31. Beato Te
Per
la seconda volta in poco meno di un anno, Bobby si ritrovò inginocchiato sulla
tomba del padre di Adia, pregando per la sorte della donna che da circa nove
mesi poteva definire sua moglie. Il reverendo
Chambers lo fissava con il solito sorriso immobile, tentando vanamente di
rassicurarlo. Bobby non riusciva a calmarsi: non era soltanto di Adia che si
parlava, questa volta, ma anche di suo
figlio. Suo figlio, una delle
poche cose buone che fosse riuscito a realizzare nel corso della propria vita.
Suo figlio o sua figlia, ancora non poteva saperlo con certezza. La sola cosa
certa era che suo figlio – o sua figlia – avrebbe dovuto nascere due settimane
prima, e invece se la stava prendendo comoda.
Da
una settimana, Adia era stata ricoverata in ospedale, per tenere la situazione
sotto controllo e assicurarsi che tutto procedesse secondo i piani. Da una
settimana, Bobby faceva la spola tra il magazzino del vecchio Artie, che lo
aveva appena promosso responsabile, la propria casa e l’ospedale, nutrendosi
quando capitava e dormendo ancor più di rado. “Io… io glielo chiedo per favore.
Insomma, Adia è sua figlia. Parliamo di suo
nipote” disse, trovandosi per la seconda volta a parlare con una tomba.
“Gliel’avevo promesso, che l’avrei amata. La amo, l’ho sposata. Avrei voluto
fare tutto in modo diverso, ma… è stato il destino. Lei dovrebbe saperne
qualcosa. È stato il destino a mettere Victor Sweet sulla sua strada, no?” Un
rumore di neve calpestata alle sue spalle gli fece voltare la testa. Distolse
lo sguardo nell’incrociare la figura dell’agente Carmichael, il poliziotto che
l’aveva arrestato per il maggior numero di volte. “Salve, agente. Prima di
tirare fuori i braccialetti, lasci che le dica che sto pregando.”
“Pregando?”
ripeté l’agente, incredulo. “Lasciamo stare. Ti cerco da almeno un’ora, sai?”
“Qual
è il capo d’accusa? Molestie nei confronti di un cadavere?”
“Non
voglio arrestarti, Mercer. Ha chiamato il vecchio Artie. Ti cercano
dall’ospedale. Hanno provato a cercarti a casa, ma non rispondeva nessuno, e il
cellulare risulta staccato.”
Bobby
guardò immediatamente il cellulare. “Merda, si è scaricata la batteria. Che è
successo?” domandò, alzandosi in piedi.
“Sembra
che tua moglie sia entrata in travaglio, ma si rifiuta di avere il bambino,
finché non sarai da lei.”
“Wow”
sospirò Bobby.
“Non
mi sembri entusiasta.”
“Oh,
lo sono. È solo che… sono anche terrorizzato. Molto terrorizzato.”
L’agente
Carmichael scoppiò a ridere. “Ti capisco, Mercer. Ho tre figlie. Il tuo cos’è,
maschio o femmina?”
“Non
lo so. Non l’abbiamo voluto sapere.”
“Non
sei curioso di scoprirlo?”
Bobby
guardò un’ultima volta la tomba del suocero, poi si lasciò andare ad un
sorriso.
Per
la prima volta in vita sua, Bobby salì su un’auto della polizia senza le
manette ai polsi. Approfittando della divisa e dell’auto d’ordinanza, il
poliziotto accompagnò Bobby davanti all’ingresso dell’ospedale in un lampo.
Bobby corse immediatamente nell’atrio, dirigendosi verso l’accettazione per
sapere dove trovare Adia, ma fu intercettato da Carla, l’infermiera che un anno
prima aveva assistito Adia nel corso dell’intervento alla gamba, e che si stava
occupando di lei anche in quel frangente. “Bobby, finalmente!” esclamò,
afferrandolo per un braccio. “Forza, non c’è tempo da perdere! È già al massimo
della dilatazione, non c’è più tempo, ma continua a dire di volerti aspettare.
Forza, andiamo!”
“Cosa…
cosa significa che è al massimo della dilatazione?” domandò l’uomo, mentre la
donna lo trascinava lungo un dedalo di corridoi, fino al reparto maternità.
“Significa
che tuo figlio, o tua figlia, o che diavolo è, muore dalla voglia di farsi
vedere dal mondo” ribatté l’infermiera, continuando a guidarlo verso la meta.
“Ok, ci siamo” annunciò, fermandosi davanti all’ingresso della sala parto.
“Togliti la giacca, su!” gli intimò, strattonando il giubbotto pesante.
“Mettiti il camice, forza!” gli ordinò ancora, aiutandolo ad infilarsi un buffo
camice azzurro. “Ok, ti risparmio la cuffia, ma andiamo, forza! Sarà già
abbastanza difficile senza che perdiamo tempo…” continuò, prendendolo per la
mano e trascinandolo nella sala. “Ci siamo, dottor Evans!” annunciò,
rivolgendosi al ginecologo. “Ho il padre!”
Bobby
non ebbe bisogno di essere guidato da Carla, per capire che il suo posto era
accanto a Adia, spettinata e scomposta come mai. “Ehi, tesoro, come ti senti?”
le domandò, avvicinandosi e baciandole la fronte. “Sei bellissima, lo sai?”
“Anche
tu stai bene” rispose lei con serenità, un istante prima che una contrazione le
facesse digrignare i denti. “Ho paura, Bobby…” sussurrò.
“Non
avere paura, agnellino” la rassicurò, prendendole la mano. “Ti ho cacciata io
in questo pasticcio, e io ti starò accanto mentre ne uscia… ahia!” esclamò, nel
sentirsi stringere la mano con una forza inaudita. “Cristo santo, che male!”
“Beh,
è pressappoco lo stesso dolore che prova lei” lo informò Carla, sorridendo.
Bobby
sospirò, e sistemandole meglio le braccia attorno alle spalle, le prese anche
l’altra mano. “Almeno distribuiscilo equamente, per favore” la pregò, riuscendo
a strapparle un minimo sorriso.
Ci
volle almeno un’ora, prima che Adia riuscisse ad avere il bambino: un’ora
intera prima che Bobby potesse guardare negli occhi suo figlio. “Mio Dio, è un
maschio” sussurrò, estasiato, mentre Carla, insieme ad un’altra infermiera,
lavava e vestiva il piccolo. “Dio, ho un figlio!” esclamò, baciando Adia. “Abbiamo un figlio…”
Carla
si avvicinò sorridendo, e delicatamente adagiò il piccolo tra le braccia della madre,
stremata per le lunghe ore di travaglio. “Come si chiamerà?”
“Samuel”
rispose Bobby, nello stesso istante in cui Adia diceva “Jack.”
“Oh”
fece Carla. “Immagino che dobbiate ancora finire di discuterne.”
“Credevo
volessi chiamarlo come tuo padre” disse Bobby, guardando Adia.
“Credevo
volessi chiamarlo come tuo fratello” rispose lei.
“Possiamo
chiamarlo con entrambi i nomi” propose lui.
Adia
scosse la testa, sorridendo. “Messi insieme non stanno affatto bene. D’altra
parte, non è facile mettere insieme i Mercer e i Chambers.”
“Preferisco
Samuel, allora.”
Adia
scosse ancora la testa. “No. Ha la faccia da Jack. Suo fratello potrebbe
chiamarsi Samuel.”
“Suo
fratello?”
“Sì,
beh, se in futuro dovessimo decidere di fargli un fratellino, intendo.”
Bobby
sorrise, annuendo. “Sono d’accordo.”
“Naturalmente,
pretendo che passi almeno un anno, prima di iniziare. Più o meno è il tempo che
mi ci vorrà per riprendermi da questo.” Guardò di nuovo suo figlio, che per
attirare la sua attenzione aveva agitato debolmente il pugnetto chiuso. “Jack
Mercer. È perfetto. Somiglia persino un po’ allo zio Jack.”
“Sì,
beh, considerando che è impossibile che gli somigli, direi che hai ragione”
sorrise Bobby, posandole un bacio tra i capelli. “Jack Mercer” sussurrò, lasciando che il neonato gli stringesse il
dito indice con la piccola mano. “Mi chiedo se Detroit sia pronta per questo.” In
risposta, quasi avesse voluto dire la sua, il piccolo Jack emise un debole
vagito. Bobby non ebbe vergogna di asciugarsi una lacrima. Mi chiedo se Detroit sia pronta per vedermi diventare padre.