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Autore: Willow Gawain    24/06/2011    5 recensioni
Hidel, contea di Northumberland, Inghilterra - 1852.
Quel villaggio era perennemente bagnato dalla neve, perennemente avvolto dal freddo, dal vento, dalle nubi. Non compariva sulle carte, ma la sua figura tanto piccola quanto antica era sempre lì, ad aspettare pazientemente. Come un mostro in agguato, come un fantasma dagli occhi spietati. Una volta entrati a Hidel, la legge del villaggio proibiva tassativamente di abbandonarlo. Una maledizione, un sortilegio, una stregoneria lanciata tempo addietro da Satana camuffato da vecchia strega.
Forse, però, c’era ancora una speranza per Hidel. E quando il primo degli Angeli, il Supervisore, varcò la soglia di quel villaggio costruito in modo perfettamente circolare, come un cerchio magico, il conto alla rovescia per l’Apocalisse di Hidel ebbe inizio.
«Ora aggrappati al mio braccio. Tieniti forte. Visiteremo luoghi oscuri, ma io credo di sapere la strada. Tu bada solo a non lasciarmi il braccio. E se dovessi baciarti nel buio, non sarà niente di grave: è solo perché tu sei il mio amore.» [Cit. S.King]
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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What colour is the snow?

Capitolo 24: Sturm und Drang.

 

Il dolce profumo della notte era qualcosa che gli era sempre stato gradito, specialmente in quel periodo che ogni anno scatenava l’attesa ed il fermento di tante persone: il Natale. Ancora una settimana, e la fatidica data sarebbe giunta.

A Nathan non piaceva molto il Natale; tuttavia, il giovane Angelo era sempre ben lieto di accomodarsi in balcone, su quella vecchia sedia di legno scuro un poco rovinata dal tempo e dal frequente uso, e, dopo essersi ritagliato per sé un pezzo di mondo costituito dal terrazzino disadorno e pulito del suo appartamento, abbassare gli occhi con sguardo un po’ superbo ma preso da una grandissima curiosità.

Faceva scorrere le pupille ora rilassate, ora più interessate, ora attentissime, sulle strade di Terren, che facevano da sfondo al suo solitario nido freddo.

Poco gli importava dei fitti strati di neve che si ammucchiavano attorno a lui: nei lati dove il pavimento incontrava e si scontrava col muro esterno della casa; sulla ringhiera sottile e alquanto corrosa dalla ruggine lasciata dalle piogge autunnali; su lui stesso, che tanto poteva apparire ad un certo punto come un buffo uomo di neve dallo sguardo corrucciato, statico nella sua posizione rigida e legnosa.

Quella sera, però, gli occhi di Nathan non vagavano sulle piccole formiche umane che sotto di lui si affrettavano per strada, scivolando sulla neve in una corsa contro il tempo per comprare gli ultimi doni – o, chissà, forse i primi -, invece soggiogavano il buio che lo circondava, spezzavano ogni barriera costituita dalla coltre pallida che cadeva rapida e decisa, a fiocchi tondi o spezzati, a volte goffa nella sua caduta libera.

Spesso, osservandola, si era chiesto se la neve provasse una strana realizzazione interiore nell’abbandonare la calma mansueta del cielo per cadere lì, in quel pezzo di Inghilterra caotico e disordinato.

Essa era simile, si diceva allora Nathan, a lui stesso, ed erano accomunati dall’aver preferito la sfrenata tentazione di vizi al pacifico vivere in cui avrebbero, altrimenti, lentamente consumato la loro esistenza.

Inspirò a pieni polmoni quell’aria ghiacciata, volendo sentire il petto dilaniato ancora una volta dal pungente taglio che aveva il potere di ridestarlo dai suoi silenziosi sogni interiori; voltò poi lo sguardo verso destra, passando così da uno scenario all’altro.

In quella direzione, infatti, era possibile scorgere il grande porto di Terren; quella casa era stata scelta apposta per quel motivo: Nathan amava i rumori del porto. In seguito si erano trasferiti lì anche Sogno e Damon, e l’amena serenità del suo piccolo mondo era stata sostituita da una vivace allegria che lo contagiava, che aveva il potere di smuoverlo dalla sua calma irreale che tutti avevano sempre considerato apatia.

E ora… ora che Damon aveva perso la facoltà della vista a seguito di quel terribile colpo alla testa, sarebbe stato tutto come prima, o forse sarebbe irrimediabilmente mutato? Tale domanda aveva avuto l’ardire di porre alla piccola Sogno, subito dopo essere usciti dalla camera in cui il giovane Darkmoon, inerme su un capezzale che gli era paurosamente apparso come un letto di morte, aveva dato voce a quella novella per nulla lieta.

«Non cambierà nulla.» così aveva risposto Sogno, dopo aver stancamente appoggiato le spalle contro la porta della stanza, abbattuta come Nathan non l’aveva mai vista, senza che neanche un mezzo sorriso le illuminasse il giovane e pallido volto, senza cantare l’ultima sillaba della sua frase. Oh beh, quell’abitudine l’aveva persa da tempo…

Nell’apprendere la notizia, Sogno ed Annlisette erano state molto coraggiose, nonché pacate. Non erano riuscite a sorridere in modo incoraggiante – e sarebbe stato inutile, considerando che colui che doveva essere incoraggiato avrebbe vissuto il resto dei suoi giorni in un mondo fatto di tenebre -, né a pronunciare parole di conforto degne di grande nota; tuttavia, avevano fatto forse la cosa migliore che si poteva fare in quel momento, e che Nathan non aveva nemmeno preso in considerazione: avevano preso le mani di Damon, fredde e screpolate dalla rigida temperatura, e gli avevano promesso che tra loro non sarebbe cambiato nulla.

Sogno aveva pianto, ma solo nel momento in cui aveva creduto di essere sola. Lui ed Ann l’avevano però sentita, con quei suoi singhiozzi violenti, e l’avevano vista, scossa da sottili tremori di dolore. Eppure aveva avuto la forza di resistere davanti a suo fratello, per il bene non solo di lui, ma anche di Ann e Nathan.

«Sogno è così forte…»

Così aveva commentato Annlisette, trovando in quella penosa scena un qualcosa che a Nathan sfuggiva, che non gli era permesso vedere in quanto Angelo. In seguito, Ann si era diretta dalla sua amica, l’aveva cinta e l’aveva baciata in fronte, suscitando in lei un triste, tristissimo sorriso.

Nathan, guardandole, si era sentito solo.

“Che giornata pesante…”

L’Angelo scrutava con espressione attenta il porto: nella notte, tutte le barche gli sembravano nere. A guardarle di giorno, tuttavia, non era molto sicuro che il loro colore sarebbe mutato, almeno ai suoi occhi. Era invece sicuro che se avesse chiesto ad Ann quante tonalità riusciva a contare, ella avrebbe espresso una lista lunga, lunghissima, e ciò fece sorridere l’uomo, che in quel momento cominciava a cogliere un nuovo odore, quello che Sogno definiva “il profumo del Natale”.

Nathan spostò lo sguardo all’orologio: le ventitre. Sollevò lo sguardo: poca gente in giro.

Il suo sguardo s’incupì: «È ora.»

Poi, in silenzio, quel tetro fantasma dal viso scarno e pallido scivolò nelle tenebre fino a dissolversi.

 

Quando venne investito dalla fredda e sferzante aria notturna, Nathan fece una smorfia.  Con uno strattone, sollevò il cappuccio del nero mantello fino a coprirsi il volto, quindi avanzò per le vie solitarie di Terren.

Il suo obiettivo era raggiungere il rifugio degli Angeli per raccontare loro le ultime novità, ma soprattutto per estirpare tutte le informazioni possibili; se Annlisette affermava che lui parlava in modo assolutamente enigmatico era perché non aveva mai avuto il piacere di dialogare con Marcus e Jen, generali capaci di dir tutto senza rivelare nulla. Per lui, che aveva sempre amato i rebus e le difficoltà – che, stando a quanto affermava, rendevano la vita più interessante – il più delle volte era stressante ascoltarli.

Camminava con incedere regolare e deciso lungo il lastricato invaso dalle ombre, stando ben attento ad evitare che i raggi della luna o dei lampioni lo illuminassero, rivelando la sua figura ad occhi estranei dalle sottili intenzioni.

Convocato d’urgenza – chiaramente gli Angeli sapevano che lui si era trovato in mezzo al terribile accadimento del ballo ed erano a conoscenza anche della morte di Angelica Rodriguez, ma ignoravano molti altri particolari -, gli era stato chiesto di indossare abiti eleganti, perché quella sera avrebbe conosciuto un appartenente a un’insigne famiglia francese. Non avevano specificato altro, e questo non piaceva a Nathan.

Costretto ad obbedire a quegli astrusi ordini – come potevano pensare a frivolezze del genere in mezzo all’orrore di ciò che stava accadendo? -, per la prima volta Ann aveva avuto il piacere di vederlo vestito di bianco.

«Ti sta molto bene.» aveva commentato la giovane contadina con fare ammirato, mentre lo aiutava a legare davanti al collo un laccetto nero, unica nota scura sul candido cappotto «Ma il mantello non c’entra niente.»

A quelle parole Nathan le aveva lanciato un’occhiata rapida, poi aveva afferrato la cappa giacente sulla sedia, liquidando l’argomento «Senza il mio mantello non sono più io.»

Non gli piaceva vestirsi di bianco, gli ricordava spiacevoli avvenimenti della sua vita passata; insomma, prima avrebbe raggiunto gli Angeli, prima avrebbe avuto le risposte che cercava e prima si sarebbe tolto quella roba di dosso.

Con questi pensieri avanzava col suo passo regolare e leggero di chi è abituato a non farsi vedere. O almeno, così credeva.

Sebbene Nathan non se ne fosse ancora reso conto, già da qualche minuto due paia di occhi si erano posati sulla sua figura, due paia di gambe avevano accelerato il passo nell’intento di seguirlo, e due mani si era posate, leste, su altrettante armi da taglio che le due figure ammantate di marrone portavano all’altezza della cinta.

Intorno a loro la strada era molto buia, a tratti leggermente illuminata dalla soffusa luce proveniente da lontane torce. Nathan sceglieva le stradine secondarie, i piccoli vicoli, quelli che potevano a stento permettere il passaggio contemporaneo di due persone; ai lati di questi, sdraiati sul freddo lastricato in pietra, macchiato e bagnato dalla recente pioggia, stavano accalcati fagotti deformi di quelle che un tempo dovevano essere state persone, ma che ora si erano ridotte a meri fantasmi, larve umane, tanto la fame aveva consumato le callose dita che facevano capolino dagli stracci che indossavano, tanto il freddo aveva screpolato quella pelle scarlatta e spesso tagliuzzata, tanto gli stenti avevano indurito i loro tratti giovani o vecchi, scavato le loro guance, riempito le fronti di brufoli e macchie dovuti allo sporco, che sembrava ormai essere parte integrante di loro, tanto quella gelida sera stringeva i loro corpi in una morsa invincibile, costringendosi a violenti tremori.

Avrebbero forse chiesto la carità se fossero stati in forze, ma da Nathan non avrebbero avuto neanche un soldo, non solo perché lui non era di indole generosa, ma anche perché ben sapeva che se avesse deciso di accontentarne uno solo, avrebbe poi dovuto accontentarli tutti, dilapidando le sue già modeste finanze per poi finire in mezzo a loro a chiedere la carità.

Un ragionamento freddo e insensibile senza dubbio, ma era quello lo sfondo sociale in cui vivevano: i ricchi si arricchivano, i poveri si impoverivano.

L’uomo continuava ad avanzare con passo sicuro, lanciando occhiate a ciò che lo circondava: ora alla locanda vuota e fatiscente mezza immersa nel buio; ora alle vecchie case – o meglio, topaie – dove erano costretti ad abitare gli sfortunati che si dovevano accontentare dei bassifondi; ora alle grosse ombre di pantegane nere e pelose che sfrecciavano da un lato della strada all’altro, ricambiando l’occhiata azzurra di Nathan con una altrettanto intensa, rossa fiammeggiante e vogliosa. Forse si chiedevano che sapore avesse quell’essere umano, chissà.

L’Angelo giunse ad un incrocio tra due strade piuttosto strette, si guardò intorno per assicurarsi che nessuno l’avesse notato e fu allora che finalmente scorse, sebbene per un solo attimo, quelle due figure dall’aspetto decisamente sospetto che nel sentirsi osservate si erano nascoste di tutta corsa.

Sospirò, dicendosi che in effetti si aspettava una qualche ripicca da parte dei Demoni – o, molto più semplicemente, che qualcuno prendesse il posto di quel Demone che l’aveva spiato fino a poche settimane prima, anche se gli pareva molto strano che ne avessero addirittura mandati due.

Alti e possenti, sicuramente molto più forti di lui fisicamente parlando, ammantati di un marrone abbastanza scuro da donare loro una certa capacità camaleontica, con cappelli a fare da maschera per visi praticamente impossibili da vedere. Nell’incedere non avevano leggerezza né sicurezza, caratteristiche proprie degli Angeli, ma solo una forza bruta e un’evidente fretta di concludere gli affari di quella notte il più frettolosamente possibile. Sì, erano decisamente Demoni. Almeno quello diede un po’ di sollievo a Nathan, che cominciava davvero a credere che fossero gli stessi Angeli a voler morti lui ed Annlisette.

Una cosa era certa: contro due tizi del genere non aveva chance.

Tuttavia, non ancora sicuro che stessero seguendo lui – Nathan si riconosceva fin troppo sospettoso, e ancor più egocentrico -, decise di metterli alla prova e percorrere qualche altra strada prima di darsi ad un’eventuale fuga.

“Probabilmente vogliono scoprire dov’è l’ingresso al covo…” si disse, mentre, mani in tasca, riprendeva serenamente la sua passeggiata.

La strada per il rifugio era dunque: sempre dritto, gira a destra, percorri il sentiero di St. John e poi gira a sinistra, due metri indietro e poi ancora sinistra.

Nathan andò sempre dritto, poi, arrivato ad un altro incrocio dove spiccavano dei cartelli di legno troppo malmessi per essere letti, per puro errore girò a sinistra.

Ops… ma come sono sbadato…” pensò tra sé e sé con un sorriso malsano, tenendo gli occhi sulla deserta e bagnata strada, fintanto che manteneva ancora lo stesso avanzare risoluto con cui era partito da casa e che non l’aveva ancora abbandonato: non doveva destare sospetti.

Attorno a lui le strade scorrevano tutte uguali, difetto di Terren e dei suoi sobborghi che ripetevano sostanzialmente sempre lo stesso scenario: piccoli vicoli dal lastricato mezzo distrutto o per nulla costruito, con mucchi di terra ai lati della strada; topi enormi e neri che sembravano fare a gara a chi correva più veloce – e che spesso distruggevano la quiete notturna con striduli “squit”, mentre, gioiosi, si gettavano addosso alla loro cena -; residui umani consumati da un’insensibile povertà che giacevano ammassati nei vicoli ciechi, che frugavano in mezzo ai rifiuti e nemmeno badavano ormai più alla gente che passava; immondizia, sporco; catapecchie dalle porte sprangate. Di tanto in tanto si vedeva anche qualche casa tenuta meglio, probabilmente di qualche famiglia in procinto di scappare verso il lato più sicuro della città.

Quanto tempo avrebbero impiegato quei tizi prima di rendersi conto che lui li stava facendo girare in tondo? Con un debole sospiro desolato, Nathan confermò la sua razzista visione secondo cui tutti i Demoni erano irrimediabilmente tardi. Ma non era quello che contava.

Raggiunse finalmente lo svincolo della Queen Mary II, una strada abbastanza importante a Terren, e si guardò intorno: qualche carrozza attraversava la grande strada. Allo stesso modo nemmeno le locande sembravano voler andare a dormire: la luce delle torce appese accanto alle insegne rendevano il luogo decisamente più luminoso dei precedenti vicoletti.

Estrasse con pazienza l’orologio da taschino dalla tasca destra del mantello, avvertendo una sensazione di freddo penetrare attraverso i guanti e raggiungergli la pelle. Bene, aveva ancora venti minuti prima di essere ufficialmente in ritardo.

“Credo di potercela fare…”

Soppesò con se stesso, spavaldo. Poi, com’era bravo a fare, s’insinuò nel grembo delle tenebre.

 

«Hey…»

Quando i due inseguitori raggiunsero la vecchia e trascurata banchina sulla quale avevano poco prima visto il biondino che stavano seguendo, non trovarono assolutamente più alcuna traccia di lui.

«Lo vedi?» chiese il più alto tra i due, dando un leggero colpo di gomito al collega.

Quest’ultimo alzò il capo per guardarsi intorno, scrutando coi suoi occhi scuri il cupo buio che li circondava «Non vedo un accidente. Dove diavolo è quel figlio di puttana?»

Hey, mia madre era pulitissima, razza di cafone!”

Nathan avrebbe davvero voluto ribattere alle parole dell’individuo, ma così sospeso sopra le loro teste, in bilico sul piccolo pezzo di cornicione che serviva a sorreggere l’insegna dell’albergo, in una posizione assolutamente precaria e con la sensazione di essere pronto a cadere da un momento all’altro… decisamente no, era meglio tenerli per sé ogni commento.

“Ed era anche una donna di tutto rispetto! Ha cresciuto da sola due figli, mentre mio padre faceva la bella vita chissà su che spiaggia tropicale, accerchiato da danzatrici del ventre!”

Sì, decisamente l’Angelo aveva un po’ di confusione in testa per dire che le danzatrici del ventre stanno sulle spiagge tropicali!

Sotto di lui, a meno di cinque metri dai suoi piedi, i due tizi continuavano a guardarsi intorno a vuoto.

Nathan, a meno di cinque metri sopra le loro teste, continuava a ridacchiare compiaciuto.

«Hey, tu! Scendi dall’insegna!»

L’esclamazione bassa e tonante giunse da sotto di lui, poco lontano dai due inseguitori: il padrone della locanda doveva essersi accorto di un inquilino che non aveva pagato per occupare l’insegna. Era un uomo di mezza età dalla folta barba nera, e lo indicava severamente con un dito e due occhietti irritati.

I Demoni lo notarono e seguirono la linea del dito, e quando i loro sguardi incontrarono quello di Nathan fecero un sorriso cattivo.

Nathan, al contrario, fece un sorriso tirato.

“Oh, la mia proverbiale sfortuna mi ama così tanto da inseguirmi ovunque vado…”

E si lanciò giù, letteralmente.

Mentre i due si organizzavano per trovare un modo per raggiungerlo, l’Angelo fece pressione sulla parte inferiore del corpo per darsi uno slancio e saltare, allentando e poi abbandonando definitivamente il contatto con la dura pietra a cui si era aggrappato fino a quel momento con le mani. Fortuna volle che in quel momento una carrozza grande e nera – nella notte ogni cosa gli pareva nera davvero! – passasse lì vicino, giusto in tempo perché lui, allungate le braccia, potesse aggrapparsi al tetto di essa in modo piuttosto goffo ed improvvisato, rimanendo con la parte superiore del corpo completamente sul tetto del mezzo e le gambe penzoloni.

I nemici, intuite le sue intenzioni, si lanciarono in una corsa contro la stessa carrozza. Uno di loro, più veloce dell’altro, riuscì a raggiungere Nathan mentre quest’ultimo tentava di arrampicarsi del tutto. Nonostante la corsa del mezzo di trasporto, l’uomo fu abbastanza pronto da allungare il possente braccio scuro – solo allora l’Angelo notò con la coda dell’occhio che il tizio aveva la carnagione scura tipica della Spagna, dell’Italia, dei Paesi nord africani -, sfiorare con le dita la gamba destra che Nathan non era ancora riuscito a tirare su e darle uno strattone.

Sulle prime, all’Angelo parve di essere un serpentello tirato da un gorilla: la forza con cui gli venne stretta la caviglia era tale da fargli provare sincero dolore.

Si aggrappò con entrambe le mani al tetto del veicolo, scalciando istintivamente con la gamba libera nella speranza di piantare un sonoro calcio nello stomaco di quell’uomo. E poi…

Una frenata, un colpo allo stomaco e un dolore capace di stordire anche una mente sveglia come la sua.

All’improvviso le ruote si arrestarono, il suono di zoccoli, che fino ad allora aveva torturato le orecchie di Nathan, cessò, sostituito da un pesante inspirare dei cavalli che, stremati dalla giornata di lavoro, reclamavano un po’ di riposo. Il colpo brusco costrinse inseguitore e inseguito a sbattere violentemente contro il retro della carrozza. L’Angelo, che dal busto in giù pendeva nel vuoto allo stesso modo di una goccia d’acqua dal rubinetto, sentì l’omone arrivargli addosso e schiacciarlo contro il freddo legno. Per un attimo fu come se lo stomaco gli fosse rimasto spappolato. Le gambe sbatterono così brutalmente e rimasero bloccate tra il peso dell’individuo e la cabina.

La botta e il dolore furono tali che perse per qualche attimo la sensibilità. Strinse i denti e si sforzò di concentrarsi sulla temperatura decisamente fredda, e non sul dolore.

La temperatura, sì, era calata all’improvviso, sembrava che si stesse preparando un Natale freddissimo… che dolore dell’Inferno!

«Vuoi staccarti, troglodita rimbambito?!» esplose infine Nathan, e fece quanta più forza poté sul corpo del Demone, riuscendo finalmente a spingerlo lontano da sé di qualche centimetro, quanto bastava per sfilare fluidamente – e dolorosamente – le gambe da quella prigione.

Quando riuscì infine ad arrampicarsi del tutto sul tetto della carrozza e a mettersi in ginocchio, emettendo ancora qualche verso per il male provato, voltò immediatamente gli occhi verso i due inseguitori.

Fu allora che udì una voce tagliente e gracchiante di un vecchio, l’ennesimo «Che diavolo state facendo?! Lontani dalla mia carrozza, o chiamo la polizia!»

Si trattava del cocchiere, che era sceso velocemente non appena aveva sentito lo strano e potente botto causato dai due. L’omino, che nonostante la scarsa altezza sembrava costituire un potenziale pericolo con quel frustino che agitava convulsamente, si rivolse prima a quelli che agli occhi di Nathan risultavano Demoni, poi alzò lo sguardo incontrando una mano che si teneva al tetto della sua vettura, ed alzò la voce con fare minaccioso mentre alzava il frustino con l’intenzione di colpire quell’arto.

«Anche tu!»

Il colpo dato non fu molto forte, l’uomo mirava ad impaurire e non a far male, ma ebbe comunque l’effetto di far imprecare Nathan a denti stretti, che quella sera ne aveva davvero abbastanza di essere pestato.

Tornò un’ultima volta a guardare i probabili Demoni: uno dei due - quello più smilzo – aveva palesemente ignorato i comandi del cocchiere, e, dopo essersi assicurato che il suo compagno fosse ancora tutto intero, avanzò a grandi passi col viso illuminato da un’espressione maligna, vendicativa.

Afferrò a sua volta il tetto della carrozza ed alzò un piede per arrampicarvisi.

La mente dell’Angelo agì il più frettolosamente possibile, sfornando una delle sue assurde trovate che alla fine si rivelavano geniali. Così, approfittando dei preziosi secondi che il cocchiere gli stava involontariamente dando da quando si era lanciato contro l’assalitore col suo frustino e parole poco gentili, si lanciò giù dal tetto del mezzo di trasporto, ficcò una mano sotto il mantello e, trovata l’elsa portatrice di sicurezza della sua Selescinder, sfilò la lama dal fodero. Saltò in sella a uno dei cavalli ancora fermi e, con un veloce movimento all’indietro del braccio che gli costò un po’ di dolore alla spalla, riuscì a recidere in un colpo solo le poche briglie che lo tenevano legato alla carrozza.

I due inseguitori strabuzzarono gli occhi.

«Sta scappando!» esclamò quello più piccolo, ormai mezzo arrampicato sul tetto.

L’altro, quello a cui Nathan aveva assestato un calcio nello stomaco, alzò il volto canino e inchiodò gli occhi azzurri dell’Angelo con i suoi piccoli e irritati.

«No che non scappa.» grugnì infine con voce roca e bassa. Diede uno spintone al povero cocchiere che, di dimensioni corporee nettamente inferiori, cadde sul freddo basolato senza però farsi seriamente male.

Si lanciò nuovamente all’inseguimento del biondo, che nel frattempo era riuscito a spronare il cavallo nero con un colpo di piede. L’animale, premendo in un’impennata sugli zoccoli anteriori, si lanciò poi in una corsa potente e veloce attraverso le vie di Terren.

Nathan ebbe giusto il tempo di rinfoderare la sua arma e di afferrare le briglie con mano ferma. Comandò al destriero diverse direzioni e svolte, prima di voltarsi all’indietro e scoprire che i due lo stavano ancora seguendo.

No, peggio: lo stavano inseguendo mentre rivelavano la loro reale natura.

Gli occhi gli si spalancarono per la sorpresa e la stretta sulle briglie si fece più dura. Erano dei poveri pazzi! Come potevano rivelarsi così, in mezzo a strade, sì, deserte, ma che potevano rivelare umani in qualsiasi momento? Erano disposti persino a questo pur di acchiapparlo? Per cosa, poi? Per vendicare Korlea? Per fargli rivelare ogni cosa sugli Angeli? Per mettere le mani su Ann, come già una volta i loro amichetti di Hidel avevano fatto?

«Più veloce!» urlò al cavallo, spronandolo ancora con colpi di scarpa allo stomaco, ma sapeva bene che un Demone nel pieno della sua potenza correva molto più velocemente persino di uno stallone inglese.

Quelli, intanto, si muovevano nelle ombre, prestando quel minimo di attenzione obbligatoria per non farsi scoprire. Li vedeva scivolare velocemente nel buio, quasi giocando con esso e disegnando profili nuovi, spaventosi, che avrebbero inquietato persino un animo temerario. Correvano sulle gambe possenti e muscolose temprate dalla natura, e digrignavano denti affilati, abbastanza forti da affondare nella carne e strapparla a pezzi, come fanno gli animali.

Di minuto in minuto si avvicinavano sempre di più, Nathan era ormai sicuro che non sarebbe riuscito a seminarli.

Doveva trovare un modo alternativo per toglierseli di dosso.

Inutile era pensare di saltare giù ed affrontarli: un Angelo è fisicamente meno forte di un Demone; se poi si trattava addirittura di due Demoni non c’era nemmeno da pensarci: era come andare al patibolo.

La velocità degli Angeli, però, era nettamente superiore alla loro: forse aveva ancora una speranza. Doveva giocare sulla propria lestezza, sul loro scarso ingegno e sul loro olfatto molto sviluppato.

In particolare il tizio più grosso, quello i cui occhi indiavolati ora vagano sulla figura dell’Angelo come se stesse già pregustando il sapore della vendetta, aveva avuto modo di stare a contatto fisico con la sua preda, di registrarne l’odore: era con lui che Nathan voleva giocare.

Nella notte, il vento pareva più freddo di ciò che era, la neve cadeva ancora lenta, creando ostacoli fastidiosi; si erano spostati nuovamente in una zona periferica, stavolta non lontana dall’ex pretura che simboleggiava la salvezza per un Angelo. L’aria aveva un odore pesante, probabilmente perché si trovavano vicino a delle campagne, e questo poteva essere d’aiuto al piano di Nathan.

Incitò un’ultima volta il cavallo ad infilarsi in una fittissima rete di vicoli ai cui lati stavano grandi e decadenti case spente. Attraverso le finestre, a Nathan sembrava di scorgere di tanto in tanto paia di occhi preda di paura o curiosità, ma l’alta velocità non gli permetteva di assicurarsene: qualche urlo alla vista degli inseguitori oscuri gli confermava che non erano sue semplici impressioni.

Girò a destra, poi a sinistra e ancora a sinistra, sperando che la strettezza dei passaggi desse del filo da torcere ai due Demoni: lo smilzo doveva sempre stare dietro a quello grosso ormai, perché Nathan li aveva quasi seminati, e basavano la scelta delle strade da prendere sull’odore del ragazzo e del destriero – nemmeno il continuo battere di zoccoli sulla terra era ormai molto udibile, soprattutto se coperto dal gran fracasso che facevano i due quando atterravano col loro ingente peso sulla nuda terra, di passo in passo.

L’odore dell’Angelo urlava loro di girare ancora una volta a sinistra, e così, presi dall’ebbrezza della corsa e con i petti che si alzavano ed abbassavano frettolosamente a causa della mancanza di fiato, raggiunsero finalmente un incrocio stretto, al cui centro stava il cavallo nero che avevano inseguito fino ad allora: l’Angelo doveva averlo abbandonato nella speranza di ridurre il rumore dei suoi spostamenti.

Il Demone inspirò a pieni polmoni quando finalmente, dopo essersi mosso con circospezione per quelle stradine buie e prive di ogni illuminazione - anche della più sporadica offerta da botteghe o locande -, raggiunse il destriero senza cavaliere.

Il suo compare mingherlino allungò una mano verso l’animale per accarezzargli la testa, nel tentativo di fargli dimenticare quel leggero nervosismo che lo faceva scalciare e voltare continuamente il muso.

«Lo senti?» domandò, ma la sua non era più una voce, era un ringhio profondo e rapido, quanto di più lontano  c’era da limpidezza e dalla chiarezza del parlare umano.

Tuttavia l’altro Demone lo capì appieno, ed annuì con un verso gutturale «Di qua.»

La condusse verso un vicolo cieco invaso da nebbia spessa e bianca, una coltre che sembrava giocare a favore dell’Angelo. Anche la recente pioggia e quel banco di foschia candida sembravano essere dalla parte del fuggitivo, di cui non avrebbe mai dimenticato il nome: Metherlance.

Quel bastardo che gli aveva portato via quell’idiota di suo fratello Korlea.

Korlea che era così fiero di essere un messaggio umano, che non capiva l’orrore di quel ruolo per cui si era proposto volontariamente. Korlea che veniva trascinato via per i capelli da Metherlance per essere portato al macello da quei mostri che si facevano chiamare “Angeli”, e che avevano la presunzione e la crudeltà di chiamare loro Demoni. Korlea era stanco di essere guardato dagli Angeli come un animale inferiore, indegno perfino di pulir loro le scarpe, dunque aveva colto la palla al balzo quando era stato annunciato che serviva uno dei messaggi umani per annunciare agli Angeli la loro imminente rimonta. E Korlea, in quel suo smisurato orgoglio adolescenziale, con quegli occhi così limpidi e vogliosi di rendersi utile alla loro società, si era lasciato mangiare dagli Angeli.

Era stato ordinato loro di non far nulla che potesse mettere il popolo del suono dalla parte del torto, ma come poteva un fratello maggiore rimanere impassibile, sapendo che la persona che aveva torturato brutalmente e condotto alla forca il suo fratellino era lì, a pochi metri di distanza, alla disperata ricerca di un modo per salvarsi la pelle?

Non era di certo per sadismo che aveva deciso di far fuori Metherlance: era l’unico modo per mettere pace al suo dolore, punto e basta.

«Vieni.» comandò al suo compagno, e fece ancora dei passi in avanti nella nebbia. Il suo incedere era pesante ed il respiro rumoroso, gli occhi bui e ansiosi vagavano su ogni particolare distinguibile: tre metri di larghezza per un vicolo prevalentemente occupato da bidoni, casse e rifiuti.

E d’un tratto lo sentì: l’odore del biondino. Era qualcosa di dolce ma con un retrogusto acre, come quelle piante carnivore bellissime a cui ti avvicini volentieri, solo che poi si rivelano mostri orrendi e ti mangiano in un sol boccone.

La nebbia era fredda, dannatamente fredda, e bianca, e spessa. Non gli permetteva di vedere a più di cinque metri di distanza, ma cinque metri erano più che sufficienti. Dietro di sé sentiva i passi nervosi ed irregolari del suo amico, che stringeva ancora in mano le uniche armi che erano riusciti a rubare al covo: due misere revolver vecchie e con pochi colpi.

Per uccidere un Angelo non era sufficiente di certo, ma era già qualcosa.

Avanzava anche lui con passo incerto, perché non riusciva a individuare con precisione la fonte di quell’odore: dove diavolo si era nascosto quel tizio? Ad ogni minuto lo sentiva più forte, e quando si prospettò a meno di sei metri la fine del vicolo fu contento.

Capolinea, si disse.

Come previsto, il biondo aveva provato a scappare fino alla fine, ma si era dovuto arrendere davanti al muro del palazzo a tre piani che precludeva ogni via d’uscita. Il suo odore era stato più forte solo nel momento in cui gli si era aggrappato saldamente alle gambe.

Sul viso gli si formò un sorrisetto nervoso, e i suoi occhi si puntarono su… un cassonetto. Si era nascosto là dentro. Il pensiero di quanto fosse caduto in basso quell’uomo che si dava tante arie gli suscitò una risatina isterica sommessa. Si avvicinò con circospezione, pistola alla mano e sensi all’erta.

Fece un segno col capo al suo amico, che annuì a sua volta; era tesissimo anche lui.

Il grosso si mise davanti al grigio cassonetto rettangolare, lo smilzo si frappose tra l’oggetto e il muro a destra.

Con uno sguardo d’intesa, si lanciarono contemporaneamente sul nascondiglio: il secondo afferrò con forza il grande coperchio di plastica e lo sollevò con uno scatto sordo, il primo sollevò la revolver con mano ferma e afferrò con lo sguardo il contenuto del cassonetto.

Un mantello nero. E basta.

Dopo un attimo di disorientamento, strabuzzò gli occhi un paio di volte ed allungò una mano per prendere la cappa con fare esitante, come se avesse paura che potesse esplodere da un momento all’altro, o rivelare qualche trucchetto “angelico”. Niente. Non accadde assolutamente niente.

Uno spasmo violento gli contrasse il volto improvvisamente scuro, e strinse con ferocia la stoffa nera che fino a quel momento Metherlance si era portato addosso, e che aveva abbandonato sapendo che l’odore della pioggia e la nebbia avrebbero coperto le sue tracce. L’aveva ingannato.

«È… solo un mantello?» domandò il suo compagno nella loro strana lingua, confuso.

E lui, a denti stretti, ringhiò «È solo un fottutissimo mantello…»

 

Nathan era nervoso, nervosissimo. Avrebbe volentieri fatto a pezzi la prima cosa che gli fosse capitata tra le mani.

Era stanco, totalmente in disordine, sporco, aveva addosso la puzza dei vicoli di Terren, i vestiti provati dalla corsa e dalle intemperie.

Ma soprattutto, aveva perso il suo mantello.

Aveva dovuto abbandonare il suo mantello, il mantello che gli aveva fatto Anita, il mantello con cui aveva affrontato mille peripezie, che simboleggiava il suo nuovo stile di vita: insomma, aveva perso un pezzo della sua vita. E la cosa lo rendeva facilmente irritabile. Certo era che l’avrebbe recuperato in un modo o nell’altro, a costo di fare irruzione nel covo dei Demoni, perché senza la sua fida cappa nera lui non intendeva starci, no.

Camminava in modo irregolare e spezzato da improvvisi slanci volti ad accelerare sempre di più, e mai si guardava indietro, perché era sicuro di aver seminato da un pezzo i suoi inseguitori. Aveva perso il mantello per farlo.

Avanzava sulla fredda terra bagnata, evitando prontamente pozzanghere di fango e acqua piovana, che più procedeva più erano frequenti. Questo perché si era allontanato dalla città, che ormai giaceva silenziosa alle sue spalle, presentandosi come un ammasso geometrico di palazzi e tetti grigi semi avvolti dalla nebbia, che aveva giocato un ruolo fondamentale nel tiro mancino appena compiuto ai danni dei Demoni.

Il sentiero che percorreva era stato abbandonato a se stesso molti anni prima, quando i progetti per il vecchio tribunale erano andati in fumo. Nessuna asfaltatura era stata fatta, nessun marciapiede costruito, nessuna illuminazione rendeva il procedere più agevole. Il buio quasi assoluto inondava quello scenario così quieto ed immerso nel cupo riposo notturno nevoso, distrutto rapidamente di quando in quando dalle stridule o grottesche grida di gufi o dal lamentoso miagolare di felini selvatici. Un tempo, quando erano stati piccoli, Auror gli aveva confidato di avere paura di quel verso in piena notte: le ricordava, diceva con quei suoi grandi occhi supplichevoli, il pianto dei bambini. Di conseguenza, ogni volta che un nuovo miagolio rompeva quel quadro di serenità, il sangue di Nathan per un attimo si gelava, e la sua mente ricorreva a mille orribili immagini di bambini che scoppiano in lacrime.

Accelerò ancora quella che ormai era una marcia. Aveva scorto al di là della grande curva l’edificio che un tempo doveva essere stato bianco, ma che ora appariva ricoperto di verdi e secchi rampicanti e annerito da un antico incendio che si era sviluppato nel bosco poco lontano. Il vento notturno soffiava più forte, e il rumore delle fronde in movimento, che di solito riusciva a calmare l’animo irrequieto di Nathan, ora aveva solo il potere di renderlo ancor più nervoso, irritato, poiché pensava di essere fin troppo simili a quegli eroi romantici che ultimamente andavano fin troppo di moda in letteratura.

Il suo animo ebbe tuttavia da calmarsi quando, dopo essere finalmente giunto all’ex pretura, aver sceso i gradini di quel sotterraneo a cui solo un Angelo sapeva accedere ed aver attraversato il corridoio delle candele, entrò infine nella sala comune del covo.

Strabuzzò gli occhi; era vuota.

Dov’erano finiti tutti?

Avanzò cautamente all’interno della grande sala deserta e fredda, scorrendo con gli occhi sul pavimento bianco e nero non calpestato da nessuno se non da lui. Si guardò intorno, dicendosi che non vedere nessuno poltrire sui grandi divani neri ai bordi della stanza ovale era davvero un evento. Di nuovo: dov’erano finiti tutti?

“E ora che cosa dovrei fare? Nessuno potrebbe offendersi se tornassi indietro.”

Così ragionando, continuò a lanciarsi occhiate sospettose intorno. Solo allora gli vennero in mente le parole dell’adepto che gli era stato inviato due sere prima: un esponente di un’aristocratica famiglia si sarebbe trovato lì quella sera, era dunque ovvio che nessuno fosse in giro. Giusto, era proprio per quello che era stato chiamato.

Diede una sistemata veloce – per quanto possibile – agli abiti, nel vano tentativo di far loro riassumere la stessa bianchezza di quando li aveva indossati, quindi si avviò verso la grande porta in ottone tre metri a destra rispetto a quella da cui era entrato: doveva trovare qualcuno.

 

Sfortuna volle che dopo tanto peregrinare all’interno del covo – che da Jen e Marcus era chiamato “Corte”, ma che tra tutti gli altri Angeli era conosciuto come “la gabbia degli uccelli” -, la prima persona che incontrò fu l’ultima che voleva avere il piacere di rivedere dopo tanto tempo.

Adam Forster lavorava da molto, moltissimo tempo presso gli Angeli, tanto che si diceva che lui e l’associazione avessero la stessa età, ma il suo nome era quasi sempre nuovo per quelli che l’udivano. Basso, dalla pelle bianca come quella di un cadavere, le mani scheletriche rovinate da quella cattiva artrosi così comune tra gli anziani della sua età – e tuttavia nessuno a guardarlo in volto sarebbe mai riuscito a dargli un’età.

Scrutava il mondo con occhi indagatori piccoli e serpentini, con una durezza e un forte disprezzo nello sguardo che lo rendevano antipatico ai più. Eppure, conoscendolo bene, ci si sarebbe resi conto che quegli occhi verdissimi erano pieni di esperienza, ormai saturi di vita, ma ancora vogliosi di novità. Conoscendolo bene, ci si sarebbe resi conto anche della scelleratezza di cui era capace, della sua totale mancanza di sensibilità e di scrupoli.

Avanzava così, con un buffo riflesso sulla testa calva, avvolto in un elegante abito verde scuro in stile orientale. Nathan, che aveva appena varcato la soglia di quel corridoio dopo aver controllato l’ennesima stanza – vuota -, si fermò d’istinto non appena i suoi occhi celesti si posarono su quelli duri e gelidi di Forster.

Anche Forster smise di avanzare, incrociò le braccia al petto e fulminò il giovane «Sei in ritardo, Metherlance.»

«Mi sono imbattuto in uno spiacevole contrattempo, signore.» rispose immediatamente Nathan, che ormai ben sapeva che lasciarsi mettere i piedi in testa da Forster una volta significava averli in testa per sempre.

Forster non rispose. Aveva le mani strette davanti al grembo e sul volto un’espressione che dava i nervi all’Angelo: un sorriso appena accennato, e gli occhi socchiusi in un’espressione di compassione, come se stesse cercando di fargli comprendere quanta pena provava per lui.

Nathan stette in silenzio, sinceramente a disagio. Provava un profondo disprezzo per quell’uomo così meschino, che dopo la brutta avventura appena vissuta sembrava la ciliegina sulla torta della sua brutta giornata.

«Sono qui principalmente per fornire le informazioni che ho riguardo-…»

«Sì, lo sappiamo, Metherlance.» lo interruppe l’uomo.

Quanti pensieri poco gentili avrebbe voluto formulare Nathan! Ma per quanto ne sapeva quel tizio poteva anche saper leggere nel pensiero, per cui si limitò ad aggiungere «… Riguardo i due Demoni che mi hanno braccato fino a pochi minuti fa.»

L’anziano rimase interdetto ed alzò un sopracciglio con fare stupito. Lo fissò come se avesse appena detto qualcosa di molto strano, qualcosa che non si aspettava, e questo fece pensare a Nathan che forse, dopotutto, gli Angeli erano davvero estranei a quella serie di brutti eventi.

«Andiamo di là.» ordinò Forster, riprendendo immediatamente il suo abituale contegno di persona abbastanza odiosa.

«Avremo modo di parlare di questi fatti dopo che ti avremo fatto conoscere lady Varens

Giusto, si disse Nathan, era lì anche per conoscere un aristocratico, anzi, un’aristocratica. Annuì seriamente, chiedendosi quanto notizie su strani movimenti da parte dei Demoni, sicari e tentati omicidi potessero realmente essere inferiori rispetto ad una nobildonna francese.

 

D’accordo, Forster lo aveva avvertito che dovevano incontrare una nobildonna francese, e così era stato. Nathan aveva davanti questa nobildonna francese… e ora si chiedeva: ma quanti anni aveva?

Dall’alto del suo metro e novanta, non poteva che provare una sorta di strana tenerezza guardando quella cosetta di un metro e sessanta scarso.

Stava seduta composta su una grande poltrona rossa, Georgiana Varens, una poltrona dove sarebbero potute entrare tre Georgiane. Con le piccole e scarne mani reggeva una tazza di porcellana bianca più o meno quanto la sua pelle, pallida come un cencio, un po’ come quella di tutti gli Angeli. Ogni suo arto pareva più quello di una bambina che di una ragazza in procinto di diventare una donna, soprattutto guardando al leggero tremolio che la percorreva. Chiunque l’avrebbe associato a una qualche forma di malattia, ma, osservandola, Nathan si sentiva investire dai suoi sentimenti, dalla sua emozione, dalla sua timidezza. Era la timidezza a farla tremare in quel modo.

“No, davvero, stiamo scherzando?” pensò ancora tra sé e sé quando i suoi occhi incontrarono quelli  grandi e rotondi della lady bambina, vivi e supplichevoli – sembrava davvero pregare che l’attenzione si spostasse su qualcun altro -, colorati di un verde pallido.

Assomigliava tantissimo a una bambola, lady Georgiana, e più Nathan la guardava più se ne convinceva; lei aveva appena posato la tazzina su un piattino che reggeva tra le flebili mani ora, e nello spazio tra il tavolo di vetro che le stava davanti e la poltrona agitava pian pianino i piccoli piedi rinchiusi in un paio di scarpette rosse, così come il resto del suo vestito semplice ma raffinato, sul quale ricadevano lunghi boccoli castani, che salendo venivano imprigionati da una cuffietta bianca.

Nel complesso, non le avrebbe dato più di quindici anni.

«È un piacere fare la vostra conoscenza, monsieur.» sillabò Georgiana finalmente, con una vocina debole ed acuta, che Nathan avrebbe davvero visto bene addosso ad una bambola, in un inglese zeppo di accenti sbagliati.

Gli suscitò un po’ di tenerezza, e questo lo spinse a rompere quel gelido ghiaccio instauratosi da quando era entrato in quella grande stanza color platino occupata solamente da lui, Forster, Jen e Georgiana. Marcus non c’era.

Le sorrise in modo affabile per poi inchinarsi, lei gli porse la mano e lui ne baciò il dorso.

«Enchanté, mademoiselle Varens.» le rispose in quel poco di francese che sapeva, perché non ci voleva molto ad intuire che la ragazza si trovava a disagio nel dover parlare una lingua che non era la sua.

Infatti, proprio come immaginava, la giovane a quelle parole ben conosciute fece una gran sorriso ingenuo e felice, ed esplose in vivaci parole con un nuovo accetto elegante e fine «Oh, parlez-vous français

E lui, dopo essersi rimesso in piedi, annuì «Comme ci comme ça, mademoiselle

Jen, che fino a quel momento era rimasta in silenzio seduta su una poltrona nera accanto a quella di Georgiana, batté allegramente le mani e sorrise estasiata «Che meraviglia! Non immaginavo che conoscessi il francese, Nathan!»

L’Angelo voltò lo sguardo a lei, che aveva salutato subito dopo essere entrato, e la corresse delicatamente «All’incirca, mia signora. Conosco i fondamenti della lingua, ma non sarei mai in grado di intrattenere una conversazione in corretto francese.»

E, in effetti, gli risultava già abbastanza arduo parlare in inglese col marcato accento tedesco che tradiva le sue origini, figurarsi una lingua piena di suoni molli come il francese!

«Lo scopo è insegnare a lady Varens l’inglese…» riprese la parola Forster, uscendo dall’oscurità della stanza in cui fino a quel momento si era rifugiato.

Fece scorrere lo sguardo sui due ospiti, e Nathan avvertì la paura di Georgiana quando fu il suo turno di essere squadrata: era davvero intimorita da quell’uomo, e l’Angelo non riusciva a darle torto.

«… Poiché dovrà rimanere a lungo in Inghilterra, a meno che gli Angeli non decidano di affidarle missioni in Francia. Impresa che, a mio dire, si prospetta molto ardua.» concluse così , a voce sempre più lenta e bassa, continuando a posare insistentemente lo sguardo sulla ragazzina.

Avvertendo il fortissimo disagio di lei – che abbassò il capo e si fece ancor più piccola – Nathan si frappose tra gli occhi di Forster e la sua flebile figura, chiedendo con fare leggermente sorpreso «Dunque è una di noi?»

A Forster non parve piacere quell’intervento; alzò quei suoi occhi serpentini su Nathan, e, gelido nella voce quasi quanto era rigido nei movimenti, sibilò «Così sembra.» e poi stette in silenzio.

Neanche il biondo seppe rompere quel momento di tensione, preso com’era dalla valanga di fortissime emozioni di Georgiana.

Bene, avevano fatto conoscenza, ora potevano parlare di quello che interessava a lui?

Voltò gli occhi a Jen, che sorseggiava comodamente seduta una tazza di the, e fece per parlare, ma lei lo anticipò, sollevando le lunghe ciglia con fare molto femminile «Lady Varens è appena arrivata tra gli Angeli, Nathan, e come vedi conosce ben poco l’inglese. Per questo ti abbiamo convocato.»

Allora, finalmente, Nathan capì quale sarebbe stato il suo compito: insegnare l’inglese a una francese. Che strazio. Era stato già abbastanza difficile con quella testona di Annlisette – che poi parlava un dialetto, neanche una lingua del tutto diversa.

«Accetterei volentieri, milady…»

«Ma?» lo interruppe lei, alzando un sopracciglio, come sfidandolo a sfidarla.

«Ma ciò comporterebbe una mia assidua presenza alla Corte. E, se vorrete ascoltare ciò che ho da riferirvi riguardo l’attentato di villa Stevenson, capirete quanto un frequente recarmi qui possa comportare seri rischi sia per me sia per voi.» conciso e determinato, come sempre andò a colpire al punto.

Se volevano il suo aiuto dovevano prima ascoltarlo.

La donna parve un attimo sorpresa da tutta quella determinazione, ma poi fece un sorriso gentile ed alzò la mano destra per indicargli una delle tre poltrone ancora libere «Ma certo. Accomodati e raccontaci tutto.»

E Nathan lo fece. Dopo aver preso posto ed aver lanciato un’ultima, titubante occhiata alla piccola Georgiana – sarebbe rimasta lì ad ascoltare quelle informazioni riservate? -, cominciò ad esporre gli accaduti: la sera del ballo, l’attacco del killer, la morte di Angelica Rodriguez – unico avvenimento su cui erano già stati adeguatamente informati; Jen si mostrò profondamente addolorata da quella terribile tragedia -, l’accecamento di Damon, infine l’inseguimento di quella notte che poteva forse ricollegarsi al Demone-messaggio umano che avevano ucciso poco tempo prima. Evitò espressamente di parlare di Ann: gli Angeli non sapevano che ella si trovava a Terren, e non osava immaginare che cosa avrebbe detto – o fatto - Marcus se l’avesse scoperto.

Alla fine del suo racconto, il silenzio prese il posto delle parole. Nessuno sembrava voler più proferire nulla riguardo quei terribili eventi: la comandante, seduta con le gambe a cavallo, picchiettava col dito sul tavolino davanti a lei ed aveva lo sguardo accigliato di chi sta pensando fittamente; Forster, il quale non aveva mosso un muscolo né detto alcunché durante il racconto, era rimasto in piedi accanto alla porta d’ottone, stava in attesa di una qualche reazione da parte di qualcuno. Tale reazione, ironia della sorte, venne proprio da colei aveva meno capito le parole di Nathan, e che era rimasta a dondolare le corte gambe con fare confuso. A un certo punto, Georgiana starnutì. Fu uno starnuto piccolo, acuto, buffissimo, che però distrusse in un attimo la pesante atmosfera creatasi.

Tutti gli occhi le furono addosso, la ragazzina arrossì violentemente ed abbassò il piccolo viso «D-désolé» si scusò timidamente.

Jen ridacchiò, Nathan le rivolse un sorriso gentile, Forster, beh… lui rimase in silenzio, ancora, senza fare niente di particolare.

«Sai, Nathan…» riprese la parola il capo degli Angeli, col viso ora illuminato di un’espressione più fiduciosa, sebbene fosse ancora visibilmente abbattuta per la mole di brutte notizie ricevute «Lady Varens può sembrare tanto piccola e indifesa, ma ti assicuro che è un asso nell’arte della spada.»

«È una notizia che mi rincuora.» le rispose lui, per poi notare quanto quelle parole di elogio – quelle le comprendeva, eh? – facessero piacere alla piccola Georgiana.

«Ammetto che tra gli Angeli ci sono persone che parlano il francese molto meglio di te.» continuò Jen, tornando a poggiare le spalle alla spalliera con fare ora più rilassato e meno grave «Hai un accento così… così… pesante.»

«Cafone.» la corresse Forster.

Nathan fece un verso contrariato, dispensando con generosità occhiate fulminanti. Georgiana rise teneramente.

«Non, non!» intervenne la francese, stavolta con fare più spigliato e spontaneo «Il suo francese è buono, molto buono!» e sorrise al biondo, guadagnandosi così molti gradini nella scala della simpatia.

«Merci, mademoiselle

Ma alle parole di lui, Georgiana tornò ad essere timida e imbranata, e si chiuse di nuovo in un silenzio ostinato.

Jen ne approfittò per riprendere parola «Dicevo, ora che Damon è stato messo fuori gioco – e comunque tranquillo, non verrà assolutamente allontanato da noi - servirà qualcuno per proteggere i nostri ambasciatori, tra cui se ben ricordo c’è anche la tua amica Sogno Darkmoon

«Posso pensarci io.» affermò con convinzione l’Angelo, che non aveva la minima voglia di farsi proteggere, o peggio ancora, scavalcare da una ragazzina che dimostrava a malapena quindici anni.

«Per ora.» incalzò la donna, e sorrise. Si acquietò, con quel sorriso strano sul viso che Nathan non riusciva a interpretare. La fissò a lungo prima che ella rispondesse finalmente ai suoi silenziosi perché «Beh, presto torneremo a Hidel…»

Un nome. Un nome bastò a riaccendere nel biondo un’antica speranza, a destare la sua attenzione come mai Jen era riuscita a fare, e lei lo notò. Quel villaggio poteva essere un’arma a doppio taglio contro quell’Angelo. Ed era vero: Angel gli aveva accennato che Jen si stava muovendo per convincere Marcus a farlo tornare al villaggio, ma fino a quel momento la sua era stata solo una speranza molto irreale.

«Dovrai ricominciare a fare il supervisore, no?» domandò infine, col suo risolino astuto.

«… Milady?» non riuscì a trattenersi lui. Poggiò i gomiti sulle ginocchia, piegandosi in avanti col busto, come chi parla di un grande segreto «Credevo che non avreste più acconsentito…»

Si bloccò. Non era il caso di ricordarle di Ann, non sarebbe stato saggio.

Lei rise allegramente, provocando un’espressione confusa in Georgiana, che probabilmente non capiva granché della loro discussione «Ma allora non mi conosci, Nathan! E ora ascolta il nostro piano.»

“Nostro?” si chiese l’Angelo, che ormai era abituato a cercare di strappare con le pinze ogni informazione possibile a Jen e Marcus. La domanda alla sua silenziosa risposta venne subito dopo da Forster, che si avvicinò a passi lenti - e ad ogni passo la paura di Georgiana aumentava. Nathan pensò che la ragazzina dovesse essere stata vittima di quel mostro per arrivare a quei livelli di inquietudine.

Si accomodò meglio sulla poltrona, rimettendosi composto e con le spalle contro la spalliera. Ammetteva di non fidarsi con sicurezza di quei due – paradossalmente, l’estranea Georgiana sembrava quella più degna di fiducia là dentro -, non voleva lasciarsi ingannare o sfuggire qualcosa.

La bella comandante riprese parola dopo aver allungato una mano sulla piccola testa di Georgiana per carezzarla dolcemente «Può non sembrare, ma Georgiana è perfettamente autosufficiente: sa cucinare, cucire, combattere se necessario, è una ragazza molto giudiziosa. I suoi difetti principali stanno nella sua immensa timidezza, che le impedisce un qualunque tipo di rapporto umano, e nella sua estraneità con l’inglese. In entrambi i casi, tu potresti darle un forte incentivo a migliorare.»

«Perdonate la scortesia…» la frenò l’Angelo, volendo mettere i puntini sulle i. Accennò a una risatina divertita «Ma non credo proprio di essere in grado di farle vincere la timidezza coi miei modi alquanto… glaciali.»

«Ed esigenti.» Jen alzò un dito, come riprendendolo «Appunto per questo confido che farai un ottimo lavoro nell’insegnarle l’inglese. A lei piace mettersi alla prova, e tu sei molto pretenzioso. Georgiana imparerebbe in fretta.»

Due cose non piacevano a Nathan in quella frase: quel “farai” che metteva in chiaro quanto Jen fosse irremovibile dalla sua posizione – aveva deciso che lui avrebbe fatto da insegnante e gliel’avrebbe imposto -, in secondo luogo quel cercare di riportare l’attenzione su Georgiana. Perché? Che diavolo avevano veramente in mente? Potevano benissimo affidarla a un altro, tra di loro molti parlavano entrambe le lingue senza difficoltà, e Georgiana avrebbe sicuramente ottenuto risultati migliori con loro. Quell’accenno a Hidel lo inquietava particolarmente: cominciava a temere seriamente che…

«Resta il problema del dovermi recare qui ogni giorno.» provò ancora.

Forster intervenne a questo punto, alzando gli occhi serpentini su di lui «No. La porteresti con te, a casa tua.»

Ecco, fu a quel punto che a Nathan si gelò il sangue.

«Vivi da solo, un’assistente potrebbe rivelarsi molto utile per uno scienziato come te.»

L’Angelo fece un tirato, tiratissimo sorriso «… Sicuramente.»

Ora il problema era uno solo: come avrebbe giustificato la presenza a casa sua di quella contadina di Hidel che lo aveva ficcato nei guai? Spostò lo sguardo sulla ragazzina castana. Non sembrava una ficcanaso né una traditrice, ma la natura degli Angeli era infida ed opportunista, questo lui lo sapeva bene, e non c’era mai da fidarsi completamente.

«Lo stesso vale per quando tornerai a Hidel.» riprese Forster «Avrai molto lavoro, Metherlance. Dovrai tenere gli occhi molto più aperti di prima, fare turni di guardia all’interno del villaggio; dei confini esterni ce ne occuperemo noi. Avrai sicuramente bisogno di un aiuto, e Georgiana Varens può dartelo senza dare nell’occhio.»

Nathan ora capiva fin troppo bene: volevano mettere Hidel sotto stretta sorveglianza, probabilmente mentre loro riprendevano quelle maledette trattative con i pazzi Demoni, nella speranza di evitare qualsiasi ripercussione sui villici. Il discorso di Forster, così ricco di pause logiche e frasi ragionate, non faceva una piega. Da solo non poteva farcela, questa era la dura verità. Doveva portare con sé Georgiana, che in caso di attacco avrebbe saputo combattere, raccomandare ad Ann di uscire il meno possibile da casa, inventarsi scuse per convincere i villici a non uscire di notte se possibile.

Annuì fermamente «Sì, avete ragione.»

Avvertì forte soddisfazione da entrambi i pezzi grossi, sollievo da Georgiana, e quei sentimenti lo inquietarono, perché per un attimo si sentì come un topo caduto in trappola. Si rabbuiò. Oh, se solo avesse potuto avvertire anche le loro vere intenzioni invece di inutili emozioni!

Jen batté le mani davanti al petto allegramente «Bene! Allora è deciso!»

Forster intervenne di nuovo, impedendo a Nathan di immergersi nei suoi ragionamenti - sembrava tutto perfettamente calcolato per non dargli il tempo di ragionare.

«La ragazza dovrà cambiare cognome.»

Georgiana sbiancò. Aveva evidentemente capito che cosa volevano da lei: che fosse del tutto irriconoscibile.

«Sì.» convenne il biondo, allungando lo sguardo verso di lei «È necessario se non vogliamo essere scoperti.»

La ragazzina parve molto indecisa. Fece scorrere lo sguardo su ognuno dei presenti, probabilmente alla ricerca di una parola di conforto, di un aiuto, ma non trovò niente se non totale indifferenza.

“Benvenuta tra gli Angeli” pensò velenosamente Nathan.

 

Georgiana Metherlance, ecco chi era diventata. Lei era Georgiana Metherlance, una cugina francese di Nathan Metherlance.

Camminavano per quelle buie strade di Terren - che a Georgiana facevano molta paura -, lei e monsieur Metherlance, al quale lanciava di tanto in tanto piccole occhiate indagatrici.

La ragazzina era avvolta in una pesante cappa rossa, indossava anche un paio di stivali molto alti, guanti neri, una sciarpa nera che la copriva fino al naso e un cappello di lana che provvedeva a coprire il resto, lasciando visibili solamente gli occhi. Nel complesso era molto buffa, e si capiva a colpo d’occhio che era una nobile, proprio per questo Nathan doveva prestare il triplo dell’attenzione ogni volta che qualcuno posava lo sguardo su di lei.

Georgiana tremava spesso nonostante tutta quella roba che aveva addosso. Da quando era giunta in Inghilterra aveva cominciato a soffrire quel nuovo tipo di freddo così duro e dilaniante, capace di entrare nelle ossa con insistenza pungente. Infine, tra le mani stringeva una valigia marrone che era il suo unico bagaglio da quando era giunta nella vecchia Inghilterra.

“Georgiana Metherlance”, continuava a pensare.

Era possibile veramente cancellare in una sola serata un intero passato? Lei ci avrebbe provato, perché era stato monsieur Forster a ordinarglielo.

Doveva accelerare il passo abbastanza spesso per riuscire a star dietro a Metherlance, che si muoveva molto velocemente.

«Attendez, monsieur!» lo pregava in quei momenti, quando rimaneva troppo indietro e doveva cominciare a correre per raggiungerlo.

A quel punto Nathan si voltava, si scusava e le diceva che avrebbe camminato più lentamente. Ma non lo faceva mai. Sembrava avere molti pensieri per la testa, mentre camminava con lo sguardo fiero verso avanti, senza mai guardarsi indietro.

Georgiana provava già grande stima per lui, ma non era sicura di riuscire a reggere i suoi modi di fare.

L’uomo non sembrava avere la minima intenzione di fare conversazione – forse pensava ancora a quello che avrebbe dovuto fare in quel posto che avevano chiamato Hidel, o magari volgeva la sua attenzione all’uomo di nome Damon di cui aveva chiesto le sorti poco prima di lasciare la Corte.

«Damon Darkmoon rimarrà dei nostri nonostante la sua cecità.» aveva detto Jen «Tuttavia, non possiamo correre il rischio di portarlo a Hidel, ci sarebbe solo d’intralcio. Rimarrà qui a Terren, a farsi curare. La cecità non sempre è permanente, magari, con un po’ di fortuna e le dovute cure, tra qualche anno potrebbe ricominciare a vederci.»

Georgiana si era interrogata a lungo su chi potevano essere le persone di cui avevano parlato durante l’incontro, ma nessuno le aveva risposto. E così, ancora una volta, non poteva far altro che abbassare la testa e, in triste silenzio, accelerare il passo per seguire qualcuno.

«Monsieur Metherlance!» lo chiamò ad un certo punto, quando si trovarono ad attraversare una buia strada stretta e molto lunga, che le faceva paura.

Nathan, che si era di nuovo immerso nei suoi pensieri, non poté fare a meno di pensare che quella ragazza pronunciava davvero bene il suo cognome. Chissà, forse il primo Metherlance era stato proprio francese? Si voltò e le rivolse stavolta uno sguardo più curioso.

«Ascoltate, milady.» le disse in inglese «Potete parlarmi in francese se preferite, ma io mi rivolgerò a voi solamente in inglese, lentamente e con precisione, così da farvi comprendere la pronuncia corretta.»

«Oui, merci.» riprese la ragazzina. Finalmente lo raggiunse, e, guardandosi intorno con fare spaesato, aggiunse col suo timido inglese «Posso chiedere dove siamo? Questo luogo mi mette un po’ paura.»

Gettò lo sguardo sulla muffa che ricopriva gli angoli in cui i muri delle case incontravano il lastricato bagnato, sui topi che attraversavano a grande velocità le strade, e quando il muso di uno di quelli si voltò verso Georgiana e un paio di piccoli occhietti rossi incontrarono i suoi, la ragazzina si voltò verso Nathan con grandi lacrime sulle palpebre.

«Questi sono i bassifondi, milady.» le spiegò lui, le mise una mano sulla spalla e cominciò a guidarla, stavolta a voce veramente bassa, essendo quelle informazioni riservate «È necessario passare da qui per raggiungere voi-sapete-cosa dal centro di Terren. Non siete mai stata a Terren?»

La bruna scosse il capo «Mai. Sono arrivata da pochi giorni. E… perché bisogna passare per i bassi… bassì-fondi

«Bassifòndi, milady.» la corresse lui: gli sembrava di essere tornato ai tempi in cui correggeva Ann.

Già, a proposito di Ann, da quanto tempo l’aveva lasciata sola? Durante la nottata il suo pensiero era spesso corso alla contadina: stava bene? Le era accaduto qualcosa in sua assenza? Sogno e Damon l’avrebbero sicuramente protetta in caso di attacco, ma si sentiva lo stesso in forte ansia.

Attraverso la nebbia, stavano attraversando il luogo dove era avvenuto l’inseguimento poche ore prima, tuttavia non poteva andare a recuperare il mantello – se c’era ancora -, perché aveva Georgiana con sé, e i nobili sono capaci di essere veramente odiosi davanti a un po’ di sporco.

«Perché nessuna persona assennata si sognerebbe mai di attraversare una zona malfamata come questa. È un modo per celare voi-sapete-cosa.» rispose finalmente alla domanda che gli era stata posta.

«Oh.» la ragazzina mise un dito sulle labbra, come se stesse pensando seriamente. Alzò infine lo sguardo a lui con espressione preoccupata «Quindi noi siamo… deassennati 

Quelle parole fecero ridere a bassa voce l’Angelo «Per quanto mi riguarda, sì.»

Attraversarono in fretta quella parte di città, presi com’erano lui dall’impellente bisogno di assicurarsi dell’incolumità di Ann, lei dalla voglia di uscire dalla fitta nebbia che li avvolgeva da quando erano usciti dal covo.

Georgiana non pensava che Terren fosse così paurosa. A Parigi, la sua patria, le avevano spesso parlato dell’antica e misteriosa Inghilterra, terra di fate, mostri e leggende. Nei racconti della sua cara madre – inglese, mentre il padre era francese, sposati per un matrimonio combinato -, figurava sempre come un luogo inquietante ed affascinante, dagli splendidi e selvaggi paesaggi e dalle cupe e fredde città. Georgiana Varens adesso si sentiva parte di quel mondo, e un po’ ne aveva paura. Dunque non poteva far altro che staccare a forza gli occhi dalle ombre dalle strane forme, dalle poche persone che passeggiavano quietamente per quelle vie notturne e fangose. Si rifugiava presso Nathan Metherlance, suo unico punto di riferimento in quel momento, ma nemmeno lui sembrava meno pauroso delle altre forme che quella notte le si avvicinavano troppo spesso.

«Siamo arrivati.» fu l’unica cosa che Nathan disse quando si fermarono davanti a un grigio e anonimo palazzo di quattro o cinque piani.

Mentre lui trafficava con le chiavi alla ricerca di quella giusta, Georgiana impiegò qualche secondo ad osservare il luogo, per imprimerlo meglio in mente.

Non era un posto brutto ma neanche bello, con quei muri un po’ ammuffiti, che di tanto in tanto sembravano pronti a perdere qualche mattone. La cosa preoccupava la ragazzina: era davvero agibile, quel palazzo? Le ringhiere sui vecchi balconi, per quel poco che riusciva a vedere, sembravano mangiate dalla ruggine – aveva sempre odiato la ruggine, le dava un forte senso di degradazione, di morte e di abbandono. Le avrebbe ridipinte lei quelle di casa Metherlance, ovviamente se ce ne fosse stato bisogno.

«Milady.» la chiamò Nathan, destandola dai suoi sogni.

Lei scattò sull’attenti, come a volersi scusare di quella distrazione «Oui

Lui aveva finalmente aperto la vecchia e pesante porta di ferro e vetro d’ingresso e la teneva ferma con una mano, invitandola con l’altra ad entrare «Prima di salire, c’è una cosa di cui vi vorrei parlare.»

«Vi ascolto.» annuì la ragazzina, sbattendo un paio di volte le palpebre. Mise le mani in grembo e cominciò a strofinarle contro la calda lana del cappotto, nella speranza di riscaldarle.

«Con me vive una ragazza.» esordì lui, catturando subito la sua attenzione «In realtà la sua è una permanenza assolutamente momentanea, ben presto tornerà al suo paese natale: Hidel, di cui abbiamo parlato poco fa. La sua è una visita di cortesia, e per pura casualità ha avuto modo di conoscere anche Sogno e Damon Darkmoon, che vi presenterò domattina. Non sa niente degli Angeli, niente di niente, perciò in sua presenza dovreste prestare il doppio dell’attenzione.»

Georgiana annuì con fare deciso, e quello per il momento bastava a Nathan, che tuttavia non si fidava. Era lui in realtà che avrebbe dovuto prestare il doppio dell’attenzione, non lasciare più Annlisette da sola, soprattutto se in compagnia di Georgiana. Per quanto ne sapeva lui, quella ragazzina dagli occhi spauriti poteva in realtà essere una spia degli Angeli – cominciava ormai a diffidare persino della propria ombra.

«Un’altra cosa.» aggiunse, notando che Georgiana si apprestava ad entrare.

L’attenzione di lei fu di nuovo assoluta.

«Potrà sembrare irriverente, ma considerando che siamo “cugini” potrebbe apparire strana tutta questa formalità.»

La ragazzina, capito al volo dove lui voleva arrivare, arrossì e scosse il capo «Excusez-moi, ce n’est pas possible

La cosa sembrava davvero non piacerle, ma Nathan era già preparato a dinieghi, e, dopo qualche tentativo, riuscì finalmente a trovare un accordo: avrebbero continuato a darsi del voi, tuttavia chiamandosi per nome quando si trovavano in compagnia di Ann - ovviamente avrebbero poi esteso la precauzione a tutti gli abitanti di Hidel. Con Sogno e Damon non sarebbe stato necessario.

Georgiana non se n’era ancora accorta, ma gli occhi di lui le erano perennemente puntati addosso, alla ricerca di un qualsiasi dettaglio che potesse etichettarla come persona pericolosa. Osservava con attenzione ogni movimento, cercando di capire se era dettato davvero dalla timidezza o dalla paura di essere scoperta, ogni espressione sembrava quella di una maschera, ogni parola poteva essere ben calcolata, e tutta quella apparente sincerità poteva rivelarsi una perfetta menzogna. Insomma, era decisamente poco propenso a farsi prendere in giro di nuovo, non ora che poteva mettere in pericolo anche Ann.

Fu così che quando entrarono in casa studiò ogni sguardo curioso lanciato dalla ragazzina all’ambiente, ai mobili, alle sedie, al balconcino, al tavolo su cui ancora erano poggiati disordinatamente tanti libri, ai mucchi di carte concentrati su una poltrona.

«Che confusione più che confusa!*» si lasciò scappare ad un certo punto.

Nathan le lanciò un’occhiata acre «Sono uno studioso, Georgiana.»

Non capiva proprio la necessità che tutti avevano di fargli notare quanto fosse disordinato. Il che non era neanche del tutto vero, perché lui nel suo disordine aveva creato un ordine universale solo a lui conosciuto, che lo faceva sentire in qualche modo più potente rispetto agli altri, che tentavano inutilmente di capire il motivo per cui su un libro di greco antico fosse poggiata la pianta del Crystal Palace*.

Mentre Georgiana si chiudeva in un silenzio imbarazzato, Nathan raggiunse un cassetto dove teneva le poche coperte di cui disponeva. Ne uscì una piegata in quattro e, con un gesto secco, l’aprì, mostrandola in tutta la sua semplicissima monocromia bianca. Sembrava molto pesante, e la ragazzina ne trovò conforto: avrebbe dormito al caldo, sperava. Posò silenziosamente il suo bagaglio sul pavimento.

«Mi dispiace, ma per stasera dovrete accontentarvi del divano.» annunciò lui, correndo con gli occhi al vecchio ammasso di molle, rattoppi e polvere.

La giovane non parve affatto triste, anzi, ringraziò della premura e chiese di potersi ritirare il più presto possibile. Lo disse con un’espressione così supplichevole che Nathan non riuscì a dirle di no, le sorrise e la lasciò sola.

«Bonne nuit.» la salutò, ricevendo un sorriso in cambio.

Immaginava che trovarsi da sola in un posto sconosciuto l’avesse duramente provata, non la biasimava assolutamente – dopotutto era ancora una ragazzina.

E poi… prima di chiudersi la porta alle spalle e lasciare che il visetto scarno sparisse nell’altra stanza, gli era parso di vedere qualcosa, una sorta di barlume di speranza negli occhi di lei. Non seppe interpretarlo, di nuovo. Perché già bene conosceva quel bagliore, lo aveva visto nello sguardo di tanti nuovi Angeli. Tuttavia era sempre intenso quando fulmineo, e si dissolveva con velocità spaventosa.

La stanza in cui Nathan era entrato era quella da letto dove riposava Annlisette, immersa in un sonno profondo. Che sollievo, stava bene. L’Angelo si concesse un’espressione ingentilito.

L’ambiente era buio, la notte regnava sovrana; solamente un raggio di luna penetrava attraverso le tende della porta che dava sul balconcino, illuminando la parte di camera occupata dall’armadio e da un comò che conteneva moltissime cose: da fotografie a progetti, da oggetti per la ricerca a stoffa per rattoppare, da libri ad armi – delle pistole in dotazione dagli Angeli che il biondo aveva nascosto molto bene, nella speranza che la curiosità di Ann non arrivasse perfino a farla scartabellare tra i suoi libri in tedesco.

Si tolse silenziosamente la giacca, sfilando prima l’una poi l’altra manica, per poggiarla quindi sulla sedia accanto al comò. La perdita del suo mantello era stata una cosa terribile ai suoi occhi – per lui era davvero come perdere una persona, per quanto assurdo potesse sembrare -, eppure quella rabbia covata fino a quel momento sembrava assopirsi mentre posava gli occhi sul profilo di Annlisette addormentata.

La ragazzina sognava quietamente stesa sul fianco destro, con un braccio nascosto sotto i caldi strati di coperte e un braccio fuori, posato sul guanciale. I lunghi capelli erano sparsi in modo selvaggio eppure elegante, ricordavano moltissimo a Nathan quelle tele di ragno che da bambino amava osservare per ore, cercando di carpirne i segreti di tanta semplicità capace di tanta bellezza. Ridacchiò tra sé e sé silenziosamente, pensando che forse Ann si sarebbe sentita offesa se avesse udito quel paragone.

Nel modo più raccolto possibile – quasi si sentì un ladro -, riuscì a cambiarsi ed infilarsi addosso qualcosa che non emanasse quell’orrendo fetore delle vie di Terren. Non si sarebbe mai sognato di avvicinarsi alla sua principessa in quel modo impresentabile.

Nel raggiungere il letto sciolse anche il fiocco con cui teneva legate la sua lunga zazzera disordinata e ribelle – eh sì, Ann poteva provarci quanto voleva a comandargli di tagliarsi quei capelli che lo facevano sembrare lo scienziato pazzo, ma non ci sarebbe mai riuscita.

Del resto, come imporre a uno scienziato pazzo di non essere più scienziato pazzo?

Silenziosamente, calò sul colpo della ragazza come un vampiro cala sulla sua vittima. A sua volta si stese su un fianco, allungò una mano per posarla delicatamente sulla spalla coperta di lei e carezzarla con garbo.

«Mmh…» si lamentò la ragazzina.

Aveva il sonno leggero? Nathan sorrise. Pensava che Ann fosse una di quelle ragazze che non venivano svegliate neanche dalle cannonate. O forse, molto più probabilmente, da quando il mondo le cadeva addosso lentamente aveva cominciato a rimanere in allerta anche durante il sonno.

«Shh, tranquilla, sono io.» le sussurrò all’orecchio con tono basso e rassicurante, e quando lei si sforzò di aprire un occhio offuscato dal sonno lui le sorrise.

Ad Annlisette, ancora completamente intontita dalla sonnolenza, parve di essere ancora dentro uno dei suoi sogni. Nathan non era mai entrato in quella camera di notte, nemmeno quando tornava alle prime luci del mattino. Non si era mai preoccupato di assicurarle che era rincasato e che stava bene, perciò quello doveva essere un sogno.

«Sto sognando?» chiese ingenuamente, suscitando in lui un mezzo sorriso.

«Può darsi.»

Fu la risposta, seguita da un freddo bacio sulla fronte. I baci di Nathan erano sempre freddi, soprattutto quando tornava a quell’ora, dopo aver passato tutta la notte chissà dove, in compagnia di chissà chi. Una cosa che accendeva la fiamma della gelosia nel piccolo cuore di Ann, che andò con la mano a stringere quella di lui posata sulla sua spalla.

«Stai bene? Non hai preso tanto freddo, vero?» aggiunse la ragazza. Incontrò i suoi occhi, che sembravano più bui del solito, e da quello capì che c’era qualcosa che lo angosciava.

Lui le assicurò che andava tutto bene, e ancora una volta lei portò pazienza, perché sapeva che era inutile combattere contro lui e le sue manie. E poi, se non riusciva a reggere un confronto verbale quando era nel pieno della lucidità, come doveva riuscirci in quel momento?

«Lo dici per non farmi preoccupare.» affermò comunque.

Lui rise ed annuì «È vero.»

Raramente Ann aveva avuto modo di osservare così da vicino Nathan al buio, ma ogni volta era un’emozione. Nelle tenebre, era come se il suo viso subisse una trasfigurazione, diventando la cosa più bella e desiderabile che avesse mai visto. O forse erano semplicemente gli effetti collaterali del sonno e del buio che nascondeva le imperfezioni, il che sarebbe stato molto più logico.

Anche se, a dirla tutta, in quella storia di cui si sentiva quasi protagonista c’era davvero ben poco di logico…

Sentì le dita di lui percorrere la pelle del suo braccio con lentezza, e quel tocco ebbe lo strano potere di trasmetterle emozioni e voglie che un cristiano non dovrebbe avere. Arrossì e si chiuse in un silenzio statuario, preferendo nascondersi tra le braccia del suo Angelo.

Lo sentì ridacchiare, e in quel momento si ricordò che…

«Smetti immediatamente di sentire le mie emozioni, disgraziato!» le parole le uscirono come un fiume in piena, allo stesso modo in cui le sue guance si colorarono così improvvisamente di un rosso così vivo da sembrare prese da un incendio.

Nathan allungò una mano per sfiorarle il mento, che sollevò piano «Lo sai che non è una cosa volontaria. E poi…» riecco il suo famoso sorriso beffardo «Perché te ne vergogni?»

«E tu perché ne ridi?» sbottò la ragazzina, fulminandolo con le occhiate più atroci del suo repertorio.

La mano di lui si sollevò ancora fino a raggiungerle una guancia, sulla quale posò una carezza «Perché il modo in cui cerchi in tutti i modi di mettere da parte ogni debolezza è molto dolce.» quindi, dopo una breve pausa, aggiunse «Sei una bella persona, non nascondere te stessa dietro un velo.»

Se fosse stata in grado di pensare, la giovane straniera sicuramente avrebbe riflettuto su quelle parole, ma in quel momento una profonda sonnolenza le impediva di mettere a fuoco ogni cosa che non era il suo amato Angelo.

Che fosse più spontanea, era questo che Nathan voleva? Dopo tutto quello che era accaduto, dopo la straziante morte di Angel che ancora anneriva le sue giornate, con la paura che Hidel potesse essere divorato da un momento all’altro, era davvero il caso di mostrarsi ingenua com’era sempre stata? Qualcun altro si sarebbe approfittato di lei, o peggio, si sarebbe accorta in tempo dell’ennesimo terremoto distruttore quando sarebbe arrivato?

Aveva tanta paura, era questo che non voleva ammettere, la consapevolezza che la faceva chiudere in se stessa.

Una nuova carezza le solcò il viso «Niente paura, principessa. Sei molto più coraggiosa di quanto credi…» lo sentì consolarla, e lei sollevò il viso per incontrare i suoi occhi «Ce la faremo sicuramente.»

Annlisette si sentì invadere il cuore da un grande calore, ed annuì ripetutamente mentre uno spontaneo sorriso le si allargava sul volto. Cercò ancora una volta riparo tra le braccia dell’unica persona di cui poteva fidarsi mentre era lì, a Terren, nelle sue carezze, nelle sue così rare ma intense affettuosità, nei suoi baci, nelle loro mani intrecciate, in un desiderio diverso da quelli provati fino a quel momento.

E in intanto, fuori, cadeva la neve.  

 

 

Note:

#1: Georgiana cita “Paradise Lost”, John Milton, II.

#2: Il Crystal Palace era un enorme edificio allestito nel 1851 per ospitare l’Esposizione Universale, a Londra. Fu smontato e ricostruito a Levisham nel 1854 – dunque nel tempo in cui è ambientata la nostra storia -, per poi essere definitivamente distrutto da un incendio nel 1936.

 

 

 

 

Note dell’Autrice:

Questo capitolo è arrivato con un po’ di ritardo, me ne scuso *inchin* come molti altri di voi, anch’io sono purtroppo presa dalla maledizione degli esami di maturità – mai odiato Seneca come ieri -.-“ -, quindi tra preparazione, ripasso, percorsi ed esami veri e propri questo capitolo ha subito un enorme ritardo. Anche perché, come avete visto, è un capitolo molto denso, dove finalmente sono stati introdotti Georgiana Varens e Adam Forster, due personaggi importantissimi all’interno della storia ^^ adoro Georgiana! Ho progetti grandissimi per lei, quasi ai livelli dei progetti che ho per Nathan! A proposito, ultimamente l’attenzione si è spostata su di lui, ma non abbiate paura, fan di Ann, perché la nostra eroina a breve lo butterà fuori dalla scena xD credo che per un po’ non vedremo più Nate – se non per brevissimi intermezzi -, per cui volevo farvi godere il nostro sadico angioletto un po’, prima di farlo sparire. Mi rendo conto che questi capitoli diventano sempre più lunghi, e la cosa mi fa paura! Il prossimo aggiornamento… eeeh, non saprei. Devo prima finire gli esami, poi mi butterò su Snow, nella speranza di finirlo a breve – eh sì, siamo quasi a fine storia! Che commozione! (Lettori: E menomale! Ti sei portata la testa!)

Bene, prima di lasciarvi, posto il link ad un disegno che ho fatto ai tempi del capitolo 21 e che puntualmente ho sempre dimenticato di farvi vedere xD è una cosina simpatica, magari vi strapperà un sorriso:

http://img641.imageshack.us/img641/6213/nathandamonannsogno.jpg

In ordine da sinistra verso destra: Sogno, Ann, Damon e Nathan – devo aggiungere Georgiana, così il gruppo dei protagonisti è al completo ^^

 

E ora mi immergo nelle tenebre dello studio.

Auf wiedersehen! *svolazza mantello*

Nathan: Il mio mantellooooooo! ç_____ç

  
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