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Autore: LauFleur    06/06/2011    21 recensioni
Edward Cullen: un ragazzo, un figlio, un fratello. Un figlio costretto a rimettere insieme i pezzi di ciò che i suoi genitori hanno frantumato. Un fratello tormentato dal pensiero che la felicità di sua sorella sia minacciata dalla tristezza delle loro vite. Un ragazzo ossessionato da Isabella Swan, la donna che riesce a calmare quel mare in tempesta che è diventata la sua vita.
[Rating rosso per il primo extra.]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Siete davvero tanti... a leggere, seguire e recensire questa storia.

Non posso far altro che ringraziarvi, di cuore!

Ringrazio anche Alessia e Eleonora per la meravigliosa pubblicità.

Vi lascio al capitolo, arrivano le novità anche per chi aveva già letto la One-Shot.

Buona lettura.

____________________

 

 

Capitolo 3 - Ritorno

 

Esme e Rosalie erano sul divano. Le spalle vicine, i cuscini intorno. Timidi e ritrovati sorrisi illuminavano le loro labbra, mentre le piccole mani della figlia imitavano quelle della madre. Le stava insegnando a fare l'uncinetto. All'inizio Rosalie era stata dubbiosa, confusa da tutti quei difficili movimenti delle dita e quelle piccole bacchette che sua madre muoveva così velocemente. Su, giù e incrocia. Su, giù e incrocia. E così via. Ma Esme le aveva raccontato che quando era giovane si cuciva i vestiti da sola, ed i suoi preferiti erano proprio le magliette e i corpetti che faceva all'uncinetto. Aveva saputo attirare la sua attenzione, aveva saputo giocare con la passione di sua figlia per i colori, le stoffe, gli abiti. Ed ora eccole lì, madre e figlia, alle prese con piccoli quadratini intrecciati di filo.

"Li metteremo tutti insieme!" esclamò la bambina, soddisfatta ed eccitata. "Faremo una super coperta, tutta colorata!"

Edward le guardava, con un sorriso quasi ebete stampato sulla faccia. Era stanco, stanco morto. Era tardi, faceva freddo, ed aveva lavorato fino a cinque minuti prima. Aveva ancora nel naso il tanfo di hamburger e patatine fritte, la maglietta macchiata odorava di birra. I piedi gli facevano male, accaldati e costretti dentro le vecchie scarpe da tennis. Gli occhi stanchi gli scongiuravano di chiudersi, ma lui si rifiutava. Doveva rimanere sveglio.

Afferrò distratto il telecomando che qualcuno aveva lasciato cadere sul divano. Accese la televisione, vagando di canale in canale.

"Ne vuoi una anche tu, Edward?"

Si voltò, sorrise a sua sorella. "Ovviamente!"

Diede un'occhiata a quello che stringevano tra le mani: il lavoro di sua madre era preciso ed impeccabile, Rosalie invece stava facendo un macello. Era troppo eccitata per concentrarsi, troppo felice di avere sua madre accanto per capire come incrociare quelle due piccole bacchette di metallo. La guardava, e non poteva fare a meno di sorridere. Edward incrociò gli occhi di sua madre e per un attimo in quegl'occhi si perse. Era rilassata, tranquilla, le mani non le tremavano. Piano piano, giorno dopo giorno, aveva ricominciato a prendere in mano la sua vita, le sue giornate. Non sorrideva spesso, era ancora a pezzi, lui se ne rendeva conto. Ma si stava impegnando, ci stava provando. A volte si perdeva, si assentava con la mente e con il corpo, altre la sentiva piangere fino a quando non crollava nel sonno. Ma non beveva, non aveva più bevuto. Edward aveva insistito per giorni interi affinché si rivolgesse ad una clinica, ad un centro specializzato. "Le cliniche costano troppo, e quei centri mi deprimono. Ce la faccio da sola, Edward. Ce la posso fare", continuava a ripetergli sua madre. Lui non ci credeva, ma ci sperava.

Senza volerlo, per un attimo, ripensò a quella sera. Le urla, la rabbia, la stanchezza. Le lacrime di sua madre, la sua debolezza, il suo sbriciolarsi davanti a lui. Si disse che aveva fatto bene ad urlare, a scoppiare ed, infine, ad abbandonarsi alla speranza che qualcosa potesse cambiare.

Il ricordo di quella sera arrivò e, con sè, si portò lei. Bella. La sua Bella.

D'istinto guardò l'orologio: 21 e 30. Le ventuno e trenta del quattro gennaio. Erano dieci giorni che non la vedeva. Dieci giorni dalle sue labbra, dai suoi capelli, da quelle ore passate come se fossero nient'altro che sfuggevoli secondi. Se chiudeva gli occhi, se escludeva il resto del mondo, poteva ancora sentire il profumo. Il profumo di freddo e di nuovo che aleggiava sul portico. Risentì le sue mani grandi sulla pelle morbida di lei e i jeans cominciarono a gonfiarsi. Con disinvoltura, afferrò un cuscino e, quasi abbracciandolo, si coprì il bacino.

L'aveva baciata per ore, e lei si era lasciata baciare. Avevano sentito le dita intorpidirsi, la punta del naso congelarsi, Edward aveva cominciato a tremare sotto il maglione. Ma di lasciarla andare via, di staccarsi da lei, non se ne parlava. L'aveva trascinata in casa, tra le insistenti ma non troppo ferme proteste di lei, che continuava a ripetere che non voleva disturbare, che avrebbero svegliato tutti, che non voleva rovinare il Natale a nessuno. Non sapeva che in quella casa non c'era più niente da rovinare.

Ubriachi di baci, sussurrando i loro nomi e soffocando le risate, si erano lasciati cadere sul divano. L'aveva stretta tra le sue braccia, lei aveva abbandonato la testa sul suo petto. Per un'eternità, così. Senza pensare, senza parlare, a sentire il peso della stanchezza scivolare via.

Avevano visto un film, con il volume al minimo e i pop corn sulle ginocchia. Edward ne aveva preparato solo un sacchetto, così sarebbero stati costretti a diverselo, a toccarsi, a stare vicini. Il film lo aveva scelto lei, a lui faceva schifo ma non disse nulla. Per tutto il tempo non fece altro che guardarla, lo incantava il modo in cui la fioca luce azzurra della televisione tingeva il suo volto. Si specchiava nei suoi occhi enormi, illuminava i suoi denti bianchi. E mentre Cameron Diaz si lasciava andare al suo primo vero pianto, rinchiusa in un taxi e circondata dalla neve, lei lo guardò e timidamente gli sorrise.

"Vero, Edward?" la voce acuta di sua sorella lo riscosse.

"Come scusa?"
"Vero che è ingiusto fare i compiti durante le vacanze?" gli chiese, con due occhioni enormi che pregavano solidarietà. Lui stava per dargli ragione: ricordava che durante le vacanze amava stare ore e ore al pianoforte, o in compagnia dei suoi libri, si ritrovava a fare in fretta i compiti alla mezzanotte dell'ultimo giorno prima di tornare a scuola. Gli bastava poco, dava il massimo anche a notte fonda, con l'orologio che sembrava mangiarsi i minuti e il sole minacciava di sorgere da un minuto all'altro, lasciandolo senza tempo e senza scampo. Stava per annuire solidale, proprio come avrebbe voluto sua sorella, ma sua madre alzò con uno scatto la testa e lo rimproverò con un'occhiata.

"Ha ragione mamma, Rose." si affrettò a sentenziare. "Ti vuoi ritrovare all'ultimo minuto a fare i compiti che avresti dovuto fare in settimane?"

Esme abbassò lo sguardo soddisfatta, e continuò a dedicarsi all'uncinetto. Rosalie lo guardò imbronciata, ma si rilassò appena vide l'occhiolino di suo fratello, che era pazzo di gioia: sua madre si era appena comportata come una madre.

Tornò a guardare l'orologio: 21 e 45. Appena un quarto d'ora e l'aereo di Bella sarebbe atterrato. Le avrebbe dato il tempo di tornare a casa, disfare i bagagli, chiamarlo, e poi si sarebbe fiondato a casa sua. Come deciso, come promesso.

Gli sembrava di non vederla da un'eternità. E, anche se non osava ammetterlo, aveva una paura fottuta che tutti quei giorni avessero cambiato qualcosa. Troppe ore lontani, troppo presto. Aveva paura che non tornasse più da lui, che non tornasse com'era. Era una paura idiota, lo sapeva bene, e per questo la ignorava.

Quella sera, mentre lei guardava quel benedetto film e lui guardava lei, aveva pensato già a come programmare i giorni che li aspettavano. Il Capodanno, aveva sempre odiato quel giorno. Solo perché cambiava un numero in fondo alla data, tutti erano costretti a fare qualcosa. Costretti a partecipare ad un cenone, ad un trenino, ad un brindisi. Costretti a divertirsi, quando in realtà il peso di quella costrizione non faceva mai divertire nessuno. Ma quest'anno sarebbe stato diverso, quest'anno c'era lei.

Ed invece, la mattina di Natale, mentre Rosalie apriva estasiata i suoi regali e Edward fremeva dalla voglia di rivedere la ragazza che gli aveva fatto perdere la testa, il telefono di Bella si era messo a squillare. Fino a svegliarla, fino ad impaurirla. Suo padre, Charlie. Un infarto, era solo, e lei doveva correre da lui.

Edward l'aveva chiamata tutti i giorni, per sapere come stava suo padre, per sapere come stava lei. Aveva esultato e festeggiato con lei quando l'avevano dichiarato fuori pericolo, quando l'avevano dimesso dall'ospedale, quando tutto era tornato alla normalità. Ed aveva esultato e festeggiato ancora di più quando gli aveva annunciato che la sera del quattro gennaio sarebbe tornata.

Doveva fare una doccia, doveva prepararsi, a momenti lei avrebbe chiamato.

Si alzò, sentendo scricchiolare le gambe, e con una mano spettinò i capelli di Rosalie mentre le passava accanto. Lei non aveva ancora smesso di lamentarsi e di pettinarsi con le dita e lui non aveva ancora raggiunto le scale, quando il campanello suonò.

Il suo primo pensiero fu È lei, mi ha fatto una sorpresa. Non poteva essere nessun'altro.

A grandi passi raggiunse la porta, afferrò il pomello e lo girò. Dove si aspettava di vedere il delizioso volto di Bella, apparve il sorriso imbarazzato di una ragazza. Era bionda, i capelli lunghi le incorniciavano il viso. Un viso delicato, giovane, bellissimo. Era visibilmente a disagio, ma si sforzava di sorridere, e stringeva le dita intorno ai braccioli della sua sedia a rotelle.

Dietro di lei, con le mani che le accarezzavano le spalle, c'era lui.

Un completo grigio e una cravatta rossa.

Carlisle, suo padre.

  
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