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Autore: SilvychanUchiha    31/05/2011    1 recensioni
Questa lo scritta insieme a una mia carissima amica:Camilla.Spero che vi piaccia!
Dal testo:
Continuando a ridere, Cam si abbassò per schioccarmi un bacio sulla guancia e io andai a fuoco.
Era normale che Cam mi baciasse la punta del naso o la fronte, era una cosa amichevole e ci ero assolutamente abituata, non avevo mai reagito così, neanche quando ancora volevo che non fossimo soltanto amici. Allora cosa mi stava succedendo? Perché all’improvviso desideravo sentire le sue labbra sulle mie, come era capitato il giorno prima? Perché volevo ardentemente che le sue mani mi stringessero i fianchi, tenendo il mio corpo premuto sul suo? Perché avevo bisogno della sua pelle sulla mia, del suo respiro caldo ad accarezzarmi il collo?
Doveva aver notato la mia reazione, perché avvicinò il suo viso al mio, naso contro naso, solo pochi millimetri a separare le nostre labbra. Ma non mi baciò. Si fermò così, tanto vicino da farmi girare la testa ma non abbastanza da rendermi soddisfatta. Così gli afferrai le guance e lo baciai...
Genere: Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti! Ecco a voi il primo capitolo: io e la mia amica Camilla ringraziamo tutte le persone che hanno letto / recensito / indicate come seguite / indicata come preferite o da ricordare.
Se volete recensire saremmo molto contente.Buona lettura. =D 


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CAPITOLO UNO

RAGGI DI SOLE E STATUE DI CERA

 
Ero al telefono con Stella, la mia migliore amica non che ragazza più carina/popolare/corteggiata della mia oramai ex scuola, quando mio padre mi annunciò che eravamo arrivati. Prima di essere interrotte dall’entusiastico annuncio di Adam –non avevo ancora perso l’abitudine di rivolgermi a lui con il suo nome di battesimo, anche se stavo facendo progressi- Stella mi stava raccontando della sua ultima conquista: si chiamava Publius ed era al quarto anno. Secondo lei era bello come il sole e ancora non riusciva a capacitarsi del fatto che un ragazzo così perfetto avesse potuto interessarsi a lei. Se la conoscevo davvero bene come pensavo, a questo punto sul suo viso gongolante erano spuntate le sue adorabili fossette, mentre con la mano non occupata dal telefono stava torturando il ciuffo biondo platino proprio sotto il suo orecchio sinistro. Sapeva che stavo ignorando il suo annuncio di proposito, così Adam mi ammonì ripetendomi che eravamo arrivati e che dovevo staccarmi dal telefono. Come se non bastasse, mi trafisse con uno sguardo di ghiaccio e sembrava talmente arrabbiato del fatto che stessi ammazzando la sua euforia, che per un secondo tutta l’autorità che zampillava dai suoi occhi mi fece quasi paura, perciò salutai velocemente e controvoglia Stella e riposi il cellulare in borsa.
“Era ora” mugugnai con una voce che era a metà tra l’annoiato e il furioso, prima di scendere dalla macchina. Era bastata un’occhiata più che rapida alla facciata della casa sulla spiaggia che mi avrebbe ospitata -e che sarebbe anche stata la mia prigione personale- per farmi cambiare totalmente umore e farmi andare in iperventilazione. Non mi intimidiva -in fondo era solo una stupida casa… mi terrorizzava.
Pur essendo a conoscenza che per me trasferirmi dall’altra parte del paese -e, di conseguenza, cambiare completamente vita- per lo più in una casa piena di estranei equivaleva ad essere sepolta viva, mio padre voleva che mi sforzassi ad affrontare tutto quanto con un sorriso sulle labbra.
“Di solito sei una ragazza così solare”, mi aveva ripetuto in una delle numerosissime discussioni che avevamo avuto a riguardo, “non vedo come mai questo possa scombussolarti così tanto. Tira fuori un po’ di quello spirito d’avventura per cui sei famosa! Raggio di sole, coraggio…”
Sì, aveva ragione, ero una tipa solare, sempre aperta a nuove esperienze…
E allora?
Non poteva cavarsela così facilmente, dovevo trovare il modo di fargliela pagare.
Mia madre era appena morta e lui mi aveva strappato dalla mia vita per incollarmi nella sua: un collage che non sarebbe riuscito nemmeno con Photoshop…
Adam ci aveva abbandonate quando avevo appena cinque anni e adesso pretendeva di riallacciare i rapporti come se niente fosse. Mi aveva messa in stand-by, ferma ad aspettare che lui finisse di giocare alla famigliola felice con una sconosciuta.
Aveva abbandonato me per fare da padre ai figli di qualcun altro.
E adesso voleva la sua bambina indietro.
Beh, siamo spiacenti di informarla che la sua bambina non c’è più. È stata rimpiazzata da una “solare” adolescente pericolosamente in collera con il mondo, ma soprattutto con lei.
Scesi dall’auto e mi avvicinai lentamente e con molta cautela alla luminosissima casa sulla spiaggia che da quel giorno in poi sarebbe stata casa mia. Sentii il cuore accelerare all’improvviso e mi resi conto che facevo fatica a respirare, una fatica che non c’entrava nulla con il mio asma, ma che dipendeva totalmente dal mio stato d’animo: sembrava come se anche il mio organismo rifiutasse quel posto, invitandomi con violenza a tornare indietro. Anche se ormai non potevo più tornare indietro…
Adam aprì la porta ed entrai in un grande salone dai colori chiari, uno spazio aperto e arioso, che avrebbe dato a chiunque altro un senso di libertà. Io, invece, stavo soffocando…
Per raggiungere i membri della famiglia che mi stavano aspettando vicino alla cucina inciampai sul primo dei tre scalini di legno che separavano la porta dal resto del pavimento, e a qualcuno scappò un risolino. Fu solo in quel momento che, per me, la loro presenza divenne estremamente reale e concreta: loro c’erano, esistevano davvero, ed erano tutti lì ad aspettare me. Erano sistemati in una posizione fissa, come fossero in posa per una fotografia che qualcuno si stava attardando a scattare, immobili e perfetti come statue di cera.
“Benvenuta a casa, Allie!” esclamò con entusiasmo quella che doveva essere Ava, la mogliettina poco più che quindicenne di mio padre, rompendo le righe.
Avrebbe potuto essere un buon modo per rompere il ghiaccio, peccato che: “Il mio nome è Hailye” tossii, imbarazzatissima. Cominciamo bene. “Comunque, grazie” dissi, sforzandomi di strappare dal mio repertorio il miglior sorriso possibile. Per fortuna ero un’attrice sufficientemente abile.
“Oh, mi dispiace tanto! E dire che tuo padre lo ripete così spesso… Ad ogni modo, io sono Ava, e questi sono Bradin e Nicky” annunciò orgogliosa, indicando due ragazzi che dovevano avere più o meno la mia età e che quasi sicuramente erano gemelli. La mia matrigna indossava un vestitino color malva tagliato all’altezza del ginocchio e aveva raccolto i capelli chiari in uno chignon dal quale erano fuggiti un paio di ciuffi che le ricadevano sulla fronte. Bradin sembrava non essersi indaffarato molto davanti all’armadio quella mattina: aveva un paio di jeans scoloriti ad arte, una maglietta bianca e infradito ai piedi. Anche lui aveva i capelli chiari, sistemati in un caschetto alla moda, e sembrava impaziente di andarsene. Forse aveva qualche impegno. Sicuramente aveva compagni, amici e magari anche una fidanzata ad aspettarlo per andare a fare una passeggiata o per sparlare dei compagni che conoscevano da una vita… Io avrei dovuto cominciare tutto daccapo.
Nicky rimase a fissarmi senza muoversi di un millimetro, con aria di superiorità, come si fissa qualcuno che sta invadendo il tuo spazio e che verrà presto eliminato. Indossava un vestito nero che ne evidenziava l’eccessiva magrezza e portava accessori argentati, soprattutto tra i capelli castani raccolti in un’elaborata coda di cavallo. Aveva messo troppo profumo quella mattina, e anche le palpebre erano troppo marcate dall’eyeliner glitterato, ma tutto sommato aveva un bell’aspetto. Non ero convinta che sarei stata in grado di dire lo stesso del suo carattere…
“Io chiamo Marti, e lui zio Jay” esclamò una deliziosa bimba dagli occhi e capelli scuri, che doveva avere sì e no quattro anni. Fu il primo membro della famiglia con cui ebbi un contatto fisico: molto tranquillamente, infatti, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si alzò dallo sgabello su cui sedeva e corse a circondarmi le gambe con un abbraccio. Nel frattempo si alzò anche un ragazzo altro e muscoloso, con un simpatico caschetto biondo schiarito dal sole e due occhi chiari e limpidi e mi circondò il torace con le sue braccia abbronzate, una stretta forte e confortante allo stesso tempo.
“Ciao Haylie, sono lo zio Jay!” esclamò “Ma per favore, chiamami solo Jay: sentirmi chiamare zio da degli adolescenti mi fa sentire vecchio!”
“Ok” risposi, questa volta con un sorriso sincero.
Fra tutti i presenti nella stanza, Jay e Marti erano le uniche due persone che mi ispiravano fiducia. Beh, Haylie, due su sei rappresentano una buona percentuale…
 
Era ormai tardi, avevo sonno e, francamente, anche una gran voglia di stare un po’ da sola.
Dopo le presentazioni, Jay mi aiutò a scaricare dall’auto i bagagli -che erano ancora accanto alla porta d’ingresso- prima di correre a tavola per la cena. Dopodiché, Bradin e Jay erano usciti, Nicky si era appartata per chattare su Facebook con un ragazzo e Marty si era addormentata sul divano, mentre guardava un cartone animato. Così rimanemmo solo io, Adam e Ava, che tubavano come due dodicenni. Mi sentivo il terzo incomodo, quindi chiesi: “Dov’è la mia camera?”.
Non mi sembrava una domanda così sfrontata da meritare l’occhiataccia che mi schioccò Ava.
Ah, birichina! Hai rovinato il suo momento romantico!
Oddio, se quello era romanticismo… che tristezza!
“Vieni, ti accompagno” replicò mio padre, nel tono meno brusco che riuscì a trovare.
Raccolsi in fretta le mie cose (anche la valigia più pesante), augurai una buona notte ad Ava e lo seguii mentre saliva le scale di legno fino a quello che doveva essere l’ultimo piano.
Fantastico! La soffitta, proprio come Cenerentola…
“Ecco, questa è la tua stanza. Prima era il laboratorio di Ava: è stata più che felice di cedertelo, ma domani ringraziala comunque. Il bagno è al piano di sotto. Ne abbiamo due, ma solo uno ha la doccia –quello vicino alla camera di Jay e Bradin, perciò se al mattino ne hai bisogno ti consiglio di svegliarti dieci minuti prima e impossessartene prima che lo facciano loro. Mmm, cos’altro? Ah, ecco: ti ho preso una macchina –è di seconda mano, ma per il tizio a cui apparteneva era importante quasi come i suoi figli, perciò è in ottime condizioni”, disse sorridendo.
“Se era così importante, perché l’ha venduta?” domandai sovrappensiero.
“Oh, beh… ecco, ha divorziato e ha dovuto sbarazzarsi della macchina per pagare gli alimenti”, replicò. Vedendo la mia occhiata di disappunto, o forse ansioso di tornare dalla sua mogliettina, si affrettò a concludere quella conversazione che sembrava più l’accoglienza riservata agli ospiti degli hotel più scadenti che quella di un padre alla figlia. “Ok, questo è tutto. Ci si vede domani mattina. Ti auguro una buona notte”.
Io no: voglio che la tua notte faccia schifo. Ti auguro tanti incubi e spero che la tua bambolina gonfiabile abbia mal di testa!
 “’Notte”, esclamai con il sorriso più falso che avessi mai dedicato a nessuno in vita mia.
Adam scese le scale e io entrai in camera mia.
Non era male: le pareti erano di un verde acido e raggiante e i mobili erano bianchi. L’armadio ad angolo occupava la parete alla sinistra della porta d’ingresso, al centro della stanza il letto regnava sovrano. Sul muro di fronte al guardaroba correvano tre mensole molto spaziose e vuote, che avrei potuto riempire con la mia roba e la scrivania era addossata alla stessa parete, una finestra a separare le due componenti del mobilio. Minimalista, ma aveva carattere. Finora era l’unica parte della casa dentro la quale non mi ero sentita soffocare.
Comunque aprii la finestra, per scacciare l’odore di chiuso che aleggiava in camera, comprendendo che in realtà era un balcone. Un balcone gigante dal quale potevo raggiungere ogni punto della casa camminando sul cornicione. Fico.
Provai a percorrerne un po’, ma la mia eccitazione svanì veloce così come era venuta, e mi ritrovai in piedi sulla cima del tetto dal quale, stanca com’ero, sarei potuta scivolare senza il minimo sforzo. Così tornai dentro e mi lasciai cadere sulla trapunta leggera rosa a pois gialli che ricopriva il mio letto. E sprofondai nei ricordi.
Com’era diversa la mia vecchia casa –la vera casa mia- da quel rifugio sulla spiaggia: le pareti erano pitturate con i colori più improbabili -celeste, aragosta, caramello, giallo ocra e beige- e le componenti della mobilia erano tutte di legno scuro e massiccio. Mia madre era una tipa molto eccentrica, di carattere. Niente a che fare con questi robot biondi.
Mia madre. Dio, quanto mi mancava.
A novembre le era partito un embolo, all’improvviso, e l’ultima cosa che mi aveva detto era stata: “Per favore, chiama un’ambulanza. Non spaventarti, amore. Non è niente”. Erano arrivati i paramedici a casa, l’avevano caricata sull’ambulanza e l’avevano portata via. Avevo il cervello in tilt, stava succedendo tutto così in fretta. Le stringevo la mano nel percorso verso l’ospedale, per farle capire che non l’avrei abbandonata. Mai.
Era stata ricoverata, perché la sua situazione era instabile, e per un periodo mi ritrovai a campeggiare in una delle sale d’attesa dell’ospedale. Non la lasciavo mai sola- fatta eccezione per le ore di scuola. Passavo i momenti in cui mi permettevano di farle visita a raccontarle di quello che era successo a me e a Stella durante la mattina, a riferirle i piani che avevo fatto per quando sarebbe uscita dall’ospedale, mi sforzavo anche di guardare il telegiornale tutti i giorni per poterla tenere informata. Cercavo di tenere duro: dovevo essere forte, per me e per lei.
“Andrà tutto bene”, mi rassicurò un giovane infermiere un pomeriggio. Ero appena tornata da scuola e stava piovendo fortissimo. Le gocce battevano violente sui vetri della finestra in camera della mamma, ma non abbastanza forte da coprire la voce del medico che mi diceva che le sue condizioni erano peggiorate. Mi aveva avvisata così, senza tanti preamboli e senza nessun riguardo, e io mi limitai ad annuire. Appena se ne andò, però, crollai. Tremavo e singhiozzavo al capezzale di mia madre quando arrivò Jeremy, un paramedico tirocinante, che ignorando la posizione che occupava mi strinse forte finché non mi calmai un po’. “Vedrai che andrà tutto bene, tesoro. Adesso vai a mangiare qualcosa, ci penso io a farle compagnia”, mi disse.
Mia madre era morta il giorno dopo.
Me lo comunicò lo stesso dottore che mi aveva parlato la sera prima, appena tornai da scuola.
Mi sentii malissimo: l’avevo abbandonata quando aveva avuto più bisogno di me.
“Non avresti potuto aiutarla, in nessun modo”, cercò di consolarmi Jeremy. “Hai fatto tutto quello che hai potuto, e sono certo che tua madre non si sia mai sentita sola durante il periodo che ha passato qui. Sono sicuro che abbia sentito la tua presenza fino alla fine”. Mi sorrise, un sorriso teso ma sincero. Non ricordo se o cosa risposi. L’unica cosa che ricordo sono le braccia della mamma di Stella che mi stringevano la vita e le dita della mia amica che mi lisciavano i capelli con fare protettivo. Erano state loro ad aiutarmi con il funerale e tutto il resto: mio padre non si era degnato di lasciare la sua famiglia posticcia nemmeno in quell’orribile occasione. Si era fatto vivo solo telefonicamente. Telefonicamente mi aveva avvisata che la mia custodia era rimbalzata nelle sue mani, telefonicamente mi aveva avvertita che sarei dovuta andare a vivere con lui e telefonicamente mi aveva informata che sarebbe stato un trasferimento prossimo e duraturo.
C’era voluto qualche mese per sistemare tutte le scartoffie dell’affidamento, ma il momento di cambiare vita era arrivato comunque troppo presto.
Avevo le lacrime agli occhi quando decisi di alzarmi dal letto e di sistemare le mie cose, per rendere quella stanza più mia. Tolsi i vestiti dalle valigie e gli accessori dal beauty-case, ma decisi di rinviare la colonizzazione di una mensola del bagno al giorno dopo. Poi mi concentrai sugli oggetti che decoravano la mia vecchia stanza: una cornice di vetro colorato con una foto di me e Stella la sera del ballo di inizio anno, un’altra cornice con una foto che avevamo fatto al mare e una gigantografia di quando a Natale ci eravamo vestite da renne per beneficenza. La lavagnetta di legno su cui avevo raccolto tutte le cartoline che mi aveva inviato la mia amica dai suoi viaggi in posti esotici era rimasta sul fondo dello scatolone, insieme al portafoto di legno che incorniciava me e mia madre, sorridenti e abbronzate subito dopo le vacanze estive. Appoggiai il mio peluche preferito -una pecora dall’aria buffa e imbranata- su una mensola, vicino alla poltroncina azzurra che fungeva da portacellulare, e un vaso di vetro decorato con dei girasoli sulla scrivania.
Mi sentivo un po’ più a casa, con tutta la mia roba a circondarmi.
Poi feci una capatina in bagno, indossai il pigiama e mi infilai sotto le coperte, sperando di riuscire ad addormentarmi in fretta: l’indomani mi aspettava il mio primo giorno di scuola, ed ero convinta che a Santa Monica nessuna ragazza andasse in giro con le occhiaie da stress. 
  
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