è quasi
inconsistente.» aggiunse.
Giotto ne fu immediatamente affascinato.
«E quel ragazzo» riprese l’uomo, lo sguardo nella stessa direzione presa da
Daemon: «che il cielo mi fulmini se non è destinato a diventare il miglior
illusionista del suo tempo.»
A Giotto non era capitato di vederlo altre volte per un’intera settimana: non
che avesse girato per la città alla ricerca specifica dei due, ma quando con G.
– e, recentemente aggiuntosi, Cozart – capitava di
passeggiare, aveva sempre dato un’occhiata qua e là.
Era convinto ormai che avessero cambiato città; sarebbe stato comprensibile
dopotutto, visto che ultimamente non si stava affatto tranquilli lì, anche se
ammetterlo per Giotto era un dispiacere.
Poi, se l’era ritrovato davanti proprio al mercato: si erano fissati per
qualche istante, di certo entrambi stupiti, dopodiché era stato Daemon il primo
a muoversi. Di nuovo gli aveva rivolto quell’occhiata seccata, e si era
incamminato verso sinistra.
Stavolta, però, Giotto aveva preso a seguirlo senza esitazione: «Daemon, stai
andando a fare un altro spettacolo?» chiese, in un modo come un altro per
iniziare un’innocua conversazione.
«No, ne abbiamo appena finito uno, spiacente.» replicò l’altro, continuando a
camminare senza voltarsi a guardarlo.
Giotto lo fissò: non gli era chiaro perché Daemon sembrasse avercela tanto con
lui - o, piuttosto, con il genere umano
– ma non era carino quel modo di fare, visto che lui non gli aveva fatto alcun
torto. Capiva il pessimo carattere menzionato dall’uomo quel giorno, ma era
un’attitudine che non gli piaceva: dal punto di vista di Giotto, era ingiusto
trattare freddamente o con rabbia persone che si dimostravano gentili, o almeno
bendisposte.
«Oh, e hai fatto apparire un coniglio da un cappello?» lo punzecchiò, il
sorriso gentile immutato ma che, con quel tono di falsa simpatia, aveva un che
di inquietante – Daemon avrebbe presto appreso che se Giotto sorrideva, non
necessariamente era qualcosa di positivo.
Daemon lo fissò da sopra la propria spalla, l’espressione eloquente: «Io non tiro fuori conigli dal cappello o da
qualsiasi altro abito.» sottolineò, punto sul vivo.
Giotto, ancora quel sorriso un po’ inquietante sulle labbra, replicò un: «Ah,
non è quello che fanno tutti i maghi da quattro soldi?» con falsa casualità ed
innocenza.
L’altro sorrise, fingendosi calmo, ma ottenendo un risultato che appariva molto
meno naturale di quello del biondo: «Peccato che io sia un’illusionista, non un
mago.» fece notare, piccato.
«Oh, e non è lo stesso?» buttò lì Giotto.
«No che non è lo stesso!» sbottò Daemon, voltandosi totalmente verso di lui e
fermandosi finalmente. Cosa che invece non fece il biondo, continuando a
camminare con tutta calma, passandogli accanto e superandolo, con un «Uhm, io
pensavo di sì.»
Daemon si accigliò, prendendo a marciargli dietro – senza rendersi conto del
fatto che ormai i ruoli si erano ironicamente invertiti.
«Beh, mi spiace deluderti, ma è così.» pronunciò, il tono ironico.
Giotto si voltò verso di lui, l’ennesima espressione innocente: «Oh, allora
somigli di più ad un saltimbanco?» domandò senza scomporsi – specie
considerando che gli stava dando del clown.
«Sai che sei insopportabile?!» sbottò Daemon punto sul vivo, voltando l’angolo
subito dopo Giotto che, finalmente, sembrava essersi deciso a fermarsi, quasi
rischiando che l’altro gli finisse addosso.
«Beh, e ora perché ti sei fermato di botto?» chiese esasperato; il biondo
indicò con rinnovato entusiasmo la panetteria che dava sulla strada: «È ora di
pranzo, mangiamo insieme.» propose.
Daemon si chiese se fosse tipico di quella città avere sbalzi d’umore simili, o
se quel tipo fosse un caso isolato.
«Perché mai dovrei pranzare con te?» osservò accigliato. Giotto gli rivolse un
sorriso, limitandosi a replicare con un: «Per cortesia dopo avermi trattato
male senza motivo?» entrando nel negozio senza aspettare la sua risposta.
Lo odiava, seriamente.
«Com’è?» chiese Giotto, lo
sguardo su Daemon che addentava il pane con dentro il formaggio. L’altro
masticò ignorandolo dopodiché, quando fu libero di parlare, lo fissò sorridendo
con falsa cortesia: «Buonissimo. Peccato la compagnia.»
Giotto sospirò rassegnato: «Perché ce l’hai tanto con me?» chiese diretto.
Daemon gli prestò attenzione per la prima volta da quando si erano seduti: «Io
non ce l’ho con te. Non mi piacciono gli estranei. Tanto meno se ficcanaso.»
replicò.
A quelle parole, Giotto sembrò realizzare qualcosa: «Ah, ti riferisci a quando
io e G. ti abbiamo visto la prima volta?» chiese, osservandolo; se non
ricordava male, anche in quell’occasione Daemon li aveva definiti degli
impiccioni.
«Mh.» fu il massimo della risposta di Daemon, che fece sorridere Giotto; per
certi versi, in alcune cose gli ricordava un po’ G., con la differenza che con
il tempo l’amico aveva imparato ad attaccar briga meno di frequente. Inoltre,
Daemon sembrava molto più diffidente nei confronti degli altri. Forse, pensò
Giotto, a mettere Daemon sulla difensiva era proprio la totale assenza di
diffidenza nel biondo. Lui – se fosse un pregio o un difetto era ancora da
capire – tendeva a fidarsi naturalmente, per indole.
«Beh, era normale fare i ficcanaso.» riprese a quel punto: «Abbiamo visto che
qualcuno era stato messo alle strette, probabilmente picchiato. Non è naturale,
cercare di fare qualcosa?» disse il biondo, profondamente convinto dalle
proprie parole.
«Che stupidaggine.» replicò Daemon, fissandolo come se Giotto avesse detto
un’idiozia di proporzioni bibliche: «Cose come quella non succedono mica una
volta ogni tanto. Se uno è più debole, l’altro se ne approfitta. Se uno viene
picchiato o gli sta bene essere sfruttato, allora non ci può fare niente. Se
invece non gli sta bene deve diventare più forte. E anche in quel caso, tu non
puoi farci nulla. Sono cose che uno deve fare da solo, è solo una questione di
forte o debole.» spiegò, addentando il panino, ormai quasi finito.
Giotto aveva ascoltato in silenzio, cercando di capire, ma dal suo punto di
vista girarsi dall’altra parte e lasciar perdere non era accettabile.
«E poi cosa credi? Che l’impegno di una sola persona ribalti il modo in cui va
il mondo? È da ingenui.» sentenziò, l’aria annoiata di un adulto che è
obbligato a prestare attenzione ai discorsi di un bambino, idealistici e
impossibili da concretizzare.
Giotto non aveva mai distolto lo sguardo da lui, l’espressione seria e tutta la
sua attenzione su Daemon, il quale parve rendersene conto anche quando si fu
zittito.
«Beh, che c’è?» chiese.
Giotto tuttavia spostò lo sguardo da lui, portandolo di fronte a sé; socchiuse
gli occhi, quasi ad assimilare quanto detto fino a quel momento, e sospirò
lentamente e profondamente.
«Quello che dici, probabilmente, è come le cose stanno davvero.» esordì: «Ma
nonostante questo, io vorrei proteggere questa città. Forse è un sogno
infantile, ingenuo, o di poco conto» ammise, alzando lo sguardo verso il cielo «però
io vorrei provare. Non “tutto il mondo”, sarebbe assurdo, ma “questo posto”… è
un inizio. Non è poi così male, no?» concluse, un sorriso sereno ad incurvargli
le labbra.
Daemon, come in risposta ai movimenti di Giotto, aveva portato lo sguardo ai
propri piedi, quasi non potesse o non volesse osservare quell’unico ideale.
Alzò lo sguardo, dopo qualche istante di silenzio.
Sbuffò.
«…Certo che tu parli proprio come un vecchio.» se ne
uscì, il tono annoiato che portò il biondo ad imbronciarsi: insomma, lui stava
facendo un discorso serio e sincero, confidando qualcosa che aveva detto solo a
G.
Mentre Giotto rimbrottava contro di lui, Daemon si sentì colpevole; l’aveva
sminuito perché era una realtà irrealizzabile per lui, ed osservarne una possibilità
senza certezze era per lui a dir poco spaventoso.
Anche Giotto lo era.
Quel sogno infantile, però, aveva iniziato a concretizzarsi.
Dalle parole di Cozart, che avevano smosso la
convinzione di Giotto ancor più di prima, all’incoraggiamento di G. che aveva
giurato di restare sempre al suo fianco; quel gruppo di vigilanza in cui
nessuno credeva stava andando avanti e lentamente, a piccoli passi, cresceva.
Con Daemon, da quella volta, Giotto aveva parlato in qualche altra occasione,
ma in maniera piuttosto casuale: quel ragazzo sembrava sparire dalle strade
della città, tanto che il biondo quasi si meravigliava di incrociarlo di nuovo,
quando ormai credeva che se ne fosse andato.
Per quello si era tanto stupito di vederlo arrivare così, senza preavviso. O
forse, a stupirlo era stata quell’illusione che persino lui, Giotto, aveva
inizialmente – e confusamente – scambiato per realtà.
Un’illusione tanto potente, o così ben costruita, da non essere nemmeno
lontanamente palpabile.
Così difficile da percepire e da distinguere dalla realtà, da far venire i
brividi.
Giotto non avrebbe saputo dire in che momento, di preciso, Daemon si fosse
intromesso né, ad essere sinceri, riusciva a capirne con esattezza il motivo;
quel che era certo – riconosciuto addirittura dallo stesso G., che continuava a
non averlo granché in simpatia – era che il suo intervento era stato
provvidenziale.
Quando l’illusionista era rientrato nel suo campo visivo, sembrava affaticato,
il respiro velocizzato – Giotto non poteva saperlo allora, ma quella era stata
per Daemon la prima volta in cui creava un’illusione non per divertire o
attirare l’attenzione in uno spettacolo, ma per…
soccorrere qualcuno.
«Daemon…?» aveva chiamato, ancora un po’ frastornato.
E lo sguardo che l’altro gli aveva rivolto era stato, ancora una volta, quello
seccato del primo incontro in quella strada secondaria.
«Parola mia» aveva esordito «tu sei veramente un idiota!» aveva esclamato,
senza il minimo riguardo naturalmente.
Non aveva aggiunto altro, e si era limitato a stare in disparte mentre G. e Cozart subito avevano affiancato il biondo per sincerarsi
delle sue condizioni.
Era stato Giotto, dopo aver tranquillizzato i compagni assicurando di stare
bene, ad avvicinarlo nuovamente.
«Grazie per il tuo aiuto, Daemon.» aveva pronunciato, il sorriso gentile sempre
al suo posto, gli occhi su di lui.
«Non era affatto per aiutare te.» replicò l’altro, piccato.
Ma, nonostante entrambi sapessero che non era vero, e che si trattava solo di
un debole tentativo di negare l’evidenza, Giotto non disse nulla in merito.
A rompere il silenzio creatosi, stranamente, fu Daemon: «Perché sembra che tu
non sia capace di dare la priorità a te stesso? O meglio, perché sei così
stupidamente masochista?»
Quella domanda dal tono esasperato, che non si era aspettato, lo fece
ridacchiare sommessamente: «Questa è una domanda inaspettata da parte tua. Lo
sai già, perché lo faccio.» gli fece notare con dolcezza.
«Infatti è qualcosa di così irragionevole che continuo a fare la stessa domanda,
nella speranza che arrivi una risposta sensata prima o poi.» replicò con un
certo sarcasmo.
Un’altra pausa tra loro, come succedeva sempre nelle conversazioni che avevano.
Poche frasi, pochi scambi e lunghi silenzi.
E, continuamente, ricominciavano da capo quel piccolo ciclo finché non
esaurivano quel qualcosa che temporaneamente li aveva legati. A quel punto, si
allontanavano di nuovo, per riavvicinarsi poi chissà quando; sempre che l’illusionista,
nel frattempo, non si allontanasse dalla città.
Anche se il fatto che il suo cosiddetto “maestro” non fosse più lì e lui sì
aveva sempre – inconsapevolmente – rappresentato una flebile rassicurazione per
Giotto.
«Perché non rimani con noi?» si lasciò sfuggire fra le labbra quella richiesta
che aveva meditato per molto tempo senza mai darle voce prima di allora. Non
portò lo sguardo su Daemon, né l’altro portò il proprio su di lui.
Anche quel modo di fare c’era stato fin da subito, fra loro: parlare l’uno
accanto all’altro, e non guardarsi mai.
«Io non sono come voi, Giotto.» rispose dopo qualche istante, com’era
prevedibile forse.
Il biondo ne spiò l’espressione di sottecchi, senza farsi notare: Daemon aveva
uno sguardo serio che non osservava nulla in particolare, e Giotto si era
chiesto più volte cosa l’altro cercasse con gli occhi.
Daemon guardava sempre davanti a sé, mai dietro – ogni volta che lo aveva
salutato, aveva alzato una mano ma non si era mai voltato.
Guardava sempre alla propria altezza, ma mai verso l’alto.
Daemon guardava il presente e la realtà.
Ma non si aspettava nulla e non sperava in nulla.
«Ma… non c’è nemmeno una cosa che anche tu, come noi,
vorresti proteggere con queste tue capacità?»
Daemon non rispose.
In alcun modo avrebbe mai potuto dirgli “te”.
Daemon quel giorno –
quando non c’era ancora una “Famiglia”, ma solo un gruppo giovane di persone
con cui non avrebbe voluto avere a che fare – aveva capito che solo chi ha
potere ottiene le cose e può cambiarle.
Senza il potere, i soli ideali e i desideri da bambini…
non valevano nulla.
Esattamente come le persone deboli… venivano
calpestati, e basta.
Forse,
lui e Giotto non si sarebbero mai dovuti incontrare.
Note finali
Nonostante la 6927 sia la mia OTP, la DaemonGiotto non lo è – pur essendo il corrispettivo a
livello di personaggi.
Caratterizzare Daemon è… boh.
Non so perché ma provando ad immaginarli da giovani, Daemon mi dava l’aria di
uno simpatico quanto una mattonella sui denti, molto disincantato perché con un
background abbastanza duro – in questo caso tradotto per lo più nella vita in
strada.
Giotto invece l’ho pensato fondamentalmente come poi è diventato da adulto, ma
meno incline a farsi trattar male. Insomma, forse con menoself-control? (motivo per cui ad
un certo punto l’ho mosso in piena fase “sfottiamo Daemon” XD Esatto, non era
solo divertimento personale 8D)
Non so se possa essere fattibile come caratterizzazione, quindi incrocio le
dita °w°”
Una volta tutto ciò
nasceva per essere shonen-ai.
Perché insomma, la canzone (da cui viene la citazione ad inizio shot) parla di un amore.
Ma non so se l’ho espresso correttamente :°
Infine un grazie a chi ha
commentato “Non tutti piangono”,
ossia: CriminalDanage
(<3), Golden Brown,
Raindrops
e Hibari Kyoite