Anime & Manga > Captain Tsubasa
Segui la storia  |       
Autore: Melanto    06/06/2011    9 recensioni
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.»
E Yuzo e suo padre hanno smesso di cercarsi.
Si sono persi negli anni, negli obiettivi opposti, nelle spalle girate e nelle porte chiuse. Nelle strade dritte e concrete della famiglia Morisaki, mentre quelle di Yuzo inseguono le linee curve di un pallone; una scelta che suo padre non è disposto ad accettare.
Ma la guerra è fatta di vittime, e mentre si tenta di rimettere insieme i cocci delle certezze in frantumi, ognuno cercherà anche quello che ha perso.
...perché anche le cose perdute si trovano, basta solo saperle cercare.
[lo Shonen-ai è un elemento marginale]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Documento senza titolo

Nota Iniziale: Terrence Malick ha vinto la Palma D'oro a Cannes, quest'anno.
Ammetto di essere arrivata tardi a scoprirlo, partendo direttamente da "The Thin Red Line". Dio solo sa quanto amo quel film e quanto ho pianto.
Quest'anno, Malick ha presentato un film basato... sul rapporto padre/figlio. Io non sapevo che stesse lavorando a una nuova sceneggiatura, l'ho scoperto tipo la settimana scorsa, c'era un articolo sul Venerdì di Repubblica. Ho letto un po' di trama e, cazzo!, ci sono delle cose di cui ho parlato anche io. Mi sono emozionata come una cogliona.
Oggi ho visto il trailer - anzi, per la precisione sono le 0:56 del 6 giugno, ora in cui scrivo questa nota - e sento già di amare questo film. Ho percepito la stessa atmosfera che si respira in "The Thin Red Line".
Spero di poterlo vedere presto. So già che piangerò come una fontana.
Ve l'ho detto perché Malick è poesia formato cinema. E io ve lo consiglio. :3
(e poi perché la cosa che lui ha vinto la Palma d'Oro proprio con questo film mi ha fatto troppo stellinare, ecco! XD)



Il lungo sonno della Lucciola
- Part V: The Sand, the Waves, the Sphere -

 

“Fammi entrare nei pensieri per guardare
ogni istante fino a stare male.
Perdermi nei dubbi e nelle tue paure,
per ritrovarci ancora a stare bene insieme.”

 

Era stato terribile.
Terribile.
Baiko non aveva pensato che potesse succedere qualcosa di simile, non l’aveva messo in conto. Ma quante cose, erroneamente, non aveva mai messo in conto e poi gli si erano presentate urlando a gran voce la loro esistenza?
Era stata un’esperienza massacrante, tanto che era uscito dalla stanza arretrando, un passo alla volta, sul viso un’espressione sgomenta, e una volta fuori era fuggito dall’ospedale, emergendo finalmente all’esterno. Aveva respirato a pieni polmoni per un paio di minuti tentando di sedare quello che gli era sembrato il principio di un attacco di panico. Poi, calmatosi, si era diretto alla macchina, si era seduto al lato passeggero e lì era rimasto a rendersi conto dell’ennesima verità: lui non conosceva niente di suo figlio.
All’inizio, quando aveva cominciato a parlargli, sembrava stesse andando tutto bene. Aveva cercato di rompere il suo senso di impotenza raccontandogli semplici banalità, cose di tutti i giorni. Non aveva nemmeno per un istante preso in considerazione di esporgli i suoi pensieri su quanto accaduto, aveva sentito che era troppo presto. Ma dopo i discorsi futili, poche parole tirate via quasi in un elenco monocorde, quando aveva tentato di provare a ricordargli qualcosa che gli piaceva… era rimasto in silenzio.
«Ti ricordi di quando… di quando…» l’aveva ripetuto tre volte, aveva tentato di far affiorare alla mente cose fatte insieme, attimi che avevano condiviso che non fossero solamente i litigi e i rimproveri. Ma la sua mente si era trovata davanti una distesa bianca, infinita, senza forma. Nella sua testa aveva realizzato in maniera brusca e totalizzante di non sapere nulla di Yuzo. Non conosceva i suoi sogni, le sue aspirazioni, non conosceva i suoi gusti, non sapeva che musica ascoltava, che abiti gli piaceva indossare. Non sapeva se avesse o meno una ragazza, non sapeva che materia scolastica preferiva, non… non ricordava alcun momento in cui erano stati felici, non ricordava alcun momento in cui avevano riso insieme, in cui si erano davvero sentiti, indissolubilmente, padre e figlio. Non ricordava nulla. Lui, che aveva contribuito a metterlo al mondo.
Col silenzio intrappolato nella bocca aperta era rimasto a guardare Yuzo con gli occhi spalancati, terrorizzati. Poi era fuggito chiudendosi nell’auto dove continuava a restare immobile, fissando il volante.
Il tramonto, ormai, aveva già ceduto il passo alla sera.
Allora era davvero troppo tardi per lui? Per loro?
Baiko se lo domandò ma nessuno gli rispose e lui seguitò a rimanere come ipnotizzato da ciò che aveva davanti pur senza vederlo.
Come aveva potuto allontanarsi così tanto da non rendersi conto di essere divenuto un estraneo per Yuzo e Yuzo per lui? Come aveva potuto farsi distrarre così tanto dal suo lavoro senza capire cosa stava perdendo?
Come aveva potuto essere così… così… egoista?
E Yuzo?
Si era sentito solo senza un padre vicino che gli desse quel supporto necessario a un ragazzo tanto giovane, nel pieno della crescita?
Ormai era adulto e Baiko aveva perso il treno per vivere con lui e attraverso di lui una seconda giovinezza.
Si passò una mano sul viso, decidendosi a mettere in moto per tornare a casa.
Lungo la strada mantenne lo sguardo fisso in avanti, alle altre vetture, e la sua espressione sembrava intrappolata nella carne perché non subì nemmeno la variazione più piccola. Era fatto di cera. Vedeva la vita degli altri scivolare via e restava immobile, dimentico che anche la sua vita stava scivolando e così quella di Yuzo e in tutto questo tempo le loro vite si erano sempre voltate le spalle.
Parcheggiò nel vialetto di casa e scese, muovendosi in maniera automatica. Chiuse il cancello e si accertò di averlo fatto, non come il giorno prima. Entrò in casa e verificò che togliesse davvero le chiavi dalla toppa. Ricercava certezze microscopiche in gesti futili, ma l’attimo dopo li aveva già dimenticati ritrovandosi punto e capo.
Baiko si guardò attorno, fermo sulla soglia. Osservò, nella semioscurità della casa silenziosa, le forme dei mobili, le pareti, il soffitto, il pavimento. Ruotò gli occhi e la testa captando il luogo in cui aveva vissuto da quando si era sposato. Lo guardò e si rese conto d’essere un estraneo anche lì, non solo nel proprio corpo.
«Che ci faccio io qui?» si domandò, masticando le parole tra le labbra.
Di quella casa non conosceva nulla, in fin dei conti. Non sapeva come si azionasse la lavatrice, non sapeva come Haruko ripartisse il cibo nei ripiani della cucina o dove tenesse gli asciugamani, non sapeva cosa contenesse il ripostiglio. Ci aveva vissuto, ma era come se fosse stato ospite di un albergo per più di vent’anni. Però forse c’era un posto che conosceva a menadito, ed era il suo studio, l’antro dell’orco. Paradossalmente, ora che ci pensava, era anche quello in cui gli altri non entravano mai, quasi non facesse parte della casa. Di tutto il resto, Baiko aveva sprazzi di ricordi. Come della camera di Yuzo.
Adagio sollevò gli occhi alla scala, raggiungendola prima col corpo, mentre la mente faticava ancora a realizzare in tempo i pensieri. Per lui, adesso, le azioni precedevano i ragionamenti.
Salì gli scalini con la stessa lentezza. Una volta sul pianerottolo, si ricordò d’essersi nuovamente dimenticato di togliere le scarpe e così le lasciò proprio lì. Avrebbe recuperato in seguito le ciabatte.
Il suo corpo raggiunse la porta, la stessa che, al mattino, non aveva avuto il coraggio di aprire. Guardò la maniglia, con le mani abbandonate lungo il fianco. Sul momento nemmeno tentò di sollevarne una, temendo che venisse nuovamente scacciata via da quella sensazione che l’aveva già frenato una volta e, a dire il vero, ancora non capiva perché si trovasse un’altra volta lì davanti. Cosa sperava di risolvere? La realtà esistente tra lui e Yuzo non sarebbe cambiata di improvviso solo perché avrebbe varcato una stupida soglia.
…ma quella soglia lo separava dall’ultima briciola di certezza che gli era rimasta di loro due e del loro rapporto. Quella soglia lo separava da quel ricordo sfocato, dall’aeroplano di legno, dalla coperta di Harlock, dal pupazzo di peluche. E lui aveva bisogno di quel frammento di passato per sentirsi ancora parte del presente.
Afferrò la maniglia e già solo il fatto di esserci riuscito gli fece rilasciare un tentennante respiro. La abbassò fino in fondo e poi spinse. La porta si aprì. Il fiato rilasciato venne risucchiato nuovamente nei polmoni e lì si rifugiò, senza avere intenzione di uscire.
Baiko aggrottò le sopracciglia mentre la bocca assumeva una piega verso il basso. Sezionò la camera pezzo per pezzo, e mentre i suoi occhi percorrevano il perimetro da cima a fondo, la testa veniva scossa meccanicamente da un lato e dall’altro.
Di tutto quello che aveva sperato di vedere non c’era più traccia, la stanza dell’unico ricordo che era riuscito a trattenere non esisteva più da chissà quanto tempo. Niente Harlock, niente peluches.
Fotografie, poster, medaglie e coppe in un angolo, libri ovunque, cd, un pallone.
Era la stanza di un diciannovenne non quella di un bambino.
Baiko si sentì spaesato, nel posto sbagliato. Aveva sbagliato porta o forse quello che avrebbe dovuto esserci dietro era cambiato nel tempo in cui si era girato dall’altro lato e non se n’era accorto.
Con passo malfermo avanzò fino a fermarsi al centro della camera e girò su sé stesso come una trottola, guardandosi attorno, cercando ovunque quell’appiglio, quel legame col passato e rifiutandosi di credere di vederlo infranto per sempre.
Quello che aveva detto Tamura non aveva senso nel loro caso?
Possibile che non avessero più tempo? Che lui non avesse una seconda possibilità?
E mentre si poneva tutte quelle domande, seguitava a girare in tondo. I volti sconosciuti delle foto si fondevano e mescolavano agli altri oggetti. Univano i colori, le forme e divenivano ancora più estranei. Lui non riusciva a trovare nulla di familiare in niente, neppure nelle cose che avrebbero dovuto essergli note, come il mobilio.
Aveva davvero perso tutto?
D’un tratto, tra la marea di foto e poster, carpì due ali di legno. Pendevano dal muro.
Baiko si fermò e mentre la stanza continuava a girare attorno a lui, l’ennesima bolla di sapone si ruppe lasciando un ricordo libero di rimbalzare nel cranio.

«Papà, nonno Shuzo mi insegnerà a costruire un aereo di legno!»
«Ma davvero? Allora ascoltalo con attenzione, mi raccomando.»

E quell’aeroplano era proprio lì, adesso, davanti ai suoi occhi. L’uscita dal labirinto era un porticina piccola piccola, ma esisteva ancora.
Con lo stesso passo traballante si avvicinò al giocattolo, lo sfiorò adagio, togliendo via un sottile velo di polvere. Poi lo prese con tutte e due le mani e lo sollevò per guardarlo da ogni angolazione possibile come se avesse potuto rivelargli storie passate di viaggi antichi, in giro per il mondo. Avvertì il viso deformarsi in una smorfia strana. Forse stava sorridendo, ma non avrebbe saputo dirlo con esattezza perché non se ne interessò. In quel momento, riconobbe qualcos’altro e si stupì di non averlo notato subito, appena entrato. Riconobbe un profumo, una colonia che non era la sua. Era quella di Yuzo, era l’odore che, col tempo, si finiva per associare a una persona. Di suo figlio non gli era rimasto che quello, la sensazione d’un profumo. Il suo odore.
Con un respiro più lungo si strinse l’aereo al petto per impedirgli di volare via e si guardò nuovamente intorno. Nonostante avesse trovato un appiglio per sentirsi almeno in misera parte legato al presente, la situazione non era cambiata; gli altri oggetti non gli risultarono di colpo familiari o eco di conoscenza venuta a galla come olio. L’espressione nuova che aveva un po’ variato la sua staticità facciale si era già dissolta, lasciandone una più affranta.
«Cosa siamo stati per tutto questo tempo? Chi siamo stati? Con chi abbiamo parlato? E di cosa?... Perché non l’abbiamo mai fatto tra noi?» Gli oggetti non sapevano rispondere con umane parole, così restarono muti. «Perché ci siamo voltati le spalle?»

 

“Finché sarò per te,
finché sarai per me,
finché il senso di noi resterà.
Ti penserò con me tutte le volte che
con il buio cadrà la notte.”

Marina ReiFammi entrare

 

§*§

 

“Suta al ventru de ogni barca e sura la cràpa de ogni sàss /
Sotto al ventre di ogni barca e sopra la testa di ogni sasso,
sura el rusàri de ogni memoria, ma sura de te resterà gnanca n’pàss /
sopra al rosario di ogni memoria, ma sopra di te non resterà neanche un passo.
Gnanca el suu che te früsta la schèna o la loena che pucia giò i pee /
Neanche il sole che ti frusta la schiena o la luna che si bagna i piedi,
gnanca la spada de ogni tempesta riüssiràn a lassàtt un disègn /
neanche la spada di ogni tempesta riusciranno a lasciarti un segno.

 

Il mare era una tavola infinita, trasparente come non l’aveva mai visto e restava azzurro anche sotto quel cielo dal colore indefinito e senza sole. Era meraviglioso.
L’acqua correva a lambire la sabbia in onde piccole e mormoranti; parlava una lingua preclusa agli uomini, piena di segreti.
Il paesaggio era cambiato in un istante. Lui e Mamoru avevano preso a camminare nell’erba folta. Aveva abbassato gli occhi per un momento e quando li aveva rialzati il mare era apparso alla fine del prato.
Stavano passeggiando da un po’ sulla riva. La sabbia morbida e umida scivolava sulla pelle dei piedi e sotto le piante, che sprofondavano appena. La notte s’era schiarita nel tempo d’un battito di ciglia e adesso poteva dire che fosse giorno, ma il cielo era così strano da essere alba e tramonto insieme; impossibile inquadrarlo.
- Ti piace il mare? -
Un largo sorriso distese le labbra di Yuzo, mentre si fermava puntando lo sguardo in direzione dell’acqua.
«Moltissimo. È uno dei miei luoghi preferiti. Adoro l’aria, l’odore…» Avanzò fino a che le prime, piccole creste delle onde non arrivarono a bagnargli i piedi. Erano tiepide e piacevoli. «…il rumore.» Si girò a guardare Mamoru. «L’acqua ha un bel suono, non credi?»
- Sì. E’ armonioso e rilassante. -
«Ha sempre così tanto da dire, parla con voce nuova ogni volta che tocca riva. Non smette mai.» Cincischiò nella sabbia satura, scavando con l’alluce. «Deve essere frustrante non ricevere risposta.»
- La sabbia ascolta. -
«Ma non aiuta a riempire il silenzio delle troppe parole. Non c’è scambio, è solo un prendere.» Scosse il capo. «E’ molto comodo.»
Mamoru non replicò, ma rimase a osservare la sua schiena. Avvertì la solitudine di chi aveva parlato a lungo con un muro altrettanto silenzioso e alla fine aveva smesso. Di tutto quello che aveva detto, utile o futile, sapeva che nulla era riuscito a riempire, seppur in piccola parte, quel vuoto.
«La prima volta che sono venuto al mare avevo tante di quelle domande che… umphf! Devo essere stato un bambino rompiscatole.»
- Quanti anni avevi? -
«Non facevo nemmeno le elementari.» Yuzo tornò indietro, salendo sulla riva separata dal bagnasciuga da un piccolo dislivello. Si sedette sulla sabbia morbida e anch’essa era tiepida. «Mi ci portò papà.» Si strinse nelle spalle smorzando il sorriso per dargli una sfumatura ironica. «Probabilmente nemmeno se lo ricorda.»
- Non puoi saperlo con certezza. - Mamoru si sedette accanto a lui con un leggero tonfo. - Stai continuando a prevenire i suoi pensieri. -
«Non li sto prevenendo. So per certo che le cose poco importanti le mette da parte. E visto che tutto ciò che non riguarda il suo lavoro è catalogato come ‘poco importante’, allora anche queste piccole cose sono finite nel dimenticatoio.» Abbassò il tono e lo sguardo. Immerse una mano nella sabbia, giocherellando. «Tanto a che servono.»
- Tu le ricordi. Hai memoria per due. -
Yuzo sorrise di nuovo. «Non come vorrei e me ne dispiace. Eravamo veramente felici, allora. Forse l’unico periodo della mia vita in cui eravamo uniti. E io ero troppo piccolo per poter ricordare tutto.»
Di quei momenti aveva sprazzi di risate che riecheggiavano in lontananza e si perdevano nel gorgogliare dell’acqua, aveva gambe lunghe dietro cui correre a nascondersi e braccia che lo afferravano al volo quando si allontanava troppo. Ma come cercava di focalizzare il viso da cui nasceva il suono di quelle risa, arrivava il sole ad abbagliare i ricordi e il volto felice di suo padre seguitava a rimanere un’incognita perduta.
«Ho finito per dimenticare qualcosa anch’io, lo sai?» Yuzo si volse tentando di trovare un risvolto ironico in tutto quello, ma la smorfia che fece uscì affranta. «Non ricordo più come sorride mio padre.»
- Non l’hai dimenticato, Yuzo. Ma solo sommerso con l’espressione che più spesso ti ha mostrato e che ha finito col divenire quella abituale. - Mamoru appoggiò le braccia sulle ginocchia, sporgendosi in avanti. - Questo non significa che tu abbia perduto il suo sorriso. Devi solo scavare per tirarlo fuori. -
«Forse non c’è motivo per darsi tanto da fare. Quel tempo non ci appartiene più, ormai.»
Yuzo sollevò la sabbia osservandola scivolare via dal palmo come da una clessidra, e i granelli che l’abbandonavano non potevano più tornare indietro. Un po’ come loro, dopotutto, e i momenti vissuti insieme.
«Quando venivano al mare, costruivamo ogni volta un castello diverso. È stato lui a insegnarmi come si fa. A costruire illusioni. In fondo, i sogni sono illusioni, no? E sono fatti di sabbia: nascono come qualcosa di semplice e poi si lasciano modellare dai nostri desideri. Crescono, diventano meravigliosi e infine…» Vide la mano affondare veloce tra i granelli. «…infine crollano, con una facilità pari alla difficoltà con cui li abbiamo costruiti. E quando si spezzano, i sogni hanno spigoli vivi, taglienti. Spesso uccidono nell’attimo stesso in cui diventano frammenti di mosaico senza più un disegno. Io non lo sapevo fino a quando non ho visto le mani sanguinare e li ho lasciati lì, abbandonati a loro stessi.»
- E fanno male? -
«Oh, sì. Tanto. Però, sai, Mamoru? Mi piace la sabbia: mi ricorda quello che siamo. Una moltitudine raccolta in un sol luogo, ogni granello è una persona e sono tutti così vicini che basta un niente per unirli… e altrettanto niente per dividerli, perché nei fatti ogni granello è solo, come l’uomo. E silenzioso, come l’uomo. Diceva Shakepeare che ‘gli uomini sono fatti della stessa sostanza dei sogni’. Aveva ragione. Siamo entrambi di sabbia.»
Yuzo sollevò i pugni pieni di rena aprendoli adagio affinché scivolassero via in un filo sottile, e in quel lento cadere, la brezza di mare li prese con sé, spargendoli di nuovo nel resto della spiaggia. Tornavano a essere parte di quel tutto diviso, composto da solitarie unità.
Sulle labbra, aveva il sorriso pieno di atavica meraviglia di chi era in grado di vedere attraverso l’astrattismo di un concetto, tanto da fargli avere una consistenza.
«L’acqua, invece… l’acqua è diversa. Qualsiasi cosa accada, troverà sempre una forma. Non importa cosa cercherà di spezzarla o mutarla, niente la farà cambiare. Né la sabbia né il vento.»
Mamoru lo osservò mentre s’alzava e raggiungeva il bagnasciuga dove il mare corse a lambirgli i piedi.
Yuzo si volse e negli occhi aveva la luminosità del sole infranto sulla superficie delle onde. «Io ho smesso di essere sabbia e allora perché non posso essere acqua?»
Non attese una risposta ma iniziò a camminare verso il mare mentre il livello saliva e le onde divoravano un nuovo pezzo a ogni passo.
Acqua, che era un immenso compatto dalle mille parole, ogni goccia unita all’altra in maniera inscindibile, lo avvolse come un abbraccio primordiale e materno, liquido amniotico e caldo, e quand’anche la sua testa scomparve sotto la superficie, Yuzo si sentì finalmente parte di quel qualcosa chiamabile ‘tutto’.

 

“Akuaduulza akuaduulza quanta akua impienìss questi oecc /
Acqua dolce, acqua dolce, quanta acqua riempie questi occhi
akua negra e senza culpa, akua santa senza resònn /
acqua nera e senza colpa, acqua santa senza ragione.
E passa un bàtell e passa un invernu, e passa una guèra, e passen i pèss, /
E passa un battello e passa un inverno, e passa una guerra, e passano i pesci,
passa el veent che te ròba el mantèll e passa la nèbia che sàra soe i stèll /
passa il vento che ti ruba il mantello e passa la nebbia che rinchiude le stelle.

Davide van de sfroos Akuaduulza

 

§*§

 

Per i successivi due giorni Baiko non ebbe il coraggio di entrare e quindi si limitò a osservare suo figlio dal vetro.
Era la prima volta in tutta la sua vita che si sentiva pessimo. Era sempre stato convinto della propria onestà e capacità di giudizio; aveva uno spiccato senso della responsabilità. Eppure si stava comportando da vigliacco e quel pensiero non riusciva ad abbandonare la sua testa, assieme alla smodata ricerca, nelle sinapsi ancora fredde, dei momenti passati con suo figlio, perché non era possibile che li avesse davvero dimenticati, che la frenesia del lavoro avesse coperto ogni cosa come una colata di cemento. No. Non lo avrebbe mai accettato. I ricordi erano lì, da qualche parte, doveva solo farli venire allo scoperto.
Ed era proprio a quello che stava pensando, seduto nella grande poltrona di pelle all’ultimo piano del palazzo della ‘Golden Gun’. Era il suo primo giorno di lavoro da che tutto era cominciato.
Baiko restava sprofondato nel rivestimento morbido, il gomito sul bracciolo e la mano a sollevare il mento. Faceva oscillare lentamente il girevole da una parte e dall’altra. All’altro capo della scrivania, suo nipote Shunsuke, vice presidente dell’azienda, parlava in merito alle esportazioni delle nove millimetri.
Lui non lo stava ascoltando.
Il cielo, in quella limpida giornata di Agosto, sembrava essere uno spettacolo ben più interessante ai suoi occhi, e in quell’azzurro così carico da sembrare ritoccato al computer volava un aeroplano di legno. «Presidente!»
Baikò sussultò all’improvviso perdendo la presa sulla penna che stava distrattamente rigirando tra le dita. La stilografica attraversò tutta la scrivania finendo nelle mani di Shunsuke.
Baiko guardò prima la penna e poi il nipote con espressione chiaramente smarrita.
«Eh? Scusa… ero distratto…»
Il giovane sospirò. Adagio sistemò nuovamente la penna sul tavolo.
«Questo lo avevo notato, è la terza volta che la chiamo» disse, incrociando le mani sulla superficie. «Non ha ascoltato nulla di quello che le ho detto, vero? Perché non torna a casa, Presidente?» Non c’era rimprovero nella sua proposta, ma sincera preoccupazione.
Baiko si passò una mano sugli occhi, scuotendo il capo. «No, sto bene. Davvero, sono solo un po’ pensieroso.»
Shunsuke abbandonò le formalità, tornando a essere solo suo nipote.
«E Yuzo come sta, zio Baiko?»
C’era un qualcosa di avvilente nel non avere una vera risposta da dare a una simile domanda. Baiko lo avvertiva, ma non poteva evitarlo.
«Come stava ieri. E l’altro ieri. Nessuna novità.»
«Capisco.»
«Senti, potresti riassumermi quanto detto finora? Prometto di stare più attento.» Tentò di cambiare discorso, incapace di affrontarne uno in cui non sapeva davvero cosa dire. Suo nipote sembrò comprendere e si rimise a sfogliare i documenti che aveva davanti.
«I report settimanali forniti della polizia indicano soddisfazione per la 2G9-Star. Secondo i sondaggi a campione sugli agenti, il loro miglior pregio è la maneggevolezza. Rapida da pulire e tenere efficiente. Migliorerebbero la precisione di tiro», ma subito si affrettò ad aggiungere: «I nostri ingegneri, ovviamente, ci stavano già lavorando. Dicono che per Novembre-Dicembre dovrebbero avere il progetto definitivo della nuova 2G9-Star2
Baiko annuì anche se mancava della sua usuale partecipazione. Non commentò oltre se non quel semplice: «Molto bene» quando di solito avrebbe trovato di che discutere, proporre. Ma Shunsuke l’aveva già capito che quello non era il solito presidente.
Il giovane gli passò i fogli che l’uomo prese adagio fingendo di leggerne il contenuto, ma il suo viso tradiva un’espressione distante e disinteressata.
Shunsuke continuò. «Tra cinque giorni ci sarà una riunione importante con i nostri maggiori compratori per presentare i prodotti che metteremo sul mercato a partire dal prossimo anno.»
Ancora un neutro: «Molto bene» seguito dal silenzio; nessuna direttiva a riguardo, nessuna nuova strategia.
«Vuole… che me ne occupi io?» propose il vice presidente con leggera titubanza. Solo allora Baiko sollevò nuovamente lo sguardo su di lui, ripassandogli quei fogli di cui non ricordava più una parola.
«Sì, te ne sarei grato.»
Shunsuke annuì, raccogliendo i documenti nella cartellina.
«E’ tutto?» domandò il presidente e l’altro annuì ancora.
«Sì, signore. Le farò trovare una relazione della prossima riunione sulla scrivania.»
Baiko accennò un sorriso al lato della bocca. «Grazie, Shunsuke. Stai facendo davvero un lavoro encomiabile. Puoi andare.»
«Grazie, signor Presidente», ma quando fu davanti alla porta, la soglia già aperta a metà, si girò un’ultima volta. «Mi dia retta, torni a casa e cerchi di riposare un po’.»
L’accenno di sorriso si dissolse nell’osservare l’uscio che veniva richiuso, lasciandolo completamente nel silenzio.
Andare a casa… per fare cosa?
Per quel luogo era un estraneo e l’unica stanza che sentiva come sua aveva il pavimento ancora sporco del sangue di suo figlio che non aveva il coraggio di vedere.
Andare già all’ospedale avrebbe significato incontrare Haruko ed era fuori discussione e allora dove avrebbe potuto rifugiarsi per non sentirsi totalmente inutile? Paradossalmente, solo lì, alla ‘Golden Gun’, la fonte dei suoi problemi.
Baiko girò la poltrona, fissaando, oltre la vetrata, il cielo di Shizuoka City.
O forse la ‘Golden Gun’ non era stata che il tramite e il mezzo attraverso cui i veri problemi erano venuti fuori?
Problemi come incomunicabilità, distanza, diversità. La ‘Golden Gun’ era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso e quel vaso era Yuzo con la sua sopportazione.
Perché non poteva tornare tutto a quell’aeroplano di legno? A quando bastava così poco per capirsi ed essere uniti?
Un semplice gioco.
Era tutto così facile.
Gli occhi si chiusero lentamente e nell’immagine limpida del cielo, Baiko lasciò andare quel ricordo perduto per renderlo più nitido possibile.
A quell’epoca, Yuzo era un bambino cui bastava poco per essere felice e questo, si rese conto, non era cambiato nel tempo. Rivide suo figlio nel giardino della casa tradizionale, disteso con la pancia sul legno, le gambine che ciondolavano in aria e le mani a sorreggere il viso. Lo sguardo fisso a vedere un uomo che lavorava altro legno.
Anche lì c’era odore d’estate; lo percepì d’improvviso invadergli i polmoni.
Quella casa era la sua e quell’uomo era suo padre.
I ricordi racchiusi nelle bolle di sapone vennero liberati dando un nuovo collegamento ai suoi pensieri: l’aereo di legno, la sua vecchia casa.
Il mare.
Baiko aprì gli occhi di scatto all’immagine fluida delle onde e all’odore di salsedine che sembrava raggiungerlo all’ultimo piano di quell’edificio.
Il mare… vicino casa…
Il mare… che a Yuzo piaceva tanto…
In quel momento, Baiko capì di aver recuperato qualcosa di suo figlio, qualcosa che aveva sempre saputo ma solo dimenticato.
Era forse quello il senso delle parole del signor Tamura?
Di slancio abbandonò la poltrona che seguitò a oscillare per il movimento brusco. Prese la giacca e lasciò lo studio senza pensarci oltre; dopotutto un luogo in cui poteva andare ce l’aveva ancora e lo avrebbe raggiunto il prima possibile.

 

Ludovico EinaudiLe Onde (strumentale)

 

Uscire dal traffico di Shizuoka City non era stata un’impresa da poco, ma ora la strada si poteva dire quasi sgombra e il mare brillava d’azzurro e d’oro davanti a lui. Era sempre più vicino, eppure gli sembrava di non arrivare mai.
Baiko non aveva avuto problemi a uscire dall’azienda, in fondo ne era il presidente, non aveva bisogno di dare spiegazioni, però aveva lasciato un appunto per suo nipote: era già molto in pensiero, non gli era sembrato il caso di peggiorare la situazione. Aveva detto di riferire che sarebbe tornato a casa, ma non aveva specificato quale.
Finalmente la striscia blu divenne sconfinata, mentre Baiko guidava adagio l’Audi scura, seguendo il lungomare. C’erano molti posteggi liberi, ma lui ne cercava uno in particolare; l’aveva ricordato durante il tragitto per arrivare a Suruga-ku. Quando individuò il piccolo chiosco di gelati gli sembrò di tornare indietro nel tempo.

«Papà, cos’è quello?»
«E’ il mare.»
«Quello che la maestra ci fa vedere all’asilo? »
«Proprio lui.»
«Ooooh…»

Levò lo sguardo allo specchietto retrovisore e scorse un bambino con le mani e il viso premuti contro il finestrino. Aveva cinque anni e vedeva il mare, da vicino, per la prima volta.
Baiko parcheggiò proprio davanti al chiosco, come allora, e spense il motore.
Rimase immobile, le dita mollemente appoggiate al volante, a fissare l’oceano solo leggermente increspato. Il calore del sole che cominciava a calare, parallelo all’acqua, iniziò a riscaldare l’abitacolo.

«Andiamolo a vedere più vicino, dài!»

«Andiamo.»
Era tutto come allora. Poca gente sulla spiaggia che si andava svuotando. Baiko tolse la giacca con gesti automatici e lo sguardo non lasciava la distesa d’acqua, temendo quasi di perdere anche il flusso dei ricordi. Allentò la cravatta e scese dalla vettura. La brezza di mare portò l’inconfondibile odore di sale e cocco.
Infilò le mani nelle tasche e cominciò a camminare. Scese il piccolo marciapiede che separava la spiaggia dall’asfalto e i piedi affondarono nella sabbia, che si infilò dappertutto.

«Oh! La terra è strana! Sembra quella dei giardinetti!(1)»
«Questa è sabbia, Yuzo, ci si cammina senza scarpe.»

Baiko rimase a fissare le sue scarpe nere e lucide per alcuni momenti, prima di toglierle e lasciarle lì, accanto all’auto, assieme ai calzini.

«È calda! È calda!»

A dire il vero era ancora bollente e Baiko si ritrovò quasi a saltellare sul posto, borbottando quel: «Ahio!». Si arrotolò i pantaloni fino al polpaccio, continuando a sembrare posseduto, e poi si mosse svelto per arrivare al bagnasciuga.
Yuzo sgambettava felice, precedendo i suoi passi in quei ricordi che si fondevano al presente come le onde che nascevano e morivano le une nelle altre.

«Papà! Papà! È tutta acqua! Guarda quanta! Ma non si asciuga?»

Baiko si fermò sulla riva e i piedi trovarono subito refrigerio al calore bollente.

«Com’è fredda! Papà, perché la sabbia è calda e l’acqua è fredda?»
«Lo capirai quando sarai un po’ più grande.»
«E quando sarò grande?»
«Spero il più tardi possibile…»
«Perché? È brutto essere grandi?»
«Non proprio. Potrai fare tante cose, ma altrettante le perderai…»
«Non ho capito…»
«Anche questo lo capirai quando sarai grande.»

Il suo sguardo si perse nell’ipnotico andirivieni dell’acqua.
Aveva davvero detto quelle parole a suo figlio? O forse era stato solo uno scherzo dei suoi ricordi?
Nel mormorio dell’oceano che gli divorava, a ogni ritorno, un po’ di sabbia da sotto le piante, si rese conto di non averlo solo immaginato. Il ricordo era nitido e vivo e lui avrebbe davvero voluto che Yuzo avesse continuato a essere solo un bambino che non aveva altri riferimenti se non lui e le sue gambe, dietro cui andare a nascondersi dalle onde. Ma il tempo non si poteva fermare e anche lui, nonostante fosse già divenuto adulto, aveva finito col perdere molte altre cose.
Sarebbe riuscito a recuperarle almeno in parte?
Baiko se lo chiese prendendo a camminare lungo il bagnasciuga deserto. Solo qualcuno di passaggio lo affiancava, correndo, e poi andava via, scomparendo lungo il confine tra terra e mare.
Altri ricordi, piccoli come granelli si liberarono dalle bolle in cui restavano intrappolati e fluttuanti nella testa. Lo spazio, però, si riduceva sempre di più a mano a mano che ogni cosa tornava al suo posto. Ma quei ricordi portarono un’altra verità: di suo figlio conosceva o ricordava solo quel passato troppo lontano dall’adolescenza e dalla maturità. Chi era diventato Yuzo, nel tempo in cui lui aveva dimenticato e perduto memorie, non lo sapeva. Non ancora.

«Non è mai troppo tardi.»

Il signor Tamura, nonostante avesse perduto il proprio figlio, aveva una fiducia a lui sconosciuta. Forse avrebbe dovuto prendere esempio, ma gli sembrava quasi impossibile.
«Oh, no! E’ crollato di nuovo!»
«Accidenti! È troppo difficile!»
«Non ci riusciremo mai a costruirne uno bello…»
Quel vociare deluso lo strappò ai suoi pensieri e quando sollevò il capo, Baiko vide un gruppetto di tre bambini, poco più avanti, che stavano tentando di costruire un castello di sabbia.
Lui si fermò e rimase a guardarli mentre l’immagine di suo figlio correva avanti, girandosi di tanto in tanto.

«Un castello? Come quello delle favole?»
«Sì, con la sabbia si possono costruire tante cose belle.»
«Davvero? Facciamone uno bellissimo, papà!»

Quanti castelli avevano tirato su, insieme, in quegli anni. Così tanti da riempire una spiaggia intera.
Poi Yuzo aveva cominciato a giocare a calcio e le sue estati erano state interamente dedicate ai campionati. I loro castelli erano stati messi da parte. Lui era divenuto obsoleto e il lavoro era diventata la sua unica e sola preoccupazione.
Baiko aggrottò le sopracciglia facendo sfumare il sorriso che i ricordi gli avevano portato alle labbra; era quindi anche per questo che aveva guardato con avversità al calcio? Perché per colpa sua era stato messo da parte da suo figlio? Perché aveva spezzato la loro tradizione fatta di castelli di sabbia?
Possibile che fosse stato tanto infantile?
«Ehi, signore!»
Uno dei bambini attirò la sua attenzione.
«Tu lo sai come si costruisce un castello?»
Baiko sbatté le palpebre apparendo perplesso. «Sì…»
Gli occhi dei bambini brillarono o, almeno, a lui così parve.
«Allora ci aiuti? Dài, per favore!»
«Sì, sì! Per favore, signore!»
«Noi non lo sappiamo fare!»
Baiko si trovò travolto da quell’entusiasmo e rimase ancora in silenzio non sapendo che rispondere, ma quando l’immagine di suo figlio si unì a quella dei tre bambini, sorrise abbandonando ogni remora e rimboccandosi le maniche della camicia.
«Fatemi spazio.»

 

“All of these lines across my face /
Tutte queste linee sul mio viso
tell you the story of who I am /
raccontano la storia di chi sono
So many stories of where I've been /
Così tante storie di dove sono stato
and how I got to where I am /
e come sono arrivato dove sono

 

Aveva quasi perso memoria della sensazione che si provava nel fare qualcosa di divertente, nel ridere di gusto per una stupidata come gli spruzzi d’acqua improvvisi o la sabbia che sgattaiolava dappertutto; nel mare che tentava di rubare secchielli e palette e nello scattare veloce per riacchiapparli prima che divenisse troppo tardi.
«E ora ci facciamo la porta.» Baiko scavò parte della struttura con attenzione ricavando la sagoma di un ingresso.
La stilografica da quarantamila(2) yen era ormai piena di sabbia e da buttar via, ma lui nemmeno ci fece caso. I bambini erano affascinati.
«Wow! Che castello fantastico!»
«Sei bravissimo, signore!»
Il terzo ridacchiò, portandosi le mani alla bocca. «Il mio papà li fa sempre cadere.»
«Anche il mio! Anche il mio!»
Baiko rise, sedendosi di peso. «Ora potrete insegnarglielo voi come si fanno.» Si passò il dorso della mano sulla fronte, ma era sporco ovunque e si lasciò un segno con la sabbia.
«Sìììì!» risposero in coro, tentando di riempire d’acqua il fossato attorno al castello, ma non era affatto un’impresa facile.

«Papà, la sabbia mi ruba l’acqua!»
«Perché ha sete.»
«Ma è salata! Io non la bevo, bleeeeh!»
«Alla sabbia piace. Beve qualsiasi cosa. L’acqua salata, l’acqua dolce-»
«E la Coca-Cola?»
«Anche.»
«Scommetto che la Coca-Cola le piace di più. Però ha tanta sete, poverina. La prossima volta le porto i succhi di frutta di mamma. A me mi piacciono.»
«Ah, ah, ah! Certo, piccolo. Piaceranno di sicuro anche a lei.»

Era soddisfatto.
Una sensazione che non provava da tempo. Era appagato, rilassato… quasi sereno, anche se non aveva alcun motivo per esserlo. Però in quel momento era come se il tempo fosse sospeso, chiuso in una bolla che lo teneva separato dal presente.
Bolle. Queste sfere erano praticamente ovunque: dentro la sua testa, attorno a lui. La sua realtà era sferica, una forma perfetta ma chiusa oltre la quale non si era mai spinto. Aveva vissuto in un qualcosa di ideale per tenersi lontano da tutto il resto e aveva tentato di costringere suo figlio a fare la stessa cosa. Ma da cosa si era nascosto? Baiko non ricordava più ciò che si celava oltre il perimetro della sua sfera. A dire il vero, erano tante le cose di cui aveva perso memoria.

«Non si deve mai aver paura di parlare con i propri figli, altrimenti si finisce col non saper parlare più nemmeno a sé stessi. E se non ci parliamo, non ci ascoltiamo, non ci conosciamo… quanto possiamo sperare di conoscere loro?»

E lui aveva smesso di ascoltarsi perché aveva delle responsabilità come padre, come marito, come presidente d’azienda; non aveva tempo di badare anche a sé stesso, non c’era spazio per queste cose.

«La strada da perseguire è sempre dritta, disseminata di tappe obbligate. Non dimenticarlo, Baiko, nel cammino di un uomo non c’è posto per le distrazioni né per i sogni. Le radici della nostra famiglia hanno un solo nome: concretezza.»

Quella frase di suo padre emerse come la spuma di mare e Baiko si rese conto d’aver cominciato a chiudersi da quel momento in poi, arrivando a dimenticare chi era stato o avrebbe voluto diventare.
Quante cose aveva perduto, mentre di fronte a lui quei bambini non avevano nemmeno cominciato a capire cosa significava divenire adulti; avevano ancora milioni di sogni a illuminare le loro notti, come un cielo di stelle.
Accennò un sorriso, invidiandoli un po’.
«Bambini! E’ ora di andare, forza!»
Si voltarono tutti e quattro in direzione della strada. Tre donne, vestite in abiti leggeri e svolazzanti dai tenui colori estivi, si erano fermate a metà strada e agitavano le mani per farsi vedere.
«Oh, è arrivata la mamma!»
«Noooo, di già? Che peccato…»
Baiko sorrise. «Forza, obbedite senza fare i capricci. Bisogna sempre ascoltare quello che dice la mamma, intesi?»
I tre annuirono vigorosamente, alzandosi in piedi e ripulendosi alla meglio. La sabbia cadeva dappertutto ma per quanta ne togliessero, altrettanta restava aggrappata ai calzoncini e alle gambine sottili.
«Ciao signore e grazie!» salutarono i due bambini più piccoli, correndo lungo la spiaggia in una gara improvvisata per vedere quale dei due raggiungesse prima la propria madre.
Il terzo, invece, si attardò un pochino guardandolo dall’alto del suo metro e venti. «Signore, ma tu ce li hai i bambini?»
Baiko appoggiò il viso in una mano, allargando il sorriso. «Sì. Uno.»
«Che bello! Allora portalo la prossima volta, così costruiamo un castello ancora più grande! Ciao!»
Nel vederlo andare via e raggiungere i suoi amici, l’uomo pensò che gli mancava la semplicità dell’essere così piccoli. I problemi non erano mai insormontabili, ma paragonabili alla sabbia che lo circondava: si potevano abbattere in un attimo. Per quale motivo, crescendo, la sabbia si trasformava in cemento e il cemento in ferro? Diveniva più facile aggirarli, gli ostacoli, che buttarli a terra. Diveniva più facile fuggire e dimenticare ciò che non faceva comodo ricordare.
Ora, sulla spiaggia lambita dal mare erano rimasti solo lui e il castello.

«Yuzo, cosa ti piacerebbe fare da grande?»

Un’onda si infranse più vicino.
Il piccolo Yuzo, proiettato dagli sprazzi di ricordi che tornavano a galla, era in piedi le mani poggiate sulle ginocchia e la testa un po’ inclinata di lato. Osservava l’opera che insieme avevano costruito.
Baiko aveva dimenticato di avergli posto quella domanda e ne aveva dimenticato anche la riposta.
Gli occhi si allargarono nel fragore di una seconda onda che iniziò ad addentare un angolo del castello. La sabbia perse coerenza e crollò nel punto colpito.

«Io voglio giocare con il pallone. Come quelli che si vedono in tv. A me piace correrci dietro, alla palla. A te piace, papà?»

Yuzo rideva e correva sul bagnasciuga, davanti ai suoi occhi, allontanandosi da lui.

«A me? Deve piacere a te, piccolo.»
«A me piace tantissimo!»
«Allora diventerai un campione!»
«E mi guarderai quando sarò in tv?»
«Ma certo! Anzi, verrò allo stadio, e farò il tifo per te!»

Diventerai un campione.
Verrò allo stadio.
Farò il tifo per te.
Baiko si mise in ginocchio, adagio.
Suo figlio correva felice e la risata si sommò a un’altra, che gli parve sconosciuta perché lui non stava ridendo, non in quel momento. Allungò una mano, ma non riuscì a muoversi. Dal suo corpo si separò la proiezione più giovane di sé stesso, legata a quei momenti sulla sabbia; era quella la risata che aveva sentito. Era lui. Correva dietro Yuzo, lo afferrava e lo prendeva in braccio, alzando spruzzi d’acqua salata, e nella pioggia di gocce scomparvero alla vista, tornando a nascondersi nei ricordi.
Erano stati felici. Tutti e due.
«Io… glielo avevo detto io…»
Baiko tremava da capo a piedi, si afferrò la testa tra le mani, non riuscendo a crederci.
«…gli avevo detto che… che sarebbe stato un campione… che poteva giocare a calcio… glielo avevo detto io… proprio io… come ho potuto, come… dimenticarlo?»
Nell’onda che si arrampicò sui vestiti e sulle mura del castello, facendole crollare, tutto ciò che era ancora rimasto chiuso nelle bolle di sapone esplose all’improvviso all’interno del cranio, allagandogli il cervello. Fu come risorgere dallo stato di morte cerebrale in cui si era confinato, ma faceva talmente male da strappargli il respiro. E l’acqua era ovunque, addosso, negli occhi, nella bocca che sapeva di sale. Distruggeva.
«Glielo avevo detto io! Io!»
Baiko lo gridò stringendo forte i capelli fin quasi a strapparli. L’ennesima onda lo schiaffeggiò come aveva fatto Haruko; cercava la reazione che all’ospedale non aveva avuto perché incapace di comprendere i suoi stessi sentimenti.
Lui si gettò sul castello, tentando di proteggerlo, ma i torrioni si disfacevano sotto le dita, impedendogli di trattenere quello che era stato il simbolo del loro passato insieme, l’unico nel quale erano stati uniti, in cui aveva avuto la fiducia incondizionata di Yuzo. Aveva avuto i suoi sogni stretti nella mano e, come con la sabbia, non era stato in grado di difenderli.
Pianse tutte le lacrime che non era riuscito a versare.
«No! Non puoi portarmelo via! Non voglio! È mio figlio! È mio figlio!»
Ma l’acqua era implacabile e continuò ad andare e venire, strappando ogni cosa dai pugni serrati.

 

“But these stories don’t mean anything /
Ma queste storie non significano nulla
when you’ve got no one to tell them to /
quando non si ha nessuno cui raccontarle.

Brandi CarlileThe Story

 


[1]: nei giardinetti giapponesi, dove spesso vanno i bambini a giocare, c’è sempre un quadrato con la sabbia :D

[2]40'000 YEN: sono circa 340 euro. XD Sarà una Montblanc (\O/ ed è un peccato a Dio rovinare una Montblanc!!!).


Le canzoni del capitolo:

- Fammi entrare (Marina Rei): a me lei è sempre piaciuta molto, ma credo sia una cantautrice moooolto sottovalutata e messa da parte, in favore di oscenità colossali come, che so, Alessandra Amoroso. Questa canzone l’ho scelta all’ultimo momento (XD eh, è diventata abitudine cambiare le canzoni in corsa!), prima ce n’era un’altra che pure mi piaceva moltissimo, “Nessuna certezza” di Tiromancino feat Meg e Elisa. Però questa mi sembrava più ‘forte’, anche a livello di musica, e avevo bisogno di un’atmosfera più inquieta. :D

- Akuaduulza (Davide van de sfroos): ho scoperto Davide van de sfroos con l’ultimo Sanremo, lo ammetto. Mi sono innamorata di “Yanez” e così sono andata a cercare altre sue canzoni. Adoro le canzoni in dialetto *-*. Tra le tante (molte consigliate da Santa Eos75 *sghignazza*) è spuntata questa. Appena l’ho sentita mi son detta: “La userò. E’ troppo bella.”, e infatti eccola qui. :D
Ha un testo veramente bello e malinconico, e la musica è uno spettacolo. Volevo qualcosa che parlasse dell’acqua, visto e considerato anche il pezzo cui fa riferimento, e anche se questa canzone si riferisce al Lago di Como (acqua dolce, appunto), mi sembrava ci stesse bene ugualmente proprio per il senso in generale. Vi consiglio di ascoltare Davide van de sfroos, di cercare altre sue canzoni perché, davvero, quest’ometto è una meravigliosa sorpresa. :)


- Le Onde (Ludovico Einaudi): ma se si parla di onde/mare/acqua/ecc ma vi pare che NON mettevo questa di Einaudi? :D
E’ spettacolare, semplicemente. Lui e Allevi sono una meraviglia per le orecchie. *-*


- The Story (Brandi Carlile): questa canzone non la conoscevo, ma mi è stata consigliata da un’amica (la Ria X3) che l’aveva sentita in una puntata di Grey’s Anatomy (XDDDDDD che io aborrrrro). *-* tant’è, sta canzone mi è piaciuta tantissimo! La voce di Brandi Carlile mi piace molto perché non è pulita, ma ha quella sonorità un po’ sporca quando spara l’acuto che secondo me è proprio bella! **

Noticina estemporanea: Sabato, mentre ero al tabacchi e facevo la fila al banco, davanti a me c’erano un signore con un bambino piccolo che avrà avuto sui tre anni: tra le mani stringeva un aeroplano. :3

E anche per questo capitolo è tutto.
Ringrazio tutti coloro che continuano a seguire questa storia! :3

   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Captain Tsubasa / Vai alla pagina dell'autore: Melanto