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Autore: Lely1441    07/06/2011    4 recensioni
Non voleva dimenticare, ma voleva lasciarsi il passato alle spalle. Non voleva più soffrire, ma doveva espiare. […]
«Smettila di morire, Marike. Torna a vivere».
Ma come si faceva a tornare a respirare, quando lo si era dimenticato?

Seconda classificata al contest "Titoli per l'amore" indetto da signorino__ su EFP forum.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Note d’autore: Ho inserito l’espressione “castello di carte” perché è il corrispettivo italiano di “house of cards”: il titolo è preso dall’omonima canzone dei Midnight Resistance.
Le citazioni presenti sono correttamente attribuite subito sotto, comunque appartengono tutte a canzoni dei Linea 77 (con due collaborazioni, una con i Subsonica e l’altra con - ugh - Tiziano Ferro), un gruppo torinese che, a mio parere, scrive testi da mozzare il fiato.

Dove è inserito un asterisco, si fa riferimento esplicito alla frase inviatami per il contest “Not strong enough”, ovvero “Look what this love has done to me”. L’ho usata sia come prompt che come citazione.

Per un ulteriore approfondimento sulle dinamiche dei personaggi, rimando a fine storia.
Buona lettura!



House of cards


«Vuoi un tè?»
Judith aveva annuito, permettendo a Marike di lasciarla sola per andare a mettere su il bollitore. Il riscaldamento era al massimo, tanto che si sentì soffocare finché non decise di togliersi il soprabito chiaro e il maglioncino beige, rimanendo solo con la camicetta. Tornava da un colloquio di lavoro, ma Judith era anche questo: una ragazza fine ed elegante, che non avrebbe mai messo tacchi superiori ai sei centimetri o un trucco pesante perché esagerati, che non avrebbe mai detto nulla di sconveniente ed inappropriato perché l’educazione impartitale non glielo avrebbe permesso. Faceva parte delle fila silenziose di coloro che sanno già a quale mondo appartengono, e che prima o poi raggiungeranno il posto designato per loro sin dalla nascita. Era una stella in ascesa, e brillava come tale.
Marike non poteva fare a meno di considerare quanto fosse diversa da lei ogni volta che le era accanto. Judith assomigliava ad un piccolo fiore di montagna esile e delicato, difficile però da strappare alla terra, mentre lei ad un fiore enorme e possente che al primo soffio di vento sarebbe caduto per la corolla troppo pesante. Erano entrambe due esemplari magnifici, ma Marike aveva molto più bisogno di cure e attenzioni - amore - di quanto le potessero venire offerte. E quindi continuava a crollare, a morire e a risorgere, senza riuscire a trovare un modo per fermare quegli schianti violenti che ogni volta la lasciavano senza fiato, come un pugno nello stomaco. Testarda nel suo proposito di autodistruzione.
«Scusami, non sono riuscita a trovare lo zucchero di canna, ho solo quello raffinato…»
«Non è un problema». Judith sorrise, e Marike seppe che non era solo una forma di cortesia, quella che le avrebbe fatto rispondere “non è un problema” anche se le avesse annunciato chissà quale colpa. Era una creatura gentile, ma soprattutto vera. Sincera.
Si rannicchiò sul divano, portandosi le ginocchia al petto e soffiando sulla tazza troppo calda. Judith era rimasta seduta composta, la schiena dritta e le mani ferme.
Non riuscì a non pensare a lei.

Lo sguardo cade su un particolare ormai dimenticato;
la testa gira; ferma tutto,
voglio scendere da questa paranoia!
[Linea 77 feat. Subsonica - 66 (Diabolus in musica)]

«Cosa facciamo stasera?»
Elsbeth scrollò le spalle, cercando di recuperare una delle scarpe finita sotto il divano. A volte si chiedeva anche lei come potesse essere tanto disordinata, ma poi si ricordava che doveva cercare altre venti cose introvabili e la domanda scivolava via dalla sua mente. «Non so, che ne dici di un film?»
Marike rimase a fissarla dalla porta della cucina, riflettendo su qualche titolo da suggerire.
«Per me va bene, ma niente di triste o altro. L’ultima volta che mi hai costretta a sorbirmi P.S. I love you mi sono addormentata dopo il primo quarto d’ora. Qualcosa di allegro, o d’azione. Anche un horror mi va bene!»
L’altra gioì nel ritrovare la décolleté nera; a quel punto, avrebbe detto di sì a qualsiasi proposta. «Vedo ciò che riesco a trovare. Tu ordina qualcosa per le nove, tanto per le otto dovrei aver finito».
Elsbeth prese la borsa e corse da Marike, lasciandole un frettoloso bacio sulla guancia. «A dopo!»
La porta si chiuse e Marike rimase sola, sola con sé stessa ed il suo più che ingombrante bagaglio di sentimenti. Dopo più di un anno che era innamorata della sua coinquilina - nonché amica d’infanzia e principale confidente - sentiva di essere arrivata ad un punto di rottura. Aveva la sensazione che presto sarebbe tutto finito.
Il problema stava principalmente nel fatto che non poteva sapere come. E non era nemmeno sicura di poter accettare un’incognita del genere.

Senti qualcosa che cambia, cerchi di bloccarlo invano.
Lungo i bordi della mano cambiamento e mutazione,
siamo attori di commedie quotidiane senza trame
tra ruggine, fumo e metallo.
[Linea 77 - Flussi informativi]

Frequentava Judith da parecchio. Avevano intrapreso insieme la stessa facoltà, cinque anni prima, e per i primi quattro non si erano rivolte granché la parola. Si conoscevano di vista, questo sì, e i corsi spesso le costringevano a lavorare fianco a fianco, ma Marike la considerava un’ipocrita altezzosa e Judith non era il tipo di persona particolarmente interessata nel piacere agli altri. Effettivamente, Judith difficilmente poteva essere considerata il tipo di persona particolarmente interessata ad alcunché.
In realtà, si erano avvicinate dopo che Marike aveva cominciato a stare male. Nel periodo in cui aveva avuto principio la fine, come l’aveva sempre definito, Marike aveva dato l’avvio ad un suo primo isolamento, aveva iniziato a spegnersi in maniera quasi impercettibile, lenta ma inesorabile. Chi le stava sempre vicino aveva finito con il non accorgersene, mentre un’estranea come Judith, abituata ad osservare attentamente ciò che la attorniava, ne aveva istintivamente avuto paura. Come se fosse riuscita a prevedere il baratro in cui sarebbe caduta se si fosse lasciata andare, le aveva teso una mano e le aveva promesso che l’avrebbe aiutata a risalire. Semplicemente, un giorno si era presentata a casa sua e le aveva detto: “Non mi importa cos’è successo. Te ne tirerò fuori”.
Marike non le aveva mai chiesto cosa l’avesse spinta a farlo, prima perché troppo concentrata su sé stessa per fregarsene degli altri, poi perché davvero non importava più. Era lì, ed era questo tutto ciò che contava. Era diventata l’unico motivo per cui poteva accettare di alzarsi la mattina.
«Com’è andato il colloquio?»
Judith fece spallucce, e Marike sorrise: poteva giurare che i risultati sarebbero stati grandiosi. Era impossibile che fosse altrimenti, in effetti.
«Penso bene, mi faranno sapere al più presto. Vista l’inadeguatezza della maggior parte dei candidati, non credo di aver problemi. A voler essere sinceri, sarebbero loro ad averli se non assumessero me per favorire uno di quei disadattati».
Be’, sì, la modestia non era uno dei suoi forti. Ma la modestia in chi possiede del talento è semplice ipocrisia, le aveva insegnato Schopenhauer, e si poteva star certi che Judith era talmente sincera e diretta da far quasi male, a volte.
Marike continuò a bere la sua tazza di tè, fin quando non sussurrò: «Ieri è passato esattamente un anno».
Non una sensazione attraversò il viso di porcellana dell’altra, ma Marike si sentì immediatamente in colpa. Non se lo meritava, davvero. Poggiò la tazza ancora piena sul tavolino e si alzò, andando alla finestra e osservando le luci del traffico di città, che alle otto di sera era al suo culmine. In ogni macchina c’era almeno una persona che stava tornando a casa, forse da qualcuno che l’amava. Si chiese se quelli che non avevano nessuno si sentissero soli quanto lei.
Il vero problema era l’enorme senso di colpa che provava nei confronti di Judith. Si rendeva conto di essere un peso, ma d’altra parte non era in grado di rinunciare a lei. Non ne era più in grado.
Per questo era consapevole di farle del male, eppure non riusciva a non farlo; esattamente come un aguzzino, continuava a colpire la sua vittima resa ormai muta e inerme dalla sua violenza.
Judith non si mosse, non la raggiunse. Si limitò ad accarezzare con le dita la copertina di un libro e quella di un mazzo di carte che giaceva abbandonato sopra il tavolino da qualche giorno. Rimase in silenzio mentre sfilava l’elastico che le teneva insieme, rimase in silenzio mentre si chinava verso il mobile dal piano di vetro e la sua espressione riflessa le restituiva un senso di tormento.
«Quando imparerai a perdonarti?»
Il peso sulla testa di Marike si fece insopportabile. C’era ancora il fantasma di Elsbeth che se ne andava in giro per quelle stanze, c’era ancora il suo profumo nell’aria, i suoi disegni alle pareti. E anche gettando via tutto, come si poteva cancellare un’assenza così prepotentemente impiantata nel suo cervello? Era doloroso, era una sconfitta, ma disincagliarla dalle rovine confuse dei suoi sentimenti avrebbe significato solamente il collasso definitivo. Sarebbe stato come recidere l’aorta nel tentativo di salvare una vita. Un suicidio programmato.
«Non è poi così necessario», le rispose sommessamente. Avrebbe imparato a fare i conti con sé stessa, prima o poi, di questo ne era certa, e ciò la atterriva. Non voleva dimenticare, ma voleva lasciarsi il passato alle spalle. Non voleva più soffrire, ma doveva espiare.
Judith aveva iniziato a disporre le carte l’una sull’altra, in ordinate file triangolari, focalizzando su loro la sua attenzione.
«Smettila di morire, Marike. Torna a vivere».
Ma come si faceva a tornare a respirare, quando se lo si era dimenticato? Vivere significava forse essere ancora più sensibili alle innumerevoli ferite che la realtà provocava?
Desiderava che l’abbracciasse, ma non glielo chiese. Doveva imparare a cavarsela, a non contare più su Judith.
E forse questo era ancora più insopportabile dell’idea di smettere di affondare.

In fondo non c’è fuoco che si vuole estinguere,
in fondo non posso smettere di cercare.
Non dovrei più tornare indietro,
non dovrei più voltarmi;
in fondo abbracciami senza dire niente
perché volevo dirti…
[Linea 77 - Penelope]

Elsbeth era semplicemente stupenda. Marike si era stupita nel ritrovarsi continuamente gli occhi pieni di lei, di lei e del suo sorriso, come se qualcuno le avesse gettato addosso un incantesimo. La sua presenza era ovunque: in facoltà, nel parco, nella sua anima. Ogni volta che pensava a lei sentiva un piacevole tepore nel petto e a volte arrossiva senza volerlo, ma tutto sommato coltivava segretamente queste sue emozioni, sperando che prima o poi sarebbero svanite da sole.
All’inizio non era solo che il solito affetto, magari un po’ più intenso; pian piano si era trasformato in altro, ma era incantevole. Aveva riso sopra l’idea di essersene innamorata, perché le era capitato spesso di prendersi accidentali cotte per qualcuno e non erano mai durate più di qualche settimana. Elsbeth era bellissima, era affascinante, era intelligente, era tutto ciò che i ragazzi solitamente cercavano. Era inevitabile che prima o poi anche lei sarebbe finita nella sua rete, ed in fondo non era neppure così grave. Sarebbe passata. Sarebbe passata presto.
Tanto valeva godersi l’attimo, no? Sarebbe stata una cosa rapida ed indolore, niente di cui preoccuparsi.
Tuttavia, presto si era resa conto che qualcosa non andava.
Erano sul letto di Marike, più grande del suo, e stavano abbracciate come sempre, cercando di non scoppiare a ridere ogni volta che quel mostro di protagonista diceva un’assurdità smielata. Elsbeth ci impazziva dietro, ma Marike non era il tipo che riusciva a imbrigliare la sua ironia spietata neanche quando avrebbe dovuto.
Era stato un attimo. I loro seni si erano sfiorati e il cervello di Marike era andato in black-out. Si era sentita invadere dal panico, i sensi all’erta, il respiro affannoso. Si era alzata di scatto e con un sorriso forzato aveva detto di essersi dimenticata un libro in biblioteca, di dover correre prima che chiudesse. Era uscita in fretta, la faccia frustata dal gelido vento di ottobre. Quell’impulso di puro desiderio carnale l’aveva sconvolta e lasciata senza fiato.
Mio Dio, cosa mi sta accadendo? Cosa mi sta-
Era stato come ricevere uno schiaffo in faccia. Aveva capito e si era sentita franare il terreno da sotto i piedi.
Aveva vagato a lungo quella sera, e quando era tornata aveva trovato Elsbeth a casa, la stessa Elsbeth che aveva lasciato.
Era lei ad essere cambiata.

Come per magia la coscienza inverte i ruoli:
da vittima a responsabile dei tuoi stessi mali.
[Linea 77 - Inno all’Odio]

«Come va?»
Judith era entrata silenziosamente in quella casa che la riconosceva ormai come sua padrona - nessuno scricchiolio aveva tradito i suoi passi, nessun fruscio aveva rivelato la sua presenza. Era affascinante, quasi, vedere come quell’ambiente si fosse abituato alla sua figura, come l’aria si piegasse docile al suo passaggio; come se fosse lei stessa parte di quelle mura. Non ci aveva mai fatto caso con Elsbeth, perché avevano preso insieme l’appartamento ed era diventato loro nello stesso momento; era normale alzarsi e vederla preparare la colazione, dover capire di chi fosse un vestito, poi decidere che non importava e metterselo comunque, o ancora scambiare il suo terribile latte di soia con uno normale. Era anche questo ciò che le mancava, ciò di cui lei si era privata - e di cui aveva privato quelle stanze.
«Va…»
Si risparmiò lo sguardo scettico di Judith, rimanendo a occhi chiusi. Non sarebbe stata in grado di dover combattere ancora solo per l’aver detto una piccola menzogna. Amava le bugie, rendevano l’inferno un po’ più confortevole - e non capiva che in realtà lo facevano diventare sempre più caldo.
«Usciamo».
«Oh, no…»
Seriamente, come poteva proporle una cosa simile? Il solo pensiero di alzarsi le faceva girare la testa, figuriamoci quello di andarsene a passeggio tra gente radiosa e spensierata; era doloroso quanto una coltellata nel costato. Non era ancora pronta ad accostarsi alla bellezza, alla purezza. Alla felicità.
«Marike, forza. Ti giuro che non me ne vado se prima non mi prometti di accompagnarmi a fare un giro».
Aveva premuto con forza un braccio sugli occhi, per impedire alle lacrime di sgorgare. Perché le faceva tanto male? Perché voleva costringerla?
«Non sono pronta».
«Non lo sarai mai, se non ti alzi».
Judith le aveva accarezzato il volto con quelle sue dita gentili e fredde, che a contatto con il suo viso congestionato sembrarono tracciare delle linee invisibili sulla pelle. Aveva continuato a sfiorarla, a passarle le mani tra i capelli, finché Marike non aveva scoperto lo sguardo umido.
«È proprio necessario?»
Judith aveva annuito con un sorriso triste, e le aveva dato una mano per aiutarla a sollevarsi. La prolungata posizione supina le aveva fatto addormentare i muscoli, quindi ebbe qualche difficoltà con l’immediato senso di vertigini, ma quando ebbe finito di prepararsi già andava meglio. Mentre era in bagno, Judith aveva aperto le finestre e aveva lasciato che i raggi del sole cadessero obliquamente sul suo letto, che l’aria viziata cambiasse. Si era fatta coraggio, pensando che bisogna sempre iniziare con piccoli passi.
«Ce la farai», le aveva sussurrato Judith, prendendole una mano e scortandola fuori. Marike, in tutta onestà, non sapeva se crederci.

E poi ci sono quelle volte che mi do fastidio da solo,
ma cosa devo fare per farmi andare bene?
Testate contro il muro o preferisci uscire
da questa apatia generazionale del cazzo,
alimentata a strisce per meglio scappare da una realtà di fatto?
[Linea 77 - Il Mostro]

Di cosa si era innamorata? Di quale caratteristica di Elsbeth?
Le bastava sentire il suo profumo per sentirsi completamente spaesata. La sensazione del suo corpo caldo così vicino a lei la ossessionava, ma nello stesso tempo non riusciva ad immaginarsi come due fidanzate. Non riusciva a considerare la relazione tra due donne come una cosa giusta, ma questo solo perché sapeva che non lo era per Elsbeth. Aveva il terrore di ciò che sarebbe accaduto se lei avesse saputo dei suoi sentimenti, perché qualsiasi scenario potesse immaginare andava ben oltre al semplice rifiuto. Era l’annientamento di sé, della sua persona.
Aveva sempre sentito dire che quando ci si innamora di una persona si vede tutto rosa. Il classico cinguettio degli uccellini, la felicità nel cuore. Ebbene, lei non aveva mai provato nulla di tutto ciò. Si era resa gradualmente conto di amarla, e un giorno aveva sognato che condividevano quel tipo di relazione che mai avrebbero potuto avere nella realtà. Gliene aveva parlato con il riso sulle labbra ma l’angoscia nel cuore, studiando la sua reazione con profonda attenzione. Elsbeth aveva sorriso e aveva fatto una battuta, ma c’era stata una smorfia sul suo viso. Era in tutto quell’attimo che Marike aveva compreso fino in fondo la tragicità di ciò che stava accadendo. Era iniziato un processo la cui conclusione non comportava altri esiti che la sua perdita, e non era nemmeno in grado di fermarlo. Oh, se solo avesse potuto mettere un bavaglio al profondo grido di dolore dentro di sé! Se solo avesse potuto eliminare i suoi sentimenti come un cancellino passato su di una lavagna… sarebbe tornato tutto come prima. Tutto come doveva essere, tutto come sarebbe sempre dovuto essere. Perderla era ben più doloroso che l’amarla senza avere alcuna speranza.
Questo suo affetto degenerato (il termine degenerato era essenziale, per lei, per l’accezione negativa che ne dava) era stato una condanna dal primo momento in cui era nato. Un sentimento scomodo, che l’aveva resa solo più infelice e sola, e che non poteva confidare a nessuno. Aveva il terrore che qualcuno ne venisse a conoscenza, perché c’era gente che le voleva bene abbastanza da spingerla a dichiararsi, convinta che ciò l’avrebbe fatta stare meglio. Ma liberarsi del peso l’avrebbe privata della sua presenza e questo, ormai le era chiaro, non era una condizione accettabile.
Era iniziata così una lotta con sé stessa che l’aveva lasciata stremata. Aveva portato tutto dentro di sé, silenziosamente, per mesi e mesi, incupendosi pian piano e non lasciando che nessuno venisse a contatto con la sua disperazione. Era arrivata al punto di odiarsi. Perché era fatta così? Perché si era innamorata a quel modo? Perché, di tutta la gente che conosceva, proprio di lei?
Aveva elevato Elsbeth ad uno status di totale innocenza, che lei aveva il compito di preservare. Se ne era allontanata inconsciamente, senza volerlo, probabilmente per non farla stare a contatto con tutto ciò che di sbagliato aveva dentro di sé. Poi era semplicemente accaduto che aveva aperto gli occhi, una mattina, e si era resa conto che il suo peggior incubo era sopraggiunto da molto. Si era già allontanata, e Elsbeth l’aveva lasciata fare. Non l’aveva trattenuta.

E cammino a testa bassa, nell’incertezza
che mi porto sempre a fianco:
falsa e vigliacca, mi consiglia
l’ennesima rinuncia, l’ennesima condanna
a un sogno appena accennato.
[Linea77 - Vertigine]

«Elsbeth, tu pensi che siamo ancora unite come un tempo?»
Lei l’aveva fissata dalla tavola della cucina, disseminata di libri su cui stava studiando. Aveva fatto scattare la penna un paio di volte e poi l’aveva posata, passandosi una mano fra i lunghi capelli scuri.
«No, non lo penso».
In quel momento Marike si sentì letteralmente investita da un’ondata di gelido dolore. Come se dell’acqua le premesse sul viso, senza farla respirare, come se qualcuno l’avesse appena presa a pugni nello stomaco.
«E tu credi si possa rimediare?»
Elsbeth aveva chinato il capo, ed erano trascorsi molti istanti di silenzio; una totale agonia.
«Non credo. Sei cambiata, Marike. Non sei più la persona che conoscevo».
Marike deglutì a fondo, la salivazione aumentata improvvisamente come prima di un attacco di nausea. Dopo tutto… Dopo tutto quello che aveva dovuto sopportare per lei, per poterle stare accanto, Elsbeth non riusciva a sopportare l’idea di lei che stava male. Era cambiata? Certo. Era cambiata a tal punto che nessuno sarebbe più stato in grado di starle vicino?
Non esisteva risposta.
Provò una rabbia cocente. Come poteva essere così superficiale da non capire? La gente fugge dal dolore, anche da quello altrui. È una reazione istintiva, e l’aveva sempre accettato; ma poteva accettarlo da tutti, non da lei.
«Mi dispiace di essere diventata così, ma non posso farci niente».
Era diventata così per lei. Solo per lei. Pensava fosse stata una scelta facile?
«Marike, a dire la verità c’è qualcosa di cui volevo parlarti. Sono diversi mesi che esco con Luke, e mi ha chiesto di andare a stare da lui per un po’. Sai, per provare a vedere come sarebbe una convivenza. Non credo che a te dispiaccia, vista la tua attuale misantropia».
Quanto dolore. Quanto dolore, tutto insieme. Marike la guardò con una sorta di apatia, e fece un cenno d’assenso con il capo.
«Per me puoi andartene anche subito».
Era tornata in camera e aveva aperto l’anta dell’armadio, osservando la sua figura nello specchio. Dimagrita, pallida, l’aria stanca e sfinita. Lo sguardo spento.
Dio, lei non aveva mai avuto uno sguardo spento.
Elsbeth aveva ragione. Dov’era finita?
Chiuse lo sportello, insofferente davanti alla prova della sua debolezza. Era solo colpa sua, non aveva saputo essere abbastanza forte. Elsbeth la stava facendo allontanare, e lei la lasciava fare, perché sentiva di non aver bisogno di qualcuno che non era in grado di affrontare i profondi baratri in cui poteva cadere.
L’aveva fatto per lei. L’aveva fatto per amore. Si era distrutta, sgretolata, aveva fatto a pezzi il suo cuore pur di non perderla. L’adorava a tal punto che aveva cercato di smettere di amarla. Tutto in lei urlava: “Guardami, guardami! Guarda cosa mi ha fatto questo amore! Guarda cosa mi hai fatto tu! Guarda come mi hai ridotta!” (*)
Elsbeth se ne era andata la mattina dopo.

Rifletto dentro uno specchio la mia faccia
mentre il freddo in questa stanza
è come la stretta di un gigante che mi abbraccia.
Un brivido mi afferra la gola per buttarmi giù,
c’è il letto vuoto ed il silenzio sul quale scivolo.
Ma non le vedi? Parole che ti rotolano addosso.
La vita ride di te e tu fissi i tuoi stessi piedi.
[Linea77 - Il Mostro]

Ciò che amava di Judith era soprattutto la sensazione che, qualunque cosa avesse potuto fare, lei le sarebbe sempre e comunque rimasta accanto. Credeva fosse piena di pietà, di umanità, di quella tolleranza verso i peccati che non poteva propriamente definire bontà. No, Judith non era una persona buona, non nel senso stretto del termine. Era una persona bella, ma non buona. Riusciva a perdonare gli altri, ad analizzare il loro comportamento, proprio grazie a quella sorta di indifferenza che vigeva dentro di lei. A meno che una persona non facesse volutamente del male all’altra, questo non la interessava minimamente. Marike non capiva se fosse una cosa positiva, perché sapeva che fine facevano le falene attratte dalla luce. Ed era così che si sentiva, come una brutta farfalla il cui destino era quello di bruciarsi le ali; e, pur essendone a conoscenza, non faceva altro che continuare a volarle intorno, consapevole che quella era ormai l’unica cosa per cui valeva la pena sopravvivere.
Le voleva bene, le voleva immensamente bene. Non era certa di ciò che provava, perché dopo aver tentato tanto a lungo di reprimere il suo amore per Elsbeth - aveva avvelenato la terra in cui quel bellissimo fiore era stato piantato, facendo spuntare un germoglio già marcio ma resistente, che aveva continuato a crescere, testardo e orribile a vedersi - non era facile accettare di poter amare qualcun altro. Non si ricordava più com’era il desiderare di dimostrare a qualcuno il proprio affetto, a volte nemmeno le importava più. Judith sarebbe stata lì per lei, per sempre, e questo intorpidiva la sua coscienza. Non aveva voglia di esporsi, non di nuovo, e quindi viveva in bilico, indecisa da quale parte cadere - perché sarebbe inevitabilmente caduta, prima o poi. Ciò che ancora non aveva colto era la sofferenza di Judith, perché, benché limpida, aveva un altro colore dalla sua. E Marike al momento era troppo egoista per poter pensare anche al dolore altrui.

Mi sembra inutile restare
sospeso tra l’ebbrezza e la vertigine
di una scelta inevitabile:
restare immobile non mi salverà.
[Linea 77 - Evoluzione]

Judith continuava a maneggiare le carte, e Marike era rimasta colpita dall’estrema concentrazione che vi metteva nel posarle l’una sull’altra. Erano già un paio di volte che quel castello crollava su sé stesso, ma lei non perdeva la calma; semplicemente, ripuliva il tavolino e ricominciava daccapo, come se fosse un compito estremamente importante da portare a termine. Come se quello non fosse solamente un gioco.
Per un attimo si chiese il perché di tanta cura, siccome era chiaro ci dovesse essere un altro motivo, ma non formulò la domanda. Ognuno di noi ha le proprie piccole manie, le abitudini che ci permettono di restare ancorati alla realtà e di non impazzire, che siano l’avere un bicchiere d’acqua sul comodino la sera prima di andare a dormire, il caffè la mattina o la fede nuziale sempre al dito. Misere azioni che ci fanno sentire meglio.
Violarle sarebbe come violare la persona stessa.
«Stasera resti qui?», le domandò, sentendosi patetica. Perfino la sua sola presenza era in grado di farla stare meglio, e sapeva che non sarebbe mai dovuto essere così. Era Marike stessa l’unica persona che poteva aiutarla, ma non aveva ancora capito il procedimento da usare. Judith alzò gli occhi dal suo lavoro e rispose:
«Per me va bene, l’unico impegno che ho domani è verso sera».
Marike annuì e andò a preparare la cena. Aleggiava una strana atmosfera, carica di elettricità, forse dovuta al temporale in arrivo. L’aria era pesante, greve, umida. Asfissiante. Si appoggiò al lavello e si passò una mano sulla fronte; la testa le girava, le ginocchia le tremavano. Sarebbe accaduto qualcosa, quella notte. Dopo tanti mesi, Marike aveva imparato ad odiare i cambiamenti improvvisi. Solitamente lasciano dietro di sé solo la più totale devastazione.
Quando tornò in salotto per annunciarle che era tutto pronto, si bloccò prima di aprir bocca. Judith se ne stava seduta lì, totalmente vulnerabile, chinata sulle proprie ginocchia, la nuca scoperta e pronta al colpo finale. Davanti a lei si ergeva l’unico castello di carte che avesse mai visto in vita sua, e in fondo non si stupì del fatto che vi fosse riuscita; non era il tipo di persona che potesse fallire.
Ecco perché vederla così esposta la lasciò tanto turbata. Che la sua figura di scintillante diamante fosse in realtà fatta di fragile cristallo?
«Judith…», mormorò, incerta. L’altra alzò il capo e le sorrise.
«Arrivo».
Già, Judith ci sarebbe sempre stata, pur se questo le avrebbe fatto del male. Perché la sua non era una luce che poteva essere spenta.

Dovrei passare tutta la vita a pensare alle cose che ho,
alle cose che vorrei,
al modo di raggiungerle
e poi a come difenderle?
Ma io non so cosa avevo prima
e non so quello che ho adesso.
[Linea 77 - Fantasma]

Si era svegliata con un singhiozzo rinchiuso in gola, la sensazione di star soffocando. Aveva urlato nel sonno, se ne era resa conto solamente quando Judith era arrivata di corsa e l’aveva stretta a sé, cullandola finché il respiro non era tornato normale. Il corpo teso, gli occhi ancora pieni del corpo di Elsbeth steso su quel letto, immobile, bianco come non lo era mai stato, con una lunga cicatrice che le attraversava il volto perfetto.
«Che cos’ho fatto, che cos’ho fatto…», gemette, e la sua non era una domanda, solamente una constatazione. Gli occhi di Judith ebbero un guizzo violento, mentre si sforzava di controllarsi.
«Era solo un sogno, Marike. Ora calmati, smettila di farti del male».
Judith le aveva preparato una tisana ed era tornata in salotto, lasciandola studiare in pace, benché fossero le due di notte, perché sapeva che questo era l’unico modo per smettere di pensarci. Prima o poi la stanchezza l’avrebbe vinta e l’avrebbe fatta sprofondare in un lungo torpore privo di incubi.
Ma questa non era la soluzione, si disse, seduta per terra, guardando negli occhi la regina di cuori, padrona del castello. Neanche dimenticare era la soluzione, doveva solo perdonarsi. Ma Marike era troppo umana, troppo buona per farlo. Amava troppo per odiare qualcuno che non fosse sé stessa. Si massaggiò le palpebre e avvertì la sensazione che qualcun altro fosse insieme a lei in quella stanza; si voltò di scatto e si irrigidì immediatamente.
Judith non aveva mai visto Elsbeth, non di persona, ma quando le si presentò davanti seppe già di odiarla profondamente. Era persino più bella delle fotografie che Marike ancora teneva in giro per casa, e soprattutto era lì, era presente. Faceva più paura del fantasma perlaceo che Marike evocava.
Sembrava sorpresa di trovare qualcuno, ma il primo attimo di sconcerto lasciò spazio ad un sorriso. «Marike dorme?»
Annuì, rimanendo a fissarla placidamente. Dentro ribolliva, ma non era sua abitudine far capire agli sconosciuti ciò che in realtà pensava; non era un vantaggio che era disposta a perdere. L’altra si guardò intorno e poi si diresse verso uno scaffale, prendendo in mano una vecchia e consumata copia di Anna Karenina. Judith continuava a fissarla dal basso, con quell’aria indifferente e al contempo sospettosa che i cani assumono quando il loro territorio viene invaso; la calma ferocia di un animale che, se avvicinato troppo, sarebbe saltato alla gola del nemico. «Ero solo venuta a prendere questo, era di mia madre e ci sono parecchio affezionata… Per la fretta del trasloco l’avevo lasciato qui, non me ne sono accorta prima di mesi».
Judith di nuovo non rispose. Non si sentiva a disagio, ma voleva che lei invece provasse quella sensazione. Era venuta di notte, introducendosi come una ladra, senza avere il coraggio di affrontare Marike direttamente. Si ripeté che effettivamente non era colpa sua se non era lesbica o non poteva corrisponderla, o addirittura per quell’altra cosa, ma questo non l’aiutò a farla sentire meno arrabbiata. Aveva assistito al pianto di Marike, alle sue lacrime, al suo dolore, alle giornate in cui si sentiva talmente distrutta che non si sarebbe alzata dal letto neanche per prepararsi da mangiare. E la causa di tutto questo, pur se inconsapevole, era lì, ora, e si comportava come se nulla fosse accaduto. Dov’era lei quando Marike invocava il suo nome? Dov’era lei nelle notti in cui il sonno tardava a venire ad alleviare quell’orrenda sensazione di inadeguatezza e di angoscia?
Judith odiava non riuscire ad essere razionale, ma per una volta tanto non le importava.
«Vattene. Non fai più parte di lei».
Elsbeth la fissò a lungo, seriamente, prima di aprirsi in un sorriso ironico.
«Io ne farò sempre parte. Io continuerò sempre ad essere dentro di lei, per quanto tu possa odiarne l’idea».
Continuava ad aggirarsi per la stanza, sfiorando gli oggetti che una volta erano stati anche suoi, finché non le si ritrovò di fronte. Si mise seduta sulla poltrona davanti a lei, con il libro stretto fra le braccia, l’aria di sfida.
«Elsbeth, sei tu la morta, non lei. Vattene e lasciala in pace».
La donna si fissò con aria noncurante le unghie, e Judith si sentì invadere da un’ondata di profonda frustrazione. Forse aveva ragione. Forse davvero non c’era modo per farla sparire definitivamente.
«Sai benissimo che non dipende da me. È lei che continua a riportarmi alla mente, e non esiste un modo per evitarlo».
Il castello di carte costruito qualche ora prima si stagliava tra le due figure, come a creare una barriera - ma chi era ad averne più bisogno?
Judith abbassò lo sguardo e mormorò:
«Non è stata una sua responsabilità. E non puoi davvero sapere se non sarebbe accaduto comunque, una volta andatatene di casa».
Anche Elsbeth chinò il capo. In fondo, non erano altro che due donne innamorate - l’una della vita, l’altra della devastazione.
«Non gliene ho mai fatto una colpa. Questo non mi fa meno male, ma non gliene ho mai fatto una colpa».
«E allora aiutala a tornare a vivere. È il minimo che tu possa fare».
Guardando quella testa piegata improvvisamente capì. Neanche Elsbeth voleva davvero separarsi da Marike. Questa consapevolezza la ferì e la commosse nello stesso tempo. Perché, perché era così difficile lasciarsi il passato, le persone, dietro le spalle? Forse perché i legami sono l’unica cosa che ci mantiene vivi. Forse perché siamo fatti di legami; di legami, di ricordi e di sogni.
«Amala. Amala anche da parte mia».
Judith annuì, ma sapeva che non l’avrebbe fatto. Bastava il suo, di amore, per riempire quel piccolo corpo fino a farlo scoppiare.
Quando riaprì gli occhi scoprì di aver pianto nel sonno. Seduta sul tappeto, la schiena contro il divano, aveva finito con l’addormentarsi senza nemmeno rendersene conto, le braccia serrate attorno al busto. Improvvisamente, aveva freddo.
Si alzò in piedi e, nel farlo, notò che il castello di carte era franato su sé stesso. Questo le provocò una stretta al cuore e si sentì tremendamente triste. Quelle rovine di cellulosa plastificata erano l’emblema di quale fine? Delle sue speranze? Di Elsbeth? Doveva rassegnarsi oppure combattere, ancora e ancora?
Ripensò a Marike, al suo sorriso, alla sua infinita bellezza. Era stanca di vederla soffrire, era stanca di vederla lasciarsi trasportare dalla corrente. Avrebbe fatto di tutto perché riuscisse ad ottenere la parte di felicità a cui tutti noi siamo destinati.

Vorrei sentire la tua voce gridare, tentare, sbagliare;
non sopporto più di vederti morire ogni giorno innocuo e banale.
[Linea 77 feat. Tiziano Ferro - Sogni risplendono]

Judith entrò silenziosamente in camera di Marike, come tante volte aveva fatto in quei mesi. L’altra stava semi-sdraiata a letto, cercando di tradurre un’intervista in tempo reale, esercizio che faceva spesso per tenersi in allenamento; il portatile sulle gambe, le cuffie per non disturbare il silenzio della notte, l’aria concentrata e tesa. Non c’era di che stupirsi se non si era accorta di nulla. Alzò appena lo sguardo e le sorrise, senza smettere di battere sulla tastiera.
Judith cominciò a sbottonarsi piano la camicetta, arrivò alla fine della fila e la sfilò dai jeans scuri; abbassò la cerniera e si tolse anche quelli. Marike nel frattempo si era resa conto che stava accadendo qualcosa di strano e si affrettò a togliersi l’apparecchiatura dalle orecchie, spegnendo il computer e mettendolo da parte. Provò a chiederle qualcosa, ma Judith continuò a spogliarsi in silenzio, finché non rimase completamente nuda. Marike tentò ancora una volta di intervenire, ma la bocca era talmente secca che non vi riuscì; d’altronde, nel giro di pochi secondi era stata talmente assorbita dal corpo privo di difese dell’altra, così bianco, da considerare marginale qualcosa di insignificante come il perché delle sue azioni.
Judith si avvicinò al letto e vi salì con le ginocchia, posizionandosi sopra l’altra, lasciando che la sua femminilità si andasse a posare sullo stomaco. Era mortalmente seria quando le prese una mano e la posò su uno dei suoi fianchi.
«Da quanto tempo non fai l’amore con qualcuno?»
Marike sgranò gli occhi e poi arrossì. L’ultima volta che era stata con un ragazzo risaliva a prima che si riscoprisse innamorata di Elsbeth, quindi… tanto, troppo. «Da quanto tempo desideri toccare una donna? Da quanto tempo non ti basti più?»
Judith aveva sussurrato quelle domande senza smettere di fissarla. Guidò la sua mano fino ad uno dei due piccoli seni, la aprì e la lasciò lì. Marike spostò più volte lo sguardo dai suoi occhi al suo seno, momentaneamente ipnotizzata da quei suoi gesti. Sentiva il cuore battere all’impazzata, il sangue risalire alla testa con ondate violente e dolorose, un fastidioso ronzio nelle orecchie che le impediva di ragionare con lucidità. Judith era bellissima - Cristo, era davvero bellissima - ed era la prima volta che la vedeva totalmente nuda. Questo bastava per farle mancare il fiato.
Judith si alzò leggermente per sfilare da sotto di sé l’orlo della lunga maglietta che Marike utilizzava come pigiama e la aiutò a toglierla. Ora il suo sesso era completamente a contatto con la pelle liscia dello stomaco, zona che sembrò andare a fuoco. Judith le sganciò anche il reggiseno sportivo, che aveva la chiusura laterale, e si chinò su di lei fino a far premere i loro seni caldi, fino a mormorare al suo orecchio:
«Ti farò urlare così tante volte il mio nome che crederai sia il tuo».
La baciò e il gemito di Marike si perse nelle loro bocche. Per un momento ebbe la tentazione di fuggire via, ma qualcosa nella veemenza di Judith la fece desistere. Riconobbe la stessa disperazione, la stessa angoscia che l’avevano soffocata quando nei suoi sogni faceva l’amore con Elsbeth ed era perfettamente consapevole che non rappresentavano la realtà. Quanto aveva sofferto, in realtà, nello starle accanto senza poterla raggiungere? Non avrebbe potuto farlo, non prima che Marike fosse totalmente guarita, almeno. Questa presa di coscienza la colpì a tal punto che si commosse. Le prese il viso con le mani e la guardò, sussurrando sulle sue labbra, mettendo a tacere le proteste che già stava per manifestare per essere stata allontanata da lei.
«Non c’è nessuna fretta. Abbiamo tutta la notte davanti».
Per la prima volta da quando la conosceva, Judith le rivolse uno sguardo umido. Le baciò piano le palpebre e poi le prese la mano che aveva appoggiato sul suo petto, sfiorandone i polpastrelli con altri piccoli baci. Judith chiuse gli occhi e appoggiò la fronte contro la sua, lasciando andare il gemito di dolore che aveva sempre trattenuto - da quanto? Settimane? Mesi? Dalla prima volta che l’aveva vista?
Marike l’abbracciò e la strinse forte a sé, per farle comprendere che aveva capito. Che aveva capito davvero.

Quando quella mattina si svegliò e sentì i capelli biondi di Judith accarezzarle la spalla, Marike provò talmente tanta felicità che credette di poter scoppiare. Pianse silenziosamente, ma Judith si svegliò e se ne accorse. L’abbracciò e rimase lì, stretta a lei, a contatto con il suo cuore.
Judith aveva visto fino in fondo tutta la sua desolazione e la sua vera essenza. Ed era rimasta.

Ora dimmi che non avrò paura,
che quando il buio arriverà sarò pronto a guardarmi in faccia.
Ora dimmi che non sarò da solo,
che tenderai la mano per salvarmi
dal vuoto in cui mi trovo.
[Linea 77 - Vertigine]




Ovviamente, Judith non vede davvero il fantasma di Elsbeth. È solo un frutto della sua immaginazione, partorito durante il dormiveglia; ha riversato in questa sorta di sogno le sue speranze e le frustrazioni.
Sono convinta che le risposte alle domande che abbiamo siano già contenute in noi, basta trovarle: ecco perché ho fatto riaffiorare certi dubbi e domande, perché in realtà Judith sa cosa deve fare.
Elsbeth è morta? Non è morta? Volutamente ambiguo, anche se la risposta è chiara, ci sono vari indizi che lo confermano, disseminati qua e là.
Credo sia tutto; al solito, consiglio l’ascolto delle canzoni
citate (soprattutto Not strong enough, degli Apocalyptica ♥).
Salut!

Edit: Questa storia si è classificata seconda al contest Titoli per l
amore indetto da signorino__. Di nuovo, un grazie di cuore alla giudice e a My Pride che ha sfornato dei banner assolutamente meravigliosi, e i miei migliori complimenti alle altre partecipanti, soprattutto alla mia amata Sore che si è classificata prima (tiè, lo sapevo!).
Edit2: Questa storia si è classificata seconda anche al contest Not strong enough indetto da visbs88, che è stata velocissima a giudicare *_* Si è anche aggiudicata il premio Apocalyptica e questo mi riempie di amore (XD), dato che io li adoro e venero. Davvero bravissime alle altre partecipanti, podiste e ad Ely79, senza dubbio :) 
f

   
 
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