Essere Animagus, pensa Sirius, è una metafora e un
contrappasso.
Esiste nel grande ordine della Natura – quella maiuscola.
Quella che i Babbani non vedono né immaginano – un equilibrio fisso, che neppure
le arti magiche possono mistificare.
Forma e sostanza non si equivalgono, ma si compenetrano: l’Animagus
è fuori quel che è prima di tutto dentro.
I Malandrini, con la loro storia gloriosa ed epica e
scellerata, ne sono un esempio.
James era un guascone orgoglioso e pieno di sé. Più che un
fascino irresistibile, nutriva la convinzione d’essere il ragazzo più bello del
mondo: a sedici, diciassette anni, tanto ti basta a diventarlo sul serio.
L’imago animale di James era dunque un superbo cervo
dall’infinito palco di corna; una di quelle bestie che vedi bene nell’araldica,
perché comunicano un’idea di nobile invulnerabilità.
Minus, invece…
Stringe i denti, Sirius, e mastica il fiele del rancore; se
mai sopravvivrà a questi tempi, forse non gli basteranno gli anni che verranno
per purgarsi da quello che ha sperimentato nel buio di una prigione mille volte
peggiore di quella in cui l’hanno costretto.
Il rimorso, la solitudine, la certezza di aver sbagliato
tutto e dunque condannato l’amico di una vita: non servono sbarre per toglierti
aria, luce, futuro; non servono quando è la rabbia a morderti il cuore.
Avrebbero dovuto capirlo fin d’allora: chi veste la maschera
del topo, non ha la dignità del leone. Minus era uno strisciante parassita che
tolleravano perché…
Già, perché?
“Perché gli stupidi amano chi li adula.”
La voce di Severus lo raggiunge come una stilettata.
Solleva il muso al cielo, tartufando l’aria fredda della
notte.
Il pozionista lo fissa ironico: un guizzo di venefico
sarcasmo brilla dal fondo delle sue impenetrabili pupille.
“Mocciosus è un sublime legilimens, se te ne fossi
dimenticato. E la cosa non mi sorprende, Felpato, perché non è un’abilità
che frequenti chi ama il rumore.”
Torna alla terra, Sirius, perché la metamorfosi gli toglie la
parola – meno, per la verità, la voglia di azzannare un polpaccio del suo sgradevole compagno.
Cosa potrebbe replicare, d’altra parte? La Storia ha già
scritto tutte le loro pagine: quelle di Sirius Black sono un cimitero d’errori.
Un buco nero nella tappezzeria di una vecchia casa.
La sua imago è quella di un cane: un animale servo,
intelligente, sì, ma passivo; una bestia da fiuto, che pure il Destino ha
giocato nel modo peggiore.
La Foresta Proibita tace minacciosa. La notte si chiude su di
loro come un drappo funebre.
Sono clandestini in un mondo orribilmente violato – un mondo
che non li vuole, eppure li tollera.
“Non senti ancora niente?”
Il freddo sottrae alla terra i suoi aromi. Il suolo, duro,
incamera tracce per non restituire niente.
Sirius gratta la rena compatta e muschiosa. Ha zampe possenti
e muscoli elastici. Si sente un ossimoro, Black: un cuore vecchio mille anni
chiuso in un corpo ancora giovane – bello, oserebbe dire, se solo il carcere non
gli avesse lasciato addosso qualcosa di consunto ed estenuato.
“Niente,” bofonchia a mezza bocca, dopo aver riacquistato una
forma umana e, soprattutto, una posizione eretta.
Severus – lo sguardo fisso a invisibili stelle – non muove un
muscolo. “Eppure questa è l’unica via d’accesso alla radura in cui pascolano gli
unicorni. Il lato meridionale è chiuso da impenetrabili paludi. Quello
occidentale, è infestato da bulbi carnivori.”
“Resta la piana di Mezzanotte.”
“Il settentrione è presidiato dai centauri,” lo liquida
asciutto il pozionista. “Chiunque sia arrivato sin qui, non può che aver
anticipato i nostri passi.”
“E se volasse?”
“Questa è una delle ipotesi,” mormora Piton, senza perdere la
flemma cimiteriale che gliel’ha sempre reso odioso.
“Allora non vedo in quale misura potrei servirti. I cani
fiutano la terra, non lo spazio siderale.”
Severus non si scompone. “Cosa sai dei Thestral, Black?”
“Non molto più di quello che insegnano a scuola. Sono equidi
intermundi e, come tali, si muovono in uno spettro invisibile ai più. Visto che
non sono granché belli, d’altra parte, non direi che sia una perdita.”
Piton gli rifila un’occhiata schifata, ma annuisce. “Grezzo e
pieno di puntualizzazioni non richieste e inutili,” sillaba con una detestabile
attitudine didattica, “ma corretto.”
Sirius accenna un piccolo inchino.
“A tuo parere, in ogni caso…”
“Oh! Il dotto Piton che chiede un mio parere?”
“Non ironizzare, somaro,” sibila il pozionista.
“Questa collaborazione mi offende più di quel che credi.”
E non immagini quanto disturbi me, pensa Sirius, che
quasi rimpiange i giorni in cui era solo Buck Bello e poteva rotolarsi al
sole delle spiagge tropicali.
“D’accordo, come non detto. Cos’è che volevi chiedermi?”
“Un Thestral potrebbe uccidere un unicorno?”
“Stai scherzando?”
“No.”
“Be’, allora dovresti fornirmi qualche indizio in più, perché
allo stato dei fatti lo escludo. Punto primo: i Thestral sono equidi. I cavalli
mordono e lo so bene per esperienza diretta, ma non strappano. I resti che mi
hai fatto vedere sono stati più che lacerati: sono stati resecati. Non c’è dente
erbivoro che possa combinare qualcosa del genere.”
Piton lo sorprende: non solo non lo interrompe, ma lo guarda
compiaciuto. “No, non sei del tutto stupido, Black. Vai avanti…”
“Ti sono debitore per la graziosa concessione,” ironizza.
“Punto secondo: la regola dell’invisibilità non vale per le creature non umane.
Lo spettro visivo delle bestie è diverso dal nostro. L’unicorno avrebbe avuto
tutto l’agio di cogliere l’arrivo del Thestral assassino, e assumere una
posizione d’offesa. Tra i due, per altro, non ci sono dubbi su chi possa essere
davvero pericoloso, o sbaglio?”
“No. Non sbagli.”
“Ipotizziamo, insomma, che un Thestral impazzito abbia deciso
di banchettare con l’unicorno… Qual era, con buona approssimazione, l’età della
bestia che avete trovato?”
“Tre o quattro anni. Non di certo un puledro.”
“Un unicorno di tre o quattro anni ha un corno lungo più di
un braccio. L’avrebbe sventrato senza farlo avvicinare.”
“Dai resti che ho esaminato, però, l’attacco è stato
frontale. L’aggressore gli ha letteralmente strappato le labbra.”
Sirius rotea gli occhi. “Ti-prego. I dettagli, no. Mi limito
a offrirti una consulenza animalesca, chiamiamola così… E resto
dell’avviso che non sia stato un Thestral.”
“Concordo. Silente e io nutriamo la stessa convinzione.”
“Ora saresti così gentile da dirmi cosa ti ha invece
suggerito proprio quella bestia? La Foresta Proibita pullula di predatori molto
più credibili. Gli ippogrifi, per dire.”
“Gli ippogrifi hanno il becco. Il tronco della vittima è
stato spolpato.”
“Dunque?”
Severus trae un breve sospiro, poi siede su una roccia larga
e piatta, seminascosta da una felce ipertrofica. “Come ben sai, quest’anno
Hogwarts ospita una legazione di Durmstrang.”
“Potrei ignorarlo? È una delle ragioni per cui ho chiesto a
quello zuccone di Harry di fornirmi una cronaca dettagliata della sua vita
scolastica. Igor Karkaroff non ha solo una brutta faccia, ma puzza di criminale
a un chilometro di distanza.”
Severus arriccia schifato il naso. “Sono abbastanza evoluto
da non interessarmi ai fetori altrui, ma non posso dare torto al tuo istinto. In
questo caso, tuttavia, sono certo che non sia Karkaroff l’autore
dell’aggressione all’unicorno. Non, almeno, l’autore materiale.”
“Silente lo tiene d’occhio, no?”
“Non solo. La Foresta Proibita ha degli ospiti impegnativi,
negli ultimi tempi. Per tale ragione, Hagrid la controlla in modo costante. È
molto difficile, per non dire impossibile, che un mago vi acceda senza essere
notato.”
“E questo ti porta a credere che sia un animale… O un
Animagus.”
“Corretto.”
“E il Thestral? Da dove salta fuori? Che io sappia, anche il
fattucchiere più dotato non può spingersi sino…”
“… Sino ad assumere le qualità di una creatura intermundia.
In questo caso, però, non parliamo di un fattucchiere comune. O, per meglio
dire, di sangue magico comune.”
Sirius si gratta la guancia – un tic canino che lo affligge
di quando in quando, soprattutto se deve pensare e non ha il tempo di farlo.
“È inutile che ti arrovelli, Black: non arriveresti mai da
solo a cogliere il mio suggerimento. Sto parlando di Mannstiere.”
“Mann-che?”
Severus rotea gli occhi. “Sono Animagi innati, una rara
sottoclasse di Metamorphmagus. A differenza di quel che riesce persino a un mago
di seconda categoria – e si coglie un’evidente punta di malignità nella stoccata
– i Mannstiere nascono con l’abilità genetica di assumere le fattezze di una
bestia. Non una fiera qualunque, nota bene: ogni famiglia è identificata da una
precisa linea di sangue.”
“Mannstiere, eh? E com’è che non ne ho mai sentito parlare?”
“Perché in Inghilterra si sono estinti e in tutto il Mondo
Magico ne restano poche centinaia.”
“Una ragione in più per escludere l’ipotesi, non credi?”
“Al contrario, perché qui a Hogwarts, in questi giorni,
abbiamo proprio uno di loro. Che tu ci creda o meno, della linea di sangue del
Thestral.”
Black apre la bocca, ma non gli riesce di articolare nulla –
non che suoni plausibile, almeno.
“… Il che, tuttavia, non offre una risposta al nostro
problema, perché, come hai ben detto, ammesso che possa dirsi risolta la
questione del come sia stata raggiunta la radura degli unicorni, resta
l’interrogativo principale: un Thestral è del tutto inabile a smembrarne uno.”
“E se non fosse un Thestral? Se il nostro fattucchiere
macellaio sapesse assumere una veste più…”
“È escluso. Te l’ho già detto: ogni famiglia ha una linea di
sangue. Il nostro è un Von Kessel. I Von Kessel sono Thestral, come i Gama,
ippocampi. Nel Galles viveva un clan, i Flanerty, la cui linea era quella
dell’unicorno. Purtroppo, però, si sono estinti.”
“I Mannstiere, insomma, hanno trasfigurazioni… Bizzarre?”
Piton solleva sprezzante un sopracciglio. “Come sei grezzo.
Da dove credi che siano nati i miti dei Babbani? Le loro divinità da bestiario?
Erano solo alcuni di noi, dotati di un dono singolare e, per lo stesso motivo,
pericoloso. Quando la civiltà umana abbandonò il culto della natura, infatti,
furono i primi a essere perseguitati. Questo, tuttavia, non esclude che ci siano
anche Mannstiere dalle metamorfosi più… Ordinarie.”
“Cani, uccelli, cavalli… È questo che intendi?”
“Sì.”
“Eppure c’è qualcosa che non mi convince…”
“Intendi?”
Sirius libera un profondo sospiro, mentre fissa un cielo nero
e muto. “Chiamalo istinto, chiamalo fiuto, chiamalo come ti pare, ma ho come
l’impressione che ci stia sfuggendo qualcosa… E quel dettaglio, chissà perché,
potrebbe essere proprio la tessera che manca al mosaico perché il quadro sia
completo.”
***
A parlare è Florian – e già tanto basterebbe a irritarlo.
Da che sono arrivati a Hogwarts, pensa Draco, Von Kessel
sembra fare il possibile per metterlo in cattiva luce – per essere l’unico
protagonista dell’impresa: anziché sposare una linea tattica fatta d’ombra e
sottili strategie, opera da solo, con un’audacia autolesionista.
Non sono a Durmstrang, tuttavia, e dovrebbe ricordarlo: la
spietatezza che le solitudini del Nord incoraggiano e legittimano, qui suona
spaventosa.
“Come potete vedere, Preside, il piano è molto semplice e non
richiede alcuna esposizione da parte nostra.”
Parla al plurale, Florian, ma è quasi l’avesse estromesso del
tutto. Karkaroff pende dalle sue labbra e ignora Draco Malfoy.
“Con l’aiuto dei grimori di Hogwarts, ho preparato due
filtri: uno confonde i sensi del drago, rendendolo di fatto innocuo per chi lo
fronteggia; l’altra pozione, invece, li sollecita, procurando allucinazioni
minacciose alla bestia. Non c’è bisogno che v’illustri le conseguenze della
somministrazione.”
Draco stringe le labbra. Non è il protagonista – non è
niente. Non sa come valicare l’invisibile linea d’ombra che lo divide ora
dal suo migliore amico.
Florian l’ha sconfitto per l’ennesima volta. A differenza del
passato, però, Malfoy ha il sospetto che l’abbia fatto di proposito.
Vuol dargli una lezione di crudeltà? Di coraggio?
Be’, Von Kessel: i Malfoy non hanno d’argento solo gli occhi.
Non conosci la lingua. Non conosci la durezza del loro cuore.
“L’unico problema è dato, come avete suggerito, Preside, dal
sorteggio. Senza sapere in precedenza quale drago toccherà a Viktor e quale a
Harry Potter…”
Negli occhi di Karkaroff brilla un compiacimento
inequivocabile: glielo legge dentro, Draco, e schiuma d’invidia e frustrazione.
Non è il suo piano, quello. Non è merito suo, se Harry Potter
morirà a breve.
“Eccellente, signor Von Kessel. Sarà mia cura fornirvi un
valido appoggio.”
La voce del Preside tradisce colori insospettati. Draco vi
legge sollievo, giubilo, trionfo – lo spettro emotivo di un ambizioso che
intravede il coronamento di un sogno.
“Incanterò l’assegnazione con una fattura di riconoscimento.
Farò avere a Krum il Petardo Cinese, che è forse il meno pericoloso dei bestioni
della dotazione. A Potter, invece, procurerò un piacevole incontro con il
più intraprendente dei nostri amici scagliosi… L’Ungaro Spinato.”
Florian sorride, scoprendo i minuscoli denti da fiera.
“Vedrete, Preside, che…”
“Vado io.”
Von Kessel si volge a guardarlo sorpreso.
Draco non ricambia la sua occhiata, ma fissa Karkaroff: la
voce non trema e il suo sguardo è fermo. “Sarò io a entrare nel serraglio dei
draghi e a inoculare loro il siero. Forse non sono un veneficatore abile come
Florian, ma padroneggio tutti gli incantamenti d’offesa.”
Il Preside di Durmstrang socchiude le palpebre, quasi a
leggergli dentro. Florian freme, ma non osa inserirsi in quel muto rapporto di
forza.
“Se questo è il vostro desiderio, signor Malfoy, non vedo
perché dovrei dispensarvi dall’incarico. Sono certo che lo porterete a
compimento con scrupolosità, come si addice al vostro nome.”
C’è qualcosa di mellifluo nel tono usato da Karkaroff, ma
Draco lo elude con la paura e il buonsenso.
Ha solo quattordici anni: troppo pochi per cogliere la
sfumatura – troppo pochi, soprattutto, per capire che sta offrendo a un
terribile mentore proprio quanto un piano scellerato ha previsto per tempo.
Preoccupato di nutrire una fama nera, non pensa a
sopravvivere, né al più antico dei motti: divide et impera.
Non alla cooperazione guarda Karkaroff, ma all’emulazione:
non ha più bisogno di chiedere, perché sono i primi a dare.
I primi, stupidi, a darsi in pasto al leone.
“Preside… La Foresta Proibita è molto difficile da esplorare.
Io non credo che…”
“Sta’ zitto!” sibila tetro Draco. “Se l’hai espugnata tu,
posso farlo anch’io.”
Karkaroff tace e ride.
Ride di loro.
***
È la solita vecchia storia, pensa scoraggiata Hermione:
quella tra ragazzi e ragazze è un’amicizia a scadenza. Se non diventa amore, si
spegne comunque, perché l’uomo e la donna non sono programmati per essere
complici – amanti, sì; rivali e forse persino alleati, ma amici mai.
Benché sia stata la prima a scendere in campo per aiutarlo,
Harry l’ha sostituita come ne ha avuta l’occasione. È bastato che il vecchio
Malocchio si offrisse come istruttore speciale del Prescelto, perché Potter gli
scodinzolasse dietro, dimenticando la scontata, noiosa, Hermione.
Sospira.
La prima prova del Torneo è imminente. La paura – l’ansia,
l’attesa – un chiodo fisso che le toglie il sonno.
Moody, ammiccante e anodino, parla per enigmi e suggerisce
strategie che non riesce a cogliere.
Non sa se a bruciarle sia questa sfida intellettuale perduta
in partenza, ovvero l’essere tornata periferica rispetto a un fronte che ha
calcato da protagonista.
Proprio così: ora che il Tremaghi non è più solo futuro,
nessuno dei ragazzi che le ronzava attorno pare ancora interessato a lei – non
Krum, che si allena con il parossismo dei soldati; non Draco, che si è come
volatilizzato. Quanto a Harry, l’ha dimenticata come capita sempre più spesso.
Sbuffa, Hermione, e si annoda alle lenzuola. Grattastinchi le
ulula un meoww interdetto, prima di scivolare sotto il baldacchino.
“Ci risiamo,” mormora a mezza bocca, decidendo poi che
no, non è fatta per le quiete attese. Non è la moglie di un marinaio, una tela
infinita, un sospiro supplice: è un guerriero, Hermione Granger. Una leonessa.
Lavanda russa beata, mentre sgattaiola oltre la camera, il
Dormitorio, Grifondoro.
Gazza dorme con la lucerna in mano e la bocca aperta: una
gargolla ridicola che, chissà perché, la mette d’ottimo umore.
L’abbraccio della notte è sgradevole com’è lecito aspettarsi
da un novembre agli sgoccioli, ma tanto non basta a dissuaderla.
Cos’ha in mente di fare? Lo ignora per prima, ecco la verità,
ma sa che per trovare la pace deve fare e basta – per gli scopi c’è
sempre tempo.
A sorprenderla, quando è ormai nei pressi del lago, un sibilo
penetrante.
Hermione si copre d’istinto le orecchie, forzando la memoria
per indovinare se e quando abbia già incontrato un simile suono.
Cos’è, prima di tutto? Un animale? Un ingranaggio?
Il ricordo le sovviene all’improvviso: Fierobecco.
Quello è l’acuto – a metà strada tra la lima e il ringhio – che produce un
ippogrifo infuriato.
La prudenza le consiglia di tornare a tremare tra le coperte.
Godric le allunga una spintarella – Coraggio, Hermione. A
te la verità non fa paura.
Ma a chi lo racconto, pensa, mentre vince l’istinto di
proteggersi le orecchie e tenta di rintracciare la fonte dello sgradevole
soffiato.
Tutto ad un tratto, il sibilo si spegne, sostituito da uno
scalpiccio serrato e dal fruscio delle felci.
Hermione deglutisce a fatica.
“Lumos,” mormora con il cuore in gola.
Draco le appare davanti all’improvviso, coperto di sangue. Le
pupille, dilatate come due ventose, gridano di un terrore che non ha più voce.
“Per favore… Aiutami,” singhiozza pianissimo, prima di
crollare a terra.
Nel buio, terribile, Fierobecco intona di nuovo il suo canto
di guerra e di morte.
L’hai mai domato un ippogrifo, Hermione? Le sussurra il
buonsenso all’orecchio.
Raggomitolato al suolo, Draco sembra uno straccio sgualcito.
Sono un grifo anch’io.
Le dita, asciutte, stringono la bacchetta e la volgono alla
notte.
Senza tremare.
* Blut in tedesco vuol dire sangue, ma anche
razza e stirpe.