Grazie
mille per l’”accoglienza”!
Grazie a chiunque abbia letto, recensito o
inserito la storia nelle preferite!
Vi lascio al secondo capitolo.
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Capitolo 2 – Natale
Non aveva idea di come si preparasse una cena per
la Vigilia di Natale. Si ricordava che Esme ogni anno si chiudeva in cucina per
ore, lavorando sui dettagli, cercando di accontentare i gusti di tutti. Ma lui
non sapeva proprio da dove partire. Quel pomeriggio era salito in camera di sua
madre per chiederle qualche consiglio, lei gli aveva risposto barcollando fino
al bagno e chiudendocisi dentro. Per fortuna aveva trovato il suo ricettario e
si era procurato gli ingredienti per cucinare qualcosa di non troppo
complicato.
Sospirò e si portò le mani alle tempie.
Se non fosse per Rose, continuava a ripetersi
sottovoce, a quest'ora sarei in un bar ad ubriacarmi fino a svenire.
"Edward? Tutto bene?" Era la voce di sua
sorella che lo raggiungeva dalla sala da pranzo.
"Arrivo!" rispose urlando, mentre
cercava le presine per aprire il forno.
Pollo al sale grosso e patate arrosto. Non gli
restava che sperare che fossero più buone delle lasagne bruciate con cui
avevano iniziato.
Corse in sala da pranzo con la teglia tra le mani
e, sussultando, si bloccò. Fu come se per un attimo riuscisse a vedere la sua
famiglia dall'esterno, con gli occhi di un estraneo: una bambina con un paio di
treccine bionde che dondolava le sue gambette avanti e indietro sotto il
tavolo, una donna trasandata con i capelli in disordine e la testa tra le mani,
e un posto vuoto.
Sentì una stretta al cuore e, mentre sua sorella
si voltava nella sua direzione, scacciò quell'estraneo che compativa la sua
famiglia. Abbandonò i suoi panni e, servendo pollo e patate nei tre piatti,
tornò ad essere Edward.
Iniziarono a mangiare e lui si scusò fin da subito
per il cibo che, ancora una volta, sarebbe stato disastroso. Rosalie gli
sorrise divertita e rassicurante, sua madre continuò a tenere lo sguardo sul
piatto. Come sempre, ad Edward venne voglia di scuoterla arrabbiarsi urlare ma,
come sempre, si morse la lingua.
Quel pomeriggio, poco prima dell'ora di cena,
Edward si era ricordato quanto piacesse a sua madre riempire la tavola di
candele, bicchieri di cristallo, tovaglioli colorati, piatti di ogni forma, e
le aveva chiesto di apparecchiare. L'unica cosa che le aveva chiesto, l'unica.
Esme aveva accettato, sfiorandogli una mano, e per un attimo Edward si era
concesso il lusso di sperare che potesse essere una bella serata. Ma quando sua
madre si era accorta che per sbaglio aveva preso piatti e posate per quattro persona,
era scoppiata a piangere ed era tornata ad accasciarsi sul divano.
"Bravo Edward, è buono!" commentò Rose,
un po' troppo entusiasta.
Lui la guardò storto, fingendosi offeso dal suo
finto complimento. In realtà, il suo tentativo di coccolarlo lo lusingava.
"A me sembra sciocco, e anche un po'
crudo." borbottò.
"Vabbè... sempre meglio delle lasagne!"
e risero insieme.
La cena trascorse così, con la voce di Rosalie che
riempiva la stanza e occhiate veloci lanciate ad Esme per controllare se stesse
mangiando. Sua figlia provava a coinvolgerla nei discorsi, a volte ci riusciva
per qualche minuto, altre volte invece si arrendeva quando si accorgeva che sua
madre non aveva proprio voglia di parlare. Continuava a raccontare della scuola
e dei suoi amici, giocando con le ultime patate rimaste nel piatto.
"Lo sai Edward che c'è una bambina che mi
copia? È insopportabile!" sua fratello la guardò confuso e lei continuò,
ancora più agguerrita. "Fa tutto quello che faccio io, tutto!
Si veste come me, si pettina come me... Se io mi faccio le treccine lei il
giorno dopo, indovina un po'?, arriva a scuola con le treccine!" Buttò gli
occhi al cielo, allargò le braccia e scosse la testa.
"Ed è una cosa grave?" Edward, ancora
più confuso, stava provando a ricordare se, durante la sua infanzia, avesse mai
fatto caso a come fossero vestiti o pettinati i suoi compagni di classe.
"Ceeerto!" rispose indignata, sgranando
gli occhi. Lui lanciò un'occhiata a sua madre, sperando che lei – da donna –
riuscisse a capirla meglio di quanto potesse fare lui, ma li stava ascoltando a
malapena.
"Beh..." iniziò, non sapendo bene dove
andare a parare. "Secondo me la stai prendendo nel modo sbagliato."
Lei, in risposta, lo guardò come si guardano i pazzi.
"A me sembra molto semplice..."
continuò. "Se ti copia vuol dire solo che le piaci. Le piace come ti
vesti, come ti pettini, e – chissà – se diventi sua amica le potrai dare
qaulche consiglio. Così sarete contente tutte e due, no?"
L'espressione negli occhi di Rosalie cambiò ed
Edward si accorse del momento esatto in cui le sue parole, per lei, diventarono
credibili. Promosso, pensò. Lei si sistemò sulla sedia, con la schiena sempre
più dritta, e gli sorrise.
"In effetti..." sussurrò orgogliosa.
Suo fratello ricambiò il sorriso e, ordinandole di
finire tutte le patate che aveva lasciato nel piatto, le dette un leggero
pizzicotto sulla guancia. Proprio mentre lei rispondeva con una linguaccia,
Esme ruppe il silenzio.
"Ragazzi," la voce sottile sembrava sul
punto di spezzarsi. "Vi dispiace se mi vado a stendere sul divano?"
"Sì." rispose veloce Edward, senza
lasciare il tempo a sua sorella di dire la sua. Rose lo guardò preoccupata e
lui si rese conto che aveva usato un tono un po' troppo forte. Provò ad
addolcirlo ed aggiunse: "Ho preparato una torta di mele seguendo una tua
ricetta, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Ve bene,mamma?"
Insistette su quell'ultima parola.
Lei lo guardò, con un sorriso che sembrava quasi
compatirlo, e lui si incazzò ancora di più.
"Perdonatemi, ragazzi... ma proprio non ce la
faccio. Non mi sento molto bene." e si alzò.
Edward aveva la testa in fiamme, un fischio nelle
orecchie, la mascella tesa. Si costrinse a bere un po' d'acqua per calmarsi.
Quando avvicinò la mano al bicchiere si accorse che tremava, e la vide anche
Rose.
"Io la mangio volentieri la torta."
disse.
La guardò, così piccola e forte, così dolce e
sveglia. Gli occhi grandi e lucidi pieni di preoccupazione. Gli risuonò nella
mente la sua voce, si specchiò nel suo sorriso timido che tentava
disperatamente di consolarlo, e fu costretto a distogliere lo sguardo per
evitare di scoppiare a piangere.
Lavarono i piatti insieme, come sempre. Lui con le
braccia immerse nella schiuma e lei in piedi su una sedia, pronta ad asciugare
tutto quello che le passava. Canticchiavano una canzoncina, lui cominciava il
verso e lei lo finiva. Quando si stancava di cantare, iniziava a schizzarlo con
la schiuma, a ballare come se fosse una cubista, a fingere di cadere dalla
sedia per impaurirlo. Non stava ferma neanche per un secondo. Poi, dopo avergli
raccontato per l'ennesima volta una barzelletta sentita dal suo amico Emmett,
cambiò argomento.
"Secondo te la mamma vorrà giocare con noi
dopo?" gli chiese, continuando ad asciugare con cura un piatto.
"Almeno un po'?"
"Non lo so." le rispose, con l'ennesima
ed insopportabile stretta al cuore.
"Forse ha voglia di guardare un film, un
cartone animato... oppure giocare a Monopoli!"
"Non lo so, tesoro."
"Speriamo!"
Sì, speriamo.
Rosalie camminava davanti a lui mentre
raggiungevano la sala. Edward la guardò zampettare fino al divano, dov'era
sdraiata Esme. La raggiunse e la scosse delicatamente, chiedendole sottovoce se
aveva voglia di giocare con loro. Sua madre tentennò lentamente la testa.
Preferisci guardare un film? e, oltre a ciondolare la testa, emise un lamento.
Aiutandosi con il bracciolo del divano, si mise seduta e, con un filo di voce e
lo sguardo perso nel vuoto, disse che preferiva salire in camera per stendersi
un po' sul letto.
E Edward impazzì.
Sentì salire la rabbia e, questa volta, le permise
di traboccare. Lasciò che la testa scoppiasse e che la vista restasse
appannata. Con la voce roca e la gola che raschiava fino a fargli male, le
rovesciò addosso tutte le parole che aveva sempre trattenuto. Sentì ogni cosa
sfuggirgli dalle mani: il controllo, la ragione, il Natale che sognava per sua
sorella. Tutto venne spazzato via. Si dimenticò che accanto a lui c'era Rosalie
e lasciò che la sua voce riempisse la stanza.
"BASTA!" ruggì. "BASTA! Non ne
posso più, cazzo!"
Esme si prese subito la testa tra le mani, per
evitare di sentire, ascoltare, guardare,
"Falla finita, mamma! SMETTILA! Lo so che è
difficile... cazzo, lo so! Ma devi stringere i denti, devi cambiare, devi
alzarti! Capito? ALZATI, PORCA TROIA!"
Si fermò un attimo, solo per prendere fiato. E poi
tornò a sovrastarla, cone le urla e con il corpo.
"Qual è il problema? Eh? Quel pezzo di merda
di tuo marito ti ha lasciata? PACE! Si va avanti, tu devi andare avanti!"
Le puntò un dito contro, che sembrava schiacciarla ancora di più sui cuscini
del divano. "E se proprio non vuoi farlo per te, se proprio non vuoi
pensare a te stessa, pensa a noi. A NOI, CAZZO! Noi siamo sempre qui! E ci
manca nostra madre... un sorriso, una parola, una qualsiasi stronzata!"
Si alzò a fatica, così stravolta da non sembrare
nemmeno umana. Tremava dalla testa ai piedi ed era così instabile che sembrava
sul punto di sbriciolarsi. Aveva gli occhi gonfi, traboccanti di lacrime.
Riuscì ad alzarsi e, trovandosela davanti, Edward
percepì ancora di più la grandezza e l'arroganza del suo corpo che sovrastavano
il suo, così piccolo e fragile.
Ma ancora non aveva finito. C'era altra rabbia,
altra stanchezza, altre parole.
Questa voltà le sussurrò, riuscendo con sforzo a
controllare la voce.
"Mi fai pena, mamma. Pena. E lo sai quanto è
brutto compatire il proprio genitore? Fa schifo mamma, schifo."
Lei, per la prima volta, lo guardò negli occhi ed
immediatamente lui si pentì di tutto quello che le aveva detto. Avrebbe voluto
abbracciarla, stringerla, ripeterle che sarebbe andato tutto bene, pregarla di
dimenticare. Ma ormai la barriera si era alzata e le sue parole erano già
indelebili, per entrambi.
Si voltò e, traballando, raggiunse le scale. La
vide sparire dopo essersi trascinata per i gradini e, quando sentì la porta
sbattere, chiuse gli occhi.
Nella stanza calò il silenzio. Un silenzio pesante
e scomodo che lo catapultò di nuovo nella realtà. Si rese conto che non era
solo, non lo era mai stato. Sentiva addosso lo sguardo di Rosalie, era come se
gli bruciasse le spalle.
Sapeva di aver sbagliato. Aveva urlato parole
orribili alla loro madre davanti a lei, che aveva sempre voluto proteggere da
tutto e da tutti. E, questa volta, la stava distruggendo proprio lui.
Avrebbe dovuto resistere, aspettare di essere
solo, evitare di perdere la testa. Avrebbe dovuto farlo per Rose, per quella
piccola grande bambina che non chiedeva niente se non una serata tranquilla e
spensierata.
Sono un coglione, pensò, un coglione. Non aveva
nemmeno il coraggio di voltarsi e guardarla.
Ma, dopo minuti interi di silenzio assoluto, sentì
avvicinarsi i suoi passi leggeri e la sua piccola mano scivolò nella sua,
facendo incastrare le dita.
Appoggiandosi al suo fianco e alzando lentamente
la testa, bisbigliò "Hai voglia di continuare il nostro puzzle?"
Lui le sorrise. Sopreso, sollevato, meravigliato,
stupito. E si limitò ad annuire perché se anche solo avesse provato ad aprire bocca
sarebbe crollato lì, davanti a sua sorella, piangendo come un bambino.
Era un puzzle enorme che portavano avanti da un
mese. Quasi tutti i pomeriggi, dopo che Rose aveva finito i compiti e prima che
Edward andasse a lavoro, si sedavano davanti a tutti quei piccoli pezzettini e
cercavano di incastrarli l'uno con l'altro, cercavano il posto giusto per ogni
tassello, come se così potessero ordinare anche tutto il resto. Entrambi
tenevano un occhio sul tavolo e uno sul coperchio della scatola, che mostrava
quella che sarebbe stata l'immagine finale: la ‘Notte stellata’ di Van Gogh.
E, mentre si perdevano tra tutti quei pezzi e
quegli incastri, ascoltavano la musica.
"Posso aprire i regali?" gli chiese,
cercando un pezzo di cielo dello stesso colore di quello che aveva in mano da
cinque minuti.
Edward, d'istinto, si voltò verso l'albero
addobbato, sotto il quale c'erano tre pacchetti.
Uno era per Esme: una catenina d'oro bianco con un
ciondolo, su cui aveva fatto incidere il suo nome e quella della sorella. Gli
altri due erano per Rosalie: un paio di guantini di cachemire blu elettrico,
con una sciarpa abbinata, ed un peluche quasi più grande di lei a forma di
lupacchiotto. Babbo Natale, invece, le avrebbe portato un gioco per disegnare e
creare modelli di vestiti. Nella scatola c'erano anche i tessuti da usare e
alcune foto da cui prendere spunto. Aveva visto la pubblicità in televisione e
gli era sembrata una cosa adatta a lei, ma aveva una gran paura di aver
sbagliato tutto.
L'anno prima il pavimento era pieno, i pacchi
arrivavano fino al tappeto. E c'era un regalo per tutti, anche per Edward. Esme
li sceglieva con cura ed era più emozionata di loro quando li aprivano, curiosa
ed impaziente di vedere le loro facce.
"No," rispose secco, scacciando i
ricordi. "Potrai aprirli domattina, come tutti gli anni. Devi imparare ad
avere pazienza!"
"Aspettare mi fa schifo!" E, con una
smorfia, continuò a cercare il suo pezzo di cielo.
L'ipod di Edward, attaccato alle casse, proponeva
una canzone dopo l'altra. Rose cantava quelle che conosceva, saltava quelle che
non le piacevano, ma quando nell'aria iniziò a diffondersi una delle sue
canzoni preferite esultò, alzò il volume, abbandonò il puzzle e cominciò a
ballare sulla sedia. Cantava, si dimenava, muoveva a tempo braccia e gambe.
Edward la guardava e rideva, sentendo la sua
risata riempire la stanza che fino a qualche minuto prima era piena solo delle
sue urla. Senza smettere di agitarsi, Rosalie gli ordinò di alzarsi e ballare,
di non essere il solito timidone. Lui si alzò e, impacciato, la prese in
braccio e la guidò in uno strano e patetico valzer. Lei gli scoppiò a ridere
nell'orecchio.
"Come sei imbranato! Questa canzone non si
balla cosììì!!!" lo rimproverò, senza smettere di ridere.
Allora la fece atterrare sul pavimento e cominciò
a fare il cretino, ballando con movimenti esagerati, come se fosse un ubriaco
al centro della pista di una discoteca. E mentre si dimenava, inciampò sul
tappeto e cadde a terra. Le risate di Rose diventarono incontrollabili, si
sbellicava tenendosi la pancia con le mani. Lui rimase disteso sul pavimento,
godendosi ad occhi chiusi il suono della risata di sua sorella.
Lei gli saltò addosso, gli fece il solletico,
continuò a ridere con le lacrime agli occhi.
Lo abbracciò, gli si aggrappò al collo con le sue
piccole mani e, con parole mischiate a sorrisi, gli sussurrò all'orecchio:
"Menomale ci sei tu."
Edward sentì gli occhi bruciare, il petto
gonfiarsi di emozione, un groppo in gola che non sapeva come sciogliere. E,
all'improvviso, la risata di sua sorella sparì. Il divertimento se ne andò e
restarono soltanto le lacrime. Le scivolavano sulle guance, gli bagnavano il
collo, la maglietta. La sentiva sussultare, il suo corpicino scosso dal pianto
si aggrappava alle sue spalle. E lui la stringeva... per darle forza, per darle
amore, per darle tutto quello che spesso mancava anche a lui.
Si alzò dal pavimento, senza smettere di
stringerla, continuando a tenerla in braccio, e si sedette sul divano. Rosalie
si appoggiò a lui, con la testa tra il suo collo e la sua spalla. Non smetteva
di piangere, e lui non smetteva di ripeterle che sarebbe andato tutto bene.
Andrà tutto bene, scricciolo. Te lo prometto,
andrà tutto bene.
Le riempiva i capelli di baci, le accarezzava la
schiena, la cullava, le cantava 'Hey Jude' perché sapeva che le piaceva.
Lentamente, il respirò si calmò e le spalle smisero di tremare. Riuscì a
rilassarsi e, sfinita, si addormentò tra le sue braccia.
Chiuse gli occhi anche lui. I colori della stanza
vennero inghiottiti dal buio, le palpebre stanche trovarono sollievo. E restò
così, immerso nel buio, fingendo per qualche secondo che non esistesse
nient'altro. Sentì i muscoli sempre più rilassati e, abbracciato dal calore di
Rosalie, si assopì.
Riaprì gli occhi e non sapeva quanto tempo fosse
passato. Per un attimo restò spaesato, chiedendosi che giorno era, dov'era,
quanto aveva dormito. Si passò una mano sugli occhi e sentì un respiro, diverso
dal suo e da quello rilassato di sua sorella.
Sul divano non erano soli, c'era anche Esme.
Seduta accanto a lui, né troppo vicina né troppo distante. Le gambe di Rosalie,
prima abbandonate sui cuscini, erano sulle cosce di sua madre. Le aveva tolto
le scarpe e le stava massaggiando i piedi attraverso i calzini.
Edward notò subito che aveva la schiena dritta,
non era accartocciata su se stessa. Aveva gli occhi gonfi ed arrossati, ma
asciutti e liberi dalle lacrime. Le spalle erano sempre un po' curve,
schiacciate da un peso più grande di lei, ma stava provando a sorreggersi. E lo
sguardo non era perso nel vuoto, ma puntato su sua figlia.
Senza che lo guardasse o gli rivolgesse parola,
Edward capì che era arrivato il suo turno: era pronta a parlare, e lui era
pronto ad ascoltarla.
"So che non capisci il mio dolore,"
sussurrò. "E so anche che Carlisle non era né un buon padre né un bravo
marito. E proprio per questo è ancora più difficile spiegarti quanto mi
manca."
La voce le si incrinò, ma lei le impedì di
spezzarsi. Gli occhi tornarono a riempirsi di lacrime, ma le lasciò
intrappolate, in bilico.
"So che non era presente," continuò,
schiarendosi la voce. "So che aveva le sue rigide regole, che non era
affettuoso, che era testardo. Li ho sempre visti e riconosciuti i suoi difetti,
e li vedo anche ora. Potrebbero aiutarmi a superare tutto questo... ma non è
così."
Restò in silenzio, smise di parlare continuando ad
accarezzare Rosalie. Poi riprese a confidarsi sottovoce, ma questa volta alzò
la testa e lo guardò negli occhi.
"Io lo amo, Edward. Io tuo padre l'ho sempre
amato, anche quando faceva di tutto per farsi odiare. È l'amore della mia vita,
sono cresciuta con lui e l'ho visto trasformarsi davanti ai miei occhi. Quando
mi sentivo persa, confusa, quando non riuscivo più a capire chi ero, mi bastava
guardare lui per ricordarlo. Guardavo lui, guardavo voi e sapevo di essere una
moglie e una madre."
Prese il fazzoletto che teneva nella tasca del
maglione e si soffiò il naso. Il bene che le voleva e la tenerezza che provava
imploravano Edward di abbracciarla, accarezzarla, dimostrarle che aveva capito.
Ma non si permise di fermare le sue parole perché sapeva quanto bisogno aveva
di lasciarle libere.
"Ora lui non c'è, non posso più appoggiarmi a
lui, farmi sostenere da tutto l'amore che c'è sempre stato. Ma tu hai ragione,
Edward... ci siete voi. Io sono persa, confusa, non so più chi sono e, questa
volta, per ricordarmelo guarderò voi, soltanto voi. E saprò di essere una
madre, vostra madre."
Una lacrima, più tenace delle altre, le scivolò
lungo la guancia.
"So di avere un problema, un grosso problema.
E so di dovermi fare aiutare. Lo farò Edward, te lo prometto. So anche che vi
devo chiedere scusa... sia a te che a tua sorella, ma mi devo scusare
soprattutto con te. In questi mesi ho sempre avuto la vista appannata perché
riuscivo a vivere solo così: sfocata, ovattata, lontana. Ma questo non mi
impediva di vederti. Ho visto come sei, tutto quello che fai, come riesci a
prenderti cura di Rose. Vedo l'uomo che stai diventando e sono così orgogliosa.
Così orgogliosa, Edward."
Più vedeva le sue lacrime rigarle le guance, più
ascoltava le sue parole straziate, e più sentiva la mascella indurirsi. In
balia di emozioni che non sapeva controllare, si limitò a guardarla, sperando
che i suoi occhi parlassero per lui.
"Mi hai detto di alzarmi e sono pronta a
farlo. Ne ho voglia, ne ho bisogno... voglio farlo per voi e per me stessa.
Spero con tutte le mie forze di poter ancora rimediare, spero di non aver
sprecato troppo tempo."
Guardò Rosalie, che ancora dormiva su di lui, e le
lacrime diventarono incrontrollabili. Le passò una mano sui capelli, le sistemò
il maglioncino, le accarezzò di nuovo i piedi. E poi tornò a guardare suo
figlio, con uno sguardo stracolmo di supplica.
"Riuscirete mai a perdonarmi?" e questa
volta la voce si spezzò.
Edward non parlò, non pianse, non si avvicinò, non
l'abbracciò. Le tese una mano. Aperta, sicura, pronta ad accoglierla. Lei
dimenticò per un attimo le lacrime, sorrise come se non l'avesse fatto per una
vita intera e afferrò la mano di suo figlio, come se fosse un salvagente.
Quasi timidamente, gli disse che le sarebbe
piaciuto dormire con Rosalie, averla vicino nel lettone per tutta la notte. Lui
prese in braccio sua sorella e l'accompagnò in camera della madre.
Rose si infilò sotto il piumone come se fosse il
suo piccolo guscio e, appena toccato il cuscino, aprì leggermente gli occhi.
Capì che non era nel suo letto, che presto avrebbe avuto la sua mamma accanto e
sorrise. Fra sé e sé, senza guardare nessuno, senza dire una parola... sorrise.
Edward tornò in sala, con la testa sottosopra, con
la sensazione di non avere più il controllo dei suoi pensieri, con la paura che
la lunga e difficile giornata stesse per schiacciarlo, facendolo crollare.
Ancora gli risuonavano nella testa le ultime
parole di sua madre: "Domattina dormi fino a tardi, non caricare la
sveglia. Ti chiamo io appena il pranzo è pronto." E, mentre la guardava
ancora incredulo, aveva aggiunto: "Buonanotte, tesoro. Riposati, te lo
meriti."
Parole che aspettava da mesi e che credeva di non
poter più sentir uscire dalla bocca di sua madre.
Ad un tratto quella casa, i problemi, le lacrime,
le difficoltà che aveva superato e quelle che ancora lo aspettavano, gli
tolsero il respiro. Si sentiva soffocare. Era come se qualcun'altro avesse
preso tutte le sue energie, tutte le sue forze, tutta la sua aria e a lui non
fosse rimasto altro che stanchezza. Insopportabile e faticosa stanchezza. Aveva
voglia di spaccare quel cazzo di albero, aveva voglia di distruggere ogni
maledetta decorazione, aveva voglia di urlare. Tutto solo per non fermarsi a
pensare. Tutto solo perpaura. Paura di illudersi ancora una volta, di
credere alle parole di sua madre, di sperare che finalmente qualcosa si potesse
sistemare.
Sentì gli occhi bruciare di nuovo, vide le mani che
avevano ripreso a tremare e cominciò a camminare, compiendo gesti meccanici,
con la testa vuota. L'unico pensiero era prendere aria, muoversi, respirare.
Cercò il cappotto, non lo trovò e allora uscì senza. Afferrò le chiavi, aprì la
porta e la richiuse sbattendola. Si fermò dopo aver fatto a malapena un passo.
Lei era lì, che camminava avanti e indietro lungo
il portico, che si guardava le punte dei piedi, che respirava nelle mani unite
a coppa per sopportare il freddo. Che si malediva, si vergognava, si dava della
pazza... ma questo Edward non lo poteva sapere.
Isabella sentì il rumore della porta, si voltò,
spalancò gli occhi e, anche lei, si fermò.
Entrambi immobili, l'uno davanti all'altra.
Lo vide stravolto, tremante, stanco. E lui si
lasciò guardare.
Lei capì quello che voleva, capì tutto quello di
cui lui aveva bisogno, e lo fece: senza parlare, senza chiedere, senza
spiegare, si avvicinò e lo abbracciò.
Le sue braccia sottili scivolarono sui suoi
fianchi, gli strinse la vita, gli accarezzò la schiena. Appoggiò la testa sul
suo petto, respirando il suo maglione, coprendolo con i suoi lunghi capelli. E
lui la sentì, come non aveva mai sentito nessun'altro in vita sua. Sentì le sue
mani, le sua braccia, il suo respiro. Sentì lei,
e a lei si abbandonò. Si lasciò cadere in quell'abbraccio, si lasciò curare
dalla sua presenza, sfiorò con le labbra i suoi capelli morbidi, intrecciò le
braccia sulle sue spalle. La toccò, la strinse, la respirò.
L'aria tornò a circolargli nei polmoni, la calma
ricominciò a scorrergli nelle vene, il tremore della stanchezza si placò. E
tutto gli sembrò possibile: lei è qui, tra le mie braccia, la vita non può
essere così difficile, forse le cose si sistemeranno davvero, forse mia madre
manterrà le sue promesse, forse Rose sarà felice. Forse lo sarò anch'io.
"Isabella..." mormorò sui suoi capelli,
continuando a respirare il suo profumo.
"Bella, chiamami Bella." La sentì
sospirare, sempre stretta tra le sue braccia, con la testa ancora appoggiata
sul suo petto. "Anche stasera sono arrivata in ritardo..."
"Shhh" e la strinse ancora più forte.
"Sei qui, Bella. Sei qui."
"Ti sembrerò una pazza..."
"Mi piaci pazza."
"... è che non faccio altro che pensarti.
Pensare a te, al tuo modo di parlare, di pensare, alla tua vita, alle tue scelte."
Fece scorrere le mani lungo la sua schiena, lo accarezzò, strinse il maglione e
poi tornò ad aggrapparsi ai suoi fianchi. "Non dimostri l'età che hai,
Edward. Forse sei anche più grande di me."
"Quindi," avvicinò la sua bocca
all'orecchio di lei e, sfiorandole il lobo con le labbra, sussurrò "non
c'è più nessun problema?"
La sentì irrigidirsi, il respirò diventò
irregolare, le dita si aggrapparono con più forza. Non gli rispondeva, non
apriva bocca, non si muoveva. Le fece scivolare una mano dietro il collo e
quasi svenne al tocco della sua pelle morbida, calda, delicata. Così perfetta
che riuscì a superare le sue tante fantasie. Le voltò la testa e in un istante
i loro occhi si trovarono, come avevano sempre fatto per tante mattine. Ma
questa volta non c'era vergogna, timidezza, paura di essere visti o giudicati.
C'erano soltanto loro, le loro mani, i loro respiri. Edward abbassò la testa ed
appoggiò la fronte su quella di lei, sospirando di attesa, di emozione, di
impazienza. La sentì tremare, il respirò sempre più affannato. Lei si sollevò
sulle punte dei piedi, lui l'afferrò per i fianchi, e le loro labbra si
posarono l'una sull'altra. Con foga e dolcezza, con forza e delicatezza. Lui si
godeva la morbidezza del suo bacio e la bellezza della sua bocca, senza
smettere per un attimo di toccarla, stringerla, accarezzarla. Senza smettere di
respirare a pieni polmoni il profumo della sua pelle, di farsi avvolgere dal
calore della sua presenza. Intrecciò le dita tra i suoi capelli nel momento
esatto in cui si intrecciarono le loro lingue. Sempre più morbida, sempre più
calda, sempre più vicina. Anche le mani di Bella cercavano i suoi capelli e,
dopo aver viaggiato sul petto e sulle spalle, li trovò, tirandoli leggermente.
Lui si lasciò sfuggire un gemito e tornò ad appoggiare la fronte sulla sua, per
riprendere fiato, per capire se fosse tutto vero. Trovò i suoi occhi accesi e
maliziosi e, con il cuore che batteva come se volesse spaccargli il petto, si
godè quella visione che sembrava un miracolo.
"Buon Natale, signorina Swan." mormorò,
senza allontanare gli occhi dai suoi.
Lei si lasciò andare ad una risata, che alle
orecchie di Edward suonò come una nuova conquista, un nuovo regalo. Il suo
unico, bellissimo, inatteso regalo di Natale.