Scoop
Tutti i Miei Sbagli
Capitolo 1 – Rebels, Lovers,
Inmates
You’ve torn your dress, your face is a
mess,
you can’t get enough, but enough ain’t the test,
you’ve got your transmission and your live wire,
you got your cue line and a handful of ludes,
you wanna be there when they count up the dudes.
(David
Bowie – Rebel Rebel)
Si svegliò completamente soltanto quando qualcosa
di umido iniziò a strusciarsi contro la sua guancia. Nel buio dettato dai suoi
occhi chiusi, cercò di scostarsi da quello strano contatto, ma sorrise.
- Freddie, non ho voglia di una sveltina, sto
uscendo dal coma! – mugugnò.
Quando però la scia umida arrivò alla fronte,
Charlie notò che qualcosa non andava.
- Crêpe!
-
Quando aprì gli occhi, la visione del muso dell’enorme
labrador la accolse al posto del piatto “Buongiorno” che si sarebbe aspettata.
Crêpe
abbaiò, prendendola quasi in giro, prima di scendere con un balzo dal grande
letto a due piazze. Charlie sbuffò, guardandosi attorno un
attimo: la sua stanza era un disordine di idee e cianfrusaglie come al solito.
Sulla parete opposta alla testiera del letto, un enorme poster di Kate Moss in
topless, ma con un velo nuziale in testa, la fissava suadente.
“There
is only one Kate in London” recitava a caratteri cubitali. - Amen – sbuffò
Charlie. Si accorse solo allora del suono metallico e regolare che, prima del
suo cane, aveva disturbato il suo sonno già precario. I quadranti della sveglia
sul comodino alla destra del letto segnavano le 08:30. Digrignando i denti, la
ragazza strattonò le lenzuola fino a coprirsi il viso. La prima lezione della
giornata all’università sarebbe cominciata di lì a mezz’ora, e lei ne aveva
passato soltanto due a dormire.
Crêpe,
che si era accoccolato vicino alla porta, abbaiò ancora.
- Sì, sì! Mi alzo,
cazzo… Stupido sacco di pulci! – imprecò Charlie, prima di fare uno scatto inumano (almeno, per le condizioni in
cui si trovava il suo cervello) per alzarsi, sperando che lo sforzo fisico
lavasse anche solo in parte la patina di sonno che aveva addosso.
Ci vollero alcuni tentativi perché
riuscisse ad alzarsi in piedi. Il pavimento era ingombro di tanti piccoli
oggetti che, con la vista ancora gonfia di stanchezza, non fece altro che
calpestare nel percorso verso la porta. L’arredamento moderno e colorato che
lei stessa aveva scelto per la propria camera da letto incontrò spesso gli
angoli del suo corpo, suscitandole alcune bestemmie a dir poco fantasiose.
Uscì nell’ampio corridoio barcollando, con
Crêpe che trotterellava al suo seguito. Cercando di coordinare
ogni movimento senza sembrare un bradipo, si appoggiò alla porta più vicina a
quella della propria stanza. Da essa non proveniva nient’altro che la calma più
piatta.
Charlie bussò una, due,
tre volte, senza ottenere alcuna risposta. Rammentando a sé stessa il basso
livello della propria pazienza, la ragazza si diresse in bagno.
“Ho
un aspetto orribile”.
Non appena vide il proprio riflesso
nell’elaborato specchio sopra il lavandino, decise che era necessario un
intervento radicale. I capelli erano un groviglio di nodi e necessitavano di
una lavata, il viso era fin troppo simile ad un quadro di Picasso per i suoi
gusti. Non osò nemmeno immaginare in che condizioni fossero i suoi vestiti:
addosso non aveva altro che l’intimo e le calze nere della sera precedente.
Charlie si sedette sul bordo della vasca
idromassaggio, concentrandosi sul taglio al ginocchio nascosto dal bendaggio
improvvisato la scorsa notte; quasi non si ricordava come se l’era procurato.
Fece una smorfia addolorata quando vide la lacerazione della calza destra,
dalla quale aveva strappato la striscia di stoffa: un altro paio di parigine da
buttare. Incominciò a svolgere il tessuto da attorno al ginocchio, stringendo i
denti quando si accorse che questo si era appiccicato alla ferita.
Ascoltando lo sfrigolio dell’acqua
ossigenata che depurava il taglio, la ragazza dedicò qualche carezza a Crêpe,
che pazientemente aveva seguito le operazioni della padrona.
Stupido,
adorabile sacco pulcioso.
- Sei un rompipalle ciccione – disse sorridendo,
prima di soffocare uno sbadiglio. Soddisfatto per la ricompensa alla propria
fedeltà, il cane scomparve oltre la porta del bagno. Charlie sospirò, prima di
alzarsi in piedi ed entrare nella doccia.
- Evie, svegliati! – era passato più di un
anno da quando erano andate a vivere insieme, e quella scena era diventata una
tradizione che si ripeteva dopo ogni nottata brava. Lasciando una pozzanghera
d’acqua bollente sul pavimento, gridò a squarciagola nonostante l’emicrania
fastidiosa, bussando ancora una volta alla camera da letto di Evie.
Nessuna risposta.
Decidendo di far trascorrere i soliti
cinque minuti prima di andare a buttar già dal letto con violenza la
coinquilina, si recò in cucina. L’ampio open space dagli elettrodomestici
all’avanguardia era forse l’unico angolo pulito della casa, e soltanto perché
per la maggior parte del tempo rimaneva inutilizzato. Sistemando il candido
asciugamano che aveva drappeggiato attorno al proprio corpo, Charlie versò
nella prima tazza trovata il contenuto di una caraffa trovata sul ripiano in
marmo bianco, di cui non ricordava nulla.
Caffè freddo, probabilmente del giorno
precedente. Bevendo, la ragazza storse il naso.
Non aveva notato subito il bigliettino
stropicciato che giaceva sul ripiano centrale della cucina. Inzialmente,
l’aveva confuso con la visione linda di quello spazio, con i sensi alterati da
una sonnolenza che, di minuto in minuto, andava crescendo anziché calando. Le
ci vollero parecchie prese di coscienza, dettate da un’immotivata decisione,
per allungarsi ed afferrarlo.
“Mildred,
mi sono fatto dare un passaggio da un amico. Sai che non posso restare a
dormire da te con quell’assassino a piede libero. Ma mi
faccio sentire presto”.
Mentre ogni parola di quel breve messaggio
scorreva sotto i suoi occhi, la risata provocata dai vaghi ricordi della sera
precedente scaldò il suo cuore; sdraiato in un angolo, vicino alle proprie
ciotole, Crêpe alzò il
muso, guaendo la propria perplessità. Charlie si chinò sul cane, stringendo fra
le dita un sacchetto di croccantini aperto: mentre Crêpe
adorava Freddie, il ragazzo era allergico alla vicinanza di qualsiasi animale.
- Evie – aprire la porta della camera
della biondina significava ritrovarsi catapultati in una giungla; nonostante
ogni giorno Dina, la loro donna delle pulizie, cercasse di rassettare alla
meglio quel luogo, nel giro di ventiquattro ore questo tornava sporco come prima
– Evie, so che sei sveglia. -
Il groviglio di lenzuola lasciava
intravvedere la chioma disordinata della ragazza, che si ostinava a non
rispondere all’amica. Un’altra sagoma, molto più massiccia nella penombra
rispetto a Evie, giaceva profondamente addormentata e completamente nuda in
bilico sul bordo del letto.
Evidentemente Yorek, al contrario di
Freddie, aveva deciso di fermarsi a godere degli agi dell’appartamento.
- Anch’io ho dormito due ore, cogliona.
Abbiamo lezione, alzati adesso! – Charlie si avvicinò al letto, scuotendo le
lenzuola nel punto in cui presumeva si trovasse il corpo di Evie.
Un leggero “testa di cazzo” fu l’unica risposta.
Era tempo di ricorrere all’artiglieria
pesante.
- Bello, cucciolone – la brunetta tornò
indietro ad aprire la porta al passaggio di Crêpe,
che entrò scodinzolando allegro. Mentre il labrador annusava l’aria viziata
della stanza, la ragazza gli fece segno di saltare sul letto, battendo le mani
sul materasso. Se c’era una cosa che Evie odiava, erano i peli di cane sparsi
sul posto in cui dormiva. Se c’era una cosa che mandava in visibilio Crêpe
più della carne in scatola, era guadagnarsi uno spazio sui letti delle padrone.
Fu questione di pochi secondi.
- Charlie!
-
- Bravissimo, Crêpe!
– la velocità con la quale Evie si levò a sedere e cercò di togliersi di dosso Crêpe
tradì la finzione del sonno di qualche attimo prima. Charlie rise dell’amor di
pigrizia della coinquilina, mentre Yorek grugniva il proprio disappunto per le
urla isteriche di Evie, che per lui avevano rappresentato una sveglia reale.
- Troia – non appena fu riuscita a far
scendere il cane dal letto, Evie si lasciò cadere all’indietro, sui morbidi
cuscini. Le occhiaie profonde attorno alle iridi azzurre non impietosirono
Charlie, che sapeva di essere ridotta nelle stesse condizioni ma abbastanza
tenace da sopportare un’altra giornata intensa. – Ho perso economia politica
alle 08:00, e ho lezione con Montgomery alle 10:30. Tu oggi non hai
quell’intervento con lo psicologo pluripremiato dal nome impronunciabile da
Buenos Aires? - domandò la brunetta, sedendosi sul bordo del materasso. Non si
preoccupò nemmeno di parlare a voce bassa: Yorek aveva ripreso a russare tanto
forte da far tremare le pareti.
Evie chiuse gli occhi, prendendo a
massaggiarsi le tempie con le dita. Di riflesso, Charlie eseguì il medesimo
gesto: era un movimento che spesso le isolava dal resto del mondo.
- Io odio
la Columbia. -
Mezz’ora dopo, la ragazza attendeva la
biondina con una sigaretta tra le dita e l’ennesima tazza di caffè nell’altra.
I rumori di New York adesso erano sopraffatti da uno stonatissimo Yorek, il
quale stava approfittando del lussuoso bagno della camera di Evie per far
conoscere all’America intera la hit parade russa.
- Non riesco a capire come ha fatto ad
accoppiarti con un gorilla biondo –
commentò con tranquillità Charlie non appena Evie entrò in soggiorno, seduta
sull’enorme divano in pelle nera. Voltandosi per risponderle per le rime, Evie
vide l’amica sfogliare con apparente distrazione una delle riviste di gossip
che affollavano inutilizzate gli eleganti tavolini di vetro sparsi per la
stanza. Si trattenne quindi dal ribattere immediatamente, fiutando il problema.
Charlie aggrottò le sopracciglia, fermando
la corsa delle sue dita su una pagina che la biondina non poteva vedere, ma di
cui sapeva di conoscere già il contenuto.
- Si tratta della legge di sopravvivenza
della specie – soltanto dopo che la vide strappare con studiata indifferenza la
pagina incriminata, Evie si girò ad ammirare il proprio riflesso nello
specchio. Frettolosa, cercò di sistemare la scollatura del corpetto di pizzo
rosa cipria, apparentemente innocente, ma troppo stretto per il suo seno
abbondante. Il lampo di tensione scomparve insieme alla carta appallottolata
del giornale, nel posacenere più vicino.
- Cazzate. E’ maltrattamento nei confronti
delle specie a rischio d’estinzione, costringerle ad accoppiarsi con altre razze…
anche se hai cercato di ricostruire il suo habitat riducendo camera tua ad
un’imitazione delle valli dei monti Urali. – la voce di Charlie non dava segni
di turbamento. La brunetta si alzò, avvicinando la propria figura allo specchio
a quella dell’amica. Evie ridacchiò. – In fondo sei solo
deplorevolmente bionda, ma ancora non meriti l’appellativo di scimmia. –
concluse soddisfatta Charlie, aggiustandosi poi le
pieghe della gonnellina a vita alta che indossava.
- Stupida. – Evie non era una persona loquace:
ogni volta che parlava cercava sempre di andare diretta al punto della
questione, che quasi sempre era rappresentato da un’offesa nei confronti della
migliore amica.
- Basta parlare, Evan. Finirai per
consumarti le corde vocali! – sarcastica, Charlie alzò gli occhi al soffitto,
raccattando un cardigan a righe bianche e blu dal pavimento, che infilò sopra
la canotta bianca. La biondina smise di controllare il proprio aspetto,
voltandosi verso l’amica per cercare di colpirla con un debole pugno. La ragazza
si scansò facilmente, continuando a ridere mentre Evie prendeva un pennarello
indelebile dalla confusione di oggetti sopra uno dei mobili.
C’era un rituale che non se ne sarebbe mai
andato: nel soggiorno moderno, apparentemente anonimo anche se di buon gusto,
un particolare strideva nell’atmosfera tranquilla. La parete alle spalle di uno
dei grandi divani avrebbero dovuto essere dipinta di
un bianco limpido, come tutte le altre. Invece buona parte della sua superficie
era ricoperta da scritte di ogni genere: nomi, disegni più o meno artistici, ma
soprattutto frasi, che arrivavano anche a toccare i punti più alti del muro.
- Everythings
gonna be alright – lesse ad alta voce Evie, dopo averlo scritto in bella
calligrafia su uno dei pochi spiazzi ancora vuoti della parete. Si stava
avvicinando il momento di ridipingere, cosa che le due ragazze avevano
affrontato già diverse volte da quando vivevano a New York. Si sorrisero
complici, sapendo che avrebbero sentito come sempre la nostalgia di ogni
lettera testimone della loro vita.
- Yorek! Yorek, andiamo! – presumendo che
la scimmia caucasica avesse terminato di lavarsi, la biondina afferrò la
propria borsa urlando l’avvertimento, mentre Charlie s’infilava un paio di
scarpe col tacco trovate in giro e contemporaneamente cercava di ricordare dove
fossero i suoi libri. La risposta animalesca di Yorek arrivò qualche momento
dopo, insieme ad alcune grida soffocate che provenivano dal piano di sopra
- Brutta
figlia di … -
Mentre Evie scoppiava in una risata isterica,
Charlie scosse il capo, a metà fra la rassegnazione ed il divertimento.
- Buck. -
She's
rude and neurotic,
she got a fucked up car :
she's a kind of boy.
The way she talk is dirty
and digs politics and rock :
she's a kind of boy.
(The Zen Circus – Punk Lullaby)
Bartholomew Norton sarebbe stato anche
un nome rispettabile, adatto ad un settantenne in giacca e cravatta dai nobili
natali, ma tutti, vedendo, la persona a cui questo era collegato, passavano immediatamente al soprannome molto meno
formale “Buck”.
Il proprietario dell’imponente
palazzina di Greenwich Village era il prototipo del cinquantenne single,
convinto di possedere un fascino e un gusto da ventenne ma considerato da tutti
un latin lover miseramente fallito. La prominente pancia da birra era sempre
avvolta da camicie dai colori improponibili, spesso aperte sul petto villoso, e
a nascondere la calvizie incipiente c’era perennemente un capello da cowboy che nulla centrava con il clima
di New York City.
Ovviamente, la fortuna viene spesso
affidata a gente che si spreca per farla fruttare: Buck era ricco di famiglia,
e quello era il motivo per cui non aveva combinato nulla di serio nella sua
vita. Passava il tempo a tentare di rimorchiare le ragazze che abitavano
l’edificio, lasciandosi aiutare da qualche bustina di polvere particolare che
si divertiva a spacciare di tanto in tanto.
- Buongiorno signor Dawson! –
nell’arioso corridoio del settimo piano, Evie salutò allegramente la figura
dell’arzillo sessantenne. Hendric e Mary Dawson erano lì incarnazione del
cliché americano di coppia matura senza figli. Il signore distinto che
incrociarono, ex finanziere e dal retrogusto di lampade abbronzanti, amava la
compagnia di ragazze molto più giovani e di
bell’aspetto, all’insaputa della mogliettina, che trascorreva il tempo fra
biscotti al cioccolato fatti in casa e country club del New Jersey.
- Buongiorno, Evan. Charlot. –
l’occhiata lievemente maliziosa che Dawson lanciò loro ricordo a Charlie quante
volte lei e la propria coinquilina avevano fatto parte della cerchia di “amichette” dell’uomo. – Cos’è successo a
Buck? – chiese la brunetta, mentre i tre, seguiti da un immusonito Yorek, si
avviavano verso l’ascensore. Le urla proseguivano.
- Credo che l’ultima… emh, compagnia notturna di Bartholomew se ne
sia andata senza dir nulla… dopo avergli sottratto alcuni effetti personali –
solenne e pomposo come sempre. Charlie alzò gli occhi al cielo: l’unica qualità
di quell’uomo stava celata nel suo cavallo dei pantaloni – Piano terra,
signorine? – chiese Dawson, scoccando un’occhiata sospettosa all’imponente mole
dello scimmione russo. Evie annuì educata, Charlie sbuffò sommessamente della
pazienza dell’amica.
Il garage del condominio era forse
l’unico luogo che richiamasse all’indole cafona di Buck. Salutato l’avvenente
vicino, le ragazze si avviarono verso la fedelissima Jaguar parcheggiata vicino
all’uscita sulla strada principale, prontamente seguite da Yorek che non
sembrava intenzionato a spiccicare parola.
- Ma vedremo… Vedremo se non ti
scoverò, maledetta puttanella… - l’inconfondibile voce baritonale che imprecò
in un angolo remoto del garage fu accompagnata da un sonoro clangore, segno che
Charlie interpretò come un nuovo tentativo del padrone di casa di armeggiare
con gli attrezzi da officina. Era noto a tutti gli abitanti della palazzina
che, nonostante fosse evidentemente negato per la trattazione dei motori, Buck
si ostinasse a distruggere i meccanismi delle proprie auto per “attirare
pollastre”.
- Giornata storta, cowboy? – domandò
Charlie ad alta voce, aprendo lo sportello dal lato del guidatore. Evie entrò
nell’auto senza dire nulla, a braccia conserte: evitava di scambiare più di un
flebile saluto con Buck, che considerava uno zotico dalla buona stella.
Ovviamente, la brunetta la pensava allo stesso modo ma il suo istinto di
scherno la attirava verso quella barzelletta d’uomo.
Era un cielo instabile, quello dei
primi giorni di settembre a New York. Oak Street era l’emblema della caotica
metropoli, sogno per qualsiasi turista, quotidiano tormento per gli
automobilisti che la percorrevano. Fasci luminosi di luce solare illuminavano
le vetrine dei negozi e i taxi gialli caratteristici, e le vette degli edifici
patinati lasciavano trasparire solo una minuscola parte della meraviglia del
suggestivo paesaggio urbano.
Evie appoggiò la fronte al finestrino
mentre Charlie dava via al concerto di bestemmie che puntualmente avveniva
quando si rimaneva bloccati nel traffico di Manhattan.
Per percorrere la distanza da Greenwich
Village a Morningside Heights normalmente un’automobile non avrebbe impiegato
più di un quarto d’ora. Aggiungere il traffico al pacchetto però rendeva le due
ragazze perennemente in ritardo per ogni lezione.
– Fai muovere quella carretta, puttana! –
Gli amabili suoni di una
Charlie spazientita si unirono ai versi delle altre centinaia di automobilisti
perennemente incazzati di New York.
C’erano posti che non se ne sarebbero
andati mai.
L’entrata del campus della Columbia
University era forse uno dei luoghi preferiti da Charlie ed Evie. Dopo aver
posteggiato l’auto nel primo angolino disponibile, ovviamente in sosta vietata,
si avviarono verso l’imponente cancello sulla 116th Street, nel
distretto di Brodway. I viali alberati e verdi che conducevano ai centri del
campus non sembravano neanche far parte della giungla di metallo e cemento in
cui si trovavano, oasi di freschezza in una nube di polveri sottili.
La Low Memorial Library rappresentava
invece quell’insieme di cartoline che, durante i viaggi della sua infanzia,
Charlie aveva spedito a sé stessa, e che una volta erano state appese nella sua
cameretta. I posti candidi, esotici ed antichi che erano stati immortalati
sulla carta liscia erano poi stati riposti in una
cassetto lontano, nella vecchia casa, ma l’imponente struttura bianca, con
colonne di un mondo estinto e immense scalinate gremite di nugoli di studenti
multicolori, vivi. Diffondevano nell’aria un vociare allegro.
Evie intravide Richie al centro di un
gruppetto di fashion victims e hipsters, salutandolo con un gesto allegro
della mano che venne ricambiato da un’esclamazione estasiata per il modo in cui
i suoi vestiti si stringevano sul prosperoso seno. Quando Charlie gli si
avvicinò, il ragazzo la squadrò malevolo ma ridente. – Charlie, tesoro, vai a coprire quelle occhiaie
con un correttore o ti faccio deportare in Crimea. –
Era sicuramente arrabbiato per la sera
precedente.
- Ti sei persa un’affascinante
spiegazione sul crack della moneta argentina, ma tranquilla – l’enorme sala
d’ingresso rendeva giustizia alla confusione dell’eterno, nonostante le
biblioteche fossero considerate luogo di culto e di silenzio dagli universitari: mentre Evie si fermava a discutere con
le proprie compagne di corso, trascinandosi dietro Yorek, Charlie avvistò il
gruppetto più vicino all’uscita Ovest del salone – Carrie è qua dalle 8:00 e
sono sicura che non ha capito assolutamente niente! –
Kimberly, con sguardo da martire, indicò la figuretta addossata al muro, a
terra come un mendicante, di Carrie. Profondamente addormentata.
Al fianco della ragazza, senza nessun
riguardo per la situazione in cui si trovava, Calvin era spaparanzato contro il
muro e nascondeva il proprio viso con una mano. – Il mio cervello sta cercando
di uccidermi. – mormorò, passando una mano nella propria massa scomposta di
riccioli rossi.
- Siete pronti per Montgomery? –
Yukiko, una loro compagnia di corso per la quale l’aggettivo logorroica era un eufemismo,
comparve all’improvviso con voce tintinnante. Charlie si trattenne
dall’invocare la grazia di qualsiasi divinità per le proprie tempie massacrate.
– Io devo ancora leggere la prima pagina del nuovo libro di testo, credo che
sia un’ingiustizia che si debba pagare così tanto per sradicare degli alberi in
Amazzonia! Avete sentito che… -
- Non sei più vergine? – domandò con un
sorriso spossato Charlie, interrompendo l’amica. Yukiko la guardò confusa per
un secondo, mentre tutti gli altri ridacchiavano sotto i baffi. Dopo nemmeno un
secondo di silenzio, la ragazza riprese a parlare.
- Non fare caso a Charlie, stamattina
si è svegliata con qualche buco di
troppo. – tutti trasalirono nell’udire la voce di Evie, sbucata dal nulla.
Tutti, conoscendola, ebbero l’impressione che fosse sempre stata lì ad
ascoltarli. – Oh, ma allora sei viva. Pensavo che lo scimmione ti avesse divorato
in una attacco di panico. –
- Non sarai più così acida quando
riceverai il tuo regalo di compleanno! – quando Kimberly affiancò Evie nel
toccare il tasto più dolente di Charlie, questa immediatamente pensò con
disperazione all’unione di bionde che si era appena creata contro di lei. –
Oddio, è vero! Auguri! – Calvin, destato dal torpore dall’improvvisa paura
della vendetta di Charlie, scattò in piedi con la prontezza di un marine.
Carrie, mugugnando, voltò semplicemente loro le spalle. – Non m’invecchiare.
Avrò ventidue anni solo domani, e sono sicura che la mia festa a sorpresa sarà fenomenale. Ma, Ev, non sei un po’ troppo
vecchia per la discoteca? –
La
vipera colpisce ancora.
La biondina brillò dei suoi ventitre
anni con un’espressione furba – Acqua, Charlie. Non indovinerai mai di cosa si tratta! –
- Vado a fumarmi una sigaretta… -
comprendendo quanto sarebbe stato inutile insistere su quell’argomento, Charlie
si avviò verso l’esterno del campus. Yukiko la seguì, il pacchetto di sigaretta
già stretto nella mano destra. Osservare gli alti edifici di mattoni attraverso
la fiammella dell’accendino incendiava anche la sua consapevolezza di essere a
casa. La riscaldava.
Non ce nessun
altro posto come casa propria.
- La faranno al Gilmoure, la mia festa,
non è vero? – domandò a Yukiko con nonchalance, mentre attraversavano i
giardini verso la prossima lezione.
- Sì! Oh… - a dispetto della prima
impressione, si poteva fare affidamento alla parlantina della ragazza: se sia
aveva necessità di scoprire qualcosa in un breve lasso di tempo, bastava
rivolgersi a lei e il gioco era fatto. – Ma tu non avresti dovuto saperlo!
Come…? –
- Yuki, tesoro – la voce di Charlie, che avrebbe dovuto suonare comprensiva
e rassicurante, era una minacciosa parodia di Richie. – Sono due anni che
organizzano una festa a sorpresa per me al Gilmoure. Evie, che ha distrutto i
propri neuroni con la tinta platino, avrebbe potuto
non arrivarci, ma io non sono bionda!
–
L’aula circolare si stava riempiendo
lentamente: ognuno salutava le vecchie compagnie e i nuovi incontri della
scorsa serata. Charlie si guardò intorno, salutando le decine di persone che la
riconoscevano e che le trasmettevano il calore della collettività con pochi,
piccoli gesti. Erano tutti volti impressi nella sua mente, nei ricordi
polverosi ma sempre accoglienti, ma che non sarebbe mai riuscita ad associare
ad un nome.
Yukiko e Charlie presero posto
immediatamente su una delle file centrali, gettando con malagrazia le proprie
borse sulle due sedie più vicine alle proprie. Ormai da due anni quei posti
erano stati marchiati come loro, e quasi sempre le attendevano senza che
nessuno vi girasse attorno. Ora bastava semplicemente attendere che Kimberly
riuscisse a svegliare Carrie.
- Eccoti! Cercavo proprio te – di tanto
in tanto, Charlie si fermava a pensare a quanto, in fin dei conti, la sua vita
sarebbe stata vuota senza il suo seccatore personale. Ma si trattava di pochi
attimi d’ubriachezza, appartenenti a quella che Freddie chiamava “fase da intellettuale quasi intuitivo”:
quasi sempre la ragazza pensava a Dominic come ad un perfetto idiota – E vero
che ieri notte quello sfigato di Freddie è riuscito di nuovo ad infilare la
palla in buca? –
Appunto.
- Tecnicamente è stato stamattina –
ruotando il busto per fissare il bel ragazzo appena sedutosi dietro di lei,
Charlie sospirò rassegnata: in fin dei conti, l’amicizia di un fannullone come
Dominic le piaceva. Semplicemente, avrebbe fatto di tutto per non ammetterlo
mai davanti a lui – Comunque sì, lo sfigato
è riuscito dove tu hai miseramente fallito: ha avuto un’erezione che è stato in
grado di protrarre per più di tre minuti! – Yukiko scoppiò in una risata
sguaiata, così come il gruppetto degli amici di Dominic o le persone che
semplicemente origliavano.
Se c’era una cosa che era risaputa, era
che non si poteva colpire Charlie senza ricevere in cambio un calcio bene
assestato all’inguine.
- Oh, andiamo! Muori dalla voglia di
succhiarmi il cazzo, finta frigida che non sei altro! – come al solito, il
ragazzo fu un esempio di finezza per tutti. Ghignando, scavalcò con un balzo la
fila di sedie che aveva davanti, per prendere il posto al fianco della
brunetta. Charlie scosse la testa, esitando pochi istanti prima di rispondere:
e dire che, per ciò che concerneva l’aspetto fisico, Dominic non era niente
male. Alto, fisico allenato, pelle liscia color dell’ebano, uno dei classici
bellocci abituati alle strage di cuori.
Se solo non si fosse sempre dimostrato
così ingenuo.
- Scusami tanto, Dom, ma la mamma mi ha
insegnato a non mettermi in bocca gli oggetti piccoli! – l’aria seria e
preoccupata di Charlie venne tradita dalla ragazza stessa un attimo dopo aver
parlato, quando scoppiò in un risolino istintivo che diede il via all’ennesimo
scroscio di risate. Suo malgrado, anche Dominic sorrise: era una battuta che da
anni giaceva nel repertorio dell’amica, ma che in un modo o nell’altro,
riscuoteva sempre successo.
- Maledetta – sibilò senza perdere
l’allegria, ignorando lo sguardo incattivito di Charlie quando le passò un
braccio attorno alle spalle.
Una parola composta di sarcasmo, di un
fascino accennato e di cattiva condotta.
Il rettore Terence Jackson della
Columbia University era dello stesso parere di Dominic, nonostante fra le
infinite decine di studenti del suo istituto Jackson avesse segnalato quella
canaglia nella propria lista nera. Mentre osservava di sbieco Charlot Valenti,
non riusciva a trovare un aggettivo più adatto a quella
bambini viziata e troppo cresciuta: la ragazza se ne stava con le gambe
accavallate per mettere in mostra la gonna troppo corta, pur sapendo che la
professionalità del rettore toccava i massimi storici. Inoltre masticava
svogliatamente una gomma americana, a bocca aperta, ignorando completamente le
regole di buona educazione che sicuramente le erano state impartite, con uno
sguardo di sfida negli occhi.
Quello che sempre indossava quando
veniva convocata nell’ufficio di Jackson.
- Credo che tu possa immaginare il
motivo per cui ti ho fatta chiamare, Charlot – la voce pomposa irritò la
ragazza più del dovuto: l’insofferenza che provava per quell’ufficio odorava di
conoscenza e antico, proprio come
quell’uomo insopportabile. Ogni volta la squadrava con sufficienza, ed ogni
volta lei cercava di essere più irritante possibile.
- No. Non lo so. – il suo tono di voce
era ingenuo quanto quello di un assassino, ma
melodioso e mellifluo, il che sottolineava la falsità delle sue parole. Jackson
respirò a fondo, trattenendosi da alzarsi in piedi e tirarle un sonoro ceffone,
come avrebbe fatto che le proprie figlie.
- Charlot, siamo qui per discutere
delle lezioni che, in questo periodo, hai saltato piuttosto frequentemente. –
paziente, l’uomo illustrò una situazione già nota ad entrambi: qualsiasi
studente di quell’università poteva permettersi di saltare qualche corso, poiché
non c’era un obbligo vincolante. Ma Charlie non era una studentessa qualsiasi:
era costantemente monitorata.
- Aaah!
Quello! – fingendosi sorpresa, la ragazza sollevò il dito indice in aria e
sfoderò un’espressione innocente che profumava di corsi di teatro e di decine
di bugie. Jackson aggrottò le sopracciglia, cercando d’ignorare la propria
parte esasperata. – Non c’è da scherzare su queste cose, Charlot. Lo sai il
perché… -
- Lo so, il perché – ribattè,
improvvisamente secca e scontrosa: l’ironia pungente del suo viso si era
tramutata in rabbia quando aveva colto una sfumatura di rimprovero nella voce
del rettore. Questi sospirò nuovamente, più forte perché la ragazza potesse
udirlo, ma prima che potesse prendere la parola Charlie lo interruppe – E se
non provaste tutti a ricordarmelo, forse non
lo ignorerei. – senza nascondere la seccatura che quella conversazione le stava
procurando, la ragazza incrociò le braccia sotto il seno.
- Charlot, non reagire così! – la voce
di Jackson lasciava trasparire l’impazienza di concludere quella conversazione
avendo la meglio su quella viziata. Non sopportava il modo con cui lo squadrava
dall’alto in basso: quella ragazza si sentiva maledettamente superiore, senza un benemerito motivo. – Tuo padre…
-
- So benissimo cosa vuole papà, rettore Jackson – ma era inutile
cercare di parlarle seriamente senza che lei cercasse l’ultima parola. Era un
gatto che cadeva sempre in piedi. – Buona giornata – senza aggiungere
nient’altro, la ragazza raccolse la propria borsa, si alzò e se ne andò
sbattendo la grande porta di legno massiccio. Jackson si coprì la faccia con le
mani, scuotendo il capo: maledetto quel giorno, ventidue anni prima, in cui
aveva accettato di fare da padrino a
quella stronza.
Maledetta.
Una parola che, alla fine, riconduceva
sempre a lei.
I make the fire
but I
miss the firefight.
I hit the bull's eye every
night:
it's so easy, easy
when everybody's tryin' to please me baby.
(Guns N’Roses – It’s So Easy)
Alla Columbia University, Charlot
Valenti, più che un nome, era una garanzia.
Non era e non sarebbe mai stata la
ragazza più bella del campus: un viso carino, un po’ troppo paffuto forse, un
fisico leggermente a pera come quello di tante altre ragazze, la carnagione
troppo pallida per dare un’idea complessiva di salute nel suo aspetto, il
diastema fra gli incisivi superiori, erano queste le armi di seduzione che
aveva a disposizione. Ma il miscuglio di cipiglio ironico, volto fresco e
roseo, lingua tagliente e camminata sensuale si rivelavano quasi sempre la
puntata migliore su cui scommettere.
La sua popolarità era dovuta alla sua
capacità di farsi amare da tutti, nel bene o nel male: persino le malelingue o i più indifferenti non potevano fare a meno
di sentirsi contagiati dalla sua forte presenza, quasi Charlie fosse
perennemente su un enorme palcoscenico. La facoltà d’economia, così fredda e
razionale, non poteva essere meno adatta al suo nome.
C’era chi sosteneva con invidia che
fosse votata a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, tra party e distruttivi
e dicerie d’ogni genere, solo per ottenere un briciolo di fama in più. La
realtà era che Charlie parteggiava per il Carpe
Diem solo se questo le recava qualche vantaggio, lasciando i propri
programmi ad un caso attentamente studiato. Doveva essere lei l’unica
burattinaia di ogni situazione. Perdere il controllo, perdere tempo, e in
generale perdere erano concetti sconosciuti al suo essere.
Era arrogante, lei stessa lo sosteneva:
rabbrividiva al pensiero di scomparire fra la folla, ma ne allontanava il
pensiero perché si considerava destinata ad emergere, e sosteneva questa teoria
a testa alta. Lasciava che gli insulti ferissero una piccola parte della sua
anima, ma la sua corazza era impenetrabile.
Appariva perfetta, nei
suoi centinaia di difetti brillava sempre di luce propria. Se poi lo
fosse veramente, erano in pochi a saperlo.
La sua immagine era inoltre arricchita
da un passato che parlava solo attraverso vestiti firmati, macchine sportive ed
un attico nel cuore di Greenwich Village: chi aveva provato ad indagare, aveva
ottenuto ben poche informazioni su alcune ville nell’Italia Centrale, per poi
fermarsi lì. Nulla di certo.
Alla gente piace di più chiacchierare
di fatti infondati.
Evan McLair appariva costantemente al
fianco della coinquilina, ma più che un fedele cagnolino, sembrava agire come
una metà della stesso corpo di Charlie. Capelli biondo platino, occhi azzurri vacui di una stupidità
soltanto inscenata, curve voluttuose: a prima vista, chiunque avrebbe potuto
considerarla il prototipo della bionda americana.
Eppure, in quella riservatezza ostinata
che quasi poteva infastidire un estraneo, viveva un animo colto, intellettuale,
che si esprimeva per mezzo dei suoi voti sempre alti e a pochi, lunghi discorsi
che ribaltavano l’opinione di chi aveva la fortuna di ascoltare. Parlava poco,
Evie, ma quando apriva bocca valeva la pena stare in ascolto.
Le due agivano perennemente in
simbiosi, diametralmente opposte. Evidentemente attratte l’una dall’altra,
rappresentavano i due poli dello stesso campo magnetico.
Charlie era la fiamma, Evie l’acqua
cheta: insieme davano l’impressione di essere custodi di un importante segreto, che se rivelato avrebbe
scatenato una valanga di proporzioni disastrose. Alle loro spalle, tutti
parlavano, tutti s’interessavano delle faccende che riguardavano loro, oltre
che il loro gruppetto di sbandati. Carrie Ainsworth, che ad ogni festa
abitualmente regalava qualche spogliarello dopo essersi scolata da sola alcune
bottiglie di Tequila; quel poco di buono di Calvin Jones, inglese che, con la
scusa di studiare in un’università prestigiosa, spillava soldi alla benestante
famiglia solo per ingenti quantità di fumo, sempre accompagnato dalla sua
ragazza, Kimberly De Vivo, un visetto d’angelo che si trasformava in pantera
non appena qualcuno riusciva a venderle alcol; Fredriko Winston, un
sempliciotto del Bronx che si spacciava per filosofo, marinando puntualmente
l’università per imbarcarsi in viaggi psichedelici; Dominic Fletcher, l’ennesimo
figlio di papà che giocava a fare il disadattato.
E poi altri criminali, altre persone
poco raccomandabili di cui si attorniavano nell’ombra, come il gestore del loro
lussuoso appartamento, o una combriccola di spacciatori di Harlem a cui ogni
tanto davano una mano. Erano schive, riservate, e tutti i loro affari erano
gestiti con studiata melodrammaticità.
Agli
occhi del mondo, avevano tutto.
- Noi come umani cerchiamo
disperatamente d’identificarci negli altri, anche se, essendo ipocriti,
affermiamo di volerci distinguere. La verità è che ci sentiamo terribilmente
tranquillizzati quando scopriamo quanto in comune abbiamo con gli altri: cadere
nella banalità viene lodato attraverso perifrasi sui giornali e tv. E, visto
che ultimamente va di moda essere ribelli ed alternativi, siamo diventati tutti
il prototipo del disadattato chic che detesta le regole. La rivoluzione sta diventando la maggiore
causa dell’omologazione. –
Evie abbassò il foglio, in aspettativa.
I raggi di sole che entravano dall’enorme porta a vetri che occupava una parete
del soggiorno creano ghirigori di oscurità sulla sua pelle lattea. La
televisione era sintonizzata su un programma che trasmetteva i movimenti della
borsa di Wall Street, ma l’audio era al minimo. Il
rumore che più opprimeva l’aria era il suono dei pedali della cyclette che
lavoravano freneticamente.
- E’ buono – commentò Charlie,
staccando le mani dalle maniglie dell’attrezzo solo per asciugarsi il sudore
dalla fronte con una salvezza – Ma non ti sembra più adatto ad un blog su
Tumblr che ad una tesi di psicologia sulla massa? – un ghigno speculare si
dipinse sul volto di entrambe.
- Ero ispirata – rispose semplicemente
Evie, facendo spallucce. Crêpe sembrò
guaire il proprio assenso, sdraiato placidamente contro il mobile della
televisione. – Tra poco esco – aggiunse, nonostante sapesse che quella era
un’informazione inutile. La reciproca conoscenza dei propri ritmi aveva già
fatto intuire a Charlie che un’uscita pseudo-romantica era nel programma
pomeridiano dei ritmi. E poi, la biondina aveva indossato la tipica canotta
scollata e trasparente da appuntamento.
- Stai andando
a banane? – inutile, si disse Evie,
la coinquilina non si sarebbe mai riuscita a trattenere dallo sparare
battutacce che, pur sapendo la portata della loro idiozia, Charlie trovava
estremamente divertenti. Le gote della ragazza si arrossarono un poco, mentre
la brunetta rideva del suo silenzio. – Devo solo dargli qualche dritta con
l’inglese americano! – sbottò, senza riuscire a bloccare il sorrisetto
divertito che spuntò sulle sue labbra.
- Sì, propria
qualche dritta di lingua! – la risata
di Charlie si fece ancora più sguaiata. – Stai diventando come Dominic! –
commentò fintamente stizzita Evie, cercando di non farsi vedere dall’amica
mentre cercava un pacchetto di preservativi fra i cassetti. Era conscia che la
propria constatazione non aveva scalfito minimamente la corazza dura di
Charlie.
Per un lungo
momento nessuna delle due parlò: la loro convivenza, come anche la loro
amicizia, era costituita per lo più da silenzi, da parole non dette che
fluttuavano sospese fra loro e che a volte faticavano a comprendere. Era un
legame intenso, nato quando avevano rispettivamente quindici e sedici anni, un instabile
giorno di settembre come quello. Londra non era mai sembrata cos
grigia all’indisponente adolescente che era Charlie, eppure…
- Ti prego,
ricordati di usare discrezione per la
festa al Gilmoure! Lo sai perché… - Evie sussultò allo sbottare improvviso
della coinquilina: la scarpa che stava per infilare al piede le cadde di mano.
Quel discorso, così inusuale per l’energia scatenata di Charlie, spuntava
soltanto in prossimità di ogni 4 settembre. Quel discorso poi veniva
puntualmente dimenticato da una distratta Evie, che veniva contagiata
dall’entusiasmo effervescente di Kimberly o Carrie.
- Non ho idea
di cosa tu stia parlando! – all’interno della biondina si potevano nascondere
molte persone, ma di certo non una bugiarda. Ogni suo muscolo facciale si tese
mentre parlava e, nonostante cercasse in tutti i modi di tenere lo sguardo
fisso e intenso in quello di Charlie, i suoi occhi azzurri sfuggirono a quel
contatto per pochi secondi, ma sufficienti. La
brunetta si lasciò scappare un sorrisetto, prima di incominciare a pedalare più
forte.
- Sì, Evie –
per parlare, la ragazza usò il tono condiscendente che solitamente si utilizza
per i malati mentali. – Oh, avanti, ogni anno insisti per rovinarti la sorpresa
– sbottò risentita Evie, afferrando la propria borsa con forza per mostrare
ancora di più l’irritazione che l’essere scoperta le aveva creato. Charlie
scosse la testa, senza commentare, portando la propria attenzione sull’aumento
del prezzo del petrolio a barile.
- Evan Anita McLair,
smettila di sparare cazzate e prendimi una bottiglietta d’acqua prima di
scappare dal tuo fusto primitivo! – strillando senza il benché minimo motivo,
Charlie cercò di mitigare la lieve tensione creatasi, non abbastanza forte da
incrinare il legame che giaceva sotto quei battibecchi quotidiani. Trattenendo
a stento il sorriso davanti ad un comportamento talmente anomalo, Evie si
diresse verso il piano della cucina, afferrando una bottiglietta che quella
mattina Charlie aveva lasciato lì. Poi, con grazia da ballerina, scagliò
l’oggetto contro l’amica, che ridendo non fece in tempo a schivare il dardo.
- E poi sarei
io quella irascibile! – massaggiando il punto della nuca in cui era stata
colpita, la brunetta osservò la coinquilina chiudere la porta d’ingresso dietro
di sé con violenza, in una pessima finzione di rabbia che non sarebbe
sopravvissuta alla serata.
Tipico di Charlie, tipico di Evie.
Una voce poi
giunse da dietro il legno, attutita dalle pareti – E ricordati di portare Crêpe
a fare una passeggiata! –
- Evie, puttana – non si poteva non voler bene a
Crêpe: era tutto ciò che si poteva volere da
un cane da compagnia, giocherellone e tenero. Ma quando si trattava di portarlo
a spasso, occuparsi dei suoi bisogni e tutto il resto, fra le due coinquiline
puntualmente scoppiava una faida. Ed ogni volta la pigrizia imposta di Evie
aveva la meglio sulla maniacale pignoleria che assaliva Charlie nei momenti più
impensati – Non posso oggi pomeriggio, lo sai! Devo… - il suo grido si perse in
una risposta lontana, che proveniva da un punto remoto del corridoio e che
conteneva il nome di Dina, la donna che ogni mattina rassettava il loro
appartamento e si occupava di
Crêpe.
Dopo pochi
secondi di silenzio, la ragazza smontò dalla cyclette. Uno dei particolari
della casa di cui andava più fiera era lo splendido balconcino che concedeva
loro una bella vista del paesaggio urbano: asciugandosi il sudore dalla fonte
con una mano, aprì la porta a vetri e si affacciò, guardando sotto. Trascorso
un minuto o poco più, la testa platino di Evie sbucò
all’ingresso della palazzina. Charlie sapeva che l’amica era cosciente di
essere osservata: tre minuti ancora, ed un’auto bianca, apparentemente anonima,
accostò al marciapiede. La biondina vi sparì dentro.
Rassegnata,
Charlie tornò a pedalare, combattendo contro la stanchezza e cercando
contemporaneamente di seguire le notizie al telegiornale. Doveva farsi passare
gli appunti della lezione che si era perduta, ma l’ennesima discussione con il
rettore Jackson la faceva desistere da quel proposito.
“Contrariamente a ciò che la gente può
pensare, le giornate a New York sono una noia mortale. La notte è un altro
discorso, ma i pomeriggi… la scelta è fra un tentativo di jogging all’aperto,
spingendo al suicidio i propri polmoni per le polveri sottili, o le mura
domestiche. Sono tutti troppo stressati per cercare d’imitare un pomeriggio di
shopping da telefilm per adolescenti.”
Il cellulare
prese a squillare in quel momento.
- Zitto Crêpe!
– se aveva creduto che il cane fosse precipitato in uno stato di coma
apparente, si era sbagliata: il labrador incominciò ad abbaiare non appena
l’introduzione di chitarra di “Sweet Child O’Mine” si diffuse nella stanza. Charlie sbraitò un
altro paio d’istanti contro il cane prima di rispondere. Non aveva dubbi su chi
avrebbe trovato all’altro capo del telefono.
- Tanto per
sapere, che ore sono dalle tue parti? – cinguettò subito la ragazza, senza
nemmeno un saluto: una risata rauca e stanca le fece intuire che la persona con
cui stava parlando ancora risentiva del jet lag.
Davvero c’erano persone che non sarebbero cambiate mai, neanche di una virgola.
- Vuoi sapere
l’ora di Roma o
di Singapore? – chiese prontamente l’altra voce, mescolandosi a rumori di voci
e passi che non appartenevano alla realtà newyorkese. Gettando un’occhiata al
grande orologio appeso di fianco alla porta d’ingresso, Charlie eseguì qualche
rapido calcolo.
- Cosa ci fai a
Singapore sveglio all’una di notte? – Federico e
Charlot Valenti erano una strana coppia di fratellastri: nonostante avessero
rispettivamente ventisette e ventidue anni, quando si ritrovavano a trascorrere
del tempo insieme regredivano ad uno stato infantile. Le loro conversazioni
erano composte da un punzecchiarsi a vicenda quasi fastidioso per un terzo, e
da centinaia di domande, le risposte delle quali potevano essere scorte
soltanto fra le righe. Avevano entrambi fisicamente preso dal lato paterno:
entrambi avevano capelli folti, bruni, occhi scuri e lineamenti mediterranei.
- Abbiamo
appena firmato un accordo commerciale con quella società russa piena di filiali
in Asia… Te ne avevo parlato. Cosa c’è, te ne sei già dimenticata? – la
rimproverò beffardo. Charlie non poté fare a meno di notare l’utilizzo della
prima persona plurale, nonostante solitamente Federico si occupasse delle
trattative estere da solo. Ma la
ragazza non aveva fretta di chiedere spiegazioni.
- Era una
domanda trabocchetto. – ribattè prontamente, sorridendo come una monella: le
sembrava di essere tornate ad uno di quegli assolati pomeriggio estivi, quando
giocavano e scorrazzavano per il vasto giardino della villetta nei pressi di
Siena. – Oggi ha chiamato lo zio Terry. – alle parole di Federico, Charlie si
irrigidì: ecco le note dolenti.
Prima che la
ragazza potesse ribattere, Federico proseguì: la sua voce si fece più profonda,
più seria. – Lo sai che se fosse per me sarebbe diverso… Hai scelto tu di
seguire questa strada, e quindi devi accettarne le conseguenze… Lo sai perché.
– Charlie rimase in silenzio per qualche istante.
- Papà è lì con
te? – domandò infine con un sospiro, smettendo lentamente di pedalare.
Asciugandosi poi il sudore, smontò dalla cyclette e si avviò, col tipico passo
comodo di chi discute al telefono, verso l’angolo cottura: sapeva di aver
appena posto una domanda inutile, ma
strettamente necessaria.
Dopo un respiro
profondo, senza aggiungere una parola Federico passò il cellulare all’uomo dal
cipiglio che già da un paio di minuti seguiva la conversazione. Appariva molto
più vecchio di ciò che in realtà era: rughe profonde solcavano la ruvida
fronte, e i capelli ingrigiti e radi in perfetta armonia con l’impeccabile
completo grigio.
- Tesoro. – la
voce di Antonio Valenti era calda e confortante, e ogni volta che le capitava
di sentirla anche solo attraverso il metallo Charlie provava un intenso
desiderio di ritornare ragazzina, di ritornare all’odio adolescenziale per un
padre spesso assente ma comunque severo. Ora che era cresciuta e diventata
unico modello di riferimento per sé stessa, la sensazione di solitudine in
quella zona del proprio cervello veniva ripagata con contatti e parole poco
frequenti con Antonio.
- Ciao papà –
rispose, sollevata ma anche rassegnata, con un tono che attendeva una ramanzina
coi fiocchi. Bambina.
- Come stai,
piccola? Va tutto bene a New York? – Antonia sapeva essere un buon padre e un
ottimo aguzzino. Rimandare il momento del rimprovero riempiendo i minuti di tante
piccole domande di circostanza (almeno, così Charlie le vedeva) era una sua
specialità. – Bene. La trattativa si è conclusa per il meglio? – rispose mesta
la ragazza, appoggiando la schiena al frigorifero.
- Così sembra,
ma questi russi sembrano restii ad esporsi più di tanto… Stamattina mi ha
telefonato Terence. Mi ha parlato di te. –
Appunto.
- E ti ha detto
che il corso di statistica economica, così come quello di storia economica ed
economia aziendale sono stati trascurati?
– il sarcasmo esplose rapidamente, come una bomba a mano difettosa. Charlie
sentì il padre sospirare, quasi rassegnato all’irascibilità della figlia. –
Avete chiacchierato di come la condotta mia e dei miei amici sia vergognosa, e…
-
- Charlot –
tuonò Antonio, perdendo la pazienza: nonostante avesse accettato da un pezzo
l’inevitabile indipendenza di una Charlie adulta, non
tollerava che lei gli si rivolgesse con quei toni. Era lui a pagarle affitto,
scuola e droghe, dopotutto. – Nell’ultimo periodo sono state tante le lamentele
di questo tipo. Desidero che questo periodo
cessi all’istante: sono stato chiaro? –
Fu come
trovarselo faccia a faccia, come sentire quegli occhi scuri e profondi
scrutarla e riflettersi in uno sguardo che da lui aveva ereditato: ostinata, la
ragazza fu molto tentata di chiudere lì la conversazione e spegnere il
cellulare, oppure infilare qualche altra parolaccia rivolta al padrino e ad
Antonio. Dopo qualche secondo passato in silenzio, Charlie si limitò a sibilare
– Sì –
Antonio respirò
a fondo, allentandosi il nodo della cravatta – Sei proprio come tua madre, non
vi si può mai appuntare nulla – il riferimento alla genitrice fece irrigidire
Charlie, e allo stesso tempo le suscitò un sorriso con cui schernì sé stessa. –
Me lo dici sempre, papà – tipico commento annoiato di
una figlia in fondo devota.
- Quand’è stata
l’ultima volta che sei andata a trovarla? – quella domanda, diretta e schietta
nella sua tonalità affettuosa, lasciava trasparire una conoscenza della figlia
che non molti potevano vantare. Era proprio questo dettaglio a mettere sempre
in difficoltà la brunetta.
Charlie aprì il
frigorifero, emettendo un suono gutturale per temporeggiare: non era mai
particolarmente in vena di andare a trovare sua madre. E davanti a lei si
stagliava un frigo enorme e quasi vuoto, contenente un paio di vasetti di
yogurt magro, frutta e verdura di stagione e latte di soia: Dina ormai sapeva
che era inutile comprare cibo destinato alla pattumiera.
Arrivò la spia
elettronica del cellulare a salvarla: prima che potesse trovare una buona scusa
con cui cambiare argomento, questo l’avvertì che c’era un’altra chiamata in
attesa.
Freddie.
- Papà, devo
andare. Devo finire di studiare gli appunti di statistica. Ci sentiamo, un bacio! – squillante, non diede tempo al vecchio
genitore di ribattere: con un click portò la conversazione telefonica sul
contatto dell’amico.
- Allora, la
faranno al Gilmoure la tua festa di compleanno? –
- Ovviamente –
dall’altro capo si udivano rumori di trasloco, o comunque di mobili che
venivano spostati: Charlie non pensò neanche di chiedere cosa stesse
succedendo, sicuramente si trattava di qualche strambo progetto di Freddie che
riguardava la sua ispirazione in quanto poeta maledetto di terza classe.
- Non ti
lamentare. Al Gilmoure non siamo mai andati in bianco, Mildred. – Charlie
sbuffò, ridendo poi per evitare di ammettere che comunque Freddie aveva
ragione: il Gilmoure era la loro seconda casa. – Devi smettere di leggere
thriller di seconda categoria, Freddie! – disse poi la ragazza, riferendosi al
buffo ed obsoleto soprannome che le aveva affibbiato. Derivava dall’abitudine
del ragazzo di abbuffarsi di libretti da mercatino ogni volta che una delle sue
storielle d’amore passeggere naufragava: quando, due
anni prima, la loro relazione si era rivelata un fallimento, Charlot aveva
commesso l’errore di farsi vedere in giro con un largo maglione di lana che
aveva ricordato a Freddie la zia del protagonista di un romanzo di Sharon Bolton.
- Zitta.
Stasera comunque ci si trova a casa di Dominic… qualcosa di tranquillo, un paio
di persone e un po’ di Jack Daniels. –
Ciò voleva dire
che era in arrivo un nuovo rave party.
- Non sono
libera prima delle dieci: lo sai il perché… E comunque, non ce la faccio
davvero. Sono ancora distrutta per la festa di ieri… - affermò poco convinta la
ragazza, prima di allungare la mano ed afferrare un barattolo di yogurt mezzo
vuoto. – Eddai, soltanto un calumet della pace! Cosa
ti costa? – in quel momento, Charlie avvertì che al telefono Freddie stava
sorridendo.
C’erano persone che non se ne sarebbero andate mai.
- Okay. Ci
sarò. –
Rebel Rebel, you’ve torn
your dress
Rebel Rebel, your face is a mess
Rebel Rebel, how could they
know?
Hot tramp, I love you so!
(David
Bowie – Rebel Rebel)
NOTE
DELL’AUTRICE
Okay, sono
vergognosa: sono in ritardo sulla tabella di marcia per quanto riguarda gli
aggiornamenti. Ma quest’ultimo mese di scuola è stato allucinante, ho
attraversato una crisi seria con la mia ispirazione ed ora sono distrutta.
Anche per questo credo che questo capitolo non sia granché, e che sia noioso e
banale, perciò mi scuso.
Allora, è una
sorta d’introduzione alla vita delle ragazze e, soprattutto, agli altri
personaggi di Scoop: non si parla più della loro routine/casino quotidiano, ma
restano delle incognite sulle famiglie e sulla vita precedente. E’ stato un
capitolo abbastanza tranquillo, l’azione incomincerà con i prossimi.
Adesso le
citazioni.
Il poster di
Kate Moss esiste davvero, fa riferimento al matrimonio reale recentemente
avvenuto, ma la sua presenza in questa storia è puramente casuale.
Everythings gonna be
alright, canzone
La citazione
sul crack della moneta argentina è liberamente tratta dalla fanfiction della
mia collega IoMe, “There She Goes”.
Andate a leggervela!
Non c’è nessun
altro posto come casa propria, there is no place like home, da “Il mago di Oz”.
“Parlava poco,
Evie, ma quando apriva bocca valeva la pena stare in ascolto.”, riferimento
indiretto a “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano e al suo
protagonista Mattia.
“Sweet Child O’Mine” è una canzone dei Guns
N’Roses.
“Domanda inutile, ma strettamente necessaria”,
riferimento indiretto a “La Cantatrice Calva” di Ionesco.
La zia Mildred di cui si parla è quella
di Matt ne “Il
risveglio” di Sharon Bolton.
Vi lascio con alcune
fotografie prese da Lookbook, di due ragazze che si
avvicinano in modo speciale all’idea che ho di Evie e Charlie:
Bye!