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Autore: Maybe Charlie Knows    10/06/2011    2 recensioni
Tutti hanno dei segreti.
Lo sa bene anche Charlot Valenti, che nel mondo di lustrini e feste oltre ogni limite in cui vive nasconde alla gente ben più di quanto il trucco pesante e l'atteggiamento estremo lascino trasparire. Nel turbine di stelle della sfolgorante New York City, Charlot seppellisce problemi di sangue e di lacrime. Fra una coinquilina filosofeggiante, un gruppo di amici da nottate alcoliche e un cognome avvolto da un passato misterioso, Charlot sente di avere il mondo ai propri piedi. Nulla potrebbe andare storto.
Ma lo strato di ghiaccio che ricopre il suo cuore non è così spesso, anche la minima scossa minaccia d'infrangere il precario equilibrio con cui la ragazza convive.
La cosa che Charlie adorava di più dei rave party di quel genere era propri il ridursi delle luci a centinaia di piccoli fasci. In quel momento sulla folla, che riempiva il casermone tanto da eliminarne in apparenza i confini, pendevano strascichi di un bianco abbacinante, che scomparivano ad intervalli irregolari. Per pochi secondi, ogni persona si ritrovava sotto un riflettore che la poneva al centro della pista da ballo, sotto gli occhi stancati dal buio di tutti i presenti. Un momento di gloria, che svaniva in fretta ma che durava abbastanza da concedere la possibilità di gridare, cantare ed esaltarsi sotto gli occhi di tutti. [Cit. Prologo]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Scoop

 

 

 

Scoop

Tutti i Miei Sbagli

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 1 – Rebels, Lovers, Inmates

 

 

 

 

 

 

 

You’ve torn your dress, your face is a mess,
you can’t get enough, but enough ain’t the test,
you’ve got your transmission and your live wire,
you got your cue line and a handful of ludes,
you wanna be there when they count up the dudes.

 

(David Bowie – Rebel Rebel)

 

 

Si svegliò completamente soltanto quando qualcosa di umido iniziò a strusciarsi contro la sua guancia. Nel buio dettato dai suoi occhi chiusi, cercò di scostarsi da quello strano contatto, ma sorrise.

- Freddie, non ho voglia di una sveltina, sto uscendo dal coma! – mugugnò.

Quando però la scia umida arrivò alla fronte, Charlie notò che qualcosa non andava.

- Crêpe! -

Quando aprì gli occhi, la visione del muso dell’enorme labrador la accolse al posto del piatto “Buongiorno” che si sarebbe aspettata.

Crêpe abbaiò, prendendola quasi in giro, prima di scendere con un balzo dal grande letto a due piazze. Charlie sbuffò, guardandosi attorno un attimo: la sua stanza era un disordine di idee e cianfrusaglie come al solito. Sulla parete opposta alla testiera del letto, un enorme poster di Kate Moss in topless, ma con un velo nuziale in testa, la fissava suadente.

There is only one Kate in London” recitava a caratteri cubitali. - Amen – sbuffò Charlie. Si accorse solo allora del suono metallico e regolare che, prima del suo cane, aveva disturbato il suo sonno già precario. I quadranti della sveglia sul comodino alla destra del letto segnavano le 08:30. Digrignando i denti, la ragazza strattonò le lenzuola fino a coprirsi il viso. La prima lezione della giornata all’università sarebbe cominciata di lì a mezz’ora, e lei ne aveva passato soltanto due a dormire.

Crêpe, che si era accoccolato vicino alla porta, abbaiò ancora.

- Sì, sì! Mi alzo, cazzo… Stupido sacco di pulci! – imprecò Charlie, prima di fare uno scatto inumano (almeno, per le condizioni in cui si trovava il suo cervello) per alzarsi, sperando che lo sforzo fisico lavasse anche solo in parte la patina di sonno che aveva addosso.

Ci vollero alcuni tentativi perché riuscisse ad alzarsi in piedi. Il pavimento era ingombro di tanti piccoli oggetti che, con la vista ancora gonfia di stanchezza, non fece altro che calpestare nel percorso verso la porta. L’arredamento moderno e colorato che lei stessa aveva scelto per la propria camera da letto incontrò spesso gli angoli del suo corpo, suscitandole alcune bestemmie a dir poco fantasiose.

Uscì nell’ampio corridoio barcollando, con Crêpe che trotterellava al suo seguito. Cercando di coordinare ogni movimento senza sembrare un bradipo, si appoggiò alla porta più vicina a quella della propria stanza. Da essa non proveniva nient’altro che la calma più piatta.

Charlie bussò una, due, tre volte, senza ottenere alcuna risposta. Rammentando a sé stessa il basso livello della propria pazienza, la ragazza si diresse in bagno.

Ho un aspetto orribile”.

Non appena vide il proprio riflesso nell’elaborato specchio sopra il lavandino, decise che era necessario un intervento radicale. I capelli erano un groviglio di nodi e necessitavano di una lavata, il viso era fin troppo simile ad un quadro di Picasso per i suoi gusti. Non osò nemmeno immaginare in che condizioni fossero i suoi vestiti: addosso non aveva altro che l’intimo e le calze nere della sera precedente.

Charlie si sedette sul bordo della vasca idromassaggio, concentrandosi sul taglio al ginocchio nascosto dal bendaggio improvvisato la scorsa notte; quasi non si ricordava come se l’era procurato. Fece una smorfia addolorata quando vide la lacerazione della calza destra, dalla quale aveva strappato la striscia di stoffa: un altro paio di parigine da buttare. Incominciò a svolgere il tessuto da attorno al ginocchio, stringendo i denti quando si accorse che questo si era appiccicato alla ferita.

Ascoltando lo sfrigolio dell’acqua ossigenata che depurava il taglio, la ragazza dedicò qualche carezza a Crêpe, che pazientemente aveva seguito le operazioni della padrona.

Stupido, adorabile sacco pulcioso.

- Sei un rompipalle ciccione – disse sorridendo, prima di soffocare uno sbadiglio. Soddisfatto per la ricompensa alla propria fedeltà, il cane scomparve oltre la porta del bagno. Charlie sospirò, prima di alzarsi in piedi ed entrare nella doccia.

- Evie, svegliati! – era passato più di un anno da quando erano andate a vivere insieme, e quella scena era diventata una tradizione che si ripeteva dopo ogni nottata brava. Lasciando una pozzanghera d’acqua bollente sul pavimento, gridò a squarciagola nonostante l’emicrania fastidiosa, bussando ancora una volta alla camera da letto di Evie.

Nessuna risposta.

Decidendo di far trascorrere i soliti cinque minuti prima di andare a buttar già dal letto con violenza la coinquilina, si recò in cucina. L’ampio open space dagli elettrodomestici all’avanguardia era forse l’unico angolo pulito della casa, e soltanto perché per la maggior parte del tempo rimaneva inutilizzato. Sistemando il candido asciugamano che aveva drappeggiato attorno al proprio corpo, Charlie versò nella prima tazza trovata il contenuto di una caraffa trovata sul ripiano in marmo bianco, di cui non ricordava nulla.

Caffè freddo, probabilmente del giorno precedente. Bevendo, la ragazza storse il naso.

Non aveva notato subito il bigliettino stropicciato che giaceva sul ripiano centrale della cucina. Inzialmente, l’aveva confuso con la visione linda di quello spazio, con i sensi alterati da una sonnolenza che, di minuto in minuto, andava crescendo anziché calando. Le ci vollero parecchie prese di coscienza, dettate da un’immotivata decisione, per allungarsi ed afferrarlo.

Mildred, mi sono fatto dare un passaggio da un amico. Sai che non posso restare a dormire da te con quell’assassino a piede libero. Ma mi faccio sentire presto”.

Mentre ogni parola di quel breve messaggio scorreva sotto i suoi occhi, la risata provocata dai vaghi ricordi della sera precedente scaldò il suo cuore; sdraiato in un angolo, vicino alle proprie ciotole, Crêpe alzò il muso, guaendo la propria perplessità. Charlie si chinò sul cane, stringendo fra le dita un sacchetto di croccantini aperto: mentre Crêpe adorava Freddie, il ragazzo era allergico alla vicinanza di qualsiasi animale.

- Evie – aprire la porta della camera della biondina significava ritrovarsi catapultati in una giungla; nonostante ogni giorno Dina, la loro donna delle pulizie, cercasse di rassettare alla meglio quel luogo, nel giro di ventiquattro ore questo tornava sporco come prima – Evie, so che sei sveglia. -

Il groviglio di lenzuola lasciava intravvedere la chioma disordinata della ragazza, che si ostinava a non rispondere all’amica. Un’altra sagoma, molto più massiccia nella penombra rispetto a Evie, giaceva profondamente addormentata e completamente nuda in bilico sul bordo del letto.

Evidentemente Yorek, al contrario di Freddie, aveva deciso di fermarsi a godere degli agi dell’appartamento.

- Anch’io ho dormito due ore, cogliona. Abbiamo lezione, alzati adesso! – Charlie si avvicinò al letto, scuotendo le lenzuola nel punto in cui presumeva si trovasse il corpo di Evie.

Un leggero “testa di cazzo” fu l’unica risposta.

Era tempo di ricorrere all’artiglieria pesante.

- Bello, cucciolone – la brunetta tornò indietro ad aprire la porta al passaggio di Crêpe, che entrò scodinzolando allegro. Mentre il labrador annusava l’aria viziata della stanza, la ragazza gli fece segno di saltare sul letto, battendo le mani sul materasso. Se c’era una cosa che Evie odiava, erano i peli di cane sparsi sul posto in cui dormiva. Se c’era una cosa che mandava in visibilio Crêpe più della carne in scatola, era guadagnarsi uno spazio sui letti delle padrone. Fu questione di pochi secondi.

- Charlie! -

- Bravissimo, Crêpe! – la velocità con la quale Evie si levò a sedere e cercò di togliersi di dosso Crêpe tradì la finzione del sonno di qualche attimo prima. Charlie rise dell’amor di pigrizia della coinquilina, mentre Yorek grugniva il proprio disappunto per le urla isteriche di Evie, che per lui avevano rappresentato una sveglia reale.

- Troia – non appena fu riuscita a far scendere il cane dal letto, Evie si lasciò cadere all’indietro, sui morbidi cuscini. Le occhiaie profonde attorno alle iridi azzurre non impietosirono Charlie, che sapeva di essere ridotta nelle stesse condizioni ma abbastanza tenace da sopportare un’altra giornata intensa. – Ho perso economia politica alle 08:00, e ho lezione con Montgomery alle 10:30. Tu oggi non hai quell’intervento con lo psicologo pluripremiato dal nome impronunciabile da Buenos Aires? - domandò la brunetta, sedendosi sul bordo del materasso. Non si preoccupò nemmeno di parlare a voce bassa: Yorek aveva ripreso a russare tanto forte da far tremare le pareti.

Evie chiuse gli occhi, prendendo a massaggiarsi le tempie con le dita. Di riflesso, Charlie eseguì il medesimo gesto: era un movimento che spesso le isolava dal resto del mondo.

- Io odio la Columbia. -

Mezz’ora dopo, la ragazza attendeva la biondina con una sigaretta tra le dita e l’ennesima tazza di caffè nell’altra. I rumori di New York adesso erano sopraffatti da uno stonatissimo Yorek, il quale stava approfittando del lussuoso bagno della camera di Evie per far conoscere all’America intera la hit parade russa.

- Non riesco a capire come ha fatto ad accoppiarti con un gorilla biondo – commentò con tranquillità Charlie non appena Evie entrò in soggiorno, seduta sull’enorme divano in pelle nera. Voltandosi per risponderle per le rime, Evie vide l’amica sfogliare con apparente distrazione una delle riviste di gossip che affollavano inutilizzate gli eleganti tavolini di vetro sparsi per la stanza. Si trattenne quindi dal ribattere immediatamente, fiutando il problema.

Charlie aggrottò le sopracciglia, fermando la corsa delle sue dita su una pagina che la biondina non poteva vedere, ma di cui sapeva di conoscere già il contenuto.

- Si tratta della legge di sopravvivenza della specie – soltanto dopo che la vide strappare con studiata indifferenza la pagina incriminata, Evie si girò ad ammirare il proprio riflesso nello specchio. Frettolosa, cercò di sistemare la scollatura del corpetto di pizzo rosa cipria, apparentemente innocente, ma troppo stretto per il suo seno abbondante. Il lampo di tensione scomparve insieme alla carta appallottolata del giornale, nel posacenere più vicino.

- Cazzate. E’ maltrattamento nei confronti delle specie a rischio d’estinzione, costringerle ad accoppiarsi con altre razze… anche se hai cercato di ricostruire il suo habitat riducendo camera tua ad un’imitazione delle valli dei monti Urali. – la voce di Charlie non dava segni di turbamento. La brunetta si alzò, avvicinando la propria figura allo specchio a quella dell’amica. Evie ridacchiò. – In fondo sei solo deplorevolmente bionda, ma ancora non meriti l’appellativo di scimmia. – concluse soddisfatta Charlie, aggiustandosi poi le pieghe della gonnellina a vita alta che indossava.

- Stupida. – Evie non era una persona loquace: ogni volta che parlava cercava sempre di andare diretta al punto della questione, che quasi sempre era rappresentato da un’offesa nei confronti della migliore amica.

- Basta parlare, Evan. Finirai per consumarti le corde vocali! – sarcastica, Charlie alzò gli occhi al soffitto, raccattando un cardigan a righe bianche e blu dal pavimento, che infilò sopra la canotta bianca. La biondina smise di controllare il proprio aspetto, voltandosi verso l’amica per cercare di colpirla con un debole pugno. La ragazza si scansò facilmente, continuando a ridere mentre Evie prendeva un pennarello indelebile dalla confusione di oggetti sopra uno dei mobili.

C’era un rituale che non se ne sarebbe mai andato: nel soggiorno moderno, apparentemente anonimo anche se di buon gusto, un particolare strideva nell’atmosfera tranquilla. La parete alle spalle di uno dei grandi divani avrebbero dovuto essere dipinta di un bianco limpido, come tutte le altre. Invece buona parte della sua superficie era ricoperta da scritte di ogni genere: nomi, disegni più o meno artistici, ma soprattutto frasi, che arrivavano anche a toccare i punti più alti del muro.

- Everythings gonna be alright – lesse ad alta voce Evie, dopo averlo scritto in bella calligrafia su uno dei pochi spiazzi ancora vuoti della parete. Si stava avvicinando il momento di ridipingere, cosa che le due ragazze avevano affrontato già diverse volte da quando vivevano a New York. Si sorrisero complici, sapendo che avrebbero sentito come sempre la nostalgia di ogni lettera testimone della loro vita.

- Yorek! Yorek, andiamo! – presumendo che la scimmia caucasica avesse terminato di lavarsi, la biondina afferrò la propria borsa urlando l’avvertimento, mentre Charlie s’infilava un paio di scarpe col tacco trovate in giro e contemporaneamente cercava di ricordare dove fossero i suoi libri. La risposta animalesca di Yorek arrivò qualche momento dopo, insieme ad alcune grida soffocate che provenivano dal piano di sopra

- Brutta figlia di … -

Mentre Evie scoppiava in una risata isterica, Charlie scosse il capo, a metà fra la rassegnazione ed il divertimento.

- Buck. -

 

 

She's rude and neurotic,
she got a fucked up car :
she's a kind of boy.
The way she talk is dirty
and digs politics and rock :
she's a kind of boy.

(The Zen Circus – Punk Lullaby)

 

 

Bartholomew Norton sarebbe stato anche un nome rispettabile, adatto ad un settantenne in giacca e cravatta dai nobili natali, ma tutti, vedendo, la persona a cui questo era collegato, passavano immediatamente al soprannome molto meno formale “Buck”.

Il proprietario dell’imponente palazzina di Greenwich Village era il prototipo del cinquantenne single, convinto di possedere un fascino e un gusto da ventenne ma considerato da tutti un latin lover miseramente fallito. La prominente pancia da birra era sempre avvolta da camicie dai colori improponibili, spesso aperte sul petto villoso, e a nascondere la calvizie incipiente c’era perennemente un capello da cowboy che nulla centrava con il clima di New York City.

Ovviamente, la fortuna viene spesso affidata a gente che si spreca per farla fruttare: Buck era ricco di famiglia, e quello era il motivo per cui non aveva combinato nulla di serio nella sua vita. Passava il tempo a tentare di rimorchiare le ragazze che abitavano l’edificio, lasciandosi aiutare da qualche bustina di polvere particolare che si divertiva a spacciare di tanto in tanto.

- Buongiorno signor Dawson! – nell’arioso corridoio del settimo piano, Evie salutò allegramente la figura dell’arzillo sessantenne. Hendric e Mary Dawson erano lì incarnazione del cliché americano di coppia matura senza figli. Il signore distinto che incrociarono, ex finanziere e dal retrogusto di lampade abbronzanti, amava la compagnia di ragazze molto più giovani e di bell’aspetto, all’insaputa della mogliettina, che trascorreva il tempo fra biscotti al cioccolato fatti in casa e country club del New Jersey.

- Buongiorno, Evan. Charlot. – l’occhiata lievemente maliziosa che Dawson lanciò loro ricordo a Charlie quante volte lei e la propria coinquilina avevano fatto parte della cerchia di “amichette” dell’uomo. – Cos’è successo a Buck? – chiese la brunetta, mentre i tre, seguiti da un immusonito Yorek, si avviavano verso l’ascensore. Le urla proseguivano.

- Credo che l’ultima… emh, compagnia notturna di Bartholomew se ne sia andata senza dir nulla… dopo avergli sottratto alcuni effetti personali – solenne e pomposo come sempre. Charlie alzò gli occhi al cielo: l’unica qualità di quell’uomo stava celata nel suo cavallo dei pantaloni – Piano terra, signorine? – chiese Dawson, scoccando un’occhiata sospettosa all’imponente mole dello scimmione russo. Evie annuì educata, Charlie sbuffò sommessamente della pazienza dell’amica.

Il garage del condominio era forse l’unico luogo che richiamasse all’indole cafona di Buck. Salutato l’avvenente vicino, le ragazze si avviarono verso la fedelissima Jaguar parcheggiata vicino all’uscita sulla strada principale, prontamente seguite da Yorek che non sembrava intenzionato a spiccicare parola.

- Ma vedremo… Vedremo se non ti scoverò, maledetta puttanella… - l’inconfondibile voce baritonale che imprecò in un angolo remoto del garage fu accompagnata da un sonoro clangore, segno che Charlie interpretò come un nuovo tentativo del padrone di casa di armeggiare con gli attrezzi da officina. Era noto a tutti gli abitanti della palazzina che, nonostante fosse evidentemente negato per la trattazione dei motori, Buck si ostinasse a distruggere i meccanismi delle proprie auto per “attirare pollastre”.

- Giornata storta, cowboy? – domandò Charlie ad alta voce, aprendo lo sportello dal lato del guidatore. Evie entrò nell’auto senza dire nulla, a braccia conserte: evitava di scambiare più di un flebile saluto con Buck, che considerava uno zotico dalla buona stella. Ovviamente, la brunetta la pensava allo stesso modo ma il suo istinto di scherno la attirava verso quella barzelletta d’uomo.

Era un cielo instabile, quello dei primi giorni di settembre a New York. Oak Street era l’emblema della caotica metropoli, sogno per qualsiasi turista, quotidiano tormento per gli automobilisti che la percorrevano. Fasci luminosi di luce solare illuminavano le vetrine dei negozi e i taxi gialli caratteristici, e le vette degli edifici patinati lasciavano trasparire solo una minuscola parte della meraviglia del suggestivo paesaggio urbano.

Evie appoggiò la fronte al finestrino mentre Charlie dava via al concerto di bestemmie che puntualmente avveniva quando si rimaneva bloccati nel traffico di Manhattan.

Per percorrere la distanza da Greenwich Village a Morningside Heights normalmente un’automobile non avrebbe impiegato più di un quarto d’ora. Aggiungere il traffico al pacchetto però rendeva le due ragazze perennemente in ritardo per ogni lezione.

– Fai muovere quella carretta, puttana! –

Gli amabili suoni di una Charlie spazientita si unirono ai versi delle altre centinaia di automobilisti perennemente incazzati di New York.

C’erano posti che non se ne sarebbero andati mai.

L’entrata del campus della Columbia University era forse uno dei luoghi preferiti da Charlie ed Evie. Dopo aver posteggiato l’auto nel primo angolino disponibile, ovviamente in sosta vietata, si avviarono verso l’imponente cancello sulla 116th Street, nel distretto di Brodway. I viali alberati e verdi che conducevano ai centri del campus non sembravano neanche far parte della giungla di metallo e cemento in cui si trovavano, oasi di freschezza in una nube di polveri sottili.

La Low Memorial Library rappresentava invece quell’insieme di cartoline che, durante i viaggi della sua infanzia, Charlie aveva spedito a sé stessa, e che una volta erano state appese nella sua cameretta. I posti candidi, esotici ed antichi che erano stati immortalati sulla carta liscia erano poi stati riposti in una cassetto lontano, nella vecchia casa, ma l’imponente struttura bianca, con colonne di un mondo estinto e immense scalinate gremite di nugoli di studenti multicolori, vivi. Diffondevano nell’aria un vociare allegro.

Evie intravide Richie al centro di un gruppetto di fashion victims e hipsters, salutandolo con un gesto allegro della mano che venne ricambiato da un’esclamazione estasiata per il modo in cui i suoi vestiti si stringevano sul prosperoso seno. Quando Charlie gli si avvicinò, il ragazzo la squadrò malevolo ma ridente. – Charlie, tesoro, vai a coprire quelle occhiaie con un correttore o ti faccio deportare in Crimea. –

Era sicuramente arrabbiato per la sera precedente.

- Ti sei persa un’affascinante spiegazione sul crack della moneta argentina, ma tranquilla – l’enorme sala d’ingresso rendeva giustizia alla confusione dell’eterno, nonostante le biblioteche fossero considerate luogo di culto e di silenzio dagli universitari: mentre Evie si fermava a discutere con le proprie compagne di corso, trascinandosi dietro Yorek, Charlie avvistò il gruppetto più vicino all’uscita Ovest del salone – Carrie è qua dalle 8:00 e sono sicura che non ha capito assolutamente niente! – Kimberly, con sguardo da martire, indicò la figuretta addossata al muro, a terra come un mendicante, di Carrie. Profondamente addormentata.

Al fianco della ragazza, senza nessun riguardo per la situazione in cui si trovava, Calvin era spaparanzato contro il muro e nascondeva il proprio viso con una mano. – Il mio cervello sta cercando di uccidermi. – mormorò, passando una mano nella propria massa scomposta di riccioli rossi.

- Siete pronti per Montgomery? – Yukiko, una loro compagnia di corso per la quale l’aggettivo logorroica era un eufemismo, comparve all’improvviso con voce tintinnante. Charlie si trattenne dall’invocare la grazia di qualsiasi divinità per le proprie tempie massacrate. – Io devo ancora leggere la prima pagina del nuovo libro di testo, credo che sia un’ingiustizia che si debba pagare così tanto per sradicare degli alberi in Amazzonia! Avete sentito che… -

- Non sei più vergine? – domandò con un sorriso spossato Charlie, interrompendo l’amica. Yukiko la guardò confusa per un secondo, mentre tutti gli altri ridacchiavano sotto i baffi. Dopo nemmeno un secondo di silenzio, la ragazza riprese a parlare.

- Non fare caso a Charlie, stamattina si è svegliata con qualche buco di troppo. – tutti trasalirono nell’udire la voce di Evie, sbucata dal nulla. Tutti, conoscendola, ebbero l’impressione che fosse sempre stata lì ad ascoltarli. – Oh, ma allora sei viva. Pensavo che lo scimmione ti avesse divorato in una attacco di panico. –

- Non sarai più così acida quando riceverai il tuo regalo di compleanno! – quando Kimberly affiancò Evie nel toccare il tasto più dolente di Charlie, questa immediatamente pensò con disperazione all’unione di bionde che si era appena creata contro di lei. – Oddio, è vero! Auguri! – Calvin, destato dal torpore dall’improvvisa paura della vendetta di Charlie, scattò in piedi con la prontezza di un marine. Carrie, mugugnando, voltò semplicemente loro le spalle. – Non m’invecchiare. Avrò ventidue anni solo domani, e sono sicura che la mia festa a sorpresa sarà fenomenale. Ma, Ev, non sei un po’ troppo vecchia per la discoteca? –

La vipera colpisce ancora.

La biondina brillò dei suoi ventitre anni con un’espressione furba – Acqua, Charlie. Non indovinerai mai di cosa si tratta! –

- Vado a fumarmi una sigaretta… - comprendendo quanto sarebbe stato inutile insistere su quell’argomento, Charlie si avviò verso l’esterno del campus. Yukiko la seguì, il pacchetto di sigaretta già stretto nella mano destra. Osservare gli alti edifici di mattoni attraverso la fiammella dell’accendino incendiava anche la sua consapevolezza di essere a casa. La riscaldava.

Non ce nessun altro posto come casa propria.

- La faranno al Gilmoure, la mia festa, non è vero? – domandò a Yukiko con nonchalance, mentre attraversavano i giardini verso la prossima lezione.

- Sì! Oh… - a dispetto della prima impressione, si poteva fare affidamento alla parlantina della ragazza: se sia aveva necessità di scoprire qualcosa in un breve lasso di tempo, bastava rivolgersi a lei e il gioco era fatto. – Ma tu non avresti dovuto saperlo! Come…? –

- Yuki, tesoro – la voce di Charlie, che avrebbe dovuto suonare comprensiva e rassicurante, era una minacciosa parodia di Richie. – Sono due anni che organizzano una festa a sorpresa per me al Gilmoure. Evie, che ha distrutto i propri neuroni con la tinta platino, avrebbe potuto non arrivarci, ma io non sono bionda! –

L’aula circolare si stava riempiendo lentamente: ognuno salutava le vecchie compagnie e i nuovi incontri della scorsa serata. Charlie si guardò intorno, salutando le decine di persone che la riconoscevano e che le trasmettevano il calore della collettività con pochi, piccoli gesti. Erano tutti volti impressi nella sua mente, nei ricordi polverosi ma sempre accoglienti, ma che non sarebbe mai riuscita ad associare ad un nome.

Yukiko e Charlie presero posto immediatamente su una delle file centrali, gettando con malagrazia le proprie borse sulle due sedie più vicine alle proprie. Ormai da due anni quei posti erano stati marchiati come loro, e quasi sempre le attendevano senza che nessuno vi girasse attorno. Ora bastava semplicemente attendere che Kimberly riuscisse a svegliare Carrie.

- Eccoti! Cercavo proprio te – di tanto in tanto, Charlie si fermava a pensare a quanto, in fin dei conti, la sua vita sarebbe stata vuota senza il suo seccatore personale. Ma si trattava di pochi attimi d’ubriachezza, appartenenti a quella che Freddie chiamava “fase da intellettuale quasi intuitivo”: quasi sempre la ragazza pensava a Dominic come ad un perfetto idiota – E vero che ieri notte quello sfigato di Freddie è riuscito di nuovo ad infilare la palla in buca? –

Appunto.

- Tecnicamente è stato stamattina – ruotando il busto per fissare il bel ragazzo appena sedutosi dietro di lei, Charlie sospirò rassegnata: in fin dei conti, l’amicizia di un fannullone come Dominic le piaceva. Semplicemente, avrebbe fatto di tutto per non ammetterlo mai davanti a lui – Comunque sì, lo sfigato è riuscito dove tu hai miseramente fallito: ha avuto un’erezione che è stato in grado di protrarre per più di tre minuti! – Yukiko scoppiò in una risata sguaiata, così come il gruppetto degli amici di Dominic o le persone che semplicemente origliavano.

Se c’era una cosa che era risaputa, era che non si poteva colpire Charlie senza ricevere in cambio un calcio bene assestato all’inguine.

- Oh, andiamo! Muori dalla voglia di succhiarmi il cazzo, finta frigida che non sei altro! – come al solito, il ragazzo fu un esempio di finezza per tutti. Ghignando, scavalcò con un balzo la fila di sedie che aveva davanti, per prendere il posto al fianco della brunetta. Charlie scosse la testa, esitando pochi istanti prima di rispondere: e dire che, per ciò che concerneva l’aspetto fisico, Dominic non era niente male. Alto, fisico allenato, pelle liscia color dell’ebano, uno dei classici bellocci abituati alle strage di cuori.

Se solo non si fosse sempre dimostrato così ingenuo.

- Scusami tanto, Dom, ma la mamma mi ha insegnato a non mettermi in bocca gli oggetti piccoli! – l’aria seria e preoccupata di Charlie venne tradita dalla ragazza stessa un attimo dopo aver parlato, quando scoppiò in un risolino istintivo che diede il via all’ennesimo scroscio di risate. Suo malgrado, anche Dominic sorrise: era una battuta che da anni giaceva nel repertorio dell’amica, ma che in un modo o nell’altro, riscuoteva sempre successo.

- Maledetta – sibilò senza perdere l’allegria, ignorando lo sguardo incattivito di Charlie quando le passò un braccio attorno alle spalle.

Una parola composta di sarcasmo, di un fascino accennato e di cattiva condotta.

Il rettore Terence Jackson della Columbia University era dello stesso parere di Dominic, nonostante fra le infinite decine di studenti del suo istituto Jackson avesse segnalato quella canaglia nella propria lista nera. Mentre osservava di sbieco Charlot Valenti, non riusciva a trovare un aggettivo più adatto a quella bambini viziata e troppo cresciuta: la ragazza se ne stava con le gambe accavallate per mettere in mostra la gonna troppo corta, pur sapendo che la professionalità del rettore toccava i massimi storici. Inoltre masticava svogliatamente una gomma americana, a bocca aperta, ignorando completamente le regole di buona educazione che sicuramente le erano state impartite, con uno sguardo di sfida negli occhi.

Quello che sempre indossava quando veniva convocata nell’ufficio di Jackson.

- Credo che tu possa immaginare il motivo per cui ti ho fatta chiamare, Charlot – la voce pomposa irritò la ragazza più del dovuto: l’insofferenza che provava per quell’ufficio odorava di conoscenza e antico, proprio come quell’uomo insopportabile. Ogni volta la squadrava con sufficienza, ed ogni volta lei cercava di essere più irritante possibile.

- No. Non lo so. – il suo tono di voce era ingenuo quanto quello di un assassino, ma melodioso e mellifluo, il che sottolineava la falsità delle sue parole. Jackson respirò a fondo, trattenendosi da alzarsi in piedi e tirarle un sonoro ceffone, come avrebbe fatto che le proprie figlie.

- Charlot, siamo qui per discutere delle lezioni che, in questo periodo, hai saltato piuttosto frequentemente. – paziente, l’uomo illustrò una situazione già nota ad entrambi: qualsiasi studente di quell’università poteva permettersi di saltare qualche corso, poiché non c’era un obbligo vincolante. Ma Charlie non era una studentessa qualsiasi: era costantemente monitorata.

- Aaah! Quello! – fingendosi sorpresa, la ragazza sollevò il dito indice in aria e sfoderò un’espressione innocente che profumava di corsi di teatro e di decine di bugie. Jackson aggrottò le sopracciglia, cercando d’ignorare la propria parte esasperata. – Non c’è da scherzare su queste cose, Charlot. Lo sai il perché… -

- Lo so, il perché – ribattè, improvvisamente secca e scontrosa: l’ironia pungente del suo viso si era tramutata in rabbia quando aveva colto una sfumatura di rimprovero nella voce del rettore. Questi sospirò nuovamente, più forte perché la ragazza potesse udirlo, ma prima che potesse prendere la parola Charlie lo interruppe – E se non provaste tutti a ricordarmelo, forse non lo ignorerei. – senza nascondere la seccatura che quella conversazione le stava procurando, la ragazza incrociò le braccia sotto il seno.

- Charlot, non reagire così! – la voce di Jackson lasciava trasparire l’impazienza di concludere quella conversazione avendo la meglio su quella viziata. Non sopportava il modo con cui lo squadrava dall’alto in basso: quella ragazza si sentiva maledettamente superiore, senza un benemerito motivo. – Tuo padre… -

- So benissimo cosa vuole papà, rettore Jackson – ma era inutile cercare di parlarle seriamente senza che lei cercasse l’ultima parola. Era un gatto che cadeva sempre in piedi. – Buona giornata – senza aggiungere nient’altro, la ragazza raccolse la propria borsa, si alzò e se ne andò sbattendo la grande porta di legno massiccio. Jackson si coprì la faccia con le mani, scuotendo il capo: maledetto quel giorno, ventidue anni prima, in cui aveva accettato di fare da padrino a quella stronza.

Maledetta.

Una parola che, alla fine, riconduceva sempre a lei.

 

 

I make the fire
but I
miss the firefight.
I hit the b
ull's eye every night:

it's so easy, easy
when everybody's tryin' to please me baby.

 

(Guns N’Roses – It’s So Easy)

 

 

Alla Columbia University, Charlot Valenti, più che un nome, era una garanzia.

Non era e non sarebbe mai stata la ragazza più bella del campus: un viso carino, un po’ troppo paffuto forse, un fisico leggermente a pera come quello di tante altre ragazze, la carnagione troppo pallida per dare un’idea complessiva di salute nel suo aspetto, il diastema fra gli incisivi superiori, erano queste le armi di seduzione che aveva a disposizione. Ma il miscuglio di cipiglio ironico, volto fresco e roseo, lingua tagliente e camminata sensuale si rivelavano quasi sempre la puntata migliore su cui scommettere.

La sua popolarità era dovuta alla sua capacità di farsi amare da tutti, nel bene o nel male: persino le malelingue o i più indifferenti non potevano fare a meno di sentirsi contagiati dalla sua forte presenza, quasi Charlie fosse perennemente su un enorme palcoscenico. La facoltà d’economia, così fredda e razionale, non poteva essere meno adatta al suo nome.

C’era chi sosteneva con invidia che fosse votata a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, tra party e distruttivi e dicerie d’ogni genere, solo per ottenere un briciolo di fama in più. La realtà era che Charlie parteggiava per il Carpe Diem solo se questo le recava qualche vantaggio, lasciando i propri programmi ad un caso attentamente studiato. Doveva essere lei l’unica burattinaia di ogni situazione. Perdere il controllo, perdere tempo, e in generale perdere erano concetti sconosciuti al suo essere.

Era arrogante, lei stessa lo sosteneva: rabbrividiva al pensiero di scomparire fra la folla, ma ne allontanava il pensiero perché si considerava destinata ad emergere, e sosteneva questa teoria a testa alta. Lasciava che gli insulti ferissero una piccola parte della sua anima, ma la sua corazza era impenetrabile.

Appariva perfetta, nei suoi centinaia di difetti brillava sempre di luce propria. Se poi lo fosse veramente, erano in pochi a saperlo.

La sua immagine era inoltre arricchita da un passato che parlava solo attraverso vestiti firmati, macchine sportive ed un attico nel cuore di Greenwich Village: chi aveva provato ad indagare, aveva ottenuto ben poche informazioni su alcune ville nell’Italia Centrale, per poi fermarsi lì. Nulla di certo.

Alla gente piace di più chiacchierare di fatti infondati.

Evan McLair appariva costantemente al fianco della coinquilina, ma più che un fedele cagnolino, sembrava agire come una metà della stesso corpo di Charlie. Capelli biondo platino, occhi azzurri vacui di una stupidità soltanto inscenata, curve voluttuose: a prima vista, chiunque avrebbe potuto considerarla il prototipo della bionda americana.

Eppure, in quella riservatezza ostinata che quasi poteva infastidire un estraneo, viveva un animo colto, intellettuale, che si esprimeva per mezzo dei suoi voti sempre alti e a pochi, lunghi discorsi che ribaltavano l’opinione di chi aveva la fortuna di ascoltare. Parlava poco, Evie, ma quando apriva bocca valeva la pena stare in ascolto.

Le due agivano perennemente in simbiosi, diametralmente opposte. Evidentemente attratte l’una dall’altra, rappresentavano i due poli dello stesso campo magnetico.

Charlie era la fiamma, Evie l’acqua cheta: insieme davano l’impressione di essere custodi di un importante segreto, che se rivelato avrebbe scatenato una valanga di proporzioni disastrose. Alle loro spalle, tutti parlavano, tutti s’interessavano delle faccende che riguardavano loro, oltre che il loro gruppetto di sbandati. Carrie Ainsworth, che ad ogni festa abitualmente regalava qualche spogliarello dopo essersi scolata da sola alcune bottiglie di Tequila; quel poco di buono di Calvin Jones, inglese che, con la scusa di studiare in un’università prestigiosa, spillava soldi alla benestante famiglia solo per ingenti quantità di fumo, sempre accompagnato dalla sua ragazza, Kimberly De Vivo, un visetto d’angelo che si trasformava in pantera non appena qualcuno riusciva a venderle alcol; Fredriko Winston, un sempliciotto del Bronx che si spacciava per filosofo, marinando puntualmente l’università per imbarcarsi in viaggi psichedelici; Dominic Fletcher, l’ennesimo figlio di papà che giocava a fare il disadattato.

E poi altri criminali, altre persone poco raccomandabili di cui si attorniavano nell’ombra, come il gestore del loro lussuoso appartamento, o una combriccola di spacciatori di Harlem a cui ogni tanto davano una mano. Erano schive, riservate, e tutti i loro affari erano gestiti con studiata melodrammaticità.

Agli occhi del mondo, avevano tutto.

- Noi come umani cerchiamo disperatamente d’identificarci negli altri, anche se, essendo ipocriti, affermiamo di volerci distinguere. La verità è che ci sentiamo terribilmente tranquillizzati quando scopriamo quanto in comune abbiamo con gli altri: cadere nella banalità viene lodato attraverso perifrasi sui giornali e tv. E, visto che ultimamente va di moda essere ribelli ed alternativi, siamo diventati tutti il prototipo del disadattato chic che detesta le regole. La rivoluzione sta diventando la maggiore causa dell’omologazione. –

Evie abbassò il foglio, in aspettativa. I raggi di sole che entravano dall’enorme porta a vetri che occupava una parete del soggiorno creano ghirigori di oscurità sulla sua pelle lattea. La televisione era sintonizzata su un programma che trasmetteva i movimenti della borsa di Wall Street, ma l’audio era al minimo. Il rumore che più opprimeva l’aria era il suono dei pedali della cyclette che lavoravano freneticamente.

- E’ buono – commentò Charlie, staccando le mani dalle maniglie dell’attrezzo solo per asciugarsi il sudore dalla fronte con una salvezza – Ma non ti sembra più adatto ad un blog su Tumblr che ad una tesi di psicologia sulla massa? – un ghigno speculare si dipinse sul volto di entrambe.

- Ero ispirata – rispose semplicemente Evie, facendo spallucce. Crêpe sembrò guaire il proprio assenso, sdraiato placidamente contro il mobile della televisione. – Tra poco esco – aggiunse, nonostante sapesse che quella era un’informazione inutile. La reciproca conoscenza dei propri ritmi aveva già fatto intuire a Charlie che un’uscita pseudo-romantica era nel programma pomeridiano dei ritmi. E poi, la biondina aveva indossato la tipica canotta scollata e trasparente da appuntamento.

- Stai andando a banane? – inutile, si disse Evie, la coinquilina non si sarebbe mai riuscita a trattenere dallo sparare battutacce che, pur sapendo la portata della loro idiozia, Charlie trovava estremamente divertenti. Le gote della ragazza si arrossarono un poco, mentre la brunetta rideva del suo silenzio. – Devo solo dargli qualche dritta con l’inglese americano! – sbottò, senza riuscire a bloccare il sorrisetto divertito che spuntò sulle sue labbra.

- Sì, propria qualche dritta di lingua! – la risata di Charlie si fece ancora più sguaiata. – Stai diventando come Dominic! – commentò fintamente stizzita Evie, cercando di non farsi vedere dall’amica mentre cercava un pacchetto di preservativi fra i cassetti. Era conscia che la propria constatazione non aveva scalfito minimamente la corazza dura di Charlie.

Per un lungo momento nessuna delle due parlò: la loro convivenza, come anche la loro amicizia, era costituita per lo più da silenzi, da parole non dette che fluttuavano sospese fra loro e che a volte faticavano a comprendere. Era un legame intenso, nato quando avevano rispettivamente quindici e sedici anni, un instabile giorno di settembre come quello. Londra non era mai sembrata cos grigia all’indisponente adolescente che era Charlie, eppure…

- Ti prego, ricordati di usare discrezione per la festa al Gilmoure! Lo sai perché… - Evie sussultò allo sbottare improvviso della coinquilina: la scarpa che stava per infilare al piede le cadde di mano. Quel discorso, così inusuale per l’energia scatenata di Charlie, spuntava soltanto in prossimità di ogni 4 settembre. Quel discorso poi veniva puntualmente dimenticato da una distratta Evie, che veniva contagiata dall’entusiasmo effervescente di Kimberly o Carrie.

- Non ho idea di cosa tu stia parlando! – all’interno della biondina si potevano nascondere molte persone, ma di certo non una bugiarda. Ogni suo muscolo facciale si tese mentre parlava e, nonostante cercasse in tutti i modi di tenere lo sguardo fisso e intenso in quello di Charlie, i suoi occhi azzurri sfuggirono a quel contatto per pochi secondi, ma sufficienti. La brunetta si lasciò scappare un sorrisetto, prima di incominciare a pedalare più forte.

- Sì, Evie – per parlare, la ragazza usò il tono condiscendente che solitamente si utilizza per i malati mentali. – Oh, avanti, ogni anno insisti per rovinarti la sorpresa – sbottò risentita Evie, afferrando la propria borsa con forza per mostrare ancora di più l’irritazione che l’essere scoperta le aveva creato. Charlie scosse la testa, senza commentare, portando la propria attenzione sull’aumento del prezzo del petrolio a barile.

- Evan Anita McLair, smettila di sparare cazzate e prendimi una bottiglietta d’acqua prima di scappare dal tuo fusto primitivo! – strillando senza il benché minimo motivo, Charlie cercò di mitigare la lieve tensione creatasi, non abbastanza forte da incrinare il legame che giaceva sotto quei battibecchi quotidiani. Trattenendo a stento il sorriso davanti ad un comportamento talmente anomalo, Evie si diresse verso il piano della cucina, afferrando una bottiglietta che quella mattina Charlie aveva lasciato lì. Poi, con grazia da ballerina, scagliò l’oggetto contro l’amica, che ridendo non fece in tempo a schivare il dardo.

- E poi sarei io quella irascibile! – massaggiando il punto della nuca in cui era stata colpita, la brunetta osservò la coinquilina chiudere la porta d’ingresso dietro di sé con violenza, in una pessima finzione di rabbia che non sarebbe sopravvissuta alla serata.

Tipico di Charlie, tipico di Evie.

Una voce poi giunse da dietro il legno, attutita dalle pareti – E ricordati di portare Crêpe a fare una passeggiata! –

- Evie, puttana – non si poteva non voler bene a Crêpe: era tutto ciò che si poteva volere da un cane da compagnia, giocherellone e tenero. Ma quando si trattava di portarlo a spasso, occuparsi dei suoi bisogni e tutto il resto, fra le due coinquiline puntualmente scoppiava una faida. Ed ogni volta la pigrizia imposta di Evie aveva la meglio sulla maniacale pignoleria che assaliva Charlie nei momenti più impensati – Non posso oggi pomeriggio, lo sai! Devo… - il suo grido si perse in una risposta lontana, che proveniva da un punto remoto del corridoio e che conteneva il nome di Dina, la donna che ogni mattina rassettava il loro appartamento e si occupava di  Crêpe.

Dopo pochi secondi di silenzio, la ragazza smontò dalla cyclette. Uno dei particolari della casa di cui andava più fiera era lo splendido balconcino che concedeva loro una bella vista del paesaggio urbano: asciugandosi il sudore dalla fonte con una mano, aprì la porta a vetri e si affacciò, guardando sotto. Trascorso un minuto o poco più, la testa platino di Evie sbucò all’ingresso della palazzina. Charlie sapeva che l’amica era cosciente di essere osservata: tre minuti ancora, ed un’auto bianca, apparentemente anonima, accostò al marciapiede. La biondina vi sparì dentro.

Rassegnata, Charlie tornò a pedalare, combattendo contro la stanchezza e cercando contemporaneamente di seguire le notizie al telegiornale. Doveva farsi passare gli appunti della lezione che si era perduta, ma l’ennesima discussione con il rettore Jackson la faceva desistere da quel proposito.

Contrariamente a ciò che la gente può pensare, le giornate a New York sono una noia mortale. La notte è un altro discorso, ma i pomeriggi… la scelta è fra un tentativo di jogging all’aperto, spingendo al suicidio i propri polmoni per le polveri sottili, o le mura domestiche. Sono tutti troppo stressati per cercare d’imitare un pomeriggio di shopping da telefilm per adolescenti.

Il cellulare prese a squillare in quel momento.

- Zitto Crêpe! – se aveva creduto che il cane fosse precipitato in uno stato di coma apparente, si era sbagliata: il labrador incominciò ad abbaiare non appena l’introduzione di chitarra di “Sweet Child O’Mine” si diffuse nella stanza. Charlie sbraitò un altro paio d’istanti contro il cane prima di rispondere. Non aveva dubbi su chi avrebbe trovato all’altro capo del telefono.

- Tanto per sapere, che ore sono dalle tue parti? – cinguettò subito la ragazza, senza nemmeno un saluto: una risata rauca e stanca le fece intuire che la persona con cui stava parlando ancora risentiva del jet lag. Davvero c’erano persone che non sarebbero cambiate mai, neanche di una virgola.

- Vuoi sapere l’ora  di Roma o di Singapore? – chiese prontamente l’altra voce, mescolandosi a rumori di voci e passi che non appartenevano alla realtà newyorkese. Gettando un’occhiata al grande orologio appeso di fianco alla porta d’ingresso, Charlie eseguì qualche rapido calcolo.

- Cosa ci fai a Singapore sveglio all’una di notte? – Federico e Charlot Valenti erano una strana coppia di fratellastri: nonostante avessero rispettivamente ventisette e ventidue anni, quando si ritrovavano a trascorrere del tempo insieme regredivano ad uno stato infantile. Le loro conversazioni erano composte da un punzecchiarsi a vicenda quasi fastidioso per un terzo, e da centinaia di domande, le risposte delle quali potevano essere scorte soltanto fra le righe. Avevano entrambi fisicamente preso dal lato paterno: entrambi avevano capelli folti, bruni, occhi scuri e lineamenti mediterranei.

- Abbiamo appena firmato un accordo commerciale con quella società russa piena di filiali in Asia… Te ne avevo parlato. Cosa c’è, te ne sei già dimenticata? – la rimproverò beffardo. Charlie non poté fare a meno di notare l’utilizzo della prima persona plurale, nonostante solitamente Federico si occupasse delle trattative estere da solo. Ma la ragazza non aveva fretta di chiedere spiegazioni.

- Era una domanda trabocchetto. – ribattè prontamente, sorridendo come una monella: le sembrava di essere tornate ad uno di quegli assolati pomeriggio estivi, quando giocavano e scorrazzavano per il vasto giardino della villetta nei pressi di Siena. – Oggi ha chiamato lo zio Terry. – alle parole di Federico, Charlie si irrigidì: ecco le note dolenti.

Prima che la ragazza potesse ribattere, Federico proseguì: la sua voce si fece più profonda, più seria. – Lo sai che se fosse per me sarebbe diverso… Hai scelto tu di seguire questa strada, e quindi devi accettarne le conseguenze… Lo sai perché. – Charlie rimase in silenzio per qualche istante.

- Papà è lì con te? – domandò infine con un sospiro, smettendo lentamente di pedalare. Asciugandosi poi il sudore, smontò dalla cyclette e si avviò, col tipico passo comodo di chi discute al telefono, verso l’angolo cottura: sapeva di aver appena posto una domanda inutile, ma strettamente necessaria.

Dopo un respiro profondo, senza aggiungere una parola Federico passò il cellulare all’uomo dal cipiglio che già da un paio di minuti seguiva la conversazione. Appariva molto più vecchio di ciò che in realtà era: rughe profonde solcavano la ruvida fronte, e i capelli ingrigiti e radi in perfetta armonia con l’impeccabile completo grigio.

- Tesoro. – la voce di Antonio Valenti era calda e confortante, e ogni volta che le capitava di sentirla anche solo attraverso il metallo Charlie provava un intenso desiderio di ritornare ragazzina, di ritornare all’odio adolescenziale per un padre spesso assente ma comunque severo. Ora che era cresciuta e diventata unico modello di riferimento per sé stessa, la sensazione di solitudine in quella zona del proprio cervello veniva ripagata con contatti e parole poco frequenti con Antonio.

- Ciao papà – rispose, sollevata ma anche rassegnata, con un tono che attendeva una ramanzina coi fiocchi. Bambina.

- Come stai, piccola? Va tutto bene a New York? – Antonia sapeva essere un buon padre e un ottimo aguzzino. Rimandare il momento del rimprovero riempiendo i minuti di tante piccole domande di circostanza (almeno, così Charlie le vedeva) era una sua specialità. – Bene. La trattativa si è conclusa per il meglio? – rispose mesta la ragazza, appoggiando la schiena al frigorifero.

- Così sembra, ma questi russi sembrano restii ad esporsi più di tanto… Stamattina mi ha telefonato Terence. Mi ha parlato di te. –

Appunto.

- E ti ha detto che il corso di statistica economica, così come quello di storia economica ed economia aziendale sono stati trascurati? – il sarcasmo esplose rapidamente, come una bomba a mano difettosa. Charlie sentì il padre sospirare, quasi rassegnato all’irascibilità della figlia. – Avete chiacchierato di come la condotta mia e dei miei amici sia vergognosa, e… -

- Charlot – tuonò Antonio, perdendo la pazienza: nonostante avesse accettato da un pezzo l’inevitabile indipendenza di una Charlie adulta, non tollerava che lei gli si rivolgesse con quei toni. Era lui a pagarle affitto, scuola e droghe, dopotutto. – Nell’ultimo periodo sono state tante le lamentele di questo tipo. Desidero che questo periodo cessi all’istante: sono stato chiaro? –

Fu come trovarselo faccia a faccia, come sentire quegli occhi scuri e profondi scrutarla e riflettersi in uno sguardo che da lui aveva ereditato: ostinata, la ragazza fu molto tentata di chiudere lì la conversazione e spegnere il cellulare, oppure infilare qualche altra parolaccia rivolta al padrino e ad Antonio. Dopo qualche secondo passato in silenzio, Charlie si limitò a sibilare – Sì

Antonio respirò a fondo, allentandosi il nodo della cravatta – Sei proprio come tua madre, non vi si può mai appuntare nulla – il riferimento alla genitrice fece irrigidire Charlie, e allo stesso tempo le suscitò un sorriso con cui schernì sé stessa. – Me lo dici sempre, papà – tipico commento annoiato di una figlia in fondo devota.

- Quand’è stata l’ultima volta che sei andata a trovarla? – quella domanda, diretta e schietta nella sua tonalità affettuosa, lasciava trasparire una conoscenza della figlia che non molti potevano vantare. Era proprio questo dettaglio a mettere sempre in difficoltà la brunetta.

Charlie aprì il frigorifero, emettendo un suono gutturale per temporeggiare: non era mai particolarmente in vena di andare a trovare sua madre. E davanti a lei si stagliava un frigo enorme e quasi vuoto, contenente un paio di vasetti di yogurt magro, frutta e verdura di stagione e latte di soia: Dina ormai sapeva che era inutile comprare cibo destinato alla pattumiera.

Arrivò la spia elettronica del cellulare a salvarla: prima che potesse trovare una buona scusa con cui cambiare argomento, questo l’avvertì che c’era un’altra chiamata in attesa.

Freddie.

- Papà, devo andare. Devo finire di studiare gli appunti di statistica. Ci sentiamo, un bacio! – squillante, non diede tempo al vecchio genitore di ribattere: con un click portò la conversazione telefonica sul contatto dell’amico.

- Allora, la faranno al Gilmoure la tua festa di compleanno? –

- Ovviamente – dall’altro capo si udivano rumori di trasloco, o comunque di mobili che venivano spostati: Charlie non pensò neanche di chiedere cosa stesse succedendo, sicuramente si trattava di qualche strambo progetto di Freddie che riguardava la sua ispirazione in quanto poeta maledetto di terza classe.

- Non ti lamentare. Al Gilmoure non siamo mai andati in bianco, Mildred. – Charlie sbuffò, ridendo poi per evitare di ammettere che comunque Freddie aveva ragione: il Gilmoure era la loro seconda casa. – Devi smettere di leggere thriller di seconda categoria, Freddie! – disse poi la ragazza, riferendosi al buffo ed obsoleto soprannome che le aveva affibbiato. Derivava dall’abitudine del ragazzo di abbuffarsi di libretti da mercatino ogni volta che una delle sue storielle d’amore passeggere naufragava: quando, due anni prima, la loro relazione si era rivelata un fallimento, Charlot aveva commesso l’errore di farsi vedere in giro con un largo maglione di lana che aveva ricordato a Freddie la zia del protagonista di un romanzo di Sharon Bolton.

- Zitta. Stasera comunque ci si trova a casa di Dominic… qualcosa di tranquillo, un paio di persone e un po’ di Jack Daniels. –

Ciò voleva dire che era in arrivo un nuovo rave party.

- Non sono libera prima delle dieci: lo sai il perché… E comunque, non ce la faccio davvero. Sono ancora distrutta per la festa di ieri… - affermò poco convinta la ragazza, prima di allungare la mano ed afferrare un barattolo di yogurt mezzo vuoto. – Eddai, soltanto un calumet della pace! Cosa ti costa? – in quel momento, Charlie avvertì che al telefono Freddie stava sorridendo.

C’erano persone che non se ne sarebbero andate mai.

- Okay. Ci sarò. –

 

 

Rebel Rebel, you’ve torn your dress
Rebel Rebel, your face is a mess
Rebel Rebel, how could they know?
Hot tramp, I love you so!

 

(David Bowie – Rebel Rebel)                                                           

 

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL’AUTRICE

 

Okay, sono vergognosa: sono in ritardo sulla tabella di marcia per quanto riguarda gli aggiornamenti. Ma quest’ultimo mese di scuola è stato allucinante, ho attraversato una crisi seria con la mia ispirazione ed ora sono distrutta. Anche per questo credo che questo capitolo non sia granché, e che sia noioso e banale, perciò mi scuso.

Allora, è una sorta d’introduzione alla vita delle ragazze e, soprattutto, agli altri personaggi di Scoop: non si parla più della loro routine/casino quotidiano, ma restano delle incognite sulle famiglie e sulla vita precedente. E’ stato un capitolo abbastanza tranquillo, l’azione incomincerà con i prossimi.

Adesso le citazioni.

Il poster di Kate Moss esiste davvero, fa riferimento al matrimonio reale recentemente avvenuto, ma la sua presenza in questa storia è puramente casuale.

Everythings gonna be alright, canzone del mitico Bob Marley. L’idea della parete piena di scritte è ispirata ad Alda Merini, la poetessa nostrana, che nel suo vecchio appartamento aveva fatto una cosa simile. Almeno, per quel che mi ricordo.

La citazione sul crack della moneta argentina è liberamente tratta dalla fanfiction della mia collega IoMe, “There She Goes”. Andate a leggervela!

Non c’è nessun altro posto come casa propria, there is no place like home, da “Il mago di Oz”.

Parlava poco, Evie, ma quando apriva bocca valeva la pena stare in ascolto.”, riferimento indiretto a “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano e al suo protagonista Mattia.

Sweet Child O’Mine” è una canzone dei Guns N’Roses.

“Domanda inutile, ma strettamente necessaria”, riferimento indiretto a “La Cantatrice Calva” di Ionesco.

La zia Mildred di cui si parla è quella di Matt neIl risveglio” di Sharon Bolton.

Vi lascio con alcune fotografie prese da Lookbook, di due ragazze che si avvicinano in modo speciale all’idea che ho di Evie e Charlie:

 

Charlot Valenti, 2011

 

Evan McLair, 2011

 

 

 

Bye!

 

 

 

 

 

  
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