Anime & Manga > Captain Tsubasa
Segui la storia  |       
Autore: Melanto    13/06/2011    9 recensioni
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.»
E Yuzo e suo padre hanno smesso di cercarsi.
Si sono persi negli anni, negli obiettivi opposti, nelle spalle girate e nelle porte chiuse. Nelle strade dritte e concrete della famiglia Morisaki, mentre quelle di Yuzo inseguono le linee curve di un pallone; una scelta che suo padre non è disposto ad accettare.
Ma la guerra è fatta di vittime, e mentre si tenta di rimettere insieme i cocci delle certezze in frantumi, ognuno cercherà anche quello che ha perso.
...perché anche le cose perdute si trovano, basta solo saperle cercare.
[lo Shonen-ai è un elemento marginale]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part VI: Sagrada Família -

 

“When I was younger, so much younger than today /
Quando ero giovane, molto più giovane di adesso
I never needed anybody's help in any way /
non avevo mai bisogno dell’aiuto di nessuno, in nessun caso.
But now these days are gone, I'm not so self assured /
Ma ora quei giorni sono andati, non sono così sicuro di me,
now I find I've changed my mind and opened up the doors /
ora scopro di aver cambiato le mie idee e aperto le porte.

 

«Sì, un momento, un momento. Arrivo.»
Il primo pensiero di Chiyo quando aveva sentito il campanello fu che non fosse la domestica di ritorno dalla spesa. Era andata via solo una decina di minuti prima e poi aveva le chiavi. Forse era la giovane Sakuya, per le lezioni di ikebana.
Mentre camminava piano per raggiungere la porta, pensò che Mina avesse nuovamente dimenticato aperto il portone d’ingresso alla proprietà e sospirò rassegnata di quanto svampita fosse quella ragazza.
Ritmico, il ticchettare del bastone sul legno l’accompagnò come sempre, poiché l’anca e l’età non erano più dalla sua, ma non aveva mai fatto in modo che divenisse un peso né per sé né per gli altri. Ogni cosa andava presa con la giusta calma per poter essere affrontata senza farsi battere in partenza; la frenesia e l’ansia accorciavano il tempo.
Quando arrivò all’ingresso, in controluce poté carpire l’ombra di una figura ben più alta di lei. Probabilmente, era quella di un uomo.
Non nascose la sorpresa nel trovarsi davanti suo figlio.
«Baiko?!»
«Ciao, mamma.»
Era fermo, in cima alle scale, con la giacca stretta nella mano e la cravatta sciolta attorno al collo, inoltre i suoi abiti erano bagnati e pieni di sabbia.
«Santo cielo, ma… che ti è successo?»
L’interpellato si grattò una guancia, con imbarazzo. Guardò sua madre da sotto in su, come faceva sempre quando, da bambino, tornava a casa dopo aver combinato qualche guaio.
«Ehm… sono stato al mare.»
Ma alla donna non sfuggì come i suoi occhi apparissero cerchiati e stanchi.
Sul momento si limitò a scuotere il capo, avrebbero avuto tempo per parlare.
«Non credere di poter entrare in casa in queste condizioni, giovanotto. Adesso ti vado a prendere un asciugamano e ti vai a fare un bel bagno; Mina ha passato tutta la mattinata a pulire, se dovesse trovare della sabbia sparsa in giro, le potrebbe venire un colpo.»
Baiko la guardò tornare adagio sui suoi passi, aspettando sul pianerottolo. Gli venne da ridere dei modi che non erano cambiati negli anni e nel ritrovarla ogni volta un po’ più piccola. Tornava di rado in quella casa, ma quello era stato l’unico luogo in cui aveva sentito il bisogno di andare: se davvero voleva iniziare a conoscere suo figlio, allora doveva recuperare le memorie perdute di sé stesso. E poteva trovarle solo lì.

 

“And now my life has changed in, oh!, so many ways /
E ora che la mia vita è cambiata in così tanti modi,
my independence seems to vanish in the haze /
la mia indipendenza sembra svanire nella foschia.
But every now and then I feel so insecure /
Ma a volte mi sento così insicuro,
I know that I just need you like I've never done before /
so che ho bisogno di te come mai prima d’ora.

 

Quando uscì dal bagno si sentì rinato.
Il sale era andato via con l’acqua calda e la pelle aveva perso l’odore del mare in favore di essenze più pungenti e maschili.
Lasciò la stanza, passandosi un asciugamano sui capelli che andavano brizzolandosi con calma e in maniera costante; era ancora giovane nonostante l’avesse quasi dimenticato a causa dei troppi impegni di lavoro, ma questo non significava che il tempo non passasse anche per lui.
Baiko chiuse la porta dietro di sé, camminando per il corridoio silenzioso. Il tessuto leggero dello yukata azzurro scuro lo rinfrescava dalla calura estiva. Erano anni che non ne indossava uno. A dire il vero, ne aveva indossati di rado anche da ragazzo, preferendo uno stile di abbigliamento più occidentale. Ma recuperare le vecchie tradizioni era un po’ come abbeverare le sue radici morenti.
Lasciò scivolare il telo sulle spalle e uscì nell’engawa(1).
Sua madre era inginocchiata a godersi l’arietta piacevole che spirava nel cortile. Lì, sul monte Kuno(2), tra graziosi boschi, faceva meno caldo che sul mare, nonostante fossero a poche centinaia di metri sopra la linea di costa.
Baiko si sedette accanto alla donna, lungo il bordo della veranda. Un piccolo Yuzo sorridente apparve e scomparve correndo per il cortile con un aeroplano di legno tra le mani.
I ricordi si annidavano ovunque, Baiko se ne rese conto solo in quel momento, e lì restavano, aggrappati alle cose, ai luoghi, agli odori e ai colori, a qualsiasi sensazione. Vi si aggrappavano e non scomparivano mai. Erano le persone a farli sparire, smettendo di riviverli; così avveniva il processo della ‘dimenticanza’. Eppure spesso bastava un attimo per riuscire a trovarli di nuovo, srotolarli, come pellicole di un vecchio film.
I ricordi erano un meccanismo strano.
Chiyo stava sistemando i fiori e i rami per la composizione che avrebbe preparato quel pomeriggio assieme a Sakuya, anche se era un po’ indecisa su cosa utilizzare.
«Qui sembra non essere cambiato niente» esordì Baiko, ripensando all’ultima volta che era stato in quella casa. Gli sembrava passata un’eternità.
«Nulla è cambiato, infatti» sorrise la donna distogliendo lo sguardo dai fiori. «Siamo solo diventati tutti un po’ più vecchi.»
«Questo è certo.»
Baiko girò lentamente il capo per abbracciare tutto il cortile fino a fermarsi alla parte opposta dell’engawa dove si trovavano loro. Girato l’angolo della casa, c’era il balcone che conduceva nello studio di suo padre. Non ci metteva piede probabilmente da quando l’uomo era morto; quella stanza era rimasta off limits, ma non perché gli fosse stato impedito di entrarvi. Semplicemente, non aveva mai voluto.
Shuzo era venuto a mancare solo pochi anni prima, Yuzo faceva la prima liceo, e lui, di quel momento, non ricordava più nulla. Non ricordava cosa avesse provato di preciso, se avesse pianto; le immagini di quei momenti si rivelarono di colpo più nebulosi di quanto avesse anche solo potuto immaginare. E lo trovò vergognoso.
La sensazione di ingratitudine si fece spazio sotto al tessuto leggero dello yukata, provocandogli un brivido di fastidio. Allora anche lui, come Yuzo, si era fatto accecare dall’odio e si era vendicato. Nel suo caso, però, la vendetta era stata l’indifferenza, l’estraniarsi, il distacco. Si era disinteressato del tutto della persona che aveva distrutto i suoi, di sogni.
I sogni, già.
Ma quali erano stati?

«Cosa vuoi fare da grande, Baiko-kun?»

La domanda che aveva posto a Yuzo, gli era stata fatta anche a lui, molto, molto tempo prima, ma non riusciva a ricordare da parte di chi. Sospirò, spostando nuovamente lo sguardo al giardino e poi a sua madre. Ci avrebbe pensato dopo, ora aveva altro di cui occuparsi.
«Allora, vuoi spiegarmi cosa è successo?» Chiyo lo anticipò, le mani muovevano con eleganza le peonie. «Non è da te presentarti senza nemmeno fare una telefonata, e per giunta così in disordine. Qualcosa non va, Baiko?»
Nonostante l’età e gli affanni, sua madre gli appariva sempre sottile ed elegante, come da giovane, circondata dalle composizioni rikka shofutai(3) di cui era maestra. E, proprio come in passato, manteneva quell’intuito discreto e attento.
Lui ingoiò a vuoto.
«Sì, più di qualcosa.» Ma le parole sembrarono divenire colla, nella sua bocca, e la stessa difficoltà che aveva avuto con Shunsuke sembrò decuplicarsi perché quella era sua madre e tutto cambiava. D’improvviso si ricordò cosa si provasse a essere figlio e gli si fecero gli occhi lucidi. Distolse lo sguardo, schermandolo con l’asciugamano, mentre fingeva di frizionare i capelli. «Ecco, vedi… si tratta di Yuzo, lui… lui-»
«Mi domandavo quando me lo avresti detto.»
Baiko girò il capo di scatto per osservare Chiyo che, ora, aveva smesso di occuparsi dei fiori ma teneva compostamente le mani sulle gambe e lo guardava a sua volta.
«Tu… lo sapevi?»
«Tra vecchietti ci si intende» rise lei e in quel momento gli divenne tutto più chiaro.
Baiko annuì, passandosi una mano sugli occhi e sbuffando un sorriso.
«Kyoshi.»
«Il padre di Haruko è davvero un brav’uomo e tiene molto a te. Sapeva che me ne avresti parlato di sicuro, per questo mi ha chiesto di aspettare fino a che non l’avessi fatto» spiegò la donna e lui si limitò a continuare ad annuire, ma quando una mano si poggiò sulla sua, tornò a guardare sua madre negli occhi in cui lesse tutta l’apprensione che aveva trattenuto fino a quel momento. Le rughe attorno al viso sembrarono farsi più profonde. «Come sta il mio piccolo Yuzo?»
‘Bene’ non sarebbe stato sbagliato, poiché non era in pericolo di vita, ma non gli parve ugualmente il termine più appropriato.
«Dorme» disse, stringendo le dita sottili e ossute nelle proprie. «Non ci sono novità.»
Chiyo si coprì la bocca con l’altra mano, distogliendo lo sguardo. Sbatté velocemente le palpebre per ricacciare indietro le lacrime che erano arrivate a pungerle gli occhi. Suo nipote era sempre stato un ragazzo solare ed equilibrato, che amava vivere. Non riusciva a credere che fosse arrivato a tanto, che si fosse sentito così perduto e pieno di rabbia da agire in quel modo atroce. Scosse il capo, facendosi padrona di una tenacia che non provava davvero, ma alla quale riuscì ad aggrapparsi per non essere vittima dello sconforto.
«Lui si sveglierà presto, vedrai. È… Yuzo è un ragazzo forte e non… lui non… lui tornerà indietro. Avrete un’altra occasione.»
«Non credo che vorrà darmela, quest’occasione. Mi odia. Mi odia a tal punto da tentare di uccidersi davanti ai miei occhi che… come… come posso sperare che lui voglia darmi una seconda possibilità? Fa male. Mi sento… mi sento inutile! Non posso fare niente! Non posso riprendermi mio figlio! Lui mi odia, Haruko mi odia, ma che razza di padre sono?!»
«Baiko non dire così, tu sei un buon padre-»
«Ah, davvero?! Così bravo che Yuzo ha preferito morire? Così bravo che mia moglie non vuole nemmeno vedermi? Io ho fallito! Non sono riuscito a proteggere la mia famiglia e ora guardaci, siamo… in pezzi.»
«Se ci fosse ancora tuo padre, direbbe-»
«No! Fammi il favore di non nominarlo! Lui e le sue perle di saggezza indiscutibili, per carità! La colpa è anche sua se sono diventato così! ‘Ti insegnerò tutto quello che so’, ‘Impara da me’. Certo! Mi ha insegnato a essere un ottimo manager e un pessimo padre. Ho appreso proprio tutto. Alla lettera.»
«Non essere così duro con lui…»
«Ah, non dovrei?! Chi è stato a dirmi che non c’era spazio per i sogni?!» Gli occhi si riempirono di lacrime di rabbia. Frustrato, Baiko affondò il viso nella mano, per nasconderle. «Ho fatto la stessa cosa con Yuzo. Dannazione. Lo stesso sbaglio.» Aveva il desiderio di distruggere qualcosa. Sfogare in maniera violenta tutto l’odio che aveva assopito con gli anni. Non aveva mai avuto il modo o forse il coraggio di dire a suo padre tutto ciò che pensava veramente; si era lasciato consumare e indurire dalla sua stessa vendetta. Ma quell’indifferenza verso suo padre aveva finito col prendere il sopravvento anche su tutto il resto.
Chiyo esalò un sospiro paziente. Finalmente, dopo anni, avrebbe potuto dire le cose così come stavano e come Shuzo non aveva mai voluto che si sapessero. E poi dicevano che erano le donne a essere creature complicate; non avevano mai incontrato i maschi della famiglia Morisaki, allora.
«Anche tuo padre ha dovuto rinunciare ai suoi sogni di gioventù. Credi davvero che la sua massima aspirazione fosse dirigere la ‘Golden Gun’?» Agitò una mano. «Sciocchezze.»
«Ma se mi ha sempre ripetuto che l’onore della famiglia veniva prima di ogni altra cosa! Che avrei dovuto portare avanti il nome e l’azienda!»
«Perché era quello che avevano sempre ripetuto a lui. Quando l’ho conosciuto, tuo padre non voleva fare il dirigente» Le venne da sorridere nel ricordare un passato in bianco e nero. «Ma l’intagliatore di legno.»
Baiko balzò in piedi, scendendo dalla veranda. «Il cosa?!»
«Voleva essere un semplice artigiano. Non dovresti aver dimenticato quanto era bravo.»
L’aeroplano di Yuzo volò nella sua testa per posarsi sulle gambe di un uomo in yukata che, seduto proprio in quell’engawa dove si trovava lui, lo lavorava con dedizione.
«Quando tu prendesti il suo posto, alla nascita di Yuzo, lui ebbe modo di potersi dedicare alla sua passione, anche se solo come un semplice hobby. È stato allora che si è reso conto di aver sbagliato.»
Baiko tornò a sedersi adagio. Sembrava un robot difettoso, aveva gli occhi spalancati e la testa che veniva mossa appena, come fosse inceppata.
«Sb-sbagliato?»
«Sì. Nel tornare di nuovo libero da obblighi e doveri, nell’avere attorno il suo nipotino, nel vederlo crescere, correre e sognare, si ricordò di come anche lui un tempo avesse avuto dei sogni, di come dicesse ‘quando io sarò padre, sarà diverso’. Capì d’aver sbagliato con te, ma era troppo tardi. E non aveva il coraggio di dirti quel ‘mi dispiace’ che avrebbe sempre voluto perché temeva che l’avresti frainteso e odiato ancora di più.»
E lui, quello, non l’aveva mai lontanamente sospettato né percepito con l’andare del tempo e degli anni. Molto probabilmente, l’indifferenza l’aveva reso cieco davvero a tutto. Baiko si sentì come un bambino al quale dicevano che Babbo Natale non esisteva. Ma ciò che Chiyo aggiunse seppe distruggere definitivamente ogni certezza gli fosse rimasta del suo rapporto con Shuzo.
«Lui non voleva che fosse Yuzo, un giorno, a prendere il tuo posto. Desiderava che, almeno lui, fosse libero di coltivare i propri sogni, che fosse egli stesso fautore del proprio destino.»
«Perché… non me l’ha mai detto?… Dopo una vita passata a sentirmi dire che le vie erano solo dritte e stabilite, perché-»
«Non voleva ferirti né disorientarti. Confidava nel tuo spirito ribelle; anche tu dicevi che le cose sarebbero state diverse. Ci aveva creduto davvero» sorrise «Era molto orgoglioso dei successi di Yuzo nel calcio, era sicuro che ce l’avrebbe fatta, un giorno.»
Le labbra di Baiko si incurvarono aspramente, mentre si sentiva di nuovo chiuso in trappola. Come al solito, suo padre aveva scelto del suo futuro e anche di quello di suo figlio senza nemmeno interpellarlo.
«E’ forse il suo misero modo di ripulirsi la coscienza?! E adesso dovrei sentirmi in colpa anche per non aver capito le sue intenzioni?! Se solo lui mi avesse parlato con sincerità, una fottutissima volta in tutta la sua vita, invece di ripetere a memoria il libro del Codice d’Onore della Famiglia Morisaki, forse non saremmo mai arrivati a questo punto!»
Chiyo emise un lungo sospiro. «Mi sembra che nemmeno tu sia riuscito a parlare nel giusto modo con Yuzo.»
L’uomo si sentì colpire e affondare. Rilassò le spalle, assieme al fiato che sfuggì sonoramente dalle sue labbra. Accennò un sorriso ironico, che aveva perso del tutto il piglio aggressivo.
«Vorresti forse dirmi che ‘buon sangue non mente’
«Vorrei dirti che avete sbagliato entrambi e che non esiste un solo colpevole contro cui prendersela.»
«Ma se non ho un colpevole, cosa mi resta?» Baiko affondò nuovamente il viso in una mano. «Cosa mi resta, mamma?»
«La speranza, Baiko. Yuzo non è ancora perduto e tu devi credere che lo riavrai indietro. A ogni costo. Non arrenderti.» Allungò le dita per carezzargli il capo. «Lui ti somiglia molto.»
«Oh, no. Yuzo è mille volte migliore di me. Non si è piegato alla mia volontà, ha lottato fino in fondo per I suoi sogni, per sé stesso e la sua libertà. Non ha permesso che qualcun altro decidesse per lui.» Il viso riemerse da dietro le dita che vennero abbandonate in grembo. Accennò un sorriso, questa volta sincero. «E’ più forte.»
«Anche tu eri forte, alla sua età. E ribelle! Tutto il giorno con quella musica americana che tuo padre tanto odiava. Non ascoltavi nemmeno una canzone giapponese!»
«Me lo ricordo. Papà diceva che ero poco nazionalista. E comunque: inglese, mamma, inglese. Non americana. I Beatles erano inglesi.»
«E’ la stessa cosa. Così come quegli altri lì, con quel cantante magro magro e dalla bocca enorme!»
«Mamma! Mick Jagger è un’icona del Rock!»
«Massì, è brutto lo stesso.»
«E comunque, credo che un po’ lo facessi di proposito. Farlo arrabbiare era un modo come un altro per dirgli che esistevo in quanto ‘individuo pensante’ e non come marionetta delle tradizioni di famiglia. Non ha funzionato molto bene…»
«Invece sì, ma sperava che tu mantenessi questo spirito fino in fondo.»
«Umphf. Non ero un granché come pecora nera.» Ci pensò un po’, accompagnato dal cantare dei grilli e delle cicale. «Ti spiace se do un’occhiata alla mia vecchia camera?» - …vorrei ricordare cosa ho lasciato indietro - ed erano tante cose, così tante che non aveva il coraggio di dirle.
«E perché dovrebbe dispiacermi? La tua stanza è rimasta tal quale da quando te ne sei andato. Tuo padre non ha mai voluto che la toccassi, pensava che Yuzo avrebbe potuto trovarvi molte cose interessanti; magari delle passioni comuni.»
Baiko salì sull’engawa, avanzando verso l’ingresso. Sorrideva, anche se con amarezza. «Non credo. Siamo troppo diversi e poi… se davvero buon sangue non mente, anche lui finirà col detestare le cose che piacciono a me solo per farmi dispetto.»
Chiyo lo scortò con lo sguardo fino a che non scomparve nei corridoi di casa. Sotto il carattere severo che aveva necessariamente sviluppato nel tempo, quasi fosse un’arma di difesa, continuava a esserci ancora suo figlio, anzi, stava finalmente tornando allo scoperto, mentre la dura scorza si spaccava e cadeva in pezzi come un guscio vuoto. E più lo guardava, più riusciva a scorgere Yuzo nelle sue espressioni. Sorrise. Era convinta che avessero ancora molto altro in comune.
«Chissà» mormorò tornando a dedicarsi alla sua composizione floreale. «Non si può mai dire.»
Con occhio critico guardò prima il rosso lycoris e poi il giallo e vivace rametto di rengyou. Il sorriso si tese di più nel prendere il secondo. Lo rigirò delicatamente tra le dita, osservando l’intenso colore dei suoi bellissimi fiori.
«Quest’oggi, il tema sarà la speranza(4)

“Help me, get my feet back on the ground /
Aiutami, fammi tornare con i piedi per terra.
Won't you please, please help me? Help me. Help me /
Non vuoi aiutarmi, per favore? Aiutami. Aiutami.

The BeatlesHelp!

*

“Ground Control to Major Tom (10... 9... 8...)/
Torre di controllo a Maggiore Tom (10... 9... 8...),
commencing countdown (7... 6...)/
inizio del conto alla rovescia (7... 6...),
engines on (5... 4...)/
motori accesi (5... 4...),
check ignition (3... 2... 1...)/
controllo dell’iniezione (3... 2... 1...)
and may God's love be with you (Lift-off!)/
e che l’amore di Dio possa essere con te (Decollo!).

 

Aveva attraversato il corridoio con l’intenzione di puntare dritto alla propria camera, ma quando si ritrovò davanti alla porta dello studio di suo padre si fermò.
Baiko guardò a lungo l’uscio chiuso. Suo padre lo lasciava sempre serrato, anche e soprattutto, quando era in casa. Anche per quello, invece, lui teneva la porta del proprio sempre aperta. Un modo come un altro per dire che erano diversi, per contraddirlo quasi fosse stato un bastiancontrario. Ma ora… ora si rendeva conto di quanto, invece, fossero simili. Entrambi avevano compiuto gli stessi identici errori ed entrambi ne avevano pagato le conseguenze.
Lentamente, aprì la porta.
Quella stanza e la sua erano le uniche due camere in stile occidentale dell’intera casa. Suo padre aveva cercato di fondere oriente e occidente nell’arredamento per una questione di abitudine; avendo a che fare con acquirenti esteri, viaggiava spesso e allora, almeno quella stanza, doveva continuare a mantenere un aspetto che si distaccasse dalla sua realtà esclusivamente giapponese. A guardarla adesso, sembrava quasi che suo padre avesse voluto tenerla separata dal resto, come se ‘casa’ e ‘lavoro’ non avessero dovuto mischiarsi. Ma se l’intento era stato quanto mai nobile e giusto, la messa in pratica era stata un vero fallimento. Bastava guardare lui.
Baiko avanzò in direzione della scrivania, guardandosi attorno.
Le tende erano aperte per permettere alla luce di entrare. Suo padre detestava avere la stanza buia, par contro, lui aveva sempre le tende tirate per lavorare meglio al computer. Bastiancontrario, appunto.
Era tutto ordinato e anche se di sicuro ci si entrava almeno una volta al giorno per aprire i vetri e far passare aria, si vedeva che quella stanza non era più stata vissuta dalla morte di Shuzo.
Baiko appoggiò una mano sul legno della superficie, facendo scorrere piano il palmo, mentre girava intorno al tavolo. Da piccolo capitava che si nascondesse sotto la scrivania quando suo padre non c’era e lui voleva far ammattire la domestica, oppure voleva starsene tranquillo a leggere un libro. Lì sotto gli piaceva perché quella era la ‘stanza di papà’ e poiché Shuzo ci si rinchiudeva praticamente per tutto il tempo che era in casa, Baiko pensava che fosse un modo come un altro per sentirlo un po’ più vicino. A saperlo che quella camera, simbolicamente, sarebbe stata la sua rovina, ci si sarebbe tenuto ben alla larga.
Quando sollevò lo sguardo agli oggetti che erano sulla superficie del tavolo, l’occhio gli cadde subito sulla fotografia dalla larga cornice in legno, chiaramente fatta a mano, che campeggiava in uno degli angoli.
Suo padre sorrideva assieme a uno Yuzo delle scuole medie, in divisa da calcio. Dal suo sguardo e dalle labbra curvate verso l’alto trapelavano soddisfazione e orgoglio per il nipote, proprio come gli aveva detto Chiyo. Era felice di ciò che vedeva in Yuzo, di ciò che avrebbe potuto diventare se avesse continuato a impegnarsi. Fosse stato ancora vivo e avesse saputo che aveva vinto il World Youth ed era stato chiamato per giocare in JLeague, avrebbe fatto i salti di gioia, Baiko ne era sicuro.
Guardò suo figlio, la divisa della nazionale e la medaglia al collo, sorrideva come se avesse avuto il mondo intero tra le mani.
Faceva solo le scuole medie, eppure aveva vinto il campionato mondiale juniores. Santo cielo. Allora era bravo davvero.
Lui non l’aveva mai visto giocare, non era mai andato a una sola partita ostentando sempre la scusa del lavoro e della mancanza di tempo per non ammettere di sentirsi messo da parte, mentre vedeva suo figlio crescere e allontanarsi.
Adagio si sedette nella poltrona di suo padre, appoggiando la schiena alla pelle morbida del rivestimento. Fece scivolare la mano su di un bracciolo, nel tentativo di seguire la forma che, in un tempo lontano, aveva lasciato il braccio di Shuzo, mentre l’altro veniva puntellato, col gomito, sul bracciolo opposto.
Se solo loro, tutti e tre loro, non fossero stati così incapaci di comunicare…
«Avresti dovuto dirmelo almeno una volta, papà… avresti dovuto tentare…»
Baiko appoggiò il mento nella mano, ruotando piano il girevole della sedia in un gesto meccanico. A pensarci, si ricordò che anche suo padre lo faceva sempre. Buon sangue non mentiva mai: anche se si era capaci di fare l’impossibile per essere diversi in tutto e per tutto, si finiva sempre con l’avvicinarsi un po’ di più.
Guardò ancora la foto e gli venne da sorridere: era bella.
Perché lui non ne aveva una della sua famiglia sulla scrivania? Né a casa né a lavoro. Il suo tavolo era pieno solo di carte e computer, oggetti che andavano e venivano e non avevano nulla di personale, non davano una storia a chi ci lavorava ore e ore al giorno. Il suo studio era la stanza più anonima della casa. Era finemente arredato, sì, metteva in mostra una pregiata collezione di armi, sì, aveva oggetti di antiquariato orientale e occidentale, ancora sì, ma… di lui, di Baiko Morisaki, della persona che era o era stata, non c’era niente, niente, niente.
Inspirò a fondo, levando lo sguardo al soffitto con una certa rassegnazione. Gli sembrò quasi di dover ricominciare tutto da capo, di avere così tante cose da recuperare da non potercela fare nemmeno con un’altra vita, perché era proprio quello ciò di cui aveva bisogno: una vita nuova e non ne aveva né il tempo né la possibilità.
Fece per alzarsi quando l’occhio gli cadde su di un’altra fotografia, all’altro lato del tavolo. Era più piccola e dai colori sbiaditi. Riconoscere il soggetto di quello scatto lo inchiodò con le mani sulla superficie per alcuni momenti. Poi espirò lentamente, cominciando a ridere.
«Oh, mio Dio…»
Afferrò la cornice.
«Oh, mio Dio!»
Se la portò davanti e rise, rise forte e di gusto.
«Non ci posso credere!»
Un ragazzino delle medie – doveva avere suppergiù la stessa età di Yuzo nella foto con il nonno – una mano dietro la schiena piegata in avanti, l’altra sul ginocchio, il cappellino in testa un po’ sbilenco e lo sguardo fisso dove lo stava aspettando un battitore altrettanto soldo di cacio.
«Ma sono io!»
La divisa della Suruga Gakuen gli parve di non averla mai smessa, mentre, come una folata di vento caldo, gli tornò alla mente quella sensazione di ritrovamento che aveva avvertito quando si trovava all’ospedale assieme al signor Tamura.
Il tavolo da disegno.
I dischi in vinile.
Il baseball.
Aveva smesso di giocare con la fine del liceo, nonostante fosse piuttosto bravo, ma con la scuola si erano chiusi anche i suoi sogni, così la palla e il guantone erano stati riposti su una mensola e prendere polvere.
Baiko sollevò il capo di scatto, ricordandosi che dovevano essere da qualche parte nella sua camera. Si alzò, portando la fotografia con sé senza nemmeno accorgersene. In rapidi passi raggiunse la stanza aprendone la porta di slancio.
La finestra era aperta, le tende oscillavano alla brezza estiva. I poster di Cy Young(5) e Sadaharu Oh(6) si mischiavano a quelli dei Beatles.
Gli sembrò di tornare indietro di venti, trent’anni, mentre i ricordi si animavano tutti e tutti insieme davanti ai suoi occhi. Uno, cinque, dieci ragazzi contemporaneamente si muovevano avanti e indietro per la stanza, velocissimi. Vivevano, crescevano. A guardarli bene, erano sempre la stessa persona, ma solo in età diverse. Era sempre lui.
Baiko sbatté un attimo le palpebre e l’ondata sembrò acquietarsi, dopo averlo passato da parte a parte.
Avanzò piano, poggiando la cornice sul letto e continuandosi a guardare attorno. Il sorriso carico di meraviglia e scoperta infantile tornò a distendergli le labbra nel raggiungere la libreria.
Il guantone con la palla erano lì, su uno dei ripiani, assieme al suo vecchio cappellino dalla visiera ormai logora. Riprenderli in mano gli riportò la sensazione della terra sotto le dita e del sudore sulla fronte; il ruvido del cuoio e il cuore che batteva a mille per non sbagliare il terzo lancio ed eliminare il battitore. La faccia ingrugnata e combattiva di Nakamoto che lo sfidava a fargli il terzo strike apparve e scomparve nella palla che veniva lanciata in aria e poi ripresa nel palmo. Il guantone gli andava stretto, ormai.
Qualcuno urlava, qualcuno rideva, il mister faceva strani segni in codice dalla panchina e lui, un tempo, li conosceva tutti a memoria, mentre ora non ne rammentava nemmeno uno eppure rideva lo stesso. Che importava? Era la sensazione a contare davvero, era avere nuovamente tutti loro in testa con immagini bloccate nel tempo, certo, ma di nuovo vive. Quei ricordi avevano una marea infinita di suoni.
Baiko mise da parte il guantone e la palla e fece scivolare la mano sulla fila infinita di copertine impilate ordinatamente sullo scaffale.
«I miei dischi…»
E ce n’erano talmente tanti che avrebbe potuto far la gioia di un collezionista.
Vinili originali dei The Beatles, Rolling Stones e altri grandi del Rock inglese. Poi Elvis, Crosby Stills Nash & Young, Lou Reed, i Queen e David Bowie. Si fermò su quest’ultimo e cavò un LP dalla fila.
Dio, quante volte l’aveva sentito, fin quasi a consumarlo.
Bowie era un visionario così particolare che non a tutti poteva piacere, ma c’erano canzoni che riuscivano a restarti dentro come se ce le avessero infilate con la forza.
Fece scivolare la mano sulla copertina dagli spigoli un po’ piegati e ingialliti e ridacchiò: il primo lento che aveva ballato con Haruko in una festa scolastica era stato sulle note di Space Oddity; lontano dalla sala, c’erano stati solo loro due e una piccola radiolina. Era stato quello a fargli apprezzare Bowie, gli aveva portato fortuna.
Ripose LP, il sorriso si smorzò.
Non sentiva Haruko da giorni.
Gli mancava da morire e si sentiva un fesso.
Avrebbe dovuto starle vicino invece di tenersi a distanza, nascondendosi dietro la scusa del: ‘è meglio così, tanto mi odia’. La verità era che non era all’altezza di poter sostenere la sua sofferenza se non sapeva affrontare nemmeno la propria, non era all’altezza di poter affrontare il suo sguardo in cui rivedeva Yuzo se non era capace di affrontare Yuzo stesso.
Baiko si passò una mano nei capelli ancora umidi e si volse. In quel momento il cuore sembrò quasi esplodergli dentro nel vedere la strana sagoma coperta da un lenzuolo.
La guardò per un attimo con la bocca semiaperta, mentre una genuina felicità si irradiò dal suo petto per raggiungere ogni parte del corpo, finanche la punta dei piedi.
Baiko la raggiunse velocemente, afferrò i lembi del tessuto e lo tirò via.
Il suo sogno era esattamente come lo aveva lasciato.
«Il mio tecnigrafo!» esultò «Quanto ho lavorato per comprarmelo!»
Si era giocato un’intera estate e l’inverno successivo tra lavoretti di ogni tipo. Era stato il primo anno del liceo. Lui e Haruko erano andati a prenderlo insieme e allora non erano stati che compagni di scuola che si trovavano… molto simpatici.

«Cosa vuoi fare da grande, Baiko-kun?»

Quella domanda, di nuovo, risuonò nella testa dove il vuoto cosmico era stato ormai riempito senza mai divenire saturo. Questa volta, però, la voce che la pronunciava aveva una nota femminile, occhi nocciola e capelli lisci, che ricadevano sulle spalle. Familiare. Come sua moglie.

«Farò l’architetto!»
«L’architetto?»
«Sì! Voglio costruire delle case. Case bellissime e accoglienti in cui le persone possano essere felici di vivere.»
«Beh, ma non pensi che una casa sia solo una casa?»
«Per me è molto di più. Le case sono il seme dei ricordi. Sono le prime cose di cui ognuno ha memoria e che conservano memoria di chi le ha vissute. Possono dire così tanto della persona che le occupa. Sono le più grandi biografie esistenti.»
«Oh… non l’avevo mai vista in questo modo…»
«E poi voglio progettare qualcosa di unico.»
«Ah, ah, ah! Non essere superbo!»
«Non è superbia. Hai mai sentito parlare di Gaudì?»
«Gaudì? Non sembra un nome giapponese.»
«Non lo è, infatti. Antonì Gaudì è spagnolo. È stato uno dei più grandi architetti del mondo. Ha costruito cose meravigliose che nessuno sarebbe in grado di eguagliare! Era un genio! Diceva che ‘la linea retta è la linea degli uomini, quella curva è la linea di Dio’. E io non voglio fermarmi alla linea retta.»
«E poi dici di non essere superbo. Attento, Baiko Morisaki, così rischi di diventare anche presuntuoso. Ah, ah, ah!»
«Naaa, Haruko-chan non hai capito! Sto solo dicendo che voglio che tutta la mia vita sia un’immensa linea curva perché così sarò libero di non avere limiti. Sai, Gaudì ha progettato una chiesa cristiana bellissima. Si chiama ‘Sagrada Família’. Ecco io… anch’io voglio creare qualcosa di altrettanto maestoso e grande e unico. Voglio creare la mia Sagrada Família.»

E in quella linea curva ci si era chiuso, in trappola, in maniera ciclica. Non c’era la libertà di non crearsi limiti, ma limiti che avevano soffocato la libertà. La sfera era divenuta il mausoleo alla sua memoria, non la sua biografia.
Le dita di Baiko scivolarono sulle righe del tecnigrafo dal braccio mobile, sul piano bianco e liscio e si fermarono su una cartellina chiusa. L’aprì e il bozzetto a mano libera della Sagrada Família di Gaudì occhieggiò su carta ruvida e in bianco e nero.
I suoi sogni erano rimasti intrappolati in quelle linee a matita, incomplete come la stessa basilica.
«Io l’avevo costruita, la mia opera unica… e l’ho distrutta…» mormorò, sedendosi sullo sgabello, e lì stette.

 

“Here am I floating /
Sto galleggiando qui,
round my tin can /
attorno al mio barattolo di latta.
Far above the Moon /
Lontano, sopra la Luna,
planet Earth is blue /
il pianeta Terra è blu
and there's nothing I can do /
e non c’è niente ch’io possa fare.

David BowieSpace Oddity

 

«Portasti avanti più di tre lavoretti, quell’anno.»
La voce di sua madre lo sorprese nel momento in cui era stato convinto di essere da solo. Sussultò e si volse. La trovò ferma vicino alla porta, con le mani appoggiate sul bastone.
Baiko accennò un sorriso, richiudendo la cartellina. «Già. Furono i primi lavori. Si rivelarono un’esperienza davvero utile. Macinavo chilometri con la mia bicicletta.»
«Tuo padre non voleva assolutamente che ti distraessi dallo studio.» Claudicante, Chiyo lo raggiunse un passo alla volta.
«Me lo ricordo. Ma questo tecnigrafo era molto importante per me.» Baiko fermò le mani sul ripiano, osservandolo nella sua interezza con amaro rimpianto. Ormai non gli serviva più.
Sua madre appoggiò il bastone al legno del tavolo, e gli mise entrambe le mani sulle spalle.
«La tua opera non è distrutta, Baiko, è solo incompleta, proprio come quella chiesa. E tu puoi ancora continuarla e concluderla.»
Lui scosse il capo con dolenza. Era convinto che a quel punto fosse tutto inutile, stava rincorrendo delle illusioni così come stava facendo con i suoi ricordi. «E come? Non era così che doveva andare…»
«I progetti non sono stabiliti, ma possono cambiare in qualsiasi momento. Lo faceva anche quell’architetto: seguiva i lavori passo passo e li modificava senza affidarsi a un disegno su carta, perché ogni cosa era nella sua testa. Puoi farlo anche tu, niente è perduto.»
Baiko le rivolse un’occhiata ironica. «E tu come-»
«Perché sei mio figlio, devo conoscerle le tue passioni per poterle capire e capirti.»
Lui rise. No, sua madre non era per niente cambiata. La osservò allontanarsi dopo che gli ebbe dato un colpetto sulla spalla.
«Vado a preparare del tè» disse, ma si fermò sulla soglia. «Ah, a proposito di quella vecchia bicicletta. E’ ancora nella casetta degli attrezzi. Tuo padre le ha fatto una manutenzione continua, sperava che un giorno Yuzo potesse tornare a farla pedalare.»
«Cosa?! La-la mia bici?!» Baiko la guardò stralunato. Aveva attraversato infinite volte il paese in sella alla sua bicicletta, l’aveva usata per andare a scuola o per andare ad allenarsi a baseball. Di nascosto, ci era anche andato al mare, pedalando lungo la passeggiata per respirare l’odore piacevole di salsedine. Era stata una specie di compagna di avventure lungo le infinite linee curve della sua giovinezza prima che si chiudessero su loro stesse, come un guscio di lumaca, per assumere una forma sferica, ciclica e dritta. Però sua madre aveva ragione, i progetti potevano cambiare. La sfera, le volute del suo guscio si erano spezzate e ciò che era stato dritto, poteva tornare a curvarsi infinite volte inseguendo l’astratto e non il geometrico.
Lui era la mano, era Gaudì, era il progetto. E non era perduto.

«Non è mai troppo tardi.»

Baiko si alzò velocemente, iniziando a frugare nel suo vecchio armadio. C’erano ancora gli abiti che aveva lasciato lì prima di sposarsi. Era stato sicuro non gli sarebbero più serviti, ma non aveva fatto i conti col destino e i suoi tornanti.
Chiyo lo osservò con perplessità. «Ma… cosa cerchi?»
«La mia tuta, mamma, è ancora qui?» domandò, cavando l’impossibile.
«Beh, sì… è nell’anta centrale…»
Baiko la trovò subito, così come trovò, sotto al letto, anche l’ultimo paio di scarpe da ginnastica che aveva comprato e che potevano vantare la bellezza di più di vent’anni. Svelto si richiuse in bagno e ne uscì qualche minuto dopo, vestito di tutto punto.
«Si può sapere che stai facendo?» Chiyo aveva continuato a seguire i suoi movimenti senza riuscire a comprendere. Gli vide inforcare l’uscita di casa e fece per seguirlo quando notò la fotografia abbandonata sul letto. Sorrise e la portò con sé, muovendosi adagio come gli consentiva la sua anca malridotta. Si affacciò in tempo per vedere il figlio entrare nella casetta degli attrezzi che Shuzo aveva fatto diventare il suo laboratorio personale.
Baiko ne uscì dopo un po’ assieme alla famosa bici. Era in condizioni perfette, suo padre vi aveva cambiato la catena e l’aveva addirittura riverniciata. Gli era bastato darle una gonfiata alle ruote per averla nuovamente pronta per affrontare la strada.
Montò in sella, avvertendo di nuovo gli anni dell’adolescenza formicolare sotto le dita.
«Possiamo berlo più tardi il tè?» domandò, rivolgendo a Chiyo il sorriso solare di chi aveva il mondo intero nelle mani. «Vado a fare un giro!»
Mentre lo vedeva varcare il cancello che delimitava la proprietà, sua madre sorrise. C’erano voluti più di vent’anni e molta fatica, ma Baiko aveva finalmente trovato la sua strada.
«Non preoccuparti, caro» Chiyo si rivolse a Shuzo, stringendo un po’ di più la cornice al petto «saprà rimediare ai suoi errori, vedrai.»

 


[1]ENGAWA: è la classica verandina in legno delle case giapponesi tradizionali (esempi: *clicca qui*, *clicca qui*, *clicca qui*).

[2]MONTE KUNO: è un monte che si trova nel distretto di Suruga-ku, nella Prefettura di Shizuoka, alto 216 metri. E’ molto ripido ed è famoso per il tempio scintoista sito alla sua sommità: il Kunōzan Tōshō-gū.

[3]RIKKA SHOFUTAI: l’arte dell’Ikebana ha diversi stili, più o meno complicati. Il Rikka è lo stile più antico e classico, molto complesso e attualmente poco praticato se non dai grandi maestri nelle occasioni particolari. Esiste il Rikka Shofutai e il Rikka Shimputai. La differenza sta nel fatto che mentre lo Shofutai segue regole e tecniche molto restrittive e rigide, lo Shimputai è più… rilassato. XD
Ho sempre trovato l’Ikebana un’arte meravigliosa, in grado di valorizzare e rendere unici i fiori recisi, naturali, come fossero ancora attaccati alla pianta. E dire che a me non piacciono i fiori recisi, eh, quindi è tutto dire. X3
Ho scelto lo Shofutai, perché comunque la madre di Baiko è più anziana, e quindi vi era un modo di fare ikebana di sicuro differente da quello attuale (inoltre, lo Shimputai è stato introdotto solo nel 1999!) (Esempio di Rikka Shofutai: *clicca qui*)

[4]: Nel linguaggio giapponese dei fiori, il Lycoris (o Higanbana o Red spider Lily) significa ‘abbandono, memorie perdute’, mentre il Rengyou (o Forsythia) significa ‘speranza’. :3 ogni riferimento agli eventi NON è puramente casuale XD (esempio di Rengyou: *clicca qui* *-* io ce l’ho in giardino!; esempio di Lycoris: *clicca qui* °-° sono meravigliosi!).

[5]CY YOUNG & [6]SADAHARU OH: due famosissimi giocatori di Baseball. Ciclone Young è stato uno dei più grandi lanciatori del baseball americano, tanto che vi è un premio per i lanciatori che porta il suo nome. Sadaharu Oh, invece, è stato (in gioventù, ora fa il manager XD) un lanciatore che venne convertito in prima base divenendo uno dei più importanti battitori del baseball giapponese. Ha giocato tutta la sua carriera con i Giants, collezionando 868 home runs! XD


Note extra:

- La Sagrada Família: perché Gaudì era un genio, di quelli veri. Adoro quella chiesa, penso sia la più bella del mondo ed è un peccato che non sia riuscita a completarla lui, di suo pugno. Purtroppo, nonostante verrà ultimata, non sarà mai come Gaudì avrebbe davvero voluto che fosse perché è vero: lui presenziava ai lavori, viveva dentro la chiesa, effettuava cambiamenti in corso d’opera senza più affidarsi ai disegni.
Che peccato. ç_ç.

- Il Tecnigrafo: non so quanto ancora vengano usati dagli architetti moderni, visto che esistono programmi di grafica strafighi che fanno anche l’impossibile. Voglio ancora sognare un po’ che questi bei tavoloni da disegno facciano bella mostra negli studi dei professionisti, pieni di carte e progetti. Ho avuto il piacere di usarne uno quando facevo il quarto anno di liceo, poiché avevo disegno tecnico tra le materie, e l’ho amato tanto. Era un vero piacere disegnare sul tecnigrafo, tanto che mi sarebbe davvero piaciuto poterne avere uno a casa. XD Ma, insomma, sono ingombranti e poi non credo l’avrei più usato XDDDD (Esempio di tecnigrafo: *clicca qui*, il mio però non era così bello XDDDD).

- Perché l’Architetto?: non è la prima volta che uno dei miei personaggi fa l’architetto (chi ha letto la serie original “Stella di Sabbia” si ricorderà di Nicola). Mi piace l’architettura, resto moltissimo a osservare case, chiese e costruzioni varie, se riescono a colpire la mia attenzione (XD e il mio ragazzo ne sa qualcosa, visto che ogni tanto quando siamo a Torino mi metto a fotografare ora questa, ora quella casa! XDDD).
Quando ho dovuto scegliere quale fosse l’aspirazione di Baiko, ho pensato a un omino che viene sempre nell’aula studio dove vado io. E’ un signore sulla cinquantina, armato di album, colori e matite. Sta lì, spalle alla finestra per avere la luce sul foglio, e disegna. Disegna, disegna, disegna. Una volta ho allungato il collo per sbirciare (XP) e stava facendo un bellissimo disegno di quella che sembrava essere una chiesa. Dal modo in cui lavorava, in cui teneva le matite ho subito pensato che fosse un architetto e trovo piacevole star lì a osservare la sua dedizione per ciò che sta facendo (non l’ho mai visto spiccicare parola, non ha occhi che per il foglio). Mi ha fatto un sacco tenerezza! :3
Ecco, quando ho visto lui, ho pensato: “Baiko sarà architetto.”
(XD cosa non si fa pur di non studiare Geologia Applicata!)


Le canzoni del capitolo:

- Help! (The Beatles): perché Baiko ama i Beatles e visto che da questo capitolo comincia la discesa (con il precedente avevamo raggiunto un culmine, un picco), allora le loro sonorità allegre e dinamiche mi sembravano quelle più adatte. E poi il testo era perfetto! :D

- Space Oddity (David Bowie): Bowie o lo ami o lo odi, le vie di mezzo non esistono. Space Oddity sapeva ricreare la meraviglia della scoperta – riscoperta, in questo caso – lasciando però, nel finale, una certa amarezza. E poi adoravo il conto alla rovescia della parte iniziale, è come se fosse il countdown finale di Baiko, gli ultimi passi per arrivare finalmente ad affrontare le cose lasciate alle spalle (lo studio di suo padre, la propria camera, il baseball, il tavolo da disegno).
Infine, si parla di astronauti e a cosa era stato paragonato fin dall’inizio il cervello di Baiko? :3
(Il video linkato non è quello originale, ma una seconda versione che a me, personalmente, piace di più! :D)


Ok, anche per questo capitolo è davvero tutto!
Al momento sono a 8/11 capitoli, sto lavorando al 9 ma ci vuole tempo. Cercherò di non saltare nessun aggiornamento, in caso contrario vi avviserò.

Ringrazio tutte le persone che stanno seguendo questa storia! :D

   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Captain Tsubasa / Vai alla pagina dell'autore: Melanto