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Autore: Elle Douglas    30/05/2011    0 recensioni
Questo manoscritto nasce dall'amore profondo che provo per la saga di Twilight, e grazie alla saga di Stephenie Meyer se questa storia è nata in me, mi ha dato l'ispirazione giusta per far nascere il mio romanzo. E' così che Giselle è nata in me...
Prefazione
Giselle Hall è una vampira riluttante nei confronti della sua nuova natura, non perdona ancora a Peter, di essere stata trasformata. Nonostante abbia più di 100 anni ricorda ancora distintamente la sua vita da umana: ricorda i suoi genitori, a cui il pensiero percorre la maggior parte delle sue giornate, e sua sorella Sharon, della quale ha perso le tracce da quando lei aveva 15 anni. Non riesce ad accettare la sua immortalità, il fatto di aver recato sofferenze e dolori ai suoi genitori a causa della sua scomparsa. Ma in questa sua nuova vita, ci sarà un ragazzo che l’aiuterà, anche lui immortale e vampiro. Un ragazzo con la quale lei inizierà ad affrontare la “vita”, e un ragazzo della quale, non si sa quanto consapevole lei si innamorerà.
Genere: Fantasy, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Peter mi aveva accolto con sé in modo gentile e quasi premuroso. Ora era lui che mi faceva da padre, anche se non avrebbe mai rimpiazzato quello vero, questo lo sapeva bene anche lui. Ero stata il suo primo esperimento, la prima persona che aveva trasformato, la prima persona che si era aggiunta alla sua “famiglia”. La parola che mi aveva detto Peter, subito dopo il mio risveglio, rimbombava dentro di me come un suono senza fine: “ Ora sei un vampiro.”, e con quella dichiarazione iniziò la mia vera condanna. “ Noi siamo come delle piante carnivore. Siamo velenosi, diciamo come dei serpenti, immobilizziamo la vittima senza ucciderla, se naturalmente lo vogliamo, altrimenti possiamo trasformarli in uno di noi, come ho fatto con te, ecco…”. Questa fu la descrizione che mi diede Peter al mio risveglio, dopo avermi trovata nello studio in preda ad una crisi - facendomi raggelare il sangue, avrei detto se fossi stata ancora umana. Pensai a quella parola per tutte le settimane e mesi seguenti non riuscendo ad accettarla. Era più forte di me. Mi sentivo come un mostro a cui era stata rubata la vita, e il fatto che dovessi recidere altre vite per la mia sopravvivenza, non mi andava giù. Ci avevo quasi provato una volta, ma nonostante la sete fosse tanta, non ce la feci e sapevo anche bene perché: Non volevo che nessuno vivesse, come me, quella non morte, quella dannazione senza fine, volevo che gli altri, anche non conoscendoli, vivessero una vita migliore della mia, avessero un destino diverso. Così, quasi contro natura, cacciavo solo animali selvatici che non mi saziavano per niente, il loro sangue non era per niente paragonabile al sangue umano, proprio per niente ma era una cosa che avevo imparato da me, senza nessuno aiuto, e che volevo portare avanti. Io seguivo una dieta … vegetariana, ecco, cosa che non mi aveva di certo imparato Peter, lui era totalmente diverso da me. Peter si prendeva cura di me, ma fu specie nei primi tempi, dopo essere diventata una vampira vegetariana, lui ordinava per me - con una semplice telefonata a volte, perché odiava recarsi in una macelleria piena di gente, in quanto sapeva benissimo che avrebbe combinato una strage al solo odore di sangue umano - da un macellaio fidato, anche lui vampiro vegetariano che viveva sotto mentite spoglie di un umano, della carne animale fresca. Questi ce la portava in un battibaleno a casa grazie alla sua velocità, dote che faceva parte un po’ di tutti i vampiri, chi più chi meno. Ricordo che il loro sangue però era freddo e per niente gustoso, ma perlomeno placante, riusciva a calmare la mia sete. Col tempo poi avevo imparato a cercare da sola le mie prede, uscendo solo di notte per soddisfare la mia arsura, beh, almeno in parte. Uscivo solo di notte per paura di una mia eventuale reazione di fronte ad un qualunque essere umano. Avevo paura della reazione che avrei potuto avere di fronte al sangue caldo e avvolgente di un umano, così delizioso e inebriante mi avrebbe sicuramente fatto cedere alla tentazione, per questo per soddisfare la mia sete uscivo solo quando in cielo c’era la luna, quando ero sicura che nessuno fosse ancora in giro per la città. Penetravo tra i boschi fitti e bui e mi dissetavo con qualsiasi animale mi capitasse a tiro, anche se non era mai del tutto appagante, come aveva detto Peter, che seguiva una diversa teoria, lui dissetava la sua sete solo con umani in fin di vita e persone malvagie e assassine, e quando e se voleva, li trasformava in vampiri. Io ero stata il suo primo caso. Non ero mai uscita una sola volta dopo la trasformazione, di giorno, intendo, mi ero rintanata in casa sin dal primo giorno, uscivo, come ho già detto solo in tarda sera, quando in giro non c’era più un anima. Non sapevo né che giorno era, né che anno era, il tempo per me non aveva più senso, nessun importanza aveva più quel passare di giorni, tanto non avevo più una vita, vivevo da non so quanti anni in una morte perpetua.
Nonostante tutto questo i miei pensieri, ancora umani, almeno in parte, andavano sempre a loro.
Pensavo a mia madre, a mio padre e alla mia piccola sorellina di quattro anni: Sheila. Quanto mi mancavano, solo Dio lo sapeva, ammesso che mi sentisse ancora visto che non avevo più un anima.
Peter nei giorni seguenti mi portò dei giornali, nei quali si parlava solo di me. C’erano titoli in prima pagina su tutti i quotidiani locali e non: “ Giselle Hall, inghiottita nel nulla”, questa era la notizia che riecheggiava dappertutto. Anche la tv aveva parlato di me per un certo periodo. Parlavano tutti della mia presunta “scomparsa”. In prima pagina c’era la mia foto, che sfioravo delicatamente per paura di romperla. Avevano messo la foto del mio ultimo sedicesimo compleanno, in cui avevo una coroncina in testa e con una mano facevo segno di vittoria. Nelle interviste del giornalista leggevo lo strazio dei miei, dei miei amici, dei miei professori. A mia sorella non avevano ancora detto niente. Per un lungo periodo seguente gli investigatori avevano optato per il rapimento, cosa che fece allarmare molto i miei. Lessi che nei mesi e anni seguenti continuarono a cercarmi senza sosta, anche quando la tv aveva ormai abbandonato il caso, ormai tutti mi credevano morta. E forse era meglio così. Anche se, si sa, il mio corpo non lo avevano trovato, nessuna traccia di me era stata ritrovata, tutto su dove fossi finita taceva e la speranza di ritrovarmi un giorno albergava ancora nel cuore dei miei cari.
Me ne stavo ancora rannicchiata quando Peter si avvicinò, risvegliandomi da quei ricordi.
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<< Non ho fame, te l’ho detto, e ora lasciami sola!>>.
Dovevo avere delle occhiaie e degli occhi abbastanza nerastri, segni della mia sete, abbastanza pronunciate per far preoccupare Peter in quel modo, ma non m’importava, se avrei potuto farlo avrei preferito morire. Ma nonostante ci provassi non c’era nessun modo per morire, ero destinata all’eternità.  
Non c’era nessun dialogo tra noi. Da centocinquanta anni vivevo con lui contro la mia volontà. Vivevo con lui solo perché lui era il mio creatore e sapeva, anche se non sembrava, più cose di me di quante ne sapessi io, e poi perché non sapevo se, oltre a noi, ci fossero altri … vampiri. Ero ancora troppo giovane, come diceva lui. La parola “vampiro”, nonostante fossero passati svariati anni, creava in me, ancora, un certo ribrezzo che non riuscivo a togliermi di dosso, e quindi odiando quella parola, odiavo anche me stessa, e ciò che ero diventata e lui lo sapeva bene. Se avessi potuto lo avessi distrutto con le mie mani. Non gli avrei mai perdonato il fatto che mi avesse trasformato nell’essere più orribile e malvagio del pianeta, nel predatore dei predatori per eccellenza. Lo ritenevo responsabile di tutto, del mio dolore, della mia anima perduta, della mia depressione, dello strazio dei miei genitori, lui era il colpevole di tutto questo. Provando repulsione verso il mio stesso essere per ciò che ero diventata, tendevo di più a stare in casa che uscire. Ogni volta che potevo mi rifugiavo nell’oscurità di quella grande casa e allenavo la mia mente umana per non perderla, perché sapevo, attraverso Peter, che col passare del tempo questa scompariva, e io non volevo. Non volevo dimenticare i volti di chi mi aveva amato e supportato per sedici anni, non volevo dimenticare i volti di chi mi aveva generato per davvero, neanche ora che loro erano morti.
La prima ad andarsene fu mia madre, morì a quaranta anni, circa dieci anni dopo la mia scomparsa. Per quanto ne sapevo, il suo cuore non aveva retto più il dolore della mia perdita, il fatto di stare ogni singolo giorno con l’ansia di una telefonata in cui riecheggiava la speranza, il fatto di non sapere neanche dove fossi. Mio padre, invece morì a settantacinque anni, dopo una vita di stenti e dolori causati prima dalla mia scomparsa e poi dalla morte di mia madre. Avrei voluto trasformare anche loro in vampiri, avrei chiesto a Peter di fare quel gesto egoistico per me, così da ricongiungere la famiglia, ma purtroppo quando seppi della loro morte era già passato troppo tempo. E non potevo trasformarli da già morti, la legge dei vampiri era molto severa riguardo a questo: si potevano generare nuovi vampiri solo se ci fossero stati umani in fin di vita, o se non fosse stato strettamente necessario, ma i morti non potevano diventare vampiri perché la loro anima aveva già abbandonato il loro corpo per altre cause. Infine non seppi più niente di Sheila, aveva perso le sue tracce da quando lei aveva raggiunto i quindici anni, ma ero sicura che non fosse morta. O meglio me lo aveva assicurato Peter, non so se fosse una bugia, ma mi fidavo di lui.
 “ Chissà cosa penserà di me Jonathan, quando mi vedrà vestita così …” pensava una ragazza a decine di chilometri da lì. I pensieri della gente erano ormai diventati una compagnia per me in quella esistenza monotona, vana e ripetitiva. Sentivo i loro pensieri nitidi e puri come se parlassero ad alta voce e come se mi fossero vicini, quando volevo potevo anche penetrare nelle loro menti parlando un po’ con loro e presentandomi come la loro coscienza. A volte gli facevo pensare ciò che io volevo che pensassero. Magari facevo complimenti anche se non li vedevo, per farli sentire più sicure o più sicuri, a seconda dei casi. Era bello entrare nella mente delle persone, potevo conoscerle davvero, e in alcuni adolescenti rivedevo le mie stesse emozioni di una volta: la paura del primo ballo, l’ansia del primo amore, il timore per un compito in classe andato male. Peter però non sapeva di questo mio potere, e perciò alcune volte cercavo di capire anche lui attraverso i suoi pensieri. Ascoltavo la gente da quella stanza chiusa e senza finestre, praticamente non li guardavo mai in faccia. Ormai, l’aspetto esteriore non m’importava più come una volta, non era più così importante, avevo imparato a conoscere le persone attraverso la loro bellezza interiore. Non avevo voglia di interagire però quel giorno, mi sentivo strana, se fossi stata umana la parola adatta a quello stato era debole, e forse c’entrava anche il fatto che non mangiavo da varie settimane, ormai.
Da quando era un vampiro non sentivo più alcun dolore o sensazione fisica. Non ricordavo neanche più l’ultima volta che avevo dormito. All’inizio mi fece un po’ strano, il non dormire più, non avere più neanche un mal di testa che mi rompesse il cervello, il non mangiare più cibi umani, anzi ora il solo profumo di un pollo arrosto, che prima amavo, mi disgustava. Erano tutte cose nuove per me. All’inizio consideravo assurdo questo mondo, ora, dopo un secolo e mezzo, consideravo assurdo quell’altro mondo. È incredibile come cambiano le cose.
In quell’esistenza la monotonia e la noia diventavano compagne di vita. I giorni erano sempre uguali e ripetuti in quella grande casa. E pensare che avrei vissuto quella “vita” per l’eternità. Mi faceva strano anche chiamare quell’esistenza “vita”, ma non trovavo una parola più adatta.
Da dov’ero guardai Peter guardare nel vuoto come se avesse avuto una visione, gli succedeva spesso, a quanto pare riusciva a vedere il futuro e alcune volte anche il passato per capire meglio le persone. Aveva visto anche il mio quando ero in fin di vita. Non so cosa gli facesse scaturire quelle visioni fatto sta che in alcuni momenti si estraniava da ciò che lo circondava e si perdeva in quei “pensieri”. Quella era l’unica cosa che però non riuscivo a vedere della sua mente, forse perché non erano dei pensieri suoi, ma erano pensieri fulminei, improvvisi che non erano progettati.

   
 
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