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Autore: Shichan    28/05/2011    3 recensioni
[Prequel alla prima generazione; lieve DaemonGiotto]
Daemon guardava il presente e la realtà.
Ma non si aspettava nulla e non sperava in nulla.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daemon Spade, Giotto
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: i personaggi sono copyright della sensei Amano Akira.
Prompt: 43. Questa è la fine di un attimo, o solo un bellissimo sviluppo di un amore che non ci sarà mai per me e per te? (Tabella)
Note: sempre siano maledette le canzoni trovate random sugli amv. D: *fan della G/Giotto che si ritrova a scrivere di codeste cose*
Note utili alla lettura: si tratta di un prequel alla Prima Generazione, ossia un’ipotesi di come il nostro amato Boss abbia raccattato quegli altri cinque sciambroccati dei suoi Guardiani a parte G. Qui, nello specifico, si tratta di Daemon. Si segnala quindi la presenza di versioni 14-15-16Years Old!Character ;D
Nota due: mettetevi tutti una mano sul cuore, perché io stavo per mettere Daemon come tuttofare in un circo, il che avrebbe almeno spiegato il suo dubbio gusto nel vestire, ma mi sono trattenuta per amor vostro.
No, non sto scherzando. Lo stavo davvero piazzando in un circo. *muore*

 

Questa è la fine di un attimo,
o solo un bellissimo sviluppo di un amore
che non ci sarà mai per me e per te?


A quel tempo, Giotto non ci pensava minimamente, al gruppo di vigilanza, men che meno alla Famiglia che si sarebbe sviluppata da esso gli anni seguenti.
D’altra parte, quello di Giotto era solo un sogno da ingenui, come se ne fanno tanti quando si è giovani.
La città in cui era cresciuto fino a quel momento – quindici anni di vita tutto sommato spensierata, per come può esserlo quella di un ragazzo a cui, insieme ai valori comuni a tutti i suoi coetanei, viene insegnato anche il significato di parole spaventose come “omertà” – era bella.
Ai suoi occhi quel posto aveva dei lati bui, ma era anche bello, e degno di essere protetto; c’erano persone a cui Giotto voleva bene, che avrebbe voluto sempre tenere lontane dal pericolo. Per questo non se ne sarebbe mai andato abbandonando quella città.
Quella era una cosa che aveva deciso fin da bambino, ma lo aveva confidato solo a G., e a nessun altro.
«Giotto.» si sentì chiamare, e alzò lo sguardo istintivamente in direzione della voce, notando proprio il compagno arrivare.
Gli sorrise, facendogli un cenno con la mano per dar segno di averlo visto; quando gli fu vicino, si scostò dal muro contro il quale si era poggiato in attesa.  
Si avviarono quindi insieme, lungo la strada principale del mercato mattutino. G. si stiracchiò, le braccia stese verso l’alto, sbadigliando apertamente; Giotto ridacchiò sommessamente: «Ti ho buttato giù dal letto?» domandò scherzoso.
G. ricambiò con un sorrisetto divertito: «Sì, ora sentiti in colpa per questo.» lo prese in giro.
Erano soliti camminare per le strade spesso, specialmente con il mercato: passavano molto tempo ad osservare chi girava affaccendato per le bancarelle, a volte si fermavano nei pressi della piazza, altre in una strada parallela meno affollata. Parlavano di tutto, dagli argomenti più leggeri ad altri più importanti, dagli avvenimenti che scivolavano non visti fra i vicoli della loro città a quelli più felici che erano invece esposti alla luce del sole.
Uno dei posti preferiti, però, era sempre la fontana in piazza: con un po’ di fortuna, a volte vi era qualche artista di strada che offriva spettacoli divertenti, specialmente per i bambini.
«Ehi Giotto» lo richiamò il compagno: «guarda lì.» aggiunse, indicandogli con un discreto cenno della testa uno dei lati della strada principale che portava alla piazza.
Il biondo si voltò in quella direzione, notando una donna – la conosceva, era del suo quartiere – che con la figlioletta si affrettava quasi furtivamente lungo la strada, come se avesse fretta di tornare a casa.
O di allontanarsi da lì.
Si scambiò uno sguardo d’intesa con G., attraversando quindi la via fino a raggiungere il lato opposto a quello dove si trovavano precedentemente; senza velocizzare troppo il passo, presero ad avanzare nella direzione opposta a quella in cui si era mossa la donna.
Fu presto chiaro il perché di tanta urgenza: arrivavano – sempre più chiaramente man mano che si avvicinavano all’incrocio giusto – due voci concitate, che si rivolgevano probabilmente alla stessa persona, una terza evidentemente.
Stavano ponderando come fosse più saggio muoversi quando i due probabilmente abbandonarono la via in cui erano dall’altra entrata, che dava sul mercato.
Sia G. che Giotto si mossero a quel punto più velocemente, raggiungendo finalmente l’angolo giusto e voltandolo: capire cosa fosse accaduto fu anche troppo facile quando inquadrarono una figura inginocchiata a terra. Gli furono velocemente accanto, e nell’avvicinarsi poterono notare che si trattava praticamente di un coetaneo, anno più, anno meno.
Parlare di rissa sarebbe stato sbagliato: dubitavano entrambi che qualcuno oltre quel ragazzo le avesse prese; qualunque fosse la loro congettura, tuttavia, fu brutalmente interrotta dallo sguardo seccato che l’altro rivolse sia a G. che a Giotto, l’aria rabbiosa.
«Beh, che avete da guardare?!» sbottò, tutt’altro che amichevole, cosa che bastava già di per sé a non risultare esattamente il massimo della simpatia per G. che era – indubbiamente – il meno accomodante dei due.
Giotto al contrario gli rivolse un sorriso gentile, con un’impercettibile sfumatura di disagio: di certo per l’altro non doveva essere granché mostrarsi appena dopo essere uscito un po’ malconcio da un litigio.
Gli porse la mano con l’intento di aiutarlo ad alzarsi: «Scusa, non volevamo fissarti.» assicurò con le migliori intenzioni.
«Io sono Giotto e lui è G.» aggiunse, rimanendo in attesa. L’altro, però, si limitò ad osservare la mano per poi allontanarla con un gesto brusco della propria: «Bene, tanto piacere ma non mi serve aiuto.» rispose scortese, alzandosi da solo. Portò un braccio vicino al viso, pulendosi sulla manica un punto imprecisato del volto.
Gli abiti erano sporchi laddove avevano toccato terra probabilmente, e sembravano rammendati alla bene e meglio in qualche punto; il ragazzo portò le mani a darsi un paio di pacche sui pantaloni, tanto per togliere la polvere evidentemente, dopodiché senza aggiungere altro si voltò con tutta l’intenzione di andarsene.
G. si allungò verso di lui per posargli una mano sulla spalla e trattenerlo: «Ehi, un grazie non sarebbe male, sai?» sbottò innervosito da quell’atteggiamento; l’altro lo osservò da sopra la propria spalla, spostando lo sguardo dalla mano del ragazzo a lui. Incurvò le labbra in un sorrisetto lieve, arrogante, come se fosse nella posizione di guardarlo dall’altro in basso.
«Non mi ricordo quand’è che avrei chiesto aiuto.» fece notare: «Cos’è, vuoi un biscottino per premio? O devo dirti qualcosa tipo “grazie, mio eroe”?» continuò, voltandosi completamente a guardarli entrambi direttamente ma sfuggendo alla presa di G. su di lui.
«Per me siete solo degli impiccioni.» concluse, portando entrambe le mani in tasca e incamminandosi per uscire dalla via.
«Tch, ma guarda tu. Spero che affoghi nella fontana.» sputò fuori G., mentre Giotto sospirava rassegnato e gli dava una pacca leggera sulla spalla, come a consigliargli di lasciar stare.

 

A Giotto era capitato di incontrarlo di nuovo, anche se non gli aveva mai rivolto la parola; la situazione non lo aveva permesso, dal momento che lo aveva visto di nuovo nel mezzo di… uno spettacolo. O almeno, supponeva che fosse da considerarsi tale.
Proprio in piazza Giotto aveva notato una piccola folla, formata prevalentemente da genitori con i propri figli, nei pressi della fontana. Gli venne da sorridere: lui stesso ricordava che da bambino, con G. le cose più divertenti da fare a parte giocare in strada erano gli artisti che di tanto in tanto passavano dalla cittadina, e che costituivano la massima attrazione.
Avvicinandosi a sua volta, in realtà non aveva notato subito quel ragazzo, ma prima l’adulto che era con lui – forse suo padre? – e che si stava esibendo.
Lo spettacolo era stato bello, i bambini si erano divertiti e anche quel ragazzo era stato abile, benché Giotto non se ne intendesse granché. Si era trattenuto aspettando che la folla scemasse e, accortosi di essere stato visto nonché riconosciuto dall’altro probabilmente, aveva alzato la mano in un cenno di saluto.
Totalmente ignorato.
«Daemon, cosa vuoi mangiare per pranzo?» sentì chiedere all’uomo, apprendendo finalmente anche il nome del ragazzo; l’artista di strada notò in quel momento Giotto e gli si rivolse con espressione amichevole: «Ehi, giovanotto, serve qualcosa?»
Giotto indicò Daemon, l’aria di genuino divertimento: «No, ho riconosciuto Daemon e mi sono fermato.» replicò con semplicità.
L’uomo sorrise più ampiamente, alternando lo sguardo fra i due ragazzi: «Oh, quindi sei un amico di Daemon—»
«Non è mio amico per niente!» sbottò seccato il diretto interessato, voltandosi verso l’uomo appena interrotto: «Vado a prendere da mangiare» comunicò «e quando torno non ti voglio trovare qui.» aggiunse duramente, rivolto a Giotto, per poi allontanarsi.
Il biondo fu sorpreso dalla reazione, che non riuscì a comprendere del tutto.
«Ah, quel ragazzo è proprio impossibile.» sentì commentare al più grande, il tono che aveva però una nota bonaria più che di rimprovero.
Giotto abbozzò un sorriso leggero: «Voi siete suo padre?» chiese, incuriosito. L’uomo lo fissò una manciata di secondi prima di scoppiare in una fragorosa risata.
«Suo padre? Certo che no!» chiarì subito l’equivoco: «Sono una specie di maestro, se vogliamo metterla su questo piano. L’ho trovato in un’altra città da cui sono passato. Era già in strada, già solo e già con quel pessimo carattere. Purtroppo come lui ce ne sono anche troppi di ragazzi.» commentò con una nota amara nella voce.
«Ah, non con il suo talento però. È eccezionale, presto non avrò più nulla da insegnargli. Eh, diventerò un vecchio inutile.» scherzò su, strappando un sorriso a Giotto.
«Ho visto lo spettacolo.» prese parola il biondo: «Siete un prestigiatore?» domandò, provando ad indovinare. L’uomo sorrise furbo: «Non esattamente. Quelli come noi si definiscono “illusionisti”. Ma per molti la differenza è quasi inconsistente.» aggiunse.
Giotto ne fu immediatamente affascinato.
«E quel ragazzo» riprese l’uomo, lo sguardo nella stessa direzione presa da Daemon: «che il cielo mi fulmini se non è destinato a diventare il miglior illusionista del suo tempo.»


A Giotto non era capitato di vederlo altre volte per un’intera settimana: non che avesse girato per la città alla ricerca specifica dei due, ma quando con G. – e, recentemente aggiuntosi, Cozart – capitava di passeggiare, aveva sempre dato un’occhiata qua e là.
Era convinto ormai che avessero cambiato città; sarebbe stato comprensibile dopotutto, visto che ultimamente non si stava affatto tranquilli lì, anche se ammetterlo per Giotto era un dispiacere.
Poi, se l’era ritrovato davanti proprio al mercato: si erano fissati per qualche istante, di certo entrambi stupiti, dopodiché era stato Daemon il primo a muoversi. Di nuovo gli aveva rivolto quell’occhiata seccata, e si era incamminato verso sinistra.
Stavolta, però, Giotto aveva preso a seguirlo senza esitazione: «Daemon, stai andando a fare un altro spettacolo?» chiese, in un modo come un altro per iniziare un’innocua conversazione.
«No, ne abbiamo appena finito uno, spiacente.» replicò l’altro, continuando a camminare senza voltarsi a guardarlo.
Giotto lo fissò: non gli era chiaro perché Daemon sembrasse avercela tanto con lui  - o, piuttosto, con il genere umano – ma non era carino quel modo di fare, visto che lui non gli aveva fatto alcun torto. Capiva il pessimo carattere menzionato dall’uomo quel giorno, ma era un’attitudine che non gli piaceva: dal punto di vista di Giotto, era ingiusto trattare freddamente o con rabbia persone che si dimostravano gentili, o almeno bendisposte.
«Oh, e hai fatto apparire un coniglio da un cappello?» lo punzecchiò, il sorriso gentile immutato ma che, con quel tono di falsa simpatia, aveva un che di inquietante – Daemon avrebbe presto appreso che se Giotto sorrideva, non necessariamente era qualcosa di positivo.
Daemon lo fissò da sopra la propria spalla, l’espressione eloquente: «Io non tiro fuori conigli dal cappello o da qualsiasi altro abito.» sottolineò, punto sul vivo.
Giotto, ancora quel sorriso un po’ inquietante sulle labbra, replicò un: «Ah, non è quello che fanno tutti i maghi da quattro soldi?» con falsa casualità ed innocenza.
L’altro sorrise, fingendosi calmo, ma ottenendo un risultato che appariva molto meno naturale di quello del biondo: «Peccato che io sia un’illusionista, non un mago.» fece notare, piccato.
«Oh, e non è lo stesso?» buttò lì Giotto.
«No che non è lo stesso!» sbottò Daemon, voltandosi totalmente verso di lui e fermandosi finalmente. Cosa che invece non fece il biondo, continuando a camminare con tutta calma, passandogli accanto e superandolo, con un «Uhm, io pensavo di sì.»
Daemon si accigliò, prendendo a marciargli dietro – senza rendersi conto del fatto che ormai i ruoli si erano ironicamente invertiti.
«Beh, mi spiace deluderti, ma è così.» pronunciò, il tono ironico.
Giotto si voltò verso di lui, l’ennesima espressione innocente: «Oh, allora somigli di più ad un saltimbanco?» domandò senza scomporsi – specie considerando che gli stava dando del clown.
«Sai che sei insopportabile?!» sbottò Daemon punto sul vivo, voltando l’angolo subito dopo Giotto che, finalmente, sembrava essersi deciso a fermarsi, quasi rischiando che l’altro gli finisse addosso.
«Beh, e ora perché ti sei fermato di botto?» chiese esasperato; il biondo indicò con rinnovato entusiasmo la panetteria che dava sulla strada: «È ora di pranzo, mangiamo insieme.» propose.
Daemon si chiese se fosse tipico di quella città avere sbalzi d’umore simili, o se quel tipo fosse un caso isolato.
«Perché mai dovrei pranzare con te?» osservò accigliato. Giotto gli rivolse un sorriso, limitandosi a replicare con un: «Per cortesia dopo avermi trattato male senza motivo?» entrando nel negozio senza aspettare la sua risposta.
Lo odiava, seriamente.

«Com’è?» chiese Giotto, lo sguardo su Daemon che addentava il pane con dentro il formaggio. L’altro masticò ignorandolo dopodiché, quando fu libero di parlare, lo fissò sorridendo con falsa cortesia: «Buonissimo. Peccato la compagnia.»
Giotto sospirò rassegnato: «Perché ce l’hai tanto con me?» chiese diretto. Daemon gli prestò attenzione per la prima volta da quando si erano seduti: «Io non ce l’ho con te. Non mi piacciono gli estranei. Tanto meno se ficcanaso.» replicò.
A quelle parole, Giotto sembrò realizzare qualcosa: «Ah, ti riferisci a quando io e G. ti abbiamo visto la prima volta?» chiese, osservandolo; se non ricordava male, anche in quell’occasione Daemon li aveva definiti degli impiccioni.
«Mh.» fu il massimo della risposta di Daemon, che fece sorridere Giotto; per certi versi, in alcune cose gli ricordava un po’ G., con la differenza che con il tempo l’amico aveva imparato ad attaccar briga meno di frequente. Inoltre, Daemon sembrava molto più diffidente nei confronti degli altri. Forse, pensò Giotto, a mettere Daemon sulla difensiva era proprio la totale assenza di diffidenza nel biondo. Lui – se fosse un pregio o un difetto era ancora da capire – tendeva a fidarsi naturalmente, per indole.
«Beh, era normale fare i ficcanaso.» riprese a quel punto: «Abbiamo visto che qualcuno era stato messo alle strette, probabilmente picchiato. Non è naturale, cercare di fare qualcosa?» disse il biondo, profondamente convinto dalle proprie parole.
«Che stupidaggine.» replicò Daemon, fissandolo come se Giotto avesse detto un’idiozia di proporzioni bibliche: «Cose come quella non succedono mica una volta ogni tanto. Se uno è più debole, l’altro se ne approfitta. Se uno viene picchiato o gli sta bene essere sfruttato, allora non ci può fare niente. Se invece non gli sta bene deve diventare più forte. E anche in quel caso, tu non puoi farci nulla. Sono cose che uno deve fare da solo, è solo una questione di forte o debole.» spiegò, addentando il panino, ormai quasi finito.
Giotto aveva ascoltato in silenzio, cercando di capire, ma dal suo punto di vista girarsi dall’altra parte e lasciar perdere non era accettabile.
«E poi cosa credi? Che l’impegno di una sola persona ribalti il modo in cui va il mondo? È da ingenui.» sentenziò, l’aria annoiata di un adulto che è obbligato a prestare attenzione ai discorsi di un bambino, idealistici e impossibili da concretizzare.
Giotto non aveva mai distolto lo sguardo da lui, l’espressione seria e tutta la sua attenzione su Daemon, il quale parve rendersene conto anche quando si fu zittito.
«Beh, che c’è?» chiese.
Giotto tuttavia spostò lo sguardo da lui, portandolo di fronte a sé; socchiuse gli occhi, quasi ad assimilare quanto detto fino a quel momento, e sospirò lentamente e profondamente.
«Quello che dici, probabilmente, è come le cose stanno davvero.» esordì: «Ma nonostante questo, io vorrei proteggere questa città. Forse è un sogno infantile, ingenuo, o di poco conto» ammise, alzando lo sguardo verso il cielo «però io vorrei provare. Non “tutto il mondo”, sarebbe assurdo, ma “questo posto”… è un inizio. Non è poi così male, no?» concluse, un sorriso sereno ad incurvargli le labbra.
Daemon, come in risposta ai movimenti di Giotto, aveva portato lo sguardo ai propri piedi, quasi non potesse o non volesse osservare quell’unico ideale. Alzò lo sguardo, dopo qualche istante di silenzio.
Sbuffò.
«…Certo che tu parli proprio come un vecchio.» se ne uscì, il tono annoiato che portò il biondo ad imbronciarsi: insomma, lui stava facendo un discorso serio e sincero, confidando qualcosa che aveva detto solo a G.
Mentre Giotto rimbrottava contro di lui, Daemon si sentì colpevole; l’aveva sminuito perché era una realtà irrealizzabile per lui, ed osservarne una possibilità senza certezze era per lui a dir poco spaventoso.
Anche Giotto lo era.

 


Quel sogno infantile, però, aveva iniziato a concretizzarsi.
Dalle parole di Cozart, che avevano smosso la convinzione di Giotto ancor più di prima, all’incoraggiamento di G. che aveva giurato di restare sempre al suo fianco; quel gruppo di vigilanza in cui nessuno credeva stava andando avanti e lentamente, a piccoli passi, cresceva.
Con Daemon, da quella volta, Giotto aveva parlato in qualche altra occasione, ma in maniera piuttosto casuale: quel ragazzo sembrava sparire dalle strade della città, tanto che il biondo quasi si meravigliava di incrociarlo di nuovo, quando ormai credeva che se ne fosse andato.
Per quello si era tanto stupito di vederlo arrivare così, senza preavviso. O forse, a stupirlo era stata quell’illusione che persino lui, Giotto, aveva inizialmente – e confusamente – scambiato per realtà.
Un’illusione tanto potente, o così ben costruita, da non essere nemmeno lontanamente palpabile.
Così difficile da percepire e da distinguere dalla realtà, da far venire i brividi.
Giotto non avrebbe saputo dire in che momento, di preciso, Daemon si fosse intromesso né, ad essere sinceri, riusciva a capirne con esattezza il motivo; quel che era certo – riconosciuto addirittura dallo stesso G., che continuava a non averlo granché in simpatia – era che il suo intervento era stato provvidenziale.
Quando l’illusionista era rientrato nel suo campo visivo, sembrava affaticato, il respiro velocizzato – Giotto non poteva saperlo allora, ma quella era stata per Daemon la prima volta in cui creava un’illusione non per divertire o attirare l’attenzione in uno spettacolo, ma per… soccorrere qualcuno.
«Daemon…?» aveva chiamato, ancora un po’ frastornato. E lo sguardo che l’altro gli aveva rivolto era stato, ancora una volta, quello seccato del primo incontro in quella strada secondaria.
«Parola mia» aveva esordito «tu sei veramente un idiota!» aveva esclamato, senza il minimo riguardo naturalmente.
Non aveva aggiunto altro, e si era limitato a stare in disparte mentre G. e Cozart subito avevano affiancato il biondo per sincerarsi delle sue condizioni.
Era stato Giotto, dopo aver tranquillizzato i compagni assicurando di stare bene, ad avvicinarlo nuovamente.
«Grazie per il tuo aiuto, Daemon.» aveva pronunciato, il sorriso gentile sempre al suo posto, gli occhi su di lui.
«Non era affatto per aiutare te.» replicò l’altro, piccato.
Ma, nonostante entrambi sapessero che non era vero, e che si trattava solo di un debole tentativo di negare l’evidenza, Giotto non disse nulla in merito.
A rompere il silenzio creatosi, stranamente, fu Daemon: «Perché sembra che tu non sia capace di dare la priorità a te stesso? O meglio, perché sei così stupidamente masochista?»
Quella domanda dal tono esasperato, che non si era aspettato, lo fece ridacchiare sommessamente: «Questa è una domanda inaspettata da parte tua. Lo sai già, perché lo faccio.» gli fece notare con dolcezza.
«Infatti è qualcosa di così irragionevole che continuo a fare la stessa domanda, nella speranza che arrivi una risposta sensata prima o poi.» replicò con un certo sarcasmo.
Un’altra pausa tra loro, come succedeva sempre nelle conversazioni che avevano.
Poche frasi, pochi scambi e lunghi silenzi.
E, continuamente, ricominciavano da capo quel piccolo ciclo finché non esaurivano quel qualcosa che temporaneamente li aveva legati. A quel punto, si allontanavano di nuovo, per riavvicinarsi poi chissà quando; sempre che l’illusionista, nel frattempo, non si allontanasse dalla città.
Anche se il fatto che il suo cosiddetto “maestro” non fosse più lì e lui sì aveva sempre – inconsapevolmente – rappresentato una flebile rassicurazione per Giotto.
«Perché non rimani con noi?» si lasciò sfuggire fra le labbra quella richiesta che aveva meditato per molto tempo senza mai darle voce prima di allora. Non portò lo sguardo su Daemon, né l’altro portò il proprio su di lui.
Anche quel modo di fare c’era stato fin da subito, fra loro: parlare l’uno accanto all’altro, e non guardarsi mai.
«Io non sono come voi, Giotto.» rispose dopo qualche istante, com’era prevedibile forse.
Il biondo ne spiò l’espressione di sottecchi, senza farsi notare: Daemon aveva uno sguardo serio che non osservava nulla in particolare, e Giotto si era chiesto più volte cosa l’altro cercasse con gli occhi.
Daemon guardava sempre davanti a sé, mai dietro – ogni volta che lo aveva salutato, aveva alzato una mano ma non si era mai voltato.
Guardava sempre alla propria altezza, ma mai verso l’alto.
Daemon guardava il presente e la realtà.
Ma non si aspettava nulla e non sperava in nulla.
«Ma… non c’è nemmeno una cosa che anche tu, come noi, vorresti proteggere con queste tue capacità?»
Daemon non rispose.
In alcun modo avrebbe mai potuto dirgli “te”.

Daemon quel giorno – quando non c’era ancora una “Famiglia”, ma solo un gruppo giovane di persone con cui non avrebbe voluto avere a che fare – aveva capito che solo chi ha potere ottiene le cose e può cambiarle.
Senza il potere, i soli ideali e i desideri da bambini… non valevano nulla.
Esattamente come le persone deboli… venivano calpestati, e basta.


Forse,
lui e Giotto non si sarebbero mai dovuti incontrare.

 

Note finali
Nonostante la 6927 sia la mia OTP, la DaemonGiotto non lo è – pur essendo il corrispettivo a livello di personaggi.
Caratterizzare Daemon è… boh.
Non so perché ma provando ad immaginarli da giovani, Daemon mi dava l’aria di uno simpatico quanto una mattonella sui denti, molto disincantato perché con un background abbastanza duro – in questo caso tradotto per lo più nella vita in strada.
Giotto invece l’ho pensato fondamentalmente come poi è diventato da adulto, ma meno incline a farsi trattar male. Insomma, forse con menoself-control? (motivo per cui ad un certo punto l’ho mosso in piena fase “sfottiamo Daemon” XD Esatto, non era solo divertimento personale 8D)
Non so se possa essere fattibile come caratterizzazione, quindi incrocio le dita °w°”

Una volta tutto ciò nasceva per essere shonen-ai.
Perché insomma, la canzone (da cui viene la citazione ad inizio shot) parla di un amore.
Ma non so se l’ho espresso correttamente :°

Infine un grazie a chi ha commentato “Non tutti piangono”, ossia: CriminalDanage (<3), Golden Brown, Raindrops e Hibari Kyoite

   
 
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