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Autore: Furiarossa    23/06/2011    0 recensioni
"Vivi di carne come di parole, ama Gaia, la Madre Terra, come la sua sorella Luna e non temere ciò che verrà domani. Combatti, e se il dolore ti assale rallegratene ugualmente perché ciò può solo significare che sei ancora vivo."
Una storia un pò speciale... sarà un licantropo a farla da padrone, ma credetemi, se siete appassionati dei classici mitologici o del cinema horror, troverete almeno uno dei vostri eroi.
Da Dracula a Merlino, da Lilith al grande Fenrir, ecco che fine ha fatto la mitologia, ai giorni nostri ... un'avventura esaltante, narrata in prima persona da un eroe, anzi, un'eroina, che rompe tutti gli stereotipi.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 10
Fritto misto di personalità

Uscimmo dal salone. Il cortile esterno si era già quasi spopolato del tutto da quando dentro avevano attaccato con la musica da ballo. Tutta quella gente, probabilmente, non aveva mai avuto la possibilità di ballare un vero valzer e non voleva certo farsi scappare l’occasione. Questo, considerata la situazione, era un bene perché finalmente avevamo uno spazio per parlare di cose sovrannaturali senza che gli invitati ci fissassero straniti.
Set si fermò e si appoggiò al muro con fare stanco
«Avrei voluto un approccio pacifico» iniziò, socchiudendo gli occhi «Avrei voluto raccogliere informazioni su di loro, su come vivono, dove operano e perché, esattamente, vi danno la caccia. Ma un lupo dorato gigante mi ha messo i bastoni fra le ruote. E allora sono costretto a trovare un altro modo per prendermi quello che voglio» mi guardò con le palpebre strette, come se fossi troppo luminosa ed insieme irritante «Il grande lupo dorato deve fare quello per cui è nato, no?»
«Cosa?» chiesi, avanzando verso di lui di un passo
«Non credevo che tu non riuscissi a indovinarlo … » era deluso
«Un lupo … un lupo, da quel che ne so, è fatto per cacciare » mi giustificai «Non riesco a trovare altre … ragioni»
«Esatto» illuminandosi mi prese la mano e la voltò verso l’alto «Queste mani … queste mani sono fatte per tendersi nel buio e per carpire la preda mentre essa corre. Corre incontro alla morte.. Guardale. Tu sei fatta per cacciare ed è quello che ti chiedo di fare stasera» di nuovo si sollevò in punta di piedi e mi guardò dritta negli occhi, a un soffio dal mio volto, il fiato caldo che mi sfiorava le guance «Nasconditi nell’ombra. E divieni ombra. Devi solo prendere quell’uomo, Sebastian Barren. Non mi interessa se lo ferisci, se gli strappi un braccio o una gamba, se lo accechi, ma fa in modo che possa parlare quando lo porterai al mio cospetto»
«Sei diabolico, Set» constatai, affascinata dal lato oscuro che il mio giovane amico non mi aveva mai mostrato «Non pensavo che mi avresti mai chiesto una cosa del genere»
«Neanch’io» ammise lui, riabbassandosi alla propria altezza e chinando un po’ il capo «Ma tu mi stai facendo vedere le cose da … da un lato diverso, Se fossi solo non lo fare mai, ma tu sei un goldenwolfen. Cacciare gli esseri umani è nella tua natura ed io non voglio forzarti a fare cose che in natura non faresti. Sono contro i maltrattamenti agli animali, lo sai, no?» mi sorrise, genuino, gentile, con ogni traccia di malignità dissolta.
No, non era malvagio, lui. Solo che voleva il mio bene ed io ero una persona assolutamente malvagia. Forse. No, non ero malvagia, ero, come diceva lui, solo molto naturale. Ed era nella mia natura uccidere e ferire. Feci un bel respiro profondo, poi mi chinai verso September e cinsi il suo piccolo corpo morbido con le braccia. Era una bella sensazione.
«Grazie, Set» Sussurrai.
Lui rimase immobile per qualche istante, poi ricambiò l’abbraccio cercando di metterci forza, ma non sarebbe mai riuscito, comunque, a farmi male
«A cosa devo questa tenerezza?» chiese, rassegnato
«Sei piacevole, da strizzare» mentii. O forse no.
Lui ridacchiò piano
«Tu no» ribatté «Sei un grosso ammasso di muscoli duri»
«Pensavo che agli esseri umani maschi piacesse abbracciare le femmine» scherzai, allontanandomi e afferrandolo per le spalle
«Agli esseri umani maschi piacciono gli esseri umani femmine» mi fece notare, con un briciolo di ironia ed un sorriso stampato in faccia come se gli fosse presa una paralisi «E poi mi stai slogando le ossa»
«Ah» aprii le mani, scoprendo di aver premuto troppo sulle sue piccole spalle «Scusami Set. Ti voglio bene»
«Cosa hai detto?» si mise una mano dietro l’orecchio come se non avesse sentito bene e volesse convogliare il suono di quello che stavo per dire «Hai detto che mi vuoi bene?»
«Certo» ringhiai «Non si capiva?»
«Datemi un megafono» si guardò intorno con la frenesia di un pupazzetto dei cartoni animati «Devo annunciare al mondo intero che sono il primo essere umano che ha addomesticato un goldenwolfen!»
«Non esagerare!» lo ammonii, puntandogli contro  il dito
«Ma hai detto che … che mi vuoi bene» mi guardò con la faccia di uno che scoppia di gioia, con le sopracciglia così sollevate da sparire sotto la frangia e gli angoli della bocca tanto incurvanti all’insù che le sue labbra sembravano un arco teso «Non significa forse che ti ho addomesticata?»
«Ah» sospirai lievemente, notando che aveva, come quasi sempre, ragione «Così dice il Piccolo Principe. Ma questo significa che anch’io ho addomesticato te»
«Nessuno lo mette in dubbio » annuì, assumendo quella che avevo imparato a conoscere come “la faccia del grande saggio” «Ma ora vai, stiamo perdendo troppo tempo in coccole».
Scoppiai a ridere, ma lui mi indicò l’interno con l’indice, duro
«Vai!» ordinò.
Io eseguii, ovviamente. E mi ributtai nella mischia. Come avrei fatto a sapere se Barren non era già arrivato dai suoi amici e non li aveva già informati della mia presenza? Magari avevo un fucile puntato addosso e non lo sapevo. Come in tutte le situazioni di difficoltà, mi affidai al mio olfatto. Il mio naso non mi aveva mai mentita, era sempre stato sincero e fedele ed era soprattutto grazie a lui se adesso possedevo una casa comoda, un figlio lupo perfetto e un compagno mago che credevo di aver perso per sempre a causa della mia brutalità. Annusai l’aria. Purtroppo ricordavo bene il profumo che Barren si era spruzzato addosso e che copriva il suo odore naturale, perché questo non mi fu di alcun aiuto: per strada incontrai quattro o cinque persone con lo stesso identico profumo. E poi c’era quello delle donne, una fragranza floreale quasi uniforme che copriva tutto. Passai accanto al buffet digrignando i denti. Dannazione, ma dove era andato a cacciarsi quel damerino? Non poteva essere scappato. Beh, teoricamente ne aveva avuto il tempo, ma se era quello che sembrava essere avrebbe continuato a darmi la caccia. Se ci davamo la caccia reciprocamente, con tutta probabilità,ci saremmo incontrati prestissimo. Solo che chi avrebbe sorpreso l’altro lo avrebbe ucciso. Per questo era imperativo che fossi più brava di lui.
Rividi September, stava parlando con un gruppo di ragazze abbastanza carine che lo guardavano e pendevano dalle sue labbra. Senza dubbio, anche se era un piccoletto per nulla atletico, Set era un tipo affascinante. Soprattutto quando tirava fuori i suoi giochetti magici di cui non riuscivi mai a capire il trucco. Se sei un mago le femmine ti seguono ovunque, l’inconveniente è che spesso succede la stessa cosa con i maschi. Scossi la testa e continuai la mia ricerca. Dovevo smetterla di ronzare intorno a September, se la sarebbe cavata anche senza di me. Afferrai una tartina ripiena di spinaci e la addentai. Tsè. Avrei tanto voluto le frittelle di Michele, in questo momento. Mi avrebbero consolata. E avrei anche voluto avere con me Cuscino per abbracciarlo forte. Ma dovevo farmi forza, un predatore non ha bisogno né di cuccioli né di frittelle per scovare la sua preda. Mi feci strada in mezzo a due gruppi di giovani schiamazzanti e notai una scala che portava al piano superiore. Mi avvicinai alla gradinata e notai che non proveniva alcun rumore da oltre di essa. Il piano superiore doveva essere un ottimo posto per organizzare un’offensiva ai danni di un licantropo, me, che si aggirava famelico in sala da ballo. Salii. Sapevo che c’era un’alta percentuale di possibilità che finissi dentro un’imboscata, ma non me ne importava poi molto. E poi non pensavo che fossero tanto furbi. Silenziosamente, in punta di piedi.
Mi ricordai della mia illusione, quella in cui ero nella città del vampiro, e camminai con la stessa cautela. I miei passi non si sentivano neppure, non erano felpati o fruscianti, erano proprio silenziosi. La suola morbida delle mie scarpe sembrava adattarsi perfettamente alla pietra dei gradini, sembrava modellarsi sugli spigoli come se fosse di gomma. Giunsi al piano superiore e proseguii di ombra in ombra, silenziosa. In testa, per qualche strano motivo, mi balenò l’immagine di un ninja vestito di nero. Anche il mio vestito era nero, ma con del rosso. Il rosso è un colore che si vede molto, ma c’erano un’infinità di decorazioni rosse nella villa e, pensai, ero in tinta. Neanche i miei capelli stridevano, le luci erano giallastre e i balconi erano illuminati di fiaccole. Tutto molto suggestivo e, soprattutto, fatto per permettermi di mimetizzarmi.
Respiravo sommessamente. Forse stavo prendendo un po’ troppo sul serio questa storia dell’agguato, ma che dire, certe cose voglio siano fatte per bene. Mi fermai nei pressi di un arco in ombra, in silenzio, appoggiando un orecchio ai mattoni.
Aspettai. A cosa pensavo? Niente, La mia mente era perfettamente vuota, un contenitore per i rumori, una porta attraverso la quale passavano sensazioni, una macchina fotografica in cui si imprimevano colori e strisce di movimenti. Le fiamme tremolavano lanciando ombre guizzanti sulle pareti e luci sfavillanti che s’innalzavano e poi ridiscendevano al ritmo di lievi correnti d’aria che filtravano dalle porte spalancate sui balconi di ferro battuto.
Poi udii dei passi. Passi che riconobbi. Strizzando gli occhi, mi sporsi un po’ dall’arco di pietra. Sebastian Barren stava venendo nella mia direzione, ma non sembrava avermi vista. Tuttavia era comunque un problema quello di dover sferrare un attacco frontale, soprattutto visto che l’uomo non era solo e che qualcuno di loro avrebbe urlato, attraendo l’attenzione degli altri invitati. Con Sebastian c’erano due uomini ed una donna. I due uomini erano vestiti elegantemente e perfettamente identici fra loro, tanto da sembrare la stessa persona sdoppiata, con i capelli pettinati di lato, gli occhiali da vista con la montatura nera e le stesse cravatte blu scure a righine grigie. La donna era bassa, sul metro e cinquant’otto, con i capelli lunghissimi e neri pece, gli occhi truccati con molto mascara e gli zigomi un pò prominenti. Niente rossetto per lei, ma le sue labbra erano comunque scure e ben in risalto rispetto al resto della pelle abbronzata. Portava i tacchi, i suoi passi facevano un bel fracasso contro la pietra.
Avrei dovuto neutralizzarli tutti in un colpo e l’impresa mi parve alquanto difficile, anche perché avevo pochissimo tempo per pianificarla. Il tempo di percorrere dieci metri.
Mi abbassai, cercando di non farmi notare.
Nove metri.
Svuotare la mente non era stata una buona idea, ora mi ci sarebbe voluto un po’ per riaccenderla, pirtarla al massimo e pensare.
Otto metri.
Avevo paura che qualcuno mi notasse prima del tempo. Che diavolo dovevo fare?Saltare fuori ringhiando e prenderli a pugni finché non sarebbero diventati ammassi di ossa rotte? Non mi sembrava il caso, visto che la missione era quella di neutralizzarli per evitare di attirare l’attenzione e portare Sebastian Barren da September, vivo e capace di parlare.
Sette metri.
Un’idea, piccina piccina, cominciò a farsi strada.
Sei metri.
Perché quelli erano cacciatori di licantropi, giusto? Li odiavano, ai mezzi lupi. Li avrebbero inseguiti ovunque. Ma non erano gente che voleva turbare la calma dei poveri, innocenti essere umani, giusto?
Cinque metri.
Innescai la trasformazione. Dovevo essere veloce, veloce come non ero mai stata. Sentii la pelle che pizzicava, i peli che fuoriuscivano, quelli che già c’erano che si allungavano. Un brivido percorse la mia schiena, conficcandosi nella mia spina dorsale come una scarica di elettricità. Adrenalina. Qualcosa che si smuoveva in bocca, la mascella che si allungava, il suo scricchiolio. Non c’era alcun dolore in tutto questo, neppure fastidio. Il dolore c’è solo quando il licantropo non si lascia andare, non si concede alla natura. Io, invece, stavo cercando di velocizzare l’intero processo. Fu piacevole, delizioso, sentire le dita che diventavano robuste e si accorciavano, le zanne che si allungavano.
Quattro metri.
Avevo la coda, avevo le orecchie appuntite dei lupi, il muso quasi del tutto trasmutato, gli artigli color selce e la mia bella pelliccia che si rizzava, ancora umida, lungo il dorso. Solo che era difficile iniziare a correre con i vestiti ancora addosso. Non sarei neppure riuscita a fare un passo senza inciampare. Eppure ci provai e, strisciando mestamente, uscii dall’ombra.
Sebastian Barren spalancò gli occhi per la sorpresa, mentre gli altri non sembravano particolarmente turbati, solo irritati. I due uomini fecero un movimento perfettamente sincronizzato: entrambi si infilarono la mano destra sotto la giacca e serrarono le dita intorno a qualcosa che, ne ero certa, era una pistola. Con i denti mi afferrai la camicia e la sfilai via rapidamente, poi balzai verso il balcone. Stupidi pantaloni, trascinati sul pavimento! Si impigliarono nelle imposte basse della porta che conduceva all’esterno. Con un morso tranciai la cintura di cuoio, ma non bastò a sfilarmi via. I miei fianchi avevano assunto una forma tale che era difficile estrarli dai pantaloni. Strattonai con forza, mentre sentivo qualcosa che sibilava a mezzo centimetro dal mio naso. Non avevo sentito sparare, doveva aver usato il silenziatore. Forse fu una scarica di adrenalina, ma riuscii a schizzare via. Era tutto molto confuso, ma vidi il mondo con più chiarezza quando non  ebbi più vestiti che mi soffocavano e respirai l’aria fresca. Sentii il rumore di un altro proiettile che sibilava e mi slanciai in avanti, anche se il pezzo di metallo riuscì comunque a strisciare sulla mia nuca strappando via una sottile strisca di pelliccia e pelle. Bruciava, diamine! Poggiai le zampe anteriori sulla ringhiera e issai tutto il mio corpo oltre di essa, precipitando fuori. Atterrai saldamente sulle quattro zampe, rabbrividendo, mentre un ultimo scricchiolio sanciva la fine della mia mutazione. Mi voltai a guardare se mi stessero seguendo. I due gemelli erano appoggiati alla ringhiera nella stessa posizione, con l’avambraccio poggiato, e la mano destra tesa in avanti, ad impugnare la pistola. Due pistole contro la mia testa.   
Se mi fossi mossa, loro avrebbero avuto il tempo di percepire la direzione verso cui mi stavo spostando, avrebbero sparato e mi avrebbero uccisa. Se fossi rimasta immobile e loro avessero sparato senza anticipare la mia mossa c’era la remotissima possibilità, invece, che potessi spostarmi abbastanza in fretta da non morire. In qualunque caso le possibilità di sopravvivere erano esigue.
Mossi la testa lentamente, per non allarmare chi mi puntava, e guardai i due gemelli. Probabilmente erano l’ultima cosa che avrei visto. Perciò mi sarei fissata ben in mente i loro volti, per non scordarmi chi mi aveva mandata all’inferno. Dannazione, io nemmeno ci credevo all’inferno!
Io credevo che dopo tutto finisse.
Per questo non avevo paura di morire. Diciamo che fissai le loro facce sottili solo ed esclusivamente per mostrare che non li temevo. Erano entrambi giovani e magri, con lineamenti sottili e che avrei anche potuto definire delicati se solo non fossero stati, in alcuni tratti, così spigolosi, ad esempio sul mento, affilato, e la parte superiore della testa che, con quei capelli schiacciati, sembrava vagamente rettangolare. I loro occhi, dietro le lenti trasparenti, erano castani chiarissimi, tendenti ad uno strano bruno mezzo verde-giallino. E le loro espressioni erano … come descriverle? Non dure. Neanche di disprezzo, o di concentrazione. Erano distaccate. No, termine migliore: fredde. Erano così gelidi da sembrare vampiri, ma senza dubbio erano vivi. Respiravano debolmente, come se i loro petti fossero compressi da busti d’acciaio. Erano pronti a fare fuoco, ma non lo davano a vedere.
Erano pericolosi, quasi come quel cacciatore vestito di nero avevo incontrato tanto tempo prima.
Non erano altrettanto forti, fisicamente, ma le loro menti erano pronte a cose che gli umani non possono immaginare neanche.
Il gemello sulla destra tradì un lievissimo moto di impazienza, le sue sopracciglia si spostarono all’insù. Queste ultime erano stranamente oblique, più di quelle degli altri uomini che conoscevo di persona, ma meno di certi altri che avevo visto alla televisione.
Fra di loro comparve la testa di Barren, che continuò a fissarmi dapprima sorpreso, poi sempre più quieto. Quell’uomo sapeva di avere la situazione sotto controllo.
I due gemelli si scostarono con sincronia, permettendo a Sebastian di appoggiarsi alla porzione di ringhiera in mezzo a loro. Quest’ultimo mi sorrise e i suoi denti candidi risplendettero vagamente nella luce delle fiaccole e della luna
«Così sei un licantropo» disse, cantilenando «Un licantropo, come sospettavo. Ti sei tradita. Non volevamo farti nulla. Volevamo solo chiederti informazioni sugli uomini lupo, volevamo sapere se tu avevi qualcosa da raccontarci. Se eri stata vittima di un’aggressione o cose del genere. Ma tu non sei nemmeno un licantropo infetto … ci sei nata, così, eh? E vuoi rimanerci. Avrei dovuto leggerlo nei tuoi occhi. Avrei dovuto capire tutto mentre cercavi di uccidermi, al piano di sotto».
Avrei voluto gridargli che non avevo mai cercato di ucciderlo fino ad ora, ma i gemelli continuavano a puntarmi con le pistole e non volevo fare nessun passo falso. Ero già abbastanza nei casini senza che mi fossi messa a ringhiare.
Sebastian Barren mosse una mano a mezz’aria, come a dire “è tutta acqua passata”. Non avrebbe dovuto darmi false illusioni, neppure così minuscole. Rise sommessamente, accostandosi il pugno chiuso alle labbra
«Sai, è un peccato che tu debba conoscere il lato aggressivo dei gemelli, li avresti adorati. Te li presento» strano, nella sua voce non c’era alcuna nota di scherno, era sempre calmo e formale «Loro sono William e Teodore Stevens. Si, lo so, non riesci a distinguerli. Neppure io, se devo essere sincero. E lei» la piccola donna con i capelli neri comparve di lato a uno dei gemelli e Sebastian fece una manovra complicata per indicarla «Lei è Lucrezia, fiore all’occhiello della nostra grande famiglia. Forse sarà lei ad ucciderti».
“Non i gemelli?” pensai, stupita.
Per loro doveva sembrare strano vedere un gigantesco lupo giallo che apriva la bocca e rimaneva immobile per la sorpresa. E ora? Che dovevo fare? Farmi ammazzare? Scappare? Chi poteva immaginare che quei piccoli bastardi fossero armati e che, fra l’altro, fossero così determinati? Erano cacciatori veri. E io ero la loro preda. Non volevo finire con la testa appesa sopra un caminetto con sotto la scritta Canis Lupus. Ero venuta per cacciarli, per ucciderli, ed eccomi nella situazione opposta.
Piegai la testa. Niente. Mossi le zampe, voltai completamente il corpo verso gli uomini, poi mi sedetti. Niente. Un po’ di speranza mi rianimò.  Feci uno scatto rapido in avanti, poi frenai e mostrai i denti. I gemelli non si mossero, continuarono a fissarmi gelidamente. Avrei fatto i salti di gioia per aver scoperto la mia possibilità di movimento. Ora che ci penso, non sarebbe stata un’idea stupida. Solo non avevo idea di fin dove arrivasse la mia libertà. Qual’era il “pulsante” che avrebbe fatto scattare gli indici di William e Teodore contro i grilletti? E soprattutto, come avrei fatto ad eliminarli senza scatenare un putiferio?
Sebastian indietreggiò e si chinò. Quando si rialzò aveva in mano la mia giacca e la guardava con ammirazione
«Non credevo che ne esistessero ancora di grandi come te» disse, soppesando le dimensioni dell’indumento con le mani e con lo sguardo «Non ho neppure pensato che tu potessi essere uno di loro, quando ti ho avvicinata … è strano. E mi sorprendo sempre di più. Di solito, quelli come te, hanno un odore intollerabile. Sono fortunato, guarda un po’ … aspettami. Non muoverti. Se lo farai, i gemelli ti crivelleranno».
Rientrò insieme a Lucrezia. E così avrei dovuto aspettare che lui scendesse per prendersi gioco di me. Grattai la terra con le unghie delle zampe anteriore e mi accucciai. Inspirai a fondo. Strisciai di qualche centimetro in avanti, sentendo il contatto con il terriccio duro e freddo per quella che avrebbe potuto essere l’ultima volta. Ero viva.
E non volevo morire.
Ricordai che avevo abbattuto, da sola, un villaggio. E ora non mi muovevo perché due cosi magri avevano le pistole puntate contro di me. Anche se quelle pistole, bisognava dirlo, mi preoccupavano abbastanza. Eppure morire mi sembrava un cosa piuttosto insensata.
Sono un licantropo e i licantropi non muoiono per un paio di pallottole, tranne nel caso che quel paio di pallottole non si conficchi nel loro cervello, e in quel caso c’è poco e nulla da fare.
Quei due cosi magri … i gemelli … William e Teodore … sembravano professionisti.
Come li avrei neutralizzati? Li avrei neutralizzati? Il mio cervello scoppiava di domande. Non me ne ero mai fatta  così tante tutte insieme ed ero sopravvissuta comunque.
Forse la chiave era lì: smetterla di porsi domande senza agire. Istinto, la mia forza. L’istinto non è altro che un modo di ragionare più rapido ed efficiente, una cosa che gli umani hanno dimenticato, ed è per questo che sono diventati degli incapaci.
Mi alzai in piedi.
Annusai l’aria. Voltai la testa ancora una volta verso i gemelli. Sentii il ringhio che risaliva dal mio petto e che mi faceva vibrare la gola. Sentii i muscoli che guizzavano, che si tendevano sotto la pelle, la pelliccia che si sollevava in un’onda lungo il dorso, a partire dalla nuca. Le labbra si sollevarono sui denti, in uno sfregare gommoso che mi diede piacere. Feci forza sulle zampe posteriori e sollevai quelle anteriori da terra.
Tutto il mio corpo si mosse armonico in uno dei migliori balzi che avessi mai spiccato.
Non credevo neppure di poter fare una cosa del genere.
Fu come quando si vede una tigre che balza in un documentario. No, come un gatto che sale su un muretto tanto alto che pensate “come diavolo fa?” e lui, invece, sembra tutto tranquillo.
Ed eccomi lì, in un solo istante, ero risalita al piano superiore, avevo superato con tutta calma i due gemelli passando in mezzo a loro, mentre i proiettili passavano troppo lateralmente rispetto al mio corpo.
Ma avevo fatto male i conti.
Uno dei due gemelli ebbe il tempo di voltarsi. Era rapidissimo, non pensavo che potesse esserlo. Beh, dopo quest’esperienza non avrei mai più giudicato in base alle apparenze.
Puntò contro di me, senza neppure premurarsi di prendere la mira, e fece fuoco. Sentii bruciare la parte destra del mio collo, dove la pallottola si era conficcata.
Ringhiai e mi girai con un solo movimento fluido, i muscoli perfettamente riscaldati ed armonizzati. Istinto.
Spalancai le fauci e poi le serrai sulla prima cosa che mi capitava, che, per mia sfortuna, fu proprio la canna della pistola. Incredibilmente fu come se i miei denti non incontrassero altro che una resistenza minima e affondarono nel metallo, deformandolo e forandolo.
Il gemello, lasciata andare la pistola, si spostò di lato. Mi avventai sul suo fratello ancora armato. Quello saltò. Frenai per la sorpresa, sbandando, quando vidi l’uomo che mi ricadeva addosso.
E mi ritrovai con un damerino a cavallo.
Era leggero per quanto possa esserlo un essere umano, tutto pelle e ossa a mio parere. Ma non lo avrei sottovalutato. Ringhiando inarcai la testa all’indietro. Sentii le sue mani che si stringevano sulla mia gola e stringevano. Come avevo previsto non era fortissimo, ma la pressione sulla gola non mi permetteva di respirare bene. Per un attimo fui disorientata, poi mi scrollai con vigore. Balzai in avanti, scivolai lateralmente e sbattei il fianco contro la ringhiera, intrappolando il piede del gemello. Sentii lo scricchiolio dell’osso che s’incrinava. Non lo avevo spezzato, ma gli avevo fatto abbastanza male da bloccarlo.
Balzai in avanti e l’uomo cadde all’indietro.
«No, non si fa così» Disse la voce di Sebastian Barren.
Infilai il muso fra le sbarre per guardarlo e ringhiai.
Lui sorrideva. A braccetto, Lucrezia, mi osservava con un filo di timore. Lei non sembrava affatto in grado di uccidermi e non aveva proprio niente da “fiore all’occhiello” dell’organizzazione dei cacciatori di mostri bla bla bla, ecc …
Sebastian piegò un po’ la testa sul petto
«Oh, ti avevo chiesto di aspettarmi. Perché non lo hai fatto?» mi chiese.
Sembrava sinceramente deluso. Mi voltai a controllare i gemelli, ma quelli non si muovevano, l’uno steso per terra e l’altro in piedi dietro di me. Immobili, come serpenti. Mi chiesi se fossero umani. Nessun umano poteva rimanere perfettamente immobile come loro, solo i rettili potevano farlo. I rettili ed i vampiri. Ma loro non erano vampiri, se lo fossero stati li avrei già riconosciuti da un pezzo.
Mi voltai.
A neppure mezzo centimetro dal mio naso c’era quello di Sebastian, che mi guardava con gli occhi spalancati. Se ne stava a penzolare a un bel po’ da terra, reggendosi aggrappato alle sbarre di acciaio che delimitavano il balcone solo con la forza delle braccia. Spaventoso, per essere solo un umano, era soprattutto il fatto che era riuscito ad arrivare fin lì con tanta rapidità che non me ne ero neppure accorta. Era davvero un cacciatore di licantropi, addestrato per ucciderci.
Non sembrava, a guardarlo.
Ma, come detto, non avrei mai più dato retta alle apparenze.
Indietreggiai rapidamente, stringendo i denti.
Sebastian Barren si tirò su con le braccia come se stesse salendo una scala, poi scavalcò adagio il corrimano, continuando a guardarmi con espressione delusa.
«Ti avevo detto di aspettarmi … non lo hai fatto» Mormorò «Hai costretto i gemelli ad attaccarti» scosse lentamente la testa, poi arricciò le labbra in un sorriso vago, molle «Non credo che sia una cosa buona per nessuno, giusto? Cosa volevi fare? Uccidermi? Ucciderci?» ridacchiò, scuotendo ancora la testa.
Ringhiai, le orecchie aderenti alla testa.
Lui si avvicinò. Mi guardai un istante alle spalle, ma i gemelli non si muovevano.
Girai di nuovo la testa in avanti. Lui si era abbassato sui talloni e mi guardava dritta negli occhi
«Quindi, licantropo biondo, credo che … »iniziò a dire.
Non gli diedi il tempo di finire la frase. Stavolta era stato lui a sottovalutarmi, nella maniera più stupida in cui un umano può sottovalutare un nemico munito di due chiostre di denti fatti per tranciare, masticare, distruggere, denti da predatore, e di riflessi che un uomo comune non può neppure lontanamente sperare di eguagliare. Modestamente.
Scattai verso la sua gola e gliela squarciai da parte a parte, bagnandomi il muso di rosso. Oh, l’odore del sangue, la frenesia che coglie il predatore! Forse era follia. Da quanto non uccidevo? La mia anima, la sentivo bruciare, nel delirio dei sensi.
No, non era molto tempo che non ammazzavo qualcuno, ma era molto che non annusavo da così vicino l’odore del sangue, fino a bagnarmi le labbra di quello scarlatto liquido e delizioso. Si, era follia quella che mi colse, più forte anche dell’istinto. Un folle sa sempre cosa fare, per quanto insensate le sue azioni possano sembrare insensate, azzardate, pericolose.
Mi voltai, le labbra sollevate sui denti, il pelo ritto, tutto il corpo tremante in un’estasi di potere. Fu una fiammata di calore quella che mi spinse a correre in avanti, a balzare ancora, a cercare la gola del gemello in piedi. Non riuscii a leggere paura nei suoi occhi, solo irritazione quando dovette spostarsi per evitarmi. Mi abbassai di scatto non appena le mie zampe toccarono terra e, tenendo tutto il corpo quasi attaccato al terreno, schizzai contro le gambe magre dell’uomo e serrai le fauci sulla sua caviglia sinistra con tutta la forza che possedevo nei muscoli delle mascelle.
Udii lo scricchiolio macabro tanto atteso e il rumore grasso, carnoso, della pelle che si fora, della cartilagine che si trancia. Il gemello che avevo colpito gemette e ricadde di schianto. Fu un piacere incrociare il suo sguardo per un istante e scoprire un brivido di terrore che fece fremere le sue iridi di colore indescrivibile.
Dischiudendo le fauci le puntai al cielo e lanciai il mio ululato che avrebbe terrorizzato gli uomini fino alla fine dei tempi. Finché la mia specie avrebbe avuto vita.
Mi bloccai. La ragione, improvvisamente, ritornò a insinuarsi nella mia mente. Quello che avevo fatto era tutto assolutamente sbagliato. Non dovevo attaccare Sebastian in quel modo, non era quello il mio obbiettivo. Dovevo prenderlo vivo. E capace di parlare, cosa che probabilmente in questo momento non era capace di fare. Mi voltai verso di lui, osservando il sangue che colava dalla sua gola. Si premeva le mani convulsamente sul taglio, cercando invano di fermare la perdita enorme. I suoi occhi erano spalancati, fissi a terra, e lui era in ginocchio, che si mordeva le labbra. Era vivo, ancora, e forse avrebbe potuto salvarsi. Dovevo battere in ritirata? Dovevo finire i suoi compagni? In qualunque caso avrei provocato un enorme clamore. Avrebbero trovato il balcone intriso di sangue e probabilmente due o tre cadaveri. Se anche fossi riuscita a Salvare mr. Barren, avrei dovuto uccidere gli altri due.
Non era una cosa buona.
Soprattutto visto il fatto che non avevo idea di come fare.
Un colpo di pistola mi colpì il collo, stavolta in pieno, di lato, provocandomi un foro non indifferente. Sentii un rivolo di sangue che colava lungo la pelliccia.
Strinsi i denti, in un modo ben poco simile a quello dei lupi. Non era un ringhio, era un modo per soffocare un rantolo di dolore. Forse avrei dovuto lasciare che mi uccidessero, per mettere tutto a posto.
Sentivo già l’edizione mattutina del Telegiornale su Canale Cinque. E poi il io corpo sarebbe stato portato da un esperto per identificare a che razza appartenessi e quel tizio avrebbe detto “è senza dubbio un canis lupus”. Ma qualcuno più esperto di lui avrebbe guardato le immagini del mio corpo senza vita e indicando il televisore avrebbe detto “No, quello è un licantropo”.
L’ultimo goldenwolfen.
Ora sapevo che cos’era, un goldenwolfen. Era qualcosa che mi avevano insegnato raccontandomelo mentre ero seduta di fronte a un grande fuoco scintillante. Era qualcosa di positivo, mi dissero, essere goldenwolfen. Significava essere grandi e forti, avere una pelliccia colore dell’oro e una mente che non poteva essere bloccata neppure dal sortilegio di uno stregone. Significava appartenere ad una razza antichissima e quasi estinta, una razza invincibile. La nostra vita non era lunga neppure la metà di quella di un vampiro, ma era dieci, venti, cento volte più intensa e i nostri poteri non potevano essere limitati, perché non erano poteri che venivano dalla mente, o dall’anima, ma poteri che scaturivano direttamente dal nostro corpo.
Eravamo antichi. E la nostra forza era grezza, vibrante, niente a che vedere con il trito termine di “forza spirituale” che qualcuno, erroneamente, ci aveva attribuito. Non siamo mostri mitologici, siamo creature fatte per uccidere. Brutalmente.
Eppure in quel momento non sentivo alcun bisogno di uccidere. Questo era male, perché se un predatore non sente più l’impulso di uccidere la preda, vuol dire soltanto che è pronto per morire.
Eppure mi accorsi che non volevo lasciarmi andare, non ora, non nel vuoto.
Come un essere umano, pensavo che non avrei dovuto abbandonare la mia comoda, calda vita all’interno di una casa lussuosa, circondata da visi noti, da amici.
Non potevo arrendermi. Anche il mio spirito (si, proprio lui, quello che sembrava non avere nulla di speciale) diceva di combattere.
La mia mente era, ancora una volta, divisa. Fra il combattere e il combattere più duramente, fino ad uccidere. Lo so, avrei fatto passare dei guai a September, ma cosa dovevo farci?
Mi voltai fulmineamente, di nuovo. Soppressi la follia e la rabbia, persino il mio stesso istinto si assopì sotto il velo di lucidità impressionante che mi ricopriva i pensieri. Afferrai fra le zanne la giacca di Barren e lo trascinai dentro. Nessuno osò spararmi contro, forse avevano capito che volevo solo salvare quell’uomo, anche se non sapevo come fare. Mi ripulii il muso dal sangue con le zampe anteriori, alla meno peggio, poi lo strofinai contro il muro. Non ero sicura di aver fatto un buon lavoro, così di fretta, ma non potevo lasciar morire Sebastian. E non solo per September. Lo avevo detto oppure no, che quell’uomo mi piaceva? Se solo non avesse cercato di prendersi gioco di me non avrei avuto proprio niente contro di lui. Il che è raro: riesco sempre a trovare i difetti di una persona, in un modo o in un altro.
Non dico che Barren fosse perfetto, anzi. Era molto umano, e subdolo per di più.
Ma in lui c’era … finezza. Ecco. Non quel genere di finezza effeminata dei nobiliastri con la puzza sotto il naso. Mi riferivo al suo stile. Mi dispiaceva vederlo accasciato contro il pavimento, con il sangue che gli colava sul petto dallo squarcio alla gola. Mi dispiaceva, se dovevo essere sincera, di averlo colpito.
E ora non sapevo come salvarlo. Forse avrei dovuto chiamare aiuto. Ma certo! “Cane lupo trova uomo in pericolo di vita e lo salva chiamando un dottore”. La cesura sulla gola di Sebastian era abbastanza netta da non fare pensare ai miei denti. E poi le pallottole conficcate nella mia carne avrebbero fatto pensare che ero il cane del signor Barren, che entrambi eravamo stati aggrediti da un serial killer, ma io lo avevo fatto a pezzi. Ecco, chi era il killer da fare a pezzi prima di chiamare il dottore? E poi, la recita sarebbe rimasta in piedi o mi avrebbero smascherata prima ancora che potessi dileguarmi nel nulla?
Beh, non c’era da chiederselo, c’era da agire. Perciò, punto uno, avrei fatto a pezzi i gemelli.
Prima che potessi muovermi di nuovo all’indietro per balzare alla gola di uno dei due manichini perfettini, vidi con la coda dell’occhio un’ombra grigia scura che si avvicinava a velocità folle. Qualcosa mi afferrò per la collottola e mi sollevò da terra di qualche centimetro le zampe anteriori, poi mi posò di lato e si chinò sul corpo adagiato di Sebastian Barren.
Ci misi un istante a capire che lui, chiunque fosse, non aveva intenzioni bellicose. Le sue mani si muovevano velocissime sul collo di Barren, utilizzando qualcosa che chiudeva la ferita. Era rapidissimo, e non solo. C’era anche una precisione estrema nei suoi movimenti, qualcosa che non avevo mai visto. Non avrei mai creduto che si potesse lavorare su un corpo umano in quel modo.
Passato il momento di analisi delle intenzioni, passai al momento di analisi dell’aspetto di quell’essere. Almeno per accertarmi che fosse umano. Era di taglia normale, per un uomo. Aveva le spalle abbastanza robuste e il dorso sembrava saldo, ma non riuscivo a capirlo perfettamente. Indossava un cappotto sformato, largo, grigio scuro, con le toppe ai gomiti. Gli sgonfiava da tutte le parti e credo avesse anche le maniche troppo larghe. Probabilmente era cucito in casa. Mi chiesi come mai un essere con quelle abilità dovesse cucirsi i vestiti in casa e come mai, fra l’altro, gli venissero così male. Magari li trascurava.
Optai per quest’ultima possibilità, visto che era quella che più si avvicinava al mio modello comportamentale.
I suoi capelli erano abbastanza corti, pettinati sommariamente all’indietro, come avrei voluto portarli io. Da cattivo, insomma, ma non davano quell’impressione. Sembrava, almeno a vederlo da questa prospettiva, il buono della storia. In realtà non me ne intendevo molto di buoni e cattivi, non nel senso della morale, dell’etica e di tutte quelle belle cose di cui parlano gli eroi. Era cattivo chi voleva farmi del male, buono chi mi aiutava.
Un concetto primitivo, lo ammetto, ma è più o meno quello che bisogna fare per sopravvivere. O no? Con il naso sfiorai la spalla dell’uomo, il tessuto ruvido del suo cappotto. Lui non mi guardò neppure. Ammirai la passione con cui si stava dedicando a quel rapido lavoro.
Dopo qualche istante, l’uomo si voltò verso di me. Aveva un volto insieme stanco e gentile, con qualche ruga sotto gli occhi, che erano di un colore verdino chiarissimo, quasi giallo. Mi sorrise
«Vai via» mi disse, in tono calmo.
Non ero sicura di avere capito e rimasi a fissarlo. Non c’era molta paura in lui, appena un po’ di timore verso di me.
Lui socchiuse le palpebre
«Ti ho detto di allontanarti» ripeté, con insistente gentilezza «Forza, ci penso io a tutto, qui. Torna dopo».
Non mi mossi ancora.
Lui mi indicò le scale con un dito sporco di sangue
«Non farti vedere, lupacchiotta. Penserò io a tutto» il suo sguardo guizzò verso i gemelli, con una qual certa inquietudine «Prima che decidano di farti fuori».
Allora capii e indietreggiai. Poi feci dietrofront e mi allontanai. Sarebbe stato difficile non farmi notare. Ma perché quell’uomo mi stava aiutando? Io non lo conoscevo. Forse. Dove lo avevo già visto? Ecco, io non lo avevo già visto. Molto semplice. Recuperai i miei vestiti con la bocca e me li trascinai dietro l’arco. Mi ritrasformai nella mia forma umana, con un po’ di difficoltà. Era brutto, ritrasformarsi in umani. Mi rivestii. Il completo era un po’ stropicciato, ma tutto sommato non sembrava niente di che … al massimo avrebbero pensato che fossi stata coinvolta in una rissa. Magari contro gli sgherri di quel bel conte affascinante con cui avevo ballato prima. Mi asciugai le ultime gocce di sangue dalle labbra con le dita.
Scesi al piano inferiore.
Sembrava che Set avesse fatto colpo su un folto branco di femmine, era circondato da ragazze e stava raccontando qualcosa che richiedeva l’ausilio di molta gestualità. E lui era bravo in queste cose, era un incantatore, un ammaliatore, un conquistatore di nuovi mondi sensoriali. Solo lui sapeva farmi venire in mente tutte queste parole strane ed esotiche. E solo con lui avrei potuto usarle, visto che qualcosa mi bloccava sempre dal fare “poesia” quando ero con gli altri.
Mi avvicinai al suo gruppo. Un odore forte di gelsomino aleggiava nell’aria. Mi ricordò la prima notte in cui vidi September, tanto tempo prima. O forse non tanto come ricordavo. Tutto il mio tempo appariva dilatato, in quell’istante. Forse stava praticando l’ipnosi, quel maghetto, e mi stava di nuovo trascinando nel mondo delle visioni.
No, continuai ad avvicinarmi senza pericolo.
September smise di raccontare, abbassando le mani che aveva proteso come artigli per mimare gli arti di un mostro
«Fury!» esclamò, con entusiasmo
«Si, Set?» chiesi. Mi vergognavo da morire di aver fallito la missione.
Stavo soffocando nel mio completo elegante. Mi infilai un dito nel colletto e lo strattonai, per respirare meglio. Ma lo sentivo solo io, il caldo? Era probabile, non era un caldo normale, a quello avrei retto …
September mi prese la mano che tenevo molle al lato del corpo
«Allora? » mi chiese, con entusiasmo ancora maggiore.
Ma come poteva essere così entusiasta? Voleva sapere se avevo catturato e magari chiuso in uno sgabuzzino un suo simile, magari dopo averlo orrendamente mutilato … fingeva? Fingeva per me oppure era davvero un sadico di quel calibro?
«Niente da fare» risposi, a bassa voce «Mi sono sbagliata e ho fatto una carneficina … »
«U … una carneficina?» il suo entusiasmo scemò e il suo sorriso si spense «Cosa vuol dire? Chi hai ucciso?»
«Nessuno»
«Allora cosa vuol dire che hai fatto una carneficina?»
«Che li ho attaccati» il caldo mi stava soffocando, sempre più velocemente, insieme all’imbarazzo «Non era solo. C’erano altri cacciatori con lui … ho dovuto attaccarlo. Avrebbero chiamato aiuto. E io non ho capito più niente … sono rimasta così … ecco, mi dispiace»
«Non preoccuparti» diede una pacca affettuosa sul dorso della mia mano, enorme rispetto alla sua «Hai fatto del tuo meglio»
«Non è quello il mio meglio» ringhiai, più arrabbiata con me che con lui
«Allora hai fatto quello che hai potuto in questa situazione»
«Non avrei dovuto confondermi così» mormorai «Mi dispiace»
«Non dovresti dispiacerti. Non fa così, un goldenwolfen» mi ricordò, d’improvviso saccente
«Ah si … » inspirai a fondo e scossi lentamente la testa «Però io sono un goldenwolfen addomesticato. Niente da fare, sei il mio padroncino».
Lui rise sommessamente e si guardò un istante indietro. Il gruppo di ragazze ci fissava interrogativamente. Forse quelle donne pensavano che le nostre affermazioni fossero quelle di chi sta facendo un bel gioco di ruolo in stile fantasy. Beh, si sbagliavano. La mia vita era un libro dell’orrore. Ma io amo l’orrore, specie se sono il cattivo mostro che sbrana la gente.
September mi strinse la mano
«Allora, cosa succede? Dobbiamo ripulire? Sei scappata?» mi chiese, concitatamente
«Non credo» cercai di riassumere tutto quel casino e di fare mente locale «Credo che ci sia qualcun altro che si sta occupando dei cacciatori del signore Barren. Una specie di dottore. All’improvviso è sbucato dal nulla, ha iniziato a curare Sebastian Barren  e mi ha detto di allontanarmi prima che i gemelli mi potessero fare del male»
«Chi sono i gemelli?»
«Sono due cacciatori. Come Lucrezia. Accompagnavano il Signor Barren»
«E il dottore?» September fu assalito, lo si vedeva da come fremeva, da una devastante curiosità
«Non lo so. Ora che ci penso, potrebbe essere stato perfino un’allucinazione. C’erano troppi personaggi strani, in giro, e io stavo male …»
«Stai sanguinando » mi fece notare allegramente lui, indicando il lato del mio collo.
Misi la mano laddove il proiettile era penetrato nella mia carne. Il pezzo di metallo non c’era più, il mio corpo lo aveva sicuramente espulso da tempo, ma il foro sanguinava ancora, e parecchio. Set ridacchiò ed estrasse un fazzoletto da dentro la giacca
«Stai turbando i presenti» mi sussurrò, mentre tamponava la ferita
«Non è colpa mia» cercai di giustificarmi
«Lo so che non è colpa tua. La colpa è tutta mia, di me che faccio troppo il cretino. Non eri ancora pronta per le pubbliche relazioni … ti ho messa sotto pressione ed ora sei confusa. Mi hai appena raccontato di aver visto un dottore che poi mi hai confessato essere un’allucinazione»
«Non sono sicura del fatto che fosse vero, ma non sono neanche sicura del fatto che fosse finto. Voglio dire, era proprio quello che avrei voluto vedermi sbucare dietro in quel momento, ma questo non significa che lo abbia creato la mia immaginazione»
«Shhh shhh shhh» mi intimò il silenzio con dolcezza, poi riavvolse il fazzoletto sporco di sangue e se lo nascose nel pugno «Ecco fatto, hai quasi finito di perdere sangue. Siete fantastici, voi goldenwolfen, vorrei poter guarire io come fate voi … »
«Questo è un complimento?»
«Prendilo come ti va. Sono invidioso di te. Credo sia una specie di lamentela da parte mia … »
«La mia domanda era retorica» non mi aspettavo che rispondesse, né tantomeno che rispondesse così «E adesso che facciamo?»
«La missione è fallita, giusto? Oppure no?»
«Non lo so» mi strinsi nelle spalle «Dimmi tu»
«Io dico che dovremmo parlare con la tua allucinazione. Il dottore, no?»
«Ah, il dottore … » bella idea parlare con le allucinazioni. Almeno gli si poteva chiedere se lo erano oppure no, giusto?
September sorrideva, come faceva spesso. Stava cercando di farmi capire che voleva essere portato dove avevo visto il dottore. Era speranzoso e io non avevo nessuna voglia di deluderlo. La sua mano stringeva già la mia, dovevo solo camminare. Mi sembrava di stare sognando, per qualche strano motivo. Il caldo scemava e tutto si faceva ovattato. Stavo male? Se era così non me ne accorgevo. Come si fa a non accorgersi di stare male? Forse capita solo quando stai conducendo per mano un mago attraverso una stanza piena di gente per portarlo a vedere quella che credevi essere una tua illusione.
Salii per le scale. I miei passi mi parvero terribilmente silenziosi. Pensai di essere morta ed essere diventata uno spettro. Dopotutto era plausibile essersi fatti ammazzare da uno dei gemelli.  Ammesso e non concesso che i gemelli esistessero.
Ma dovevo essermi immaginata tutto, perché quando sbucammo al piano superiore non riuscii a vedere una sola goccia di sangue né a sentirne l’odore.
Niente corpi a terra, né morti né svenuti. Ma un odore più forte degli altri c’era, quello dell’alcool. Puzzava di infermeria. Una volta soltanto ero entrata con September in un ambulatorio veterinario per fare prescrivere un vaccino per Cuscino. C’era lo stesso odore. Non altrettanto forte, ma c’era. Era fuori posto, pensai, e questo significa che probabilmente non mi stavo immaginando tutto. Non ho un’immaginazione tale da collocare quell’elemento nel contesto “festa-nel-castello”.
Il dottore, quello che avevo visto prima, era appoggiato con la spalla alla parete, con una posa che mi parve sicura e rassicurante, da vero uomo. Molto virile. E soprattutto reale.
September mi lasciò e si avvicinò al dottore sorridendo
«Buonasera» disse, tendendogli la mano aperta
«Buonasera» rispose la mia presunta allucinazione, con voce calda e gentile condita di qualche nota leggermente rauca che però non faceva altro che accrescere il senso di sicurezza e di tepore che emanava «Lei deve essere il Marcatore di quella donna lupo»
«Scusi?» September si bloccò, perplesso, ritirando la piccola mano «Mi dia pure del tu e, per favore, mi spieghi cosa vuole dire»
«Oh, ma è molto semplice. E non ho intenzione di spiegarvelo finché anche lei non mi darà del tu»
«Ok, d’accordo. Allora, cosa vuol dire che sono il Marcatore?»
«Mi sembra molto semplice» notai che sembrava gradire molto quella parola, “semplice” «Vuol dire che lei … voglio dire, che tu sei l’umano che trattiene al di qua della barriera quella donna lupo. Mi capisce … capisci?»
«Al di qua della barriera?» September ci rifletté un istante, portandosi una mano sotto il mento e abbassando gli occhi al pavimento «Vuoi dire … nella forma umana?»
«Esattamente. Semplice»
«Interessante. Si chiamano Marcatori, questi umani?»
«Come ho detto»
«Sono un Marcatore» sembrava molto compiaciuto, avrebbe voluto sorridere probabilmente, ma sembrava stare lottando contro i propri muscoli facciali «Interessante davvero. E tu come sai queste cose?»
«Anch’io sono un Marcatore» il dottore  guardò verso di me con un certo interesse «Ma non ho uno di quelli. Un aurolupus. Il mio è un black ripper»
«Aurolupus? Black ripper?» chiesi io, intromettendomi quasi di slancio
«Aurolupus» disse September «Vuol dire goldenwolfen, ma è la loro denominazione antica. Latino. Sai com’è … »
«Quelli che mettono tutte le esse alla fine» convenni io, annuendo.
Il dottore parve divertito e sollevò un sopracciglio. Sembrava ancora più anziano, così. Maturo. Ma non doveva avere più di una trentina di anni, la sua pelle olivacea, ma pallida, quasi grigia, era liscia e distesa. I suoi capelli, come per contraddire l’aspetto del suo volto, invece erano di un castano chiarissimo striato di argento. O forse era tutto un unico colore difficile da distinguere, che mi ricordò la polvere e i cucchiaini che September teneva nella vetrinetta del salotto. Oppure la copertina di un qualche libro della vecchia libreria. Però erano puliti e sommariamente ordinati. Lui non era un uomo trascurato, ma neppure il massimo della perfezione. Altrimenti non lo avrei sopportato. Molto probabilmente non aveva tempo per se stesso.
Era dalla parte dei buoni. Non fidarsi delle apparenze era diventato il mio motto, ma fino a prova contraria lo avrei considerato un amico.
«Come ti chiami?» Gli chiesi, cercando di sembrare cortese.
Lui si grattò dietro la testa e mi rispose con la voce un po’ troppo bassa
«Franco» poi il suo volto si allargo in un sorriso benevolo «E tu come ti chiami?»
«Furiadoro»
«Che magnifico nome» commentò, incrociando le dita delle mani «Chi te lo ha dato?»
«September» risposi, indicando il mago accanto a me.
Sembrava che il dottor Franco sapesse che non ricordavo il mio nome di battesimo. Altrimenti non mi avrebbe chiesto chi mi aveva dato quel nome. Sapeva tutto? O ero diventata paranoica? In effetti, credo, avevo iniziato a vedere dappertutto complotti per uccidere i licantropi.
Se niente è quello che sembra, risulta sempre più difficile fidarsi di qualcuno che ha dimostrato di conoscere qualcosa su di te prima che tu avessi avuto il tempo di parlargli.
Non riuscii a mostrarmi diffidente, benché lo fossi.
Franco si passò le unghie sul petto, sfregandole con forza, come se volesse riscaldarle o strapparle via. Non avevo mai visto una reazione di imbarazzo così forte e anomala. September mi diede una gomitata come a dirmi “ma lo hai visto? Cosa dobbiamo fare?”.
Gli umani sono così strani.
Così come aveva iniziato, il dottore smise e si nascose le mani dietro la schiena. Era imprevedibile. Qualcuno avrebbe detto che era folle.
Si avvicinò ondeggiando un po’, come se fosse ubriaco. Ma fingeva. Forse voleva provare le mie reazioni. Lo avrei trattato come se fosse del tutto normale: dopotutto la follia non è, in un gran numero di caso, null’altro che diversità mal interpretata?
Si infilò la mano nel taschino e ne trasse un biglietto di cartoncino grigio chiaro che tenne fra pollice ed indice e tese a September
«Questo è il mio biglietto da visita» disse «Venite a trovarmi il più presto possibile»
«Ma cosa hai fatto qui?» chiesi io «Dovevo incontrare quel cacciatore e chiedergli … »
«Ti prego» disse il medico, rivolgendosi a me con la stessa gentilezza perfetta «Tutto ti sarà più chiaro quando ci rincontreremo. Nel mio studio. Veterinario. Non che io lo sia, ma per hobby …»
«Per hobby?»
«Tutto ti sarà chiaro»
«D’accordo» io annuii, capendo che era inutile insistere su questo fatto «Allora, Set, che facciamo?»
«Facciamo come dice lui» rispose il giovane mago, infilandosi a sua volta nel taschino il biglietto da visita «Ci vediamo, allora, dottor Franco» sorrise «Mi ricorda… »
«Cosa?» chiese il medico, incuriosito
«Dottor Frankenstein».
Franco sorrise di rimando, un’espressione che mi parve sincera sebbene leggermente distorta da qualcosa che non avrei saputo descrivere perfettamente. Fece un cenno con la testa e si avviò verso il balcone.
«Che fai?» gli chiesi.
Lui emise una specie di gemito. Credo fosse una bassa risata. Mi osservò con la coda dell’occhio mentre usciva. Lo seguii. E lo vidi scavalcare la ringhiera e correre via, dileguandosi come un fantasma. Se fosse stato un mio nemico, avrei dovuto temerlo. Era imprevedibile.
Ma quanti nemici ero riuscita a farmi in una sera? E poi, erano davvero nemici?
Che miscuglio, che poltiglia di personaggi imprevedibili.

  
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