Fictional Dream © 2010 (25 dicembre 2010)
Adam Lambert è una personalità di spicco della scena glam/pop statunitense.
L'autrice non intrattiene con l'artista alcuna relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al diletto e all’intrattenimento di altri fan: non persegue alcun intento diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui tratta) o finalità lucrativa. Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica e alla personalità dell'artista succitato si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com).
Non ne è ammessa altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia
stata autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.
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Il venticinque dicembre, dalle mie parti, è sempre stato un
giorno problematico.
Potrei appellarmi al più scontato degli alibi e dire che sono
ebreo, dunque esonerato dal festeggiare il compleanno di Gesù Cristo, ma sono
anche americano, perciò non riuscirei a suonare credibile.
In America, almeno, lo sanno tutti che il Natale è la festa
nazionale della coca-cola, del tacchino con le castagne e dei vecchi obesi in
pagliaccetto rosso e barba bianca. Siamo orgogliosi esportatori di un credo
universale fatto di abbuffate selvagge e consumo, il che, anche a non essere
ebrei, ti incolla per forza di cose un qualche stigma di colpevolezza.
Se poi sei anche ebreo – e per giunta ti chiami Lambert – il
sigillo della misericordia oltre la porta non ti salva da niente; a maggior
ragione se ti chiami Lambert perché sei il fratello di quel Lambert.
Vediamo di chiarirci: io, mio fratello, lo adoro, persino se
la sua esistenza al mondo ha concorso spesso e volentieri a peggiorare la mia.
Se non mi ricambiasse, però; se riuscisse a mantenere una
distanza non dico plausibile, ma sufficiente a permettermi di evitarlo (almeno
qualche volta) sono quasi sicuro che la prospettiva del suo trionfale rientro a
casa per Natale non mi terrorizzerebbe come fa – perché sì: il ritorno di Adam è
imminente e io ho paura.
Invece Adam mi vuole bene. Adam ama tutti, dunque anche
me. E siccome Adam mi ama, mi adora, mi stima, Adam non vede l’ora di
riabbracciarmi – strangolarmi stritolarmi, perché Adam è un boscaiolo del
Nebraska con l’animo di Lady Gaga – e confidarsi.
E se Adam Lambert vi fa paura per il suo mondo esteriore, voi
non vorreste sapere cosa c’è nel suo mondo interiore. Le sue raggelanti
foto in crossdressing sono solo la punta di un iceberg di paillette, lustrini e
lamé immorale.
Da che ho memoria, Adam è sempre stato ai miei occhi un
problema e una preoccupazione costante.
Sui dodici anni, per dire, rosso di pelo com’era – quel rosso
lentigginoso e latteo che in California digievolve in porchetta, se lo esponi
troppo al sole – nonché cicciabomba ufficiale della scuola, già me lo vedevo con
un fucile a canne mozze in mano centrare uno dopo l’altro, come tanti birilli,
gli stronzi che lo prendevano per il culo come usciva di casa.
Ero un bambinetto teledipendente, ossessionato dalla CNN e da
visioni notturne di psicopatici lentigginosi: oserei dire che solo in Sudan si
siano viste infanzie altrettanto grame.
È del resto alla prima infanzia che risale pure il mio
terrore per il Natale – terrore, come poi si vedrà, legittimo e sacrosanto.
Tanto per dire: ricordo numero uno.
Io devo avere due o tre anni, il che sta a dire che Adam
frequenta già le elementari. Io ho le orecchie a sventola e i capelli crespi e
la bocca larga. Adam è un cherubino pacioccone con gli occhioni azzurri e le
lentiggini che fanno tanta simpatia. Io tento di strangolarmi con una liana
pelosa che pencola dall’albero, mentre Adam viene ingozzato di dolci, pizzicato
a morte e mantenuto in modo costante al centro dell’attenzione, perché siccome
ha il fratello piccolo, poverino, non bisogna farlo sentire trascurato.
Il fratello piccolo – cioè io – rantola dunque dignitoso in
un angolo, mentre il cocco di casa sbrana devasta sminuzza la carta di un pacco
smisurato, da cui estrae quel cazzo di GraySkull di Skeletor destinato a
terrorizzarmi per i dodici mesi successivi.
Come nei fatti mamma non si stanca mai di raccontare, piena
dell’orgoglio che solo la madre di Adam Lambert può provare, appunto, per
Adam Lambert, il mio geniale, precoce, straordinario fratello estrae il
microfono con cui dovrebbe – stando alle istruzioni per bambini aggiustati
e normali – minacciare He-man per cantare una versione catacombale di
I will survive di Gloria Gaynor.
C’è, insomma, già abbastanza materia prima per capire che è
gay, matto e pure pericoloso.
Per mamma, però, quello è il crisma di un temperamento
artistico: che il piccolo Neil si addormenti per settimane sognando Skeletor che
canta Gloria Gaynor non importa a nessuno.
Nel ricordo numero due, invece, di anni ne ho otto e
devo – è un obbligo – assistere allo show che il genio di casa – sempre lui –
allestisce da solo in occasione del Natale, per il sollucchero di mia madre e di
tutte le sue amiche – mio padre è disperso in garage, dove ha allestito un
bunker di resistenza.
Adam canta tutto il repertorio di Frank Sinatra, solfeggia
virtuoso quel miliardo di canzonacce con cui ti appesta il Natale, e propone
persino qualcosa in latino che fa scattare la standing ovation delle sue prime
fangirl.
Il sottoscritto applaude con la spontaneità che ti nasce solo
dal ricatto: se non sostengo come devo il bravissimo Adam, non
avrò lo zabaione delle feste.
Nel ricordo numero tre, io – quello etero e normale
– sono un diciassettenne pustoloso che rimorchia solo cessi, mentre l’ex-cicciabomba
del Mount Carmel si è messo a dieta, ha scoperto il fondotinta – per coprire le
efelidi – e l’Oréal – per tingersi i capelli: in due parole, è diventato un figo
atomico che rimorchia più di un carro attrezzi sul tornante per San Diego Est.
Come se non bastasse, la sua compagnia teatrale ha avuto un’importante scrittura
che l’ha portato in tour per mezza Europa, il che legittima l’imperiale
accoglienza riservata al suo ritorno.
Mia madre sprizza orgoglio e salsa di mirtilli da tutti i
pori.
La mia ragazza di allora – Brenda? Brianna? – pensa che
conoscerà il fratello ciccione e invece si trova davanti Oddddddddio, perché
Oddddddddio sarà l’unica cosa che riuscirà a balbettare per quindici minuti,
mentre tento di spiegarle che no, si chiama Adam, come il primo uomo –
quello del peccato originale che, pare, è toccato a me.
Le tento tutte per recuperare terreno: le dico che è gay, che
si tinge, che è esibizionista, egocentrico, che si trucca, che si depila che…
Ma lei – Brenda o Brianna che sia – ipnotizzata dagli occhi
di mio fratello, dalla voce di mio fratello, dai racconti di mio fratello e
persino dal culo di mio fratello – che non è granché, perché è largo e basso –
mi depenna del tutto dal proprio orizzonte, spettinandomi a furia di sospiri
indirizzati, appunto, a mio fratello.
Adam nicchia come un gatto mammone e osa persino chiedermi,
senza la minima vergogna, se c’è qualcosa che non va.
C’è, tanto per dirne una, che il fratello gay mi sta fregando
la ragazza, e non arriva neppure a sentirsi abbastanza in colpa.
Ricordo numero quattro: mio fratello viene lasciato dal
suo ragazzo – un incrocio tra Lorenzo Lamas e un appendiabiti – proprio il
giorno di Natale, e mia madre carbonizza il tacchino perché c’è il povero
Adam da consolare.
Il povero Adam, a meno di due ore dal pranzo che non
siamo riusciti a fare, scopa come se non ci fosse un domani nell’auto dell’ex
capitano della squadra di football del Mount Carmel, cui, pare, prendere per
il culo quella checca di Lambert continua a piacere anche dopo il diploma.
Io mi ingozzo di biscotti Oreo davanti a un film di Frank
Capra – e spero invano che muoiano tutti.
Il ricordo numero cinque arriva post American Idol
e già tanto dovrebbe bastare a illuminare sui contenuti.
Il mio issimo fratello maggiore mi trascina infatti a
un party esagerato organizzato dalla sua label per la Vigilia. Visto che i gay
sono pieni di donne – e io sono il fratello di Adam Lambert – gli offro
l’opportunità di riscattare in un’unica soluzione tutte le feste che mi ha
rovinato con la sua straripante glambertosità. Poi succede che si apparta
con un certo Tommy Ratliff e io non so se rallegrarmi di più per il fatto che
non diventerò mai zio – spero – o per la circostanza che i superalcolici siano
tutti offerti dalla casa.
Di femmine, comunque, neppure l’ombra, anche perché, vista la
gente che frequenta mio fratello, ho maturato una discreta titubanza
all’approccio diretto.
Arriviamo infine all’oggi, a questo terrificante Natale
duemiladieci, all’eccitazione con cui mia madre attende il figliol prodigo e
alla rassegnazione con cui lo aspetto io, al punto che neppure il tacchino
sacrificale steso sul tagliere ha la mia espressione sospesa tra il capro e il
cappio. Eppure, voglio dire, tra vittime ci si dovrebbe intendere.
“Allora, Neil? Non sei contento di riabbracciare Adam?” mi fa
mio padre, intento a rifinire un albero tanto eccessivo che andrà senz’altro
d’accordo con il genio di casa.
“Come il tacchino,” replico sorridendo fino a incrinarmi gli
incisivi. In fondo è Natale. Purtroppo.