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Autore: Cloorophilla    09/06/2011    0 recensioni
Un urlo disperato, uno schifosissimo sfogo su un immacolato foglio bianco, il tentare di domare una bestia che si agita dentro da tanto, troppo tempo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Welcome to my life

 

Do you ever feel like breaking down?/ Do you ever feel out of place?/ Like somehow you just don’t belong/ And no one understands you/ Do you ever wanna run away ?/ Do you lock yourself in your room ?/ With the radio on turned up so loud/ That no one hears you screaming.

  Ci sono alcune canzoni che sembrano scritte apposta per noi. Ecco, questa è una di quelle, scritta apposta per me, su misura come un bel vestito. In 3:22 sono racchiusi i sedici anni della mia esistenza, il più breve riassunto che sia mai stato creato. Mi piace immaginare la mia vita come una tela infinita ad acquerelli; fino ad ora il colore che predomina è il grigio, quel grigio scialbo e slavato che ricorda tanto la bruma che talvolta si degna di ricoprire pietosamente quell’ammasso di insulsi fantocci che è più comunemente detto città. Qua e là ci sono sprazzi più chiari, in qualche raro caso arrivano al bianco, nella maggior parte tendono al nero. Strano che ora il nero sia il mio colore preferito: mi ha sempre spaventato con quella sua tonalità così carica, viscosa e abbacinante, la stessa che mi avvolgeva quando chiudevo gli occhi per non vedere e tappavo le orecchie per non sentire. Non ci sono persone sulla mia tela, nessuno è degno di apparirvi, neppure come ombra fugace; con qualche sforzo si scorgono contorni sfumati riconducibili a luoghi, per lo più alberi dai rami intricati, come la mia mente. A volte l’ingarbuglio dei miei pensieri mi spaventa e forse è per questo che cerco sempre di tenermi occupata: studio, leggo, faccio sport, tutte attività che richiedono massima concentrazione, che equivale a nessuna via di fuga. Purtroppo capitano momenti in cui non hai la forza di impegnare anima e corpo in qualcosa che ti impedisca di soffermarti a riflettere su quello che ti accade, che ti è accaduto e che ti accadrà e questi sono i momenti peggiori, perché quando la diga si rompe ci vogliono metri e metri prima che le acque assumano un andamento tranquillo e regolare, metri durante i quali c’è la possibilità che l’acqua possa uscire dagli argini e travolgerti.

   Ma queste non sono che elucubrazioni di una persona troppo chiusa, troppo sola e troppo incompresa, che quando inizia a scrivere riversa sulla carta in maniera confusa tutto ciò che vorrebbe riversare sul mondo, ancora troppo ostile per essere degno di raccoglierlo. Lo so, pecco di presunzione, ma una smisurata autostima a volte è l’unica cosa che ti sorregge, impedendoti di cadere nel baratro dell’apatia, di amalgamarti alla massa di automi privi di volontà che popolano questo insulso mondo. Mi sento come un alieno sceso sulla Terra, o meglio, come un umano approdato su Marte: totalmente fuori luogo in ogni luogo, da casa, a scuola, alla piazzetta illuminata dai lampioni il sabato sera. Triste, qualcuno potrà pensare, ma non sempre è così. C’è una sorta di perversa ed insana soddisfazione nel constatare l’abisso che si estende fra te e gli altri, ologrammi di una società in via d’estinzione, che s’incammina veloce verso l’autodistruzione.

   Pensare che fino a qualche anno fa avrei dato tutta la mia non indifferente intelligenza per essere come uno dei miei tanti stolti compagni, per vivere nella loro casa, avere i loro genitori, giocare con i loro giochi; ora mi rallegro che i desideri siano solo parole vuote, pronunciate in un eccesso di gioia, o tristezza. Non che ora non ne esprima, ma si sa, i vizi sono duri a morire. Adesso, ogni mattina, mi sveglio e inizio a recitare, fino a sera, quando poso la maschera sul comodino e faccio il bilancio della giornata, crogiolandomi in quei pochi attimi di beatitudine e assaporando il gusto amaro delle solite delusioni. Giusto ieri pensavo ad una cosa: è buffo come nell’immaginario collettivo la ricchezza sia sinonimo di felicità e appagamento, come se davvero i soldi potessero comprare un sorriso o chissà, un’amicizia vera. Io ne sono l’esempio più lampante: famiglia benestante, per non dire disgustosamente ricca e zero persone in cui riporre anche solo un misero briciolo di fiducia. Fin da quand’ero piccola sono sempre stata un po’ emarginata, un po’ volontariamente, un po’ perché gli altri, dopo i primi approcci infantili e chiassosi, vedendo che non rispondevo con lo stesso tono, mi lasciavano in pace; a ciò va aggiunto, col passare del tempo, la consapevolezza delle persone che mi circondavano che ero “troppo matura per la mia età”, frase che continua ad essermi ripetuta alla nausea ancora adesso. Con il passar del tempo la differenza fisica rispetto agli altri aumentava di apri passa con quella comportamentale; i miei compagni di svago divennero sin dall’asilo i libri, l’unica porta che si apriva su un mondo fatto su misura per me, dove ogni volta potevo impersonarmi in qualcuno di diverso, di accettato da tutti: una volta ero Robin Hood che guidava i suoi allegri compagni in scorribande per i boschi, una volta ero l’eroina che lottava a fianco di draghi ed elfi contro il cancro maligno che minacciava di devastare il mondo, un’altra ancora ero un’orfanella che cresceva da sola, imparando a sopravvivere e a disprezzare tutto e tutti. Era, ed è tutt’ora, il mio nascondiglio, la dimensione parallela in cui so sempre di potermi rifugiare, per qualsiasi cosa; è un po’ come un balsamo con cui curare lenire tutte le ferite, una sferzata di vita paragonabile alla boccata d’aria che ti infiamma i polmoni dopo che hai nuotato a lungo sott’acqua. Spesso la uso come una droga, specialmente dopo che parlo con i miei, o meglio, tento di parlare, perché la maggior parte delle volte il mio tentativo si riduce ad un umiliante monologo con la copertina di un quotidiano aperto sulla pagina politica, le mie parole spente che s infrangono contro l’invalicabile muro dell’indifferenza, e, cosa ancora peggiore, contro vuote parole di cortesia, prive di colore che si amalgamano sulla mia tela, compattandone la trama. Questa è una peculiarità dei miei: trattare tutti, dalla domestica al cane dei vicini, con affettata cortesia, addirittura quando litigano non esplodono mai, limitandosi a sfiorare appena il limite. Benché fin da piccola affascinata dal mondo precluso ai più della casta degli avvocati, vedendo il comportamento dei miei genitori, la mia determinazione ad entrare a farne parte ha più volte vacillato; se diventassi come loro? Se raggiunta la fama, la popolarità, la “gloria”, mi riducessi ad essere una loro copia?  Ecco a cosa serve l’autostima: ad avere il coraggio di andare avanti, sostenuti dalla consapevolezza delle proprie capacità e poco importa che ciò sia da egocentrici...almeno non aggiungo al mio fardello anche quello della debolezza.

A volte, quando non posso infuriarmi con nessuno, lo faccio con me stessa; questo capita quando prendo un voto inferiore rispetto a quello che mi aspettavo in base all’impegno nello studio, quando commetto stupidi errori di distrazione, quando intorno a me non vedo che ingiustizie e soffro, quando sono lacerata tra cuore e mente, quando non posso dare la colpa che a me. Quando, a dispetto di tutti i miei principi più saldi, a dispetto di tutte le parole cariche di frustrazione che mi rimbalzano nella mente, mi comporto da stupida,o meglio, il mio cuore lo fa. Sì, credo sia lui il mio peggiore antagonista, uno stupido ma essenziale organo che inietta sostanze malefiche nel sangue che pompa ininterrottamente al cervello, mandando in tilt tutte le mie convinzioni. E lo so che è l’eredità lasciataci dalle belle favole a farci credere che sia davvero il cuore la sede di ogni emozione, ma non importa, per me è e rimarrà il più infido compagno. Mi obbliga a cadere in quel  baratro infinito che è l’affetto e, per quanto mi suoni falsa questa parola, l’amore. Perché per quanto mi sforzi, per quanto mi impunti, non riesco a non voler bene ai miei genitori, non riesco a non amare questo mondo che tanto disprezzo, non riesco nemmeno a non soffrire davanti all’ostilità degli altri nei miei confronti. Non riesco a non pensare a tutto questo, non riesco a smettere di sputare veleno appena apro bocca, non riesco a smettere di invecchiare dentro, un po’ come Dorian Gray, ma almeno lui aveva la sicurezza di mantenere intatte le apparenze, mentre io? Io non so quanto a lungo reggerò con questa lotta dentro di me, questa continua opposizione che ho paura mi porterà a diventare una persona disillusa, che vive di odio e rancore, che si attacca meschinamente a quelle poche muffite convinzioni. Perciò non mi rimane che vomitare tutto su questa manna chiamata foglio bianco, che accoglie i miei sconclusionati pensieri senza battere ciglio, senza sconvolgersi per la loro assurdità e mancanza di logica, e, soprattutto, che mi fa sentire libera e leggera ogni volta che finisco di vuotare la mia anima.

 

 

Se siete arrivati fin qui sbadigliando, maledicendomi per la mia tendenza ad usare metafore strampalate, consigliandomi mentalmente di smetterla di scrivere, grazie.

Se siete arrivati fin qui senza accorgervi delle righe che scorrevano, apprezzando anche solo un pochino il modo in cui ho cercato di esternare e di mettere nero su bianco dei sentimenti (la cosa a mio parere più difficile nello scrivere), se vi siete ritrovati in qualche frammento, doppiamente grazie.

Alexia

 

 

 

 

  
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