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Autore: Melanto    30/05/2011    9 recensioni
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.»
E Yuzo e suo padre hanno smesso di cercarsi.
Si sono persi negli anni, negli obiettivi opposti, nelle spalle girate e nelle porte chiuse. Nelle strade dritte e concrete della famiglia Morisaki, mentre quelle di Yuzo inseguono le linee curve di un pallone; una scelta che suo padre non è disposto ad accettare.
Ma la guerra è fatta di vittime, e mentre si tenta di rimettere insieme i cocci delle certezze in frantumi, ognuno cercherà anche quello che ha perso.
...perché anche le cose perdute si trovano, basta solo saperle cercare.
[lo Shonen-ai è un elemento marginale]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il lungo sonno della Lucciola
- Part IV: Melancholic Origami -

 

“You would not believe your eyes /
Potresti non credere ai tuoi occhi
if ten million fireflies /
se dieci milioni di lucciole
lit up the world as I fell asleep /
illuminassero il mondo quando mi addormento.
Cause they fill the open air /
Perché loro riempiono l’aria
end leave teardrops everywhere /

e lasciano lacrime ovunque,
you'd think me rude, but I /
penseresti che io sia rude, ma
would just stand and stare /
resterei solo lì a guardarle.




C’era il fruscio dell’erba nell’aria, il colore del cielo terso a riempirgli le iridi e nient’altro.
Nessun clacson cittadino né la vicina con le sue canzoni tradizionali, e dire che le metteva a tutte le ore.
Si tirò a sedere, guardandosi attorno.
Più distanti, vedeva i verdi steli oscillare alla brezza che li cavalcava come onde, mentre d’intorno il prato era stato tosato in maniera attenta e meticolosa, perfetta avrebbe osato dire. Ed era così morbido. Lo tastò, gli parve familiare. Si volse a destra, poi a sinistra; sorrise.
Sì che era familiare: era un campo da calcio.
Dove fosse non se lo chiese, non aveva bisogno di farlo perché non c’era un luogo ben preciso in cui si trovasse, lo sapeva, ricordava cosa era avvenuto e quindi non si interrogò su domande che non avrebbero avuto risposte. Si limitò a stringersi le gambe al petto e a lasciare che il sorriso continuasse a distendergli le labbra in maniera luminosa, come il sole al tramonto che sembrava fermo in un punto preciso dell’orizzonte. Una sfera rossarancio sospesa nel cielo.
C’era pace, lì, gli riempì il petto d’un senso di quiete che non sentiva da un tempo che gli parve lontano millenni. E non sentiva dolore. Né alla testa né al cuore.
- Non avevo dubbi che scegliessi un posto simile. -
Una voce gli si rivolse, e solo in quel momento si accorse di un rumore di passi in avvicinamento.
Yuzo si girò, inquadrando una figura investita dal tramonto. Calzoni al ginocchio, piedi nudi come i suoi, mani affondate nelle tasche e una t-shirt semplice. Lui invece risaltava quasi con magia: candido in mezzo a tutto quel verde.
Rise, ma era una risata di piacere. Appoggiò le mani al suolo e distese le gambe.
«Credo di non aver ancora capito come funzioni, qui, ma devo dire che mi piace.»
Lo sconosciuto ridacchiò, con quel suono familiare e rassicurante. Si fermò, in piedi, accanto a lui. Il mento puntato a fronteggiare la distesa erbosa, folta e infinita.
- Chiariamo: questa forma non l’ho scelta io, me l’hai data tu. Ogni cosa, qui, è frutto delle tue proiezioni mentali. Reale o irreale non hanno più un senso sia esso fisico o logico. -
Yuzo lo ripeté adagio, tornando a fissare l’erba frusciante sotto la sfera rossa che, ora, aveva preso a calare velocemente. Sembrava di vedere un filmato impostato su fast-forward.
«Proiezioni mentali…»
Tutto ciò che per lui era fondamentale, parte integrante della sua esistenza, quasi fossero brandelli della sua stessa pelle, prendevano corpo, divenendo immagini tangibili.
Il calcio, ad esempio, e l’aspetto dello sconosciuto che, ora, si era lasciato cadere al suo fianco: mani nell’erba rasa e gambe incrociate.
«Sono morto?» domandò a bruciapelo, ma l’altro non si scompose.
- No - disse, stringendosi nelle spalle. - Non ancora, almeno. Il tuo cervello sta funzionando normalmente, esegue tutte le funzioni, ma non ti permette di essere cosciente. -
«E cioè sono in coma?»
- Proprio. Fatti dire che hai una pessima mira. Se devi fare un lavoro, devi farlo bene. -
«Ho sempre odiato le armi, non ne avevo mai maneggiata una, prima.»
- E allora perché hai scelto proprio quella? -
A Yuzo venne da sorridere, ma era un’espressione mesta e colpevole. Si guardò la punta dei piedi. «Perché sono un pessimo figlio.»
- E’ ancora troppo presto per fare valutazioni di questo tipo. Le somme vanno tirate sempre alla fine. Vale per tutti, anche per te. -
«Deduco che tu ne abbia viste davvero tante.»
- Abbastanza - ridacchiò l’altro con ironia.
«Come ti chiami?»
Lo sconosciuto si volse a guardarlo e la somiglianza era così impressionante da lasciarlo affascinato.
- Il mio nome è impronunciabile per te, e lo dimenticheresti l’attimo dopo averlo sentito. Chiamami pure con il suo, in fondo, ne porto l’aspetto. Pensa che una volta mi sono trasformato anche in cane - poi ci pensò meglio. - Anzi, più di una volta. -
Yuzo sorrise riuscendo solo in quel momento a comprendere davvero quanto importante e radicato fosse il sentimento che lo legava alla persona di cui l’altro aveva assunto le sembianze. Ci teneva così tanto da volere solo lui accanto.
«Mamoru… si chiama Mamoru.»
L’altro sollevò mento e sguardo al cielo. - Profetico(1) - disse, accennando un sorriso.
«Molto.» Yuzo sorrise a sua volta; lo sguardo rivolto al sole che non accecava mentre colava a picco per far spazio alla sera. Da arancio, il cielo virò rapidamente in violetto, poi indaco, poi blu.
«Dove siamo di preciso?»
- Un po’ qui e un po’ lì. Nella terra di mezzo tra la vita e la morte. -
«Una sala d’attesa.»
Il finto Mamoru gli scoccò un’occhiata ironica. - Manchi di poesia, ragazzo. -
Lui ridacchiò e lo osservò a sua volta, con sincera curiosità.
«Tu cosa saresti?»
- Un accompagnatore o, semplicemente, una compagnia. Non sempre chi arriva qui sa come ci è finito e perché. Il mio compito è far capire loro perché non sono andati avanti o tornati indietro. Sai, lo spirito muore prima del corpo, e quest’ultimo può restare in vita per anni, nonostante lo spirito l’abbia già abbandonato. Chi resta dall’altra parte ad aspettare, però, non può saperlo. -
Yuzo inclinò leggermente il capo. «E’ il mio caso?»
- No, il tuo spirito è ancora al suo posto, per questo sei qui. -
«Se allora sono ‘interamente’ vivo… perché non sono tornato indietro?»
Mamoru assottigliò lo sguardo, il mento un po’ sollevato. Lo fissò attentamente negli occhi. - Sicuro di non saperlo? -
Yuzo scosse il capo.
- A volte, si rimane in bilico perché non si riesce a decidere quale sia la soluzione migliore, se vivere o morire. E, credimi, è davvero un arduo dilemma. Altre volte, invece, si è in cerca. -
«Di cosa?»
- Qualsiasi. Un oggetto, un’emozione, la verità. - Lo sguardo si assottigliò ancora un po’ di più. - Una persona. -
Yuzo spostò il proprio, puntandolo nuovamente lontano, dove ora non riusciva più a distinguere altro che suoni; il buio notturno aveva nascosto l’erba che però continuava a frusciare. Lui rimase ad ascoltarla, così come ascoltava anche Mamoru.
- Spesso si tratta di una ricerca inconscia, che non si comprende fino a che non si è trovato ciò che non si sapeva di stare cercando. -
«Io non ho nulla da cercare» asserì con decisione e una leggera foga.
- Credi? Tutti cercano e, quando l’avrai trovato, lo capirai anche tu. -
Abbozzò un sorriso rassegnato. «Non penso. Quello che cercavo l’ho già perduto.»
- E’ il motivo per cui lo hai fatto? -
«Quello che ho fatto è stato davvero crudele. Nessun figlio dovrebbe mai arrivare a tanto. Io volevo vendicarmi della sua indifferenza, volevo che provasse a sentire sulla sua pelle la privazione di un qualcosa di importante senza potersi ribellare o difendere.» Ma ora, quelle stesse giustificazioni che, nel momento in cui si era portato la pistola alla tempia, erano state lucide come non mai, gli sembrarono solo i rifugi di un bambino che giocava a nascondino. «Lui mi aveva tolto libertà e futuro, io gli ho tolto me stesso. Saremmo stati pari. E invece mi rendo conto di essere stato terribile. A ogni modo, ci eravamo già persi molto prima, il mio gesto è stato solo un modo rude per chiarire la situazione.»
- Anche le cose perdute si trovano, Yuzo, basta solo saperle cercare. -
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.» E quanto lo feriva sentirlo dalla propria voce, forse, nessuno lo sapeva. Nemmeno quella proiezione di Mamoru, lì, accanto a lui, che sembrava essere molto di più di una semplice presenza consolatoria. Lo feriva perché era come ammettere la resa, la loro diversità inconciliabile. «So di avere parte della colpa dei nostri fraintendimenti continui. Partivo prevenuto nei suoi confronti, ero convinto che non mi avrebbe mai ascoltato e così rifuggivo il dialogo quanto più possibile, sicuro di conoscere a priori le sue risposte. Da parte sua, lui non ha mai fatto niente per cambiare questa condizione, si limitava a dirmi che ero un ragazzino. Era una situazione di comodo per entrambi, forse. Poi, quando non era più possibile nascondersi a vicenda e ci trovavamo a parlare, io partivo già all’attacco, caricato dal continuo pensare e ripensare, credere e prevedere le sue mosse. E lui, che non era abituato a questo mio atteggiamento o troppo aggressivo o troppo schivo, reagiva di conseguenza.» Il cielo limpido era ora puntellato da miliardi di stelle. «Non credo si sia mai accorto che c’era qualcosa che non andava, che la situazione non si sarebbe risolta con una semplice sgridata o imposizione. Io non capivo lui, lui non capiva me. Per questo dico che non ci troveremo mai. Non più.»
Mamoru questa volta non replicò, ma lasciò che il canto dei grilli nascosti nell’erba riempisse i loro silenzi.
Yuzo non riusciva a scorgere che sagome confuse nella notte; anche il giovane lì accanto non era che una figura appena delineata, una diversa oscurità. Eppure non aveva paura di restare al buio, anzi, riusciva a sentirsi ugualmente tranquillo, padrone di una serenità che, per certo, nella vita di tutti i giorni non aveva mai avuto. E fu mentre scrutava nelle ombre che vide quel piccolo bagliore apparire e scomparire in un attimo. Si sporse, in direzione dell’erba che si infoltiva, a pochi passi da dove erano seduti. Lo vide di nuovo e sembrava come farsi spazio tra i fili. Quando l’oggetto luminescente emerse dall’intricato groviglio di vegetazione, un largo sorriso gli tese le labbra, facendo snudare i denti.
«Una lucciola!» Yuzo s’alzò, avanzando piano piano sull’erba fresca e morbida sotto i piedi nudi.
Il coleottero si era posato su un filo verde e lui si inginocchiò adagio, senza fare il minimo rumore per non spaventarlo. Con movimenti calibrati al millimetro chiuse le mani a coppa, riuscendo a catturarlo. Lo sentiva zampettare nei palmi.
«Presa!» esclamò entusiasta come un bambino, mentre raggiungeva di nuovo il suo accompagnatore. Si accomodò e incrociò le gambe.
Mamoru appoggiò il viso in una mano, osservandolo con curiosità e un leggero divertimento.
- Solitamente la gente rincorre le farfalle. -
Yuzo sorrise. «Sì, lo so. Tutti restano rapiti dalla loro evidente bellezza, dalle loro ali così variopinte che le rendono leggere ed eleganti, delicate, fatte apposta per essere ammirate, ma ci sono tante altre creature che, a una prima occhiata, possono non risultare altrettanto belle, ma che racchiudono qualcosa di meraviglioso dentro di loro. Una bellezza tutta particolare, che solo in pochi riescono a capire. Come una libellula. Adoro le libellule. Sono flessuose e quelle loro ali così sottili hanno tanti colori. Sono velocissime e quando si posano sui piedi sono così leggere che non le senti nemmeno. Ma hanno un corpo troppo lungo e ali poco particolari per ricevere ammirazione. Così come le falene. Marroncine, notturne, con i corpi cicciosi e poco aggraziate, a chi potrebbero mai piacere? Ma ci sono falene gialle, lo sapevi? E verdi e azzurre e di tantissimi altri colori e sfumature che nessuno crederebbe.» Sorrise. «E poi ci sono le lucciole. Quando non brillano sono dei semplici coleotteri, non hanno niente di bello o speciale… eppure… hanno quel qualcosa tutto loro, nascosto sotto le ali.» Inclinò il capo, leggermente, le mani che si aprivano piano per far comparire il piccolo insetto fermo sul palmo. Yuzo lo guardò con protezione e malinconia. «Quando le vedi volare nella notte sembrano delle piccole stelle. Mi sono sempre sentito simile a loro: una lucciola che può dimostrare d’esser bella, a suo modo, come una farfalla, le basta solo una piccola possibilità. E quella possibilità l’avevo, ma mi è stata negata all’ultimo momento. In fondo, mio padre ha sempre odiato gli insetti.» La coda della lucciola iniziò a brillare piano, quasi con titubanza. «Volevo giocare a calcio e dimostrare… dimostrargli di non essere un perdente come ha sempre creduto che fossi; volevo dimostrargli, nel mio piccolo e con i miei traguardi, di poter essere fiero di me. Ma lui ha sempre pensato in grande e allora… cosa può importargli di una lucciola così piccola?»
Yuzo spinse delicatamente la mano verso l’alto e l’insetto spiccò il volo con un sottile ronzio. Si librò, illuminandosi a intermittenza, mentre lui la osservava salire sempre più su e allontanarsi per tornare nell’erba folta, al sicuro. L’attimo dopo, centinaia di lucciole presero a volare, nascendo tra i fili fruscianti. Uno scialle di stelle sospinto dal vento.
Mamoru osservò il suo sorriso divenire più ampio mentre fissava, come rapito, quel meraviglioso spettacolo.
«Non sono bellissime?»
- Sì, lo sono. -
«Così belle che mi viene da piangere.»

 

“I'd like to make myself believe /
Mi piacerebbe credere
that planet Earth turns slowly /
che la Terra giri lentamente.
It's hard to say that I'd /
È difficile dire se io
rather stay awake when I'm asleep /
resterei sveglio piuttosto che dormire,
cause everything is never as it seems /
perché ogni cosa non è mai come sembra
(when I fall asleep) /
(quando mi addormento)

Owl City - Fireflies

 

§*§

 

“Who is the man I see? /
Chi è l’uomo che vedo?
Where I’m supposed to be? /
Dove dovrei essere?
I lost my heart, I buried it too deep /
Ho perso il mio cuore, l’ho seppellito troppo in profondità
under the iron sea /
sotto il mare di ferro.

 

Lo squillare del telefono riuscì a penetrare la corazza del suo torpore.
Baiko lo sentì giungere da lontano, come un’eco, e poi divenire sempre più vicino a mano a mano che la coscienza prendeva il sopravvento sulle sue facoltà.
Con lei arrivarono anche un dolore continuo a ossa e articolazioni, e dei brividi di freddo.
All’ennesimo squillo, Baiko si svegliò di soprassalto, strozzando un respiro a metà e guardandosi attorno. Si sentì spaesato, sul momento, quasi non riconoscesse l’ingresso della propria casa e non sapesse cosa diavolo ci facesse lì, rannicchiato contro la porta. Poi, come a schiaffeggiarlo affinché si svegliasse del tutto, le immagini e i ricordi del giorno prima gli ripeterono a chiare lettere cosa era avvenuto.
Realizzò d’essersi addormentato per terra, senza nemmeno togliersi le scarpe; gli abiti ancora bagnati addosso. Baiko si sfregò le braccia per allontanare il freddo.
Il telefono squillò per l’ennesima volta e lui si alzò quanto più velocemente poté anche se si sentiva anchilosato e avvertiva i movimenti a rallentatore.
«Pronto?» parlò con voce rauca che non riconobbe come propria.
«Presidente, è ancora a casa? Mi ero preoccupato, sono già le nove passate. Lei è sempre puntuale, di solito.»
Baiko si passò una mano sul viso per scacciare i residui del sonno dagli occhi stanchi. Riconobbe la voce di suo nipote, cinque anni in più di Yuzo e una grande dedizione al lavoro.
«Ah, Shunsuke… sì, sono ancora a Nankatsu…»
Il giovane abbandonò per un attimo il tono formale che di solito usava con lui quando si trovavano in azienda.
«Zio Baiko, ci sono problemi? Sembri strano…»
Lui non seppe che rispondere.
O, meglio, non seppe come pronunciare determinate parole. Gli parve di sentirle accartocciarsi sotto la lingua, impastarsi ancor prima di divenire suono. Era prendere un maggiore contatto con la realtà, perché si dava agli eventi una sorta di accettazione, invece di confutarli: così erano andati i fatti, questo era successo.
«Sì… io…»
«Tu e la zia state bene? E Yuzo-»
«Yuzo è all’ospedale.»
Quello riuscì a dirlo d’un fiato. A conti fatti era una realtà che poteva ferire, sì, ma non uccidere. Molta gente finiva all’ospedale, anche per stupidaggini. Poteva illudersi che fosse così anche per suo figlio, che anche in quel caso fosse una stupidaggine.
«All’ospedale? Che è accaduto?»
Quello, invece, gli risultò molto più ostico.
Come si poteva anche solo sillabare una cosa simile? Quando, davanti ai tuoi occhi, un ragazzo che hai contribuito a mettere al mondo, che ha il tuo sangue, che hai visto nascere, crescere… diciannove anni sotto lo stesso tetto… che fino al giorno prima ti ha chiamato ‘papà’… papà…
Papà.

«Volevi qualcuno che seguisse i tuoi ordini e comandi?! E allora ti dovevi prendere un cane, non fare un figlio!»
«Dopo potrai anche dimenticarti che esisto, tanto non ti sarà difficile, vero papà?»
«Per fortuna ho trovato chi crede in me. E non sei tu!»

Come si poteva rivelare che lui…
«Ha tentato il suicidio.» Baiko non riconobbe, di nuovo, il suono della propria voce. Gli parve metallico, senza alcuna intonazione, distaccato. «E’ in coma.»
Ora non lo poteva più negare.
L’illusione si infranse prima che divenisse nitida e calda, avvolgente, rassicurante.
All’altro capo gli rispose il silenzio e Baiko capì d’averlo sconvolto; non se ne stupì.
«Oggi non verrò in azienda» riprese, come a voler togliere suo nipote da quell’impasse. «Lascio tutto a te. Sono certo che farai un ottimo lavoro.»
Silenzio, ancora per qualche attimo. Poi percepì incertezza.
«S-sì… sì, me ne occuperò io, tu… tu non preoccuparti e… Dio mio… abbraccia… abbraccia la zia Haruko anche da parte mia. Per favore, tienimi informato.»
«Certo, non mancherò.» Shunsuke non poteva sapere che Haruko lo odiava e, in quel momento, mai si sarebbe fatta anche solo toccare da lui, figurarsi abbracciare. Di colpo, avvertì nuovamente l’estraniarsi della propria coscienza dal corpo e dall’ambiente circostante; alieno nel suo stesso spazio. Tutto quello che aveva costruito negli anni, la sua famiglia, la sua stabilità adesso si trovavano in bilico sulla punta di uno spillo.
Il trillare del campanello gli fece chiudere la conversazione.
«Ora devo andare, ti farò sapere» disse; il cordless che veniva riposto sulla pedana e poi passi lenti e trascinati fino alla porta.
Nemmeno si chiese come avessero fatto a superare il cancello.
Quando aprì la soglia, la figura bianca di Kyoshi comparve sull’uscio. «Papà?»
L’uomo aveva un’espressione preoccupata. «Hai lasciato il cancello aperto, Baiko.»
Lui tentò di fare mente locale, ma non aveva ricordi completi di quanto accaduto il giorno prima, solo frammenti in cui scorgeva esclusivamente quello che aveva trovato davanti ai suoi occhi, senza mai voltarsi indietro. «Ah… devo… devo averlo dimenticato.»
«Così come hai dimenticato di togliere le chiavi di casa dalla porta?»
Baiko abbassò lo sguardo e vide il mazzo oscillare nella toppa esterna. Inspirò brevemente, non sapendo che rispondere.
Kyoshi respirò a fondo. Negli occhi c’era preoccupazione equamente divisa: una parte era rivolta a suo nipote e l’altra, invece, era proprio per il genero. Già la sera prima aveva notato quella sorta di apatia nei suoi gesti, nel mutismo che non era dettato da chissà quale ostinazione, ma solo dall’incapacità di formulare una frase qualsiasi. Non aveva mai visto Baiko così disorientato, era sempre stato un uomo tutto d’un pezzo, sicuro di sé. Adesso sembrava uno specchio in pezzi.
La fronte si corrugò ancora di più.
«I tuoi abiti sono bagnati» gli fece notare con calma e Baiko si guardò un attimo, realizzando la cosa solo in quel momento.
«Ah, sì… ieri pioveva e io non avevo l’ombrello.»
Come se spiegare perché non si fosse ancora cambiato dalla sera prima non avesse alcuna importanza, come se spiegare perché fosse tornato a casa a piedi e sotto la pioggia non avesse significato.
«Forse dovrei farmi una doccia» concluse, sollevando nuovamente lo sguardo sul suo ospite. «Ma prego, entra, papà, non restare sulla porta.» Adagio si fece da parte e Kyoshi avanzò, chiudendo l’uscio alle spalle. Lentamente, il nonno materno di Yuzo infilò le ciabatte e vide le impronte d’acqua e fango lungo il pavimento; Baiko indossava ancora le scarpe.
Sì, quell’uomo si stava perdendo.
«Sono venuto a prendere dei ricambi per Haruko. Ha deciso di fermarsi da me per il momento, visto che abito vicino all’ospedale.»
Baiko annuì, spostando lo sguardo al suolo e passando il peso da un piede all’altro. «Sì, certo. Ci mancherebbe.» Gli occhi si fermarono sulla porta aperta dello studio. Da quella posizione, non poteva scorgere l’interno. «Come sta?»
Kyoshi sospirò, affranto. «E’ distrutta. Sarebbe voluta rimanere con Yuzo per tutta la notte, ma le infermiere non gliel’hanno permesso. Praticamente non ha dormito e stamattina è uscita all’alba.»
Baiko si passò una mano nei capelli corti, piegando le labbra verso il basso. «Sarei dovuto rimanere lì con lei. Mi dispiace, ieri… me ne sono andato in quel modo, non avrei dovuto…» Si stava rendendo conto di non essersi comportato affatto come un marito né come un padre. Aveva voltato le spalle alla sua famiglia senza nemmeno accorgersene. Aveva agito come un inetto. Come aveva fatto a dimenticarsi quello che gli avevano sempre insegnato? Come aveva fatto a dimenticarsi di agire da uomo?
La mano del padre di Haruko si poggiò sulla sua spalla, stringendo appena in un modo che voleva fargli comprendere che non c’era nulla di cui vergognarsi, che, forse, proprio quella reazione era stata la più umana che avesse mai potuto avere.
«Non hai di che scusarti, siamo tutti sconvolti.»
Ma Baiko non riusciva ad ammettere a sé stesso come si sentisse veramente, forse perché non riusciva ancora a capirlo e allora si aggrappava ai punti fermi che ancora gli erano rimasti come la disciplina, la compostezza e il sangue freddo. Ma nel suo caso, semplicemente, il sangue non c’era più nelle vene e tutto il resto non erano che pieghe d’un origami: nella carta, simulavano una figura; così lui simulava un distacco che gli faceva credere d’avere tutto sotto controllo quando invece tutto gli era sfuggito di mano.
Lentamente sollevò lo sguardo per riuscire a incrociare quello dell’uomo. Era titubante, aveva quasi paura a chiedere.
«Yuzo…?»
«Haruko mi ha mandato una mail sul cellulare dall’ospedale. Dice che è stabile.»
Lui annuì, deglutendo con uno sforzo.
«Vieni, ti accompagno di sopra, così potrai prendere ciò che le serve.» Si volse, dirigendosi alla scala che portava al piano superiore. Avrebbe preso anche un ricambio per sé; doveva farsi un bagno, non poteva restare ancora con quegli abiti bagnati.
Kyoshi lo fermò a metà della scalinata.
«Baiko, quello che Haruko ha detto-»
«Non preoccuparti, papà. Ha ragione lei. Sappiamo tutti che è così» rispose senza fargli finire la frase e riprese a salire.
Alle sue spalle, Kyoshi lo guardò addolorato. Oltre a essere disorientato, Baiko rifiutava qualsiasi tentativo di conforto, come se non se lo meritasse. Anzi, Baiko rifiutava il dolore stesso, tentando di agire come se la situazione non lo toccasse, ma facendosi carico di ogni colpa perché erano le responsabilità di un padre e non poteva venirne meno. L’uomo si domandò quanto ancora avrebbe resistito in quella condizione di isolamento emozionale, prima di ritrovarsi sommerso da ciò che provava davvero.
Senza aggiungere altro, lo seguì fino alla camera da letto. Baiko cavò una borsa dall’armadio e lasciò che fosse lui a occuparsi degli abiti di Haruko.
«Questa dovrebbe essere abbastanza capiente.»
«Sì, andrà benissimo.»
Kyoshi seguì i suoi movimenti con la coda dell’occhio e gli vide prendere un ricambio: completo grigio e cravatta. Nel suo abbigliamento era riconoscibile il rigore dietro cui aveva costruito ogni cosa. Eppure, era diverso il ricordo che aveva di lui: un ragazzo dall’aria decisa, sì, ma pieno di sogni, che gli chiedeva il permesso di poter uscire con sua figlia. Ora, non c’era più nemmeno la decisione, solo esecuzione pedissequa di gesti e comportamenti, quasi stesse seguendo un libretto delle istruzioni: ‘Cosa fare in caso di…’.
Baiko non era vivo, anche se in piedi.
Adagio, Kyoshi richiuse la borsa e la sollevò. Stentò un sorriso quando gli si rivolse. «Credo di aver preso il necessario, per il momento.»
«Va bene, ti accompagno.»
«No, non ce n’è bisogno, piuttosto… hai già avvertito Chiyo?»
A quella domanda, Baiko abbassò gli occhi al suolo. «No. Stavo pensando di non dirle nulla, per adesso… solo per adesso…»
«D’accordo», Kyoshi annuì, «Haruko mi ha anche detto di riferirti che resterà lei all’ospedale sia il mattino che il pomeriggio, in modo da lasciarti libero di occuparti dell’azienda.» Scosse il capo. «Ovviamente non è certo un’imposizione-»
«Lo so che non vuole vedermi, mi sta bene.» Baiko s’affrettò a dirlo come fosse una scelta accettabile. Erano di nuovo occhi negli occhi.
Kyoshi lo fissò con le sopracciglia aggrottate. «Si tratta di tuo figlio. Devi sentirti libero di andare da lui quando vuoi, anche subito.»
«Per Haruko io sono quello che gli ha messo la pistola tra le mani, aiutandolo a premere il grilletto. Per adesso è meglio se non mi faccio vedere. Ho già fatto abbastanza. Andrò da Yuzo verso sera, così non ci incroceremo.»
Kyoshi non aggiunse altro, ma si limitò ad accennare un gesto col capo. «Allora ci vediamo all’ospedale.» Gli rivolse un ultimo sorriso stentato e lasciò la stanza.
Baiko non lo accompagnò, ma rimase fermo presso il letto, con la camicia asciutta appoggiata sull’avambraccio e il completo appeso alla gruccia. Attese di udire il rumore della porta di casa che veniva chiusa e poi si mosse.
In quel momento era giusto tenersi da parte; la sua presenza non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. Haruko lo odiava, gliel’aveva fatto capire chiaramente e quegli occhi… Dio, quegli occhi… non li avrebbe dimenticati tanto presto né sarebbe riuscito ad affrontarli ancora, lasciandosi annientare dalla loro forza.
In quegli occhi rivedeva suo figlio.
Ed era questo a fargli davvero paura.
Vigliaccamente, non era solo per rispettare il dolore di Haruko se accettava di tenersi in disparte, ma anche e soprattutto per non ritrovarsi sopraffatto e giudicato da quelle iridi. Sarebbe stato come ritrovare Yuzo che gli diceva…
…ti odio
Baiko scosse il capo per scacciare quell’eco riaffiorata adagio e s’avventurò per il corridoio. Quando arrivò davanti alla porta chiusa della stanza di suo figlio si fermò. Fissò l’uscio quasi avesse potuto aprirsi da solo.
Da quanto tempo non entrava in quella stanza?
Se lo domandò all’improvviso perché non lo ricordava, non ricordava più com’era fatta. Nella sua mente si composero flash di un aeroplano di legno che scendeva dal soffitto, appeso a un filo, poi pupazzi di peluches e la coperta con sopra l’Arcadia di Harlock.
Le sue memorie si fermavano così indietro nel passato? Quanti anni aveva avuto, Yuzo, allora?
Chissà adesso quanto era cambiata…
La mano s’avvicinò lentamente alla maniglia. Avrebbe dato solo un’occhiata veloce.
…ti odio…
L’eco sembrò rimbalzare fuori dalla sua testa fino ad assumere la consistenza di uno schiaffo che allontanò le dita. Per un attimo, gli parve di avvertire quel rifiuto, quell’invito a non entrare come se fosse stato lo stesso Yuzo a proferirlo.
L’espressione vacua sul viso di Baiko non cambiò. Abbassò lentamente la mano continuando a fissare l’uscio chiuso, serrato.
Tu non puoi passare(2).
E in fondo, non ne aveva proprio alcun diritto.
Fece un passo indietro e si volse, riprendendo a camminare per raggiungere le scale, il piano di sotto e rinchiudersi nel bagno dove, almeno l’acqua, avrebbe cercato di portare via il freddo mortale che sentiva dentro le ossa.

 

“Lines even more unclear /
Contorni sempre più sbiaditi,
I’m not sure I’m even here /
non sono nemmeno sicuro di essere qui.
The more I look, the more I think that I’m /
Più osservo, più penso che ciò che sono
start to disappear /
inizi a sparire.
[---]
Oh, crystal ball hear my song /
Oh, sfera di cristallo ascolta la mia canzone,
I’m fading out, everything I know is wrong /
sto svanendo, tutto quello che so è sbagliato
so put me where I belong /
allora portami nel luogo cui appartengo.

KeaneCrystal ball

 

Vivere di silenzi era molto strano.
Per una persona abituata alle parole continue, al rumore delle esplosioni durante le dimostrazioni dei nuovi articoli bellici, al telefono che squillava ogni momento, restare in silenzio per quasi ventiquattro ore era davvero, davvero strano.
Il suo mondo aveva subito un’implosione in cui ogni cosa si era come annientata, e ora aspettava l’esplosione della rinascita. Ma sapeva che ci sarebbero potuti volere anche mesi, forse anni. Un tempo infinito.
Da che era avvenuto l’incidente, Baiko non aveva spiccicato che pochissime parole con pochissime persone, contabili sulla punta delle dita, e si era circondato di vuoto e solitudine. La casa era rimasta muta, come se la paura dello sparo le avesse strappato via la voce. Nemmeno il telefono aveva più squillato.
Nel mentre che era rimasto seduto al tavolo della cucina, con le mani intrecciate sulla superficie, si era anche domandato quando avrebbe avuto il coraggio di chiamare sua madre per riferirle dell’accaduto. Il problema era che non sapeva come fare, che parole usare. Al solo tentare di formulare una specie di discorso, si dileguavano tutte. Evaporavano.
Così era rimasto a guardarsi le dita, aspettando l’avvicinarsi della sera senza pensare a nulla. Quando era giunto il momento di uscire, s’era fermato davanti alla porta dello studio. Gli occhi erano caduti sulla chiazza di sangue ormai rappresa sul pavimento, sulle impronte che l’avevano sparsa e allargata a dismisura. Era lo stesso che aveva visto sporcare gli abiti dell’amico di suo figlio.
S’era appoggiato contro lo stipite della porta e aveva ringraziato che almeno ci fosse stato quel ciocco di legno a sorreggerlo perché per un attimo si era sentito prosciugare di ogni forza. Quelle erano cose che un padre non dovrebbe mai vedere.
Un brivido lo aveva riscorso e, lentamente, aveva chiuso la porta. Sapeva che non sarebbe bastato quel gesto a nascondere e relegare ciò che era accaduto in un angolo isolato della realtà, ma che ogni sua conseguenza avrebbe aleggiato attorno a lui in ogni istante; la macchia di sangue sarebbe sempre rimasta impressionata nei suoi occhi.
Con la stessa lentezza, perché il suo mondo girava a rallentatore, ormai, era uscito di casa e si era diretto all’ospedale. Aveva preso la macchina, ma aveva mantenuto l’acceleratore fisso sui quaranta.
La velocità, il dinamismo erano concetti legati al ‘vivere’, ma lui non si sentiva davvero un essere vivente; la sua condizione mentale era ancora morta.
Nei pressi dell’ospedale aveva parcheggiato e percorso a piedi l’ultimo tratto.
Un gruppo di ragazzi gli era passato accanto, nel senso contrario al suo. Quello più grosso di tutti aveva cercato di rassicurare una ragazza con i capelli corti che continuava a piangere e tirare su col naso. Tra loro, per un attimo, gli era sembrato di scorgere sia il ragazzo con i capelli ricci che quello con i denti sporgenti, ma non ne era stato sicuro. Solo quando aveva ripreso a guardare avanti a sé e aveva visto Mamoru si era convinto che, sì, quelli erano amici di Yuzo.
Mamoru si era mantenuto un po’ più distante dagli altri, fissando l’asfalto. Nel momento in cui erano passati l’uno di fianco all’altro, il giovane aveva sollevato lo sguardo, incrociando proprio il suo. Baiko l’aveva visto sussultare per un momento, forse spiazzato da chissà quale sentimento contrastante – aveva ipotizzato che anche il ragazzo lo detestasse –, e poi aveva accennato un rigido movimento del capo, in segno di saluto. Lui aveva risposto con un gesto similare.
Era poi entrato nell’ospedale, aveva raggiunto il quarto piano e si era fermato davanti al vetro che affacciava nella stanza. Lungo le scale aveva incrociato Kyoshi che gli aveva sorriso, dicendogli che Haruko era andata a casa proprio poco prima. Lui si era appuntato di tornare sempre a quell’ora.
Adesso, Baiko restava seduto in una delle rigide sedie di plastica che si trovavano nella piccola saletta, fuori alla camera del figlio.
Era rimasto a guardarlo per un tempo indefinito, attraverso i vetri, ma non era entrato. Un po’ perché non ne aveva avuto il coraggio, un po’ perché l’odore di ‘ospedale’ gli faceva venire l’ansia e un po’ perché… non avrebbe saputo cosa fare: che cambiava restare fuori o dentro? Tanto avrebbe solo potuto osservarlo, senza poter fare – o anche ‘riuscire a fare’ – niente.
Le bende bianche coprivano buona parte della testa. Era ancora intubato, ma Kyoshi gli aveva detto che glielo avrebbero tolto il giorno dopo, poiché perfettamente in grado di respirare autonomamente. Le ventiquattro ore che potevano essere considerate critiche in seguito a un simile intervento erano passate e le sue condizioni fisiche erano più che buone.
Però continuava a dormire.
E per quello nessuno dei luminari dell’ospedale era in grado di poter fare nulla.
Baiko seguitava a fissare il profilo di suo figlio, che riusciva comunque a scorgere anche da quella posizione seduta. C’erano dei fili, flebo, attaccati al corpo e al braccio. Si diramavano da sotto alle lenzuola come la bava di ragno che tesseva una tela. Nutrimento, monitoraggio cardiaco.
Yuzo dormiva e non si accorgeva di nulla.
Lui era sveglio e avvertiva il dolore di tutti.
Baiko pensò che alla fine, non importava quando, la vita sapeva sempre come presentarti il conto per le azioni sbagliate. Quello era il suo, da pagare giornalmente, in rate salatissime.
Quando aveva raggiunto la stanza e i suoi occhi si erano posati sulla figura inerme, gli era sembrato di non vederlo da un secolo ed era rimasto a fissarlo con un’espressione che aveva lentamente abbandonato la vacuità mantenuta fino a quel momento. Aveva aggrottato le sopracciglia e schiuso leggermente le labbra, quasi si fosse aspettato che Yuzo avesse potuto parlare da un momento all’altro, girarsi nella sua direzione e guardarlo. Invece non si era mosso nemmeno di un millimetro, sprofondato in un sonno che lo stava tenendo chissà quanto lontano dalla loro realtà.
Un bambino.
No, non un ragazzino, ma proprio un bambino.
In quel momento, lo aveva visto così indifeso che gli era parso davvero di vedere un bambino chiuso nel corpo di un uomo. Perché era un uomo, suo figlio, e questo non aveva più potuto ignorarlo; la sua fisicità alta e solida glielo stava dicendo già da anni, ma lui aveva sempre avuto un pessimo rapporto con i cambiamenti. Soprattutto quelli che non poteva controllare e avvenivano in maniera diversa dalle sue previsioni.
Non riuscendo ad affrontare le sue emozioni in maniera logica e razionale, Baiko aveva distolto lo sguardo e si era seduto.
E non si era più mosso.
La schiena appoggiata alla spalliera, le mani ferme sulle ginocchia. Sembrava quasi dovesse parlare con il Ministro della Difesa in merito alla nuova fornitura di munizioni per la polizia. Anzi, nemmeno con lui era più così formale e rigido.
Il problema era che non sapeva davvero cosa fare, non era stato educato per simili situazioni, non aveva norme o regole cui appellarsi, etichette.
«Il miglior pensiero in queste situazioni è credere che, almeno loro, non stiano soffrendo.»
Quella voce improvvisa gli fece rendere conto di non essere più da solo.
Baiko inquadrò la bassa figura di un uomo che gli dava le spalle e fissava oltre il vetro. Fino a quel momento non era passato nessuno, ma non si sentì infastidito né che il suo spazio venisse violato da una presenza esterna che non conosceva.
«Già» si limitò a rispondere.
«Magari sognano una meravigliosa spiaggia caraibica, oppure una realtà in cui non esistono problemi e tutto va come dovrebbe andare.»
Non lo vedeva in viso, ma gli parve che lo sconosciuto stesse sorridendo. Incredibilmente, venne da sorridere anche a lui provando a figurare un eventuale sogno di Yuzo: una famiglia felice, con un'altra persona al suo posto nel ruolo di padre. L’accenno di sorriso era amaro e affranto al contempo.
«Si spiegherebbe perché non vogliano più svegliarsi» Baiko continuò a osservare l’uomo in pantaloni chiari e polo arancione.
Fu allora che il nuovo arrivato si volse.
«Sì, sì. Proprio così» rise affabile, mostrando a Baiko un viso squadrato con gli occhialetti sul naso e la calvizie incipiente. Sembrava il nonno di una pubblicità di merendine, quello con cui ti metteresti a giocare a shogi sotto al porticato e ad ascoltare racconti sulla Seconda Guerra Mondiale.
«Perché non è dentro a fargli compagnia? Potrebbe parlare con lui. Dicono che riescano a sentire quello che accade loro intorno. O forse non vuole disturbare il suo sogno felice?»
L’educazione verso le persone più anziane gli aveva sempre detto che non si rispondeva mai a una domanda con un’altra domanda, ma quella gli venne del tutto spontanea. Lui non era un tipo molto fisionomista, ma… quell’uomo non l’aveva davvero mai visto.
«Mi perdoni… lei conosce mio figlio?»
Lo sconosciuto non si offese, ma continuò a sorridere con benevolenza. A passo lento e mani dietro la schiena gli si avvicinò.
«Sì e conosco anche lei, signor Morisaki, anche se non di persona. A dire il vero, Yuzo è convinto ch’io sia un semplice agente.» Si sedette lentamente, tirando un po’ su i pantaloni sulle ginocchia. Con cortesia gli porse il biglietto da visita. «Sono Ukyo Tamura, il Presidente della Shimuzu S-Pulse. Abbiamo parlato al telefono.»
«Oh.» In quel momento, Baiko parve prendere contatto con il resto della realtà che aveva inavvertitamente rimosso dalle sue priorità. «Oh! Avevamo appuntamento quest’oggi per la rescissione del contratto… non ho nemmeno incaricato qualcuno di farle una telefonata, mi dispiace-»
«E’ a me che dispiace, signor Morisaki. Alla sua azienda avevano detto che aveva avuto un contrattempo riguardante la salute di suo figlio. Mi ero preoccupato ed ero venuto a sincerarmi delle condizioni del giovane Yuzo. Ho saputo quello che è successo da un suo vicino.» Il sorriso non c’era più, sostituito da un’espressione di profondo quanto sincero rammarico. «Sono io a doverle dire che mi dispiace.»
Baiko sostenne per pochi momenti il suo sguardo, prima di distogliere il proprio, ferito da una sorta di senso di colpa verso l’uomo che gli era accanto. Era stato pessimo nei suoi confronti, veramente odioso, cinico e arrogante. Quando aveva telefonato alla Shimizu S-Pulse, pretendendo di parlare con il presidente, aveva messo in mostra tutta la presunzione di cui era stato capace, facendosi guidare dal suo orgoglio ferito proprio da quel figlio che ora rischiava di non parlargli mai più. Nonostante il comportamento disdicevole, quello stesso presidente si era preso la briga di venire di persona per vedere come stava Yuzo.
Dio, che vergogna.
«A volte, i figli agiscono in determinate maniere proprio perché sono figli e non genitori. E noi, proprio in virtù del fatto di essere genitori, non li capiamo.» Ukyo Tamura aveva ripreso la parola, attirandosi nuovamente il suo sguardo. Lo osservò fissare di fronte a sé, attraverso la lastra di vetro così sottile eppure invalicabile. «Ma io ho sempre pensato che c’è un modo per venirsi incontro, basta solo trovarlo.»
Ne parlava come se sapesse quanto difficile potesse essere il ruolo di padre, perché non tutto andava sempre liscio secondo progetti stabiliti; il treno poteva deragliare in qualunque momento.
«Lei ha figli?»
«Tre e con il più grande non avevamo un rapporto idilliaco. I figli sono i ribelli del futuro, proprio come noi lo siamo stati ai nostri tempi.» Ne parlava al passato e Baiko avvertì un brivido corrergli per tutta la spina dorsale. «Aveva ventisei anni quando è morto. E’ stato per lui che ho deciso di fondare la S-Pulse. Giocava, sa? E aveva sempre desiderato che la città in cui era nato potesse avere una squadra tutta sua in grado di competere con le grandi della J-League.» Con una serenità che lui non credeva sarebbe mai riuscito a eguagliare, nemmeno pallidamente, il presidente gli rivolse lo , circondato da rughe, e il sorriso saggio. «La S-Pulse è stato il modo in cui noi siamo riusciti a venirci incontro. Anche se solo con lo spirito.»
Lui non aveva mai nemmeno tentato di ‘andare incontro’ a Yuzo per cercare di capire quali fossero le sue esigenze, i suoi pensieri e, sì, anche le sue preoccupazioni e paure, perché tanto sapeva cosa passava per la testa di un ‘figlio’; era stato figlio a sua volta molto tempo prima. La loro era una vita facile, se paragonata a quella di un genitore, perché tanto era già tutto stabilito: Yuzo avrebbe finito gli studi, si sarebbe laureato e avrebbe preso il suo posto. Era quello il meglio per lui, era quello ciò di cui un genitore si sarebbe dovuto occupare. Ma pensando con la testa del ‘genitore’, aveva finito col dimenticare cosa significasse davvero essere un ‘figlio’.
Le bolle di sapone, in cui i pensieri di Baiko si erano rinchiusi dal giorno prima, in isolamento, continuarono a esplodere con leggeri ‘puff’, recuperando la giusta locazione e mettendo in moto i vari ingranaggi, alcuni così antichi che aveva finito col dimenticare. L’astronauta solitario che saltava a gravità zero nella sua scatola cranica era atterrato sulla Luna e lasciava le prime impronte. E tra la polvere che si sollevava in quello zampettare gli parve di scorgere, per un tempo brevissimo, un vecchio tavolo da disegno, dischi in vinile e una palla da baseball.
Baiko ricacciò indietro un formicolio sconosciuto che aveva preso a corrergli alla base del collo e dietro l’apparente vacuità dell’espressione. Era forse il principio di una reazione?
«E di cosa dovrei parlargli?» chiese, cercando ancora delle regole, delle indicazioni, un protocollo da seguire. Il sorriso del signor Tamura, la sua espressione benevola, gli parvero le pagine d’un manuale d’emergenza.
«Di tutto. Tutto quello che avrebbe voluto, tutto quello che pensa. Anche mio figlio è rimasto in coma per un lungo tempo e credo di non aver mai parlato tanto con lui come in quei mesi. Lo prenda come una prova generale, un allenamento.»
«Allenamento?»
«Per quando si sveglierà: perché poi, quelle stesse cose, dovrà dirgliele di persona. Non si deve mai aver paura di parlare con i propri figli, altrimenti si finisce col non saper parlare più nemmeno a sé stessi. E se non ci parliamo, non ci ascoltiamo, non ci conosciamo… quanto possiamo sperare di conoscere loro?»
Baiko aveva smesso di parlare con sé stesso da talmente tanto tempo che non sapeva più se lo avesse mai fatto o meno. Quello scavare dentro il proprio ‘io’ per vedere cosa nascondesse, quel dialogare come vecchi amici e chiedere consigli era un qualcosa che lui aveva rimosso in maniera sistematica. ‘Cosa dovrei fare?’ non ricordava di esserselo mai domandato perché tanto la sua strada era già stata stabilita da un’altra persona. E quella persona era suo padre.
Gelò.
Non voleva credere di aver dimenticato o addirittura ignorato sé stesso per tutto questo tempo.
E suo figlio… suo figlio era riuscito a conoscere il proprio ‘io’?
«E se… non si dovesse svegliare?»
Il panico improvviso venne celato con abilità dal suo autocontrollo. Ancora gli obbediva, ma non sapeva per quanto.
«Lei cosa pensa?»
«Che le possibilità sono al cinquanta per cento.»
Ukyo rise. «Questo secondo l’essere uomo, ma il suo essere padre che le dice?»
Diceva troppo, forse. Le parole erano quasi incomprensibili e nascoste dal silenzio imperturbabile che l’essere uomo imponeva come dittatore su tutta la sua persona.
Baiko cercò, scavò, creò un misero spiraglio nelle bolle di sapone. Una esplose la risposta.
«Che vorrei avere una seconda possibilità…»
«Allora agisca come se questa occasione dovesse arrivare già domani e cominci a parlargli, adesso.» Il presidente della S-Pulse si alzò lentamente, portandosi le mani dietro la schiena. «Non è mai troppo tardi» concluse avvicinandosi al vetro.
Baiko si alzò a sua volta, affrettandosi ad aggiungere, come si confaceva a un uomo d’affari come lui: «Allora mi metterò in contatto con lei al più presto per provvedere alla rescissione del contratto. Mi dispiace di essere stato scortese, al telefono-»
«E’ ancora convinto di volerlo rescindere?»
La domanda di Tamura lo lasciò, se non sgomento, profondamente sorpreso. Sul suo viso, Baiko non lesse alcuna incertezza; lo sguardo rassicurante e affettuoso era sempre lì, assieme al sorriso comprensivo.
«Beh, ma… ma mio figlio… lui è-» guardò prima l’uomo, poi il corpo di Yuzo e ancora il presidente della S-Pulse la cui calma non mutò.
«Io non ho fretta, signor Morisaki: ho speranza» e, dicendo questo, puntò lo sguardo al vetro.
Lui continuò a non comprendere. Quei meccanismi così poco lineari gli affaticavano i pensieri e non riusciva a seguirli. Lo facevano sentire stupido e incapace. Baiko aggrottò le sopracciglia.
«Perché?», domandò disorientato, «Perché tiene tanto a mio figlio?»
Ukyo Tamura sospirò, sistemandosi gli occhialetti sul naso. Tornò a rivolgergli quegli occhi che l’avanzare del tempo faceva sembrare più piccoli, ma sempre ridenti.
«Perché, in tutti questi anni, ho imparato a sentirmi un po’ come un padre per ciascuno dei miei ragazzi e anche se Yuzo ha firmato il contratto solo pochi giorni fa, è come se facesse da sempre parte della grande famiglia della Shimizu S-Pulse
Baiko non rispose, ma quel termine lo colpì, afferrandogli il petto e torcendolo adagio. Famiglia.
La grande famiglia della Shimizu S-Pulse.
Era forse per questo che Yuzo aveva scelto di giocare per quella squadra?
«Ci pensi bene, signor Morisaki, ci pensi bene. C’è ancora tempo» e, dicendo questo, accennò un saluto cordiale e se ne andò, lasciandolo nuovamente da solo.
Parlare.
Baiko se lo ripeté come un mantra tentando ancora di scrutare quella piccola schiena un po’ curva per trovare altre indicazioni. Ma Ukyo gli aveva detto tutto quello che era necessario, in quel momento, e lui avrebbe dovuto farselo bastare.
Parlare.
Si girò, lentamente, gli occhi trovarono suo figlio; continuazione di una minuscola parte di sé, nel futuro, che al momento restava immobile, cristallizzata nel tempo.
Parlare.
Quando era stata l’ultima volta che avevano parlato, loro due? O forse c’era da chiedersi se l’avessero mai fatto davvero. Magari Yuzo c’aveva provato e lui si era rifiutato di ascoltare perché avevano pensieri differenti e differenti modi di vedere le cose. Alla fine, per quanto ci girasse attorno, si arrivava sempre alla stessa conclusione: la colpa di tutto era sua.
Ma era davvero in tempo per rimediare, come gli aveva detto il signor Tamura?
Baiko scivolò piano oltre la porta. Il contatto gelido con il metallo della maniglia gli aveva seccato la gola per un attimo.
All’interno c’erano rumori.
Vista dall’esterno, quella stanza gli era sempre sembrata un po’ come una bara di vetro, un luogo perfettamente silenzioso dove nulla avrebbe mai dovuto disturbare il sonno di suo figlio. E invece, ora scopriva che non era così, che c’era vita lì dentro. La macchina del respiratore, l’apparecchio che monitorava il battito cardiaco. Baiko fissò quello strano concerto di ‘beep’ seguendo la linea verde e le sue pieghe che interrompevano periodicamente il tracciato dritto.
Suo figlio era vivo.
Paradossalmente, fu quello a farglielo realizzare: vedere il segno del cuore che batteva. Poi aveva spostato lo sguardo al petto, per scorgere il lento movimento prodotto dal respiro: s’alzava e si abbassava.
Ingoiò a vuoto e avanzò.
L’odore di ospedale era soffocante.
Baiko si fermò a nemmeno un passo di distanza e rimase ritto, accanto al letto, osservando la figura del giovane dall’alto.
Non ricordava più l’ultima volta che erano stati così vicini. Forse il giorno dell’incidente? No, anche allora, come sempre, erano stati distanti; pochi passi, che erano divenuti incolmabili. E adesso che era lì e non riusciva a scorgere i suoi occhi percepì che quella distanza stava divenendo ancora più profonda ed enorme, ma lui… lui poteva… almeno provare…
Parlare.
…sì, parlare… e dire… dire…
«Ciao, Yuzo… sono papà.»

 

“I’m sorry for your pain /
Mi dispiace per il tuo dolore,
I’m sorry for your tears /
mi dispiace per le tue lacrime,
for all the little things I didn’t know /
per tutte le piccole cose che non sapevo,
I’m sorry for the words I didn’t say /
mi dispiace per le parole che non ho detto.

Tommy ReeveI’m sorry

 


[1]: il significato di ‘Mamoru’ è ‘protezione’. In questo caso, il suo nome è visto come ‘profetico’ perché la creatura che fa compagnia a Yuzo in qualche modo ‘protegge’ le persone che incontra.

[2]: XD questo mi sa che Rubysage lo indovinerà senza bisogno di nota!!! E’ una frase tratta dal film “Il Signore degli Anelli” (ammetto di non sapere se c’è anche nel libro perché non l’ho mai letto! Non me ne voglia la Rubyyyy! \O/) XDDDD Avete presente Gandalf vs Balrog?! Ecco XD. In questo caso il Balrog è Baiko! *rotola via* Beh, per un momento ‘epico’, ci voleva una frase altrettanto ‘epica’ XDDD. Non ho scusanti? Ok, non ne ho! *clicca qui per vedere il duello Gandalf vs Balrog*


 

Le canzoni del capitolo:

- Fireflies (Owl City): ammetto che questa canzone non la conoscevo affatto ed è stata davvero una piacevolissima scoperta *_*. Tra l’altro, ho scoperto almeno un altro paio di canzoni di questo cantante che mi sono davvero piaciute, quindi, direi che è stata proprio provvidenziale!
L’ho trovata mentre scrivevo il capitolo. Volevo qualcosa che parlasse di lucciole ed eccomi servita (XD no, ‘noi siam come le lucciole’ non andava per niente bene!), gran botta di culo che tutto il testo ci stesse a meraviglia.
Vi consiglio troppissimo di guardare il video che NON è quello ufficiale, ma merita MOLTO, MOLTO di più! *___* io l’ho trovato bellissimo e spuccio! ** (in particolare dal minuto 1:50 a 2:00. *w*)

- Crystal ball (Keane): questa canzone è stata aggiunta in corsa, prima non c’era. XD Me ne sono ricordata mentre leggevo il capitolo e… XD ahò, mi sono accorta che stava parlando di Baiko.
Vi avverto che quel video mi ha sempre messo talmente tanta tristezza addosso che mi sono sempre, e dico sempre, rifiutata di guardarlo. °_°
Non so, mi verrebbe voglia di entrare nel video per andare ad aiutare il protagonista ç_ç (che è il bravissimo Giovanni Ribisi, tra parentesi!). Verificate anche voi e ditemi se non vi verrebbe la stessa, identica voglia che viene a me! ç_ç

- I’m sorry (Tommy Reeve): anche questa è stata aggiunta all’ultimo momento, sostituendone un’altra che verrà inserita più avanti.
Come per “Fireflies” non la conoscevo, e ammetto che è impossibile trovare una canzone in cui si parli del ‘chiedere scusa’ senza riferimenti all’ammmmmmmore (lei chiede perdono a lui o viceversa). Ovviamente, questa non fa eccezione (XD e ti pare?), MA!, il video mi ha fatto restare così male alla fine che non ve lo immaginate. °_°
Ad ogni modo, il succo del discorso stava benissimo uguale e visto che la canzone mi piaceva (che bello scoprire canzoni che non si conoscevano, yay!), ce l’ho messa. X3



Anche per questo capitolo è tutto, e io continuo a ringraziare le persone che seguono questa storia! :D

   
 
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