What colour is the snow?
Capitolo 24: Sturm und
Drang.
Il
dolce profumo della notte era qualcosa che gli era sempre stato gradito,
specialmente in quel periodo che ogni anno scatenava l’attesa ed il fermento di
tante persone: il Natale. Ancora una settimana, e la fatidica data sarebbe
giunta.
A
Nathan non piaceva molto il Natale; tuttavia, il giovane Angelo era sempre ben
lieto di accomodarsi in balcone, su quella vecchia sedia di legno scuro un poco
rovinata dal tempo e dal frequente uso, e, dopo essersi ritagliato per sé un
pezzo di mondo costituito dal terrazzino disadorno e pulito del suo appartamento,
abbassare gli occhi con sguardo un po’ superbo ma preso da una grandissima
curiosità.
Faceva
scorrere le pupille ora rilassate, ora più interessate, ora attentissime, sulle
strade di Terren, che facevano da sfondo al suo solitario nido freddo.
Poco
gli importava dei fitti strati di neve che si ammucchiavano attorno a lui: nei
lati dove il pavimento incontrava e si scontrava col muro esterno della casa; sulla
ringhiera sottile e alquanto corrosa dalla ruggine lasciata dalle piogge
autunnali; su lui stesso, che tanto poteva apparire ad un certo punto come un
buffo uomo di neve dallo sguardo corrucciato, statico nella sua posizione
rigida e legnosa.
Quella
sera, però, gli occhi di Nathan non vagavano sulle piccole formiche umane che
sotto di lui si affrettavano per strada, scivolando sulla neve in una corsa
contro il tempo per comprare gli ultimi doni – o, chissà, forse i primi -,
invece soggiogavano il buio che lo circondava, spezzavano ogni barriera
costituita dalla coltre pallida che cadeva rapida e decisa, a fiocchi tondi o
spezzati, a volte goffa nella sua caduta libera.
Spesso,
osservandola, si era chiesto se la neve provasse una strana realizzazione
interiore nell’abbandonare la calma mansueta del cielo per cadere lì, in quel
pezzo di Inghilterra caotico e disordinato.
Essa
era simile, si diceva allora Nathan, a lui stesso, ed erano accomunati
dall’aver preferito la sfrenata tentazione di vizi al pacifico vivere in cui
avrebbero, altrimenti, lentamente consumato la loro esistenza.
Inspirò
a pieni polmoni quell’aria ghiacciata, volendo sentire il petto dilaniato
ancora una volta dal pungente taglio che aveva il potere di ridestarlo dai suoi
silenziosi sogni interiori; voltò poi lo sguardo verso destra, passando così da
uno scenario all’altro.
In
quella direzione, infatti, era possibile scorgere il grande porto di Terren;
quella casa era stata scelta apposta per quel motivo: Nathan amava i rumori del
porto. In seguito si erano trasferiti lì anche Sogno e Damon, e l’amena
serenità del suo piccolo mondo era stata sostituita da una vivace allegria che
lo contagiava, che aveva il potere di smuoverlo dalla sua calma irreale che
tutti avevano sempre considerato apatia.
E
ora… ora che Damon aveva perso la facoltà della vista a seguito di quel
terribile colpo alla testa, sarebbe stato tutto come prima, o forse sarebbe
irrimediabilmente mutato? Tale domanda aveva avuto l’ardire di porre alla
piccola Sogno, subito dopo essere usciti dalla camera in cui il giovane Darkmoon, inerme su un capezzale che gli era paurosamente
apparso come un letto di morte, aveva dato voce a quella novella per nulla
lieta.
«Non
cambierà nulla.» così aveva risposto Sogno, dopo aver stancamente appoggiato le
spalle contro la porta della stanza, abbattuta come Nathan non l’aveva mai
vista, senza che neanche un mezzo sorriso le illuminasse il giovane e pallido
volto, senza cantare l’ultima sillaba della sua frase. Oh beh, quell’abitudine
l’aveva persa da tempo…
Nell’apprendere
la notizia, Sogno ed Annlisette erano state molto coraggiose, nonché pacate.
Non erano riuscite a sorridere in modo incoraggiante – e sarebbe stato inutile,
considerando che colui che doveva essere incoraggiato avrebbe vissuto il resto
dei suoi giorni in un mondo fatto di tenebre -, né a pronunciare parole di
conforto degne di grande nota; tuttavia, avevano fatto forse la cosa migliore
che si poteva fare in quel momento, e che Nathan non aveva nemmeno preso in considerazione:
avevano preso le mani di Damon, fredde e screpolate dalla rigida temperatura, e
gli avevano promesso che tra loro non sarebbe cambiato nulla.
Sogno
aveva pianto, ma solo nel momento in cui aveva creduto di essere sola. Lui ed
Ann l’avevano però sentita, con quei suoi singhiozzi violenti, e l’avevano
vista, scossa da sottili tremori di dolore. Eppure aveva avuto la forza di
resistere davanti a suo fratello, per il bene non solo di lui, ma anche di Ann
e Nathan.
«Sogno
è così forte…»
Così
aveva commentato Annlisette, trovando in quella penosa scena un qualcosa che a
Nathan sfuggiva, che non gli era permesso vedere in quanto Angelo. In seguito,
Ann si era diretta dalla sua amica, l’aveva cinta e l’aveva baciata in fronte,
suscitando in lei un triste, tristissimo sorriso.
Nathan,
guardandole, si era sentito solo.
“Che
giornata pesante…”
L’Angelo
scrutava con espressione attenta il porto: nella notte, tutte le barche gli
sembravano nere. A guardarle di giorno, tuttavia, non era molto sicuro che il
loro colore sarebbe mutato, almeno ai suoi occhi. Era invece sicuro che se
avesse chiesto ad Ann quante tonalità riusciva a contare, ella avrebbe espresso
una lista lunga, lunghissima, e ciò fece sorridere l’uomo, che in quel momento
cominciava a cogliere un nuovo odore, quello che Sogno definiva “il profumo del
Natale”.
Nathan
spostò lo sguardo all’orologio: le ventitre. Sollevò lo sguardo: poca gente in
giro.
Il
suo sguardo s’incupì: «È ora.»
Poi,
in silenzio, quel tetro fantasma dal viso scarno e pallido scivolò nelle
tenebre fino a dissolversi.
Quando
venne investito dalla fredda e sferzante aria notturna, Nathan fece una
smorfia. Con uno strattone, sollevò il
cappuccio del nero mantello fino a coprirsi il volto, quindi avanzò per le vie
solitarie di Terren.
Il
suo obiettivo era raggiungere il rifugio degli Angeli per raccontare loro le
ultime novità, ma soprattutto per estirpare tutte le informazioni possibili; se
Annlisette affermava che lui parlava in modo assolutamente enigmatico era
perché non aveva mai avuto il piacere di dialogare con Marcus e Jen, generali capaci di dir tutto senza rivelare nulla. Per
lui, che aveva sempre amato i rebus e le difficoltà – che, stando a quanto
affermava, rendevano la vita più interessante – il più delle volte era
stressante ascoltarli.
Camminava
con incedere regolare e deciso lungo il lastricato invaso dalle ombre, stando
ben attento ad evitare che i raggi della luna o dei lampioni lo illuminassero,
rivelando la sua figura ad occhi estranei dalle sottili intenzioni.
Convocato
d’urgenza – chiaramente gli Angeli sapevano che lui si era trovato in mezzo al
terribile accadimento del ballo ed erano a conoscenza anche della morte di
Angelica Rodriguez, ma ignoravano molti altri particolari -, gli era stato
chiesto di indossare abiti eleganti, perché quella sera avrebbe conosciuto un
appartenente a un’insigne famiglia francese. Non avevano specificato altro, e
questo non piaceva a Nathan.
Costretto
ad obbedire a quegli astrusi ordini – come potevano pensare a frivolezze del
genere in mezzo all’orrore di ciò che stava accadendo? -, per la prima volta
Ann aveva avuto il piacere di vederlo vestito di bianco.
«Ti
sta molto bene.» aveva commentato la giovane contadina con fare ammirato,
mentre lo aiutava a legare davanti al collo un laccetto nero, unica nota scura
sul candido cappotto «Ma il mantello non c’entra niente.»
A
quelle parole Nathan le aveva lanciato un’occhiata rapida, poi aveva afferrato
la cappa giacente sulla sedia, liquidando l’argomento «Senza il mio mantello
non sono più io.»
Non
gli piaceva vestirsi di bianco, gli ricordava spiacevoli avvenimenti della sua vita
passata; insomma, prima avrebbe raggiunto gli Angeli, prima avrebbe avuto le
risposte che cercava e prima si sarebbe tolto quella roba di dosso.
Con
questi pensieri avanzava col suo passo regolare e leggero di chi è abituato a
non farsi vedere. O almeno, così credeva.
Sebbene
Nathan non se ne fosse ancora reso conto, già da qualche minuto due paia di
occhi si erano posati sulla sua figura, due paia di gambe avevano accelerato il
passo nell’intento di seguirlo, e due mani si era posate, leste, su altrettante
armi da taglio che le due figure ammantate di marrone portavano all’altezza
della cinta.
Intorno
a loro la strada era molto buia, a tratti leggermente illuminata dalla soffusa
luce proveniente da lontane torce. Nathan sceglieva le stradine secondarie, i
piccoli vicoli, quelli che potevano a stento permettere il passaggio
contemporaneo di due persone; ai lati di questi, sdraiati sul freddo lastricato
in pietra, macchiato e bagnato dalla recente pioggia, stavano accalcati fagotti
deformi di quelle che un tempo dovevano essere state persone, ma che ora si
erano ridotte a meri fantasmi, larve umane, tanto la fame aveva consumato le
callose dita che facevano capolino dagli stracci che indossavano, tanto il
freddo aveva screpolato quella pelle scarlatta e spesso tagliuzzata, tanto gli
stenti avevano indurito i loro tratti giovani o vecchi, scavato le loro guance,
riempito le fronti di brufoli e macchie dovuti allo sporco, che sembrava ormai
essere parte integrante di loro, tanto quella gelida sera stringeva i loro
corpi in una morsa invincibile, costringendosi a violenti tremori.
Avrebbero
forse chiesto la carità se fossero stati in forze, ma da Nathan non avrebbero
avuto neanche un soldo, non solo perché lui non era di indole generosa, ma
anche perché ben sapeva che se avesse deciso di accontentarne uno solo, avrebbe
poi dovuto accontentarli tutti, dilapidando le sue già modeste finanze per poi
finire in mezzo a loro a chiedere la carità.
Un
ragionamento freddo e insensibile senza dubbio, ma era quello lo sfondo sociale
in cui vivevano: i ricchi si arricchivano, i poveri si impoverivano.
L’uomo
continuava ad avanzare con passo sicuro, lanciando occhiate a ciò che lo
circondava: ora alla locanda vuota e fatiscente mezza immersa nel buio; ora
alle vecchie case – o meglio, topaie – dove erano costretti ad abitare gli
sfortunati che si dovevano accontentare dei bassifondi; ora alle grosse ombre
di pantegane nere e pelose che sfrecciavano da un lato della strada all’altro,
ricambiando l’occhiata azzurra di Nathan con una altrettanto intensa, rossa
fiammeggiante e vogliosa. Forse si chiedevano che sapore avesse quell’essere
umano, chissà.
L’Angelo
giunse ad un incrocio tra due strade piuttosto strette, si guardò intorno per
assicurarsi che nessuno l’avesse notato e fu allora che finalmente scorse,
sebbene per un solo attimo, quelle due figure dall’aspetto decisamente sospetto
che nel sentirsi osservate si erano nascoste di tutta corsa.
Sospirò,
dicendosi che in effetti si aspettava una qualche ripicca da parte dei Demoni –
o, molto più semplicemente, che qualcuno prendesse il posto di quel Demone che
l’aveva spiato fino a poche settimane prima, anche se gli pareva molto strano
che ne avessero addirittura mandati due.
Alti
e possenti, sicuramente molto più forti di lui fisicamente parlando, ammantati
di un marrone abbastanza scuro da donare loro una certa capacità camaleontica,
con cappelli a fare da maschera per visi praticamente impossibili da vedere.
Nell’incedere non avevano leggerezza né sicurezza, caratteristiche proprie
degli Angeli, ma solo una forza bruta e un’evidente fretta di concludere gli
affari di quella notte il più frettolosamente possibile. Sì, erano decisamente
Demoni. Almeno quello diede un po’ di sollievo a Nathan, che cominciava davvero
a credere che fossero gli stessi Angeli a voler morti lui ed Annlisette.
Una
cosa era certa: contro due tizi del genere non aveva chance.
Tuttavia,
non ancora sicuro che stessero seguendo lui – Nathan si riconosceva fin troppo
sospettoso, e ancor più egocentrico -, decise di metterli alla prova e percorrere
qualche altra strada prima di darsi ad un’eventuale fuga.
“Probabilmente
vogliono scoprire dov’è l’ingresso al covo…” si
disse, mentre, mani in tasca, riprendeva serenamente la sua passeggiata.
La
strada per il rifugio era dunque: sempre dritto, gira a destra, percorri il sentiero di St. John e poi gira a sinistra, due
metri indietro e poi ancora sinistra.
Nathan
andò sempre dritto, poi, arrivato ad un altro incrocio dove spiccavano dei
cartelli di legno troppo malmessi per essere letti, per puro errore girò a sinistra.
“Ops… ma come sono sbadato…” pensò tra sé e sé con un sorriso
malsano, tenendo gli occhi sulla deserta e bagnata strada, fintanto che
manteneva ancora lo stesso avanzare risoluto con cui era partito da casa e che
non l’aveva ancora abbandonato: non doveva destare sospetti.
Attorno
a lui le strade scorrevano tutte uguali, difetto di Terren e dei suoi sobborghi
che ripetevano sostanzialmente sempre lo stesso scenario: piccoli vicoli dal
lastricato mezzo distrutto o per nulla costruito, con mucchi di terra ai lati
della strada; topi enormi e neri che sembravano fare a gara a chi correva più
veloce – e che spesso distruggevano la quiete notturna con striduli “squit”, mentre, gioiosi, si gettavano addosso alla loro
cena -; residui umani consumati da un’insensibile povertà che giacevano
ammassati nei vicoli ciechi, che frugavano in mezzo ai rifiuti e nemmeno
badavano ormai più alla gente che passava; immondizia, sporco; catapecchie
dalle porte sprangate. Di tanto in tanto si vedeva anche qualche casa tenuta
meglio, probabilmente di qualche famiglia in procinto di scappare verso il lato
più sicuro della città.
Quanto
tempo avrebbero impiegato quei tizi prima di rendersi conto che lui li stava
facendo girare in tondo? Con un debole sospiro desolato, Nathan confermò la sua
razzista visione secondo cui tutti i Demoni erano irrimediabilmente tardi. Ma
non era quello che contava.
Raggiunse
finalmente lo svincolo della Queen Mary II, una strada abbastanza importante a
Terren, e si guardò intorno: qualche carrozza attraversava la grande strada. Allo
stesso modo nemmeno le locande sembravano voler andare a dormire: la luce delle
torce appese accanto alle insegne rendevano il luogo decisamente più luminoso
dei precedenti vicoletti.
Estrasse
con pazienza l’orologio da taschino dalla tasca destra del mantello, avvertendo
una sensazione di freddo penetrare attraverso i guanti e raggiungergli la
pelle. Bene, aveva ancora venti minuti prima di essere ufficialmente in
ritardo.
“Credo
di potercela fare…”
Soppesò
con se stesso, spavaldo. Poi, com’era bravo a fare, s’insinuò nel grembo delle
tenebre.
«Hey…»
Quando
i due inseguitori raggiunsero la vecchia e trascurata banchina sulla quale
avevano poco prima visto il biondino che stavano seguendo, non trovarono
assolutamente più alcuna traccia di lui.
«Lo
vedi?» chiese il più alto tra i due, dando un leggero colpo di gomito al
collega.
Quest’ultimo
alzò il capo per guardarsi intorno, scrutando coi suoi occhi scuri il cupo buio
che li circondava «Non vedo un accidente. Dove diavolo è quel figlio di
puttana?»
“Hey, mia madre era pulitissima, razza di cafone!”
Nathan
avrebbe davvero voluto ribattere alle parole dell’individuo, ma così sospeso
sopra le loro teste, in bilico sul piccolo pezzo di cornicione che serviva a
sorreggere l’insegna dell’albergo, in una posizione assolutamente precaria e
con la sensazione di essere pronto a cadere da un momento all’altro…
decisamente no, era meglio tenerli per sé ogni commento.
“Ed
era anche una donna di tutto rispetto! Ha cresciuto da sola due figli, mentre
mio padre faceva la bella vita chissà su che spiaggia tropicale, accerchiato da
danzatrici del ventre!”
Sì,
decisamente l’Angelo aveva un po’ di confusione in testa per dire che le
danzatrici del ventre stanno sulle spiagge tropicali!
Sotto
di lui, a meno di cinque metri dai suoi piedi, i due tizi continuavano a
guardarsi intorno a vuoto.
Nathan,
a meno di cinque metri sopra le loro teste, continuava a ridacchiare
compiaciuto.
«Hey, tu! Scendi dall’insegna!»
L’esclamazione
bassa e tonante giunse da sotto di lui, poco lontano dai due inseguitori: il
padrone della locanda doveva essersi accorto di un inquilino che non aveva
pagato per occupare l’insegna. Era un uomo di mezza età dalla folta barba nera,
e lo indicava severamente con un dito e due occhietti irritati.
I
Demoni lo notarono e seguirono la linea del dito, e quando i loro sguardi
incontrarono quello di Nathan fecero un sorriso cattivo.
Nathan,
al contrario, fece un sorriso tirato.
“Oh,
la mia proverbiale sfortuna mi ama così tanto da inseguirmi ovunque vado…”
E
si lanciò giù, letteralmente.
Mentre
i due si organizzavano per trovare un modo per raggiungerlo, l’Angelo fece
pressione sulla parte inferiore del corpo per darsi uno slancio e saltare,
allentando e poi abbandonando definitivamente il contatto con la dura pietra a
cui si era aggrappato fino a quel momento con le mani. Fortuna volle che in
quel momento una carrozza grande e nera – nella notte ogni cosa gli pareva nera
davvero! – passasse lì vicino, giusto in tempo perché lui, allungate le
braccia, potesse aggrapparsi al tetto di essa in modo piuttosto goffo ed
improvvisato, rimanendo con la parte superiore del corpo completamente sul
tetto del mezzo e le gambe penzoloni.
I
nemici, intuite le sue intenzioni, si lanciarono in una corsa contro la stessa
carrozza. Uno di loro, più veloce dell’altro, riuscì a raggiungere Nathan
mentre quest’ultimo tentava di arrampicarsi del tutto. Nonostante la corsa del
mezzo di trasporto, l’uomo fu abbastanza pronto da allungare il possente
braccio scuro – solo allora l’Angelo notò con la coda dell’occhio che il tizio
aveva la carnagione scura tipica della Spagna, dell’Italia, dei Paesi nord
africani -, sfiorare con le dita la gamba destra che Nathan non era ancora
riuscito a tirare su e darle uno strattone.
Sulle
prime, all’Angelo parve di essere un serpentello tirato da un gorilla: la forza
con cui gli venne stretta la caviglia era tale da fargli provare sincero
dolore.
Si
aggrappò con entrambe le mani al tetto del veicolo, scalciando istintivamente
con la gamba libera nella speranza di piantare un sonoro calcio nello stomaco
di quell’uomo. E poi…
Una
frenata, un colpo allo stomaco e un dolore capace di stordire anche una mente
sveglia come la sua.
All’improvviso
le ruote si arrestarono, il suono di zoccoli, che fino ad allora aveva
torturato le orecchie di Nathan, cessò, sostituito da un pesante inspirare dei
cavalli che, stremati dalla giornata di lavoro, reclamavano un po’ di riposo.
Il colpo brusco costrinse inseguitore e inseguito a sbattere violentemente
contro il retro della carrozza. L’Angelo, che dal busto in giù pendeva nel
vuoto allo stesso modo di una goccia d’acqua dal rubinetto, sentì l’omone
arrivargli addosso e schiacciarlo contro il freddo legno. Per un attimo fu come
se lo stomaco gli fosse rimasto spappolato. Le gambe sbatterono così
brutalmente e rimasero bloccate tra il peso dell’individuo e la cabina.
La
botta e il dolore furono tali che perse per qualche attimo la sensibilità. Strinse
i denti e si sforzò di concentrarsi sulla temperatura decisamente fredda, e non
sul dolore.
La
temperatura, sì, era calata all’improvviso, sembrava che si stesse preparando
un Natale freddissimo… che dolore dell’Inferno!
«Vuoi
staccarti, troglodita rimbambito?!» esplose infine Nathan, e fece quanta più
forza poté sul corpo del Demone, riuscendo finalmente a spingerlo lontano da sé
di qualche centimetro, quanto bastava per sfilare fluidamente – e dolorosamente
– le gambe da quella prigione.
Quando
riuscì infine ad arrampicarsi del tutto sul tetto della carrozza e a mettersi
in ginocchio, emettendo ancora qualche verso per il male provato, voltò
immediatamente gli occhi verso i due inseguitori.
Fu
allora che udì una voce tagliente e gracchiante di un vecchio, l’ennesimo «Che diavolo state facendo?!
Lontani dalla mia carrozza, o chiamo la polizia!»
Si
trattava del cocchiere, che era sceso velocemente non appena aveva sentito lo
strano e potente botto causato dai due. L’omino, che nonostante la scarsa
altezza sembrava costituire un potenziale pericolo con quel frustino che
agitava convulsamente, si rivolse prima a quelli che agli occhi di Nathan
risultavano Demoni, poi alzò lo sguardo incontrando una mano che si teneva al
tetto della sua vettura, ed alzò la voce con fare minaccioso mentre alzava il
frustino con l’intenzione di colpire quell’arto.
«Anche tu!»
Il colpo dato non
fu molto forte, l’uomo mirava ad impaurire e non a far male, ma ebbe comunque
l’effetto di far imprecare Nathan a denti stretti, che quella sera ne aveva
davvero abbastanza di essere pestato.
Tornò un’ultima
volta a guardare i probabili Demoni: uno dei due - quello più smilzo – aveva
palesemente ignorato i comandi del cocchiere, e, dopo essersi assicurato che il
suo compagno fosse ancora tutto intero, avanzò a grandi passi col viso
illuminato da un’espressione maligna, vendicativa.
Afferrò a sua
volta il tetto della carrozza ed alzò un piede per arrampicarvisi.
La mente
dell’Angelo agì il più frettolosamente possibile, sfornando una delle sue
assurde trovate che alla fine si rivelavano geniali. Così, approfittando dei
preziosi secondi che il cocchiere gli stava involontariamente dando da quando
si era lanciato contro l’assalitore col suo frustino e parole poco gentili, si
lanciò giù dal tetto del mezzo di trasporto, ficcò una mano sotto il mantello
e, trovata l’elsa portatrice di sicurezza della sua Selescinder,
sfilò la lama dal fodero. Saltò in sella a uno dei cavalli ancora fermi e, con
un veloce movimento all’indietro del braccio che gli costò un po’ di dolore
alla spalla, riuscì a recidere in un colpo solo le poche briglie che lo tenevano
legato alla carrozza.
I due inseguitori
strabuzzarono gli occhi.
«Sta scappando!»
esclamò quello più piccolo, ormai mezzo arrampicato sul tetto.
L’altro, quello a
cui Nathan aveva assestato un calcio nello stomaco, alzò il volto canino e
inchiodò gli occhi azzurri dell’Angelo con i suoi piccoli e irritati.
«No che non
scappa.» grugnì infine con voce roca e bassa. Diede uno spintone al povero
cocchiere che, di dimensioni corporee nettamente inferiori, cadde sul freddo
basolato senza però farsi seriamente male.
Si lanciò
nuovamente all’inseguimento del biondo, che nel frattempo era riuscito a
spronare il cavallo nero con un colpo di piede. L’animale, premendo in
un’impennata sugli zoccoli anteriori, si lanciò poi in una corsa potente e
veloce attraverso le vie di Terren.
Nathan ebbe giusto
il tempo di rinfoderare la sua arma e di afferrare le briglie con mano ferma.
Comandò al destriero diverse direzioni e svolte, prima di voltarsi all’indietro
e scoprire che i due lo stavano ancora seguendo.
No, peggio: lo
stavano inseguendo mentre rivelavano la loro reale natura.
Gli occhi gli si
spalancarono per la sorpresa e la stretta sulle briglie si fece più dura. Erano
dei poveri pazzi! Come potevano rivelarsi così, in mezzo a strade, sì, deserte,
ma che potevano rivelare umani in qualsiasi momento? Erano disposti persino a
questo pur di acchiapparlo? Per cosa, poi? Per vendicare Korlea?
Per fargli rivelare ogni cosa sugli Angeli? Per mettere le mani su Ann, come
già una volta i loro amichetti di Hidel avevano fatto?
«Più veloce!» urlò
al cavallo, spronandolo ancora con colpi di scarpa allo stomaco, ma sapeva bene
che un Demone nel pieno della sua potenza correva molto più velocemente persino
di uno stallone inglese.
Quelli, intanto, si
muovevano nelle ombre, prestando quel minimo di attenzione obbligatoria per non
farsi scoprire. Li vedeva scivolare velocemente nel buio, quasi giocando con
esso e disegnando profili nuovi, spaventosi, che avrebbero inquietato persino
un animo temerario. Correvano sulle gambe possenti e muscolose temprate dalla
natura, e digrignavano denti affilati, abbastanza forti da affondare nella
carne e strapparla a pezzi, come fanno gli animali.
Di minuto in
minuto si avvicinavano sempre di più, Nathan era ormai sicuro che non sarebbe
riuscito a seminarli.
Doveva trovare un
modo alternativo per toglierseli di dosso.
Inutile era
pensare di saltare giù ed affrontarli: un Angelo è fisicamente meno forte di un
Demone; se poi si trattava addirittura di due Demoni non c’era nemmeno da
pensarci: era come andare al patibolo.
La velocità degli
Angeli, però, era nettamente superiore alla loro: forse aveva ancora una
speranza. Doveva giocare sulla propria lestezza, sul loro scarso ingegno e sul
loro olfatto molto sviluppato.
In particolare il
tizio più grosso, quello i cui occhi indiavolati ora vagano sulla figura
dell’Angelo come se stesse già pregustando il sapore della vendetta, aveva
avuto modo di stare a contatto fisico con la sua preda, di registrarne l’odore:
era con lui che Nathan voleva giocare.
Nella notte, il
vento pareva più freddo di ciò che era, la neve cadeva ancora lenta, creando
ostacoli fastidiosi; si erano spostati nuovamente in una zona periferica,
stavolta non lontana dall’ex pretura che simboleggiava la salvezza per un
Angelo. L’aria aveva un odore pesante, probabilmente perché si trovavano vicino
a delle campagne, e questo poteva essere d’aiuto al piano di Nathan.
Incitò un’ultima
volta il cavallo ad infilarsi in una fittissima rete di vicoli ai cui lati stavano
grandi e decadenti case spente. Attraverso le finestre, a Nathan sembrava di
scorgere di tanto in tanto paia di occhi preda di paura o curiosità, ma l’alta
velocità non gli permetteva di assicurarsene: qualche urlo alla vista degli
inseguitori oscuri gli confermava che non erano sue semplici impressioni.
Girò a destra, poi
a sinistra e ancora a sinistra, sperando che la strettezza dei passaggi desse
del filo da torcere ai due Demoni: lo smilzo doveva sempre stare dietro a
quello grosso ormai, perché Nathan li aveva quasi seminati, e basavano la
scelta delle strade da prendere sull’odore del ragazzo e del destriero –
nemmeno il continuo battere di zoccoli sulla terra era ormai molto udibile,
soprattutto se coperto dal gran fracasso che facevano i due quando atterravano
col loro ingente peso sulla nuda terra, di passo in passo.
L’odore
dell’Angelo urlava loro di girare ancora una volta a sinistra, e così, presi
dall’ebbrezza della corsa e con i petti che si alzavano ed abbassavano
frettolosamente a causa della mancanza di fiato, raggiunsero finalmente un
incrocio stretto, al cui centro stava il cavallo nero che avevano inseguito
fino ad allora: l’Angelo doveva averlo abbandonato nella speranza di ridurre il
rumore dei suoi spostamenti.
Il Demone inspirò
a pieni polmoni quando finalmente, dopo essersi mosso con circospezione per
quelle stradine buie e prive di ogni illuminazione - anche della più sporadica
offerta da botteghe o locande -, raggiunse il destriero senza cavaliere.
Il suo compare
mingherlino allungò una mano verso l’animale per accarezzargli la testa, nel
tentativo di fargli dimenticare quel leggero nervosismo che lo faceva scalciare
e voltare continuamente il muso.
«Lo senti?»
domandò, ma la sua non era più una voce, era un ringhio profondo e rapido,
quanto di più lontano c’era da
limpidezza e dalla chiarezza del parlare umano.
Tuttavia l’altro
Demone lo capì appieno, ed annuì con un verso gutturale «Di qua.»
La condusse verso
un vicolo cieco invaso da nebbia spessa e bianca, una coltre che sembrava
giocare a favore dell’Angelo. Anche la recente pioggia e quel banco di foschia
candida sembravano essere dalla parte del fuggitivo, di cui non avrebbe mai
dimenticato il nome: Metherlance.
Quel bastardo che
gli aveva portato via quell’idiota di suo fratello Korlea.
Korlea che era così fiero di essere un
messaggio umano, che non capiva l’orrore di quel ruolo per cui si era proposto
volontariamente. Korlea che veniva trascinato via per
i capelli da Metherlance per essere portato al macello da quei mostri che si
facevano chiamare “Angeli”, e che avevano la presunzione e la crudeltà di
chiamare loro Demoni. Korlea era stanco di essere
guardato dagli Angeli come un animale inferiore, indegno perfino di pulir loro
le scarpe, dunque aveva colto la palla al balzo quando era stato annunciato che
serviva uno dei messaggi umani per annunciare agli Angeli la loro imminente
rimonta. E Korlea, in quel suo smisurato orgoglio
adolescenziale, con quegli occhi così limpidi e vogliosi di rendersi utile alla
loro società, si era lasciato mangiare dagli Angeli.
Era stato ordinato
loro di non far nulla che potesse mettere il popolo del suono dalla parte del
torto, ma come poteva un fratello maggiore rimanere impassibile, sapendo che la
persona che aveva torturato brutalmente e condotto alla forca il suo fratellino
era lì, a pochi metri di distanza, alla disperata ricerca di un modo per
salvarsi la pelle?
Non era di certo
per sadismo che aveva deciso di far fuori Metherlance: era l’unico modo per
mettere pace al suo dolore, punto e basta.
«Vieni.» comandò
al suo compagno, e fece ancora dei passi in avanti nella nebbia. Il suo
incedere era pesante ed il respiro rumoroso, gli occhi bui e ansiosi vagavano
su ogni particolare distinguibile: tre metri di larghezza per un vicolo
prevalentemente occupato da bidoni, casse e rifiuti.
E d’un tratto lo
sentì: l’odore del biondino. Era qualcosa di dolce ma con un retrogusto acre,
come quelle piante carnivore bellissime a cui ti avvicini volentieri, solo che
poi si rivelano mostri orrendi e ti mangiano in un sol boccone.
La nebbia era
fredda, dannatamente fredda, e bianca, e spessa. Non gli permetteva di vedere a
più di cinque metri di distanza, ma cinque metri erano più che sufficienti.
Dietro di sé sentiva i passi nervosi ed irregolari del suo amico, che stringeva
ancora in mano le uniche armi che erano riusciti a rubare al covo: due misere
revolver vecchie e con pochi colpi.
Per uccidere un
Angelo non era sufficiente di certo, ma era già qualcosa.
Avanzava anche lui
con passo incerto, perché non riusciva a individuare con precisione la fonte di
quell’odore: dove diavolo si era nascosto quel tizio? Ad ogni minuto lo sentiva
più forte, e quando si prospettò a meno di sei metri la fine del vicolo fu
contento.
Capolinea, si
disse.
Come previsto, il biondo
aveva provato a scappare fino alla fine, ma si era dovuto arrendere davanti al
muro del palazzo a tre piani che precludeva ogni via d’uscita. Il suo odore era
stato più forte solo nel momento in cui gli si era aggrappato saldamente alle
gambe.
Sul viso gli si
formò un sorrisetto nervoso, e i suoi occhi si puntarono su… un cassonetto. Si
era nascosto là dentro. Il pensiero di quanto fosse caduto in basso quell’uomo
che si dava tante arie gli suscitò una risatina isterica sommessa. Si avvicinò
con circospezione, pistola alla mano e sensi all’erta.
Fece un segno col
capo al suo amico, che annuì a sua volta; era tesissimo anche lui.
Il grosso si mise
davanti al grigio cassonetto rettangolare, lo smilzo si frappose tra l’oggetto
e il muro a destra.
Con uno sguardo
d’intesa, si lanciarono contemporaneamente sul nascondiglio: il secondo afferrò
con forza il grande coperchio di plastica e lo sollevò con uno scatto sordo, il
primo sollevò la revolver con mano ferma e afferrò con lo sguardo il contenuto
del cassonetto.
Un mantello nero.
E basta.
Dopo un attimo di
disorientamento, strabuzzò gli occhi un paio di volte ed allungò una mano per
prendere la cappa con fare esitante, come se avesse paura che potesse esplodere
da un momento all’altro, o rivelare qualche trucchetto “angelico”. Niente. Non
accadde assolutamente niente.
Uno spasmo
violento gli contrasse il volto improvvisamente scuro, e strinse con ferocia la
stoffa nera che fino a quel momento Metherlance si era portato addosso, e che
aveva abbandonato sapendo che l’odore della pioggia e la nebbia avrebbero
coperto le sue tracce. L’aveva ingannato.
«È… solo un
mantello?» domandò il suo compagno nella loro strana lingua, confuso.
E lui, a denti
stretti, ringhiò «È solo un fottutissimo mantello…»
Nathan era
nervoso, nervosissimo. Avrebbe volentieri fatto a pezzi la prima cosa che gli
fosse capitata tra le mani.
Era stanco, totalmente
in disordine, sporco, aveva addosso la puzza dei vicoli di Terren, i vestiti
provati dalla corsa e dalle intemperie.
Ma soprattutto,
aveva perso il suo mantello.
Aveva dovuto
abbandonare il suo mantello, il mantello che gli aveva fatto Anita, il mantello
con cui aveva affrontato mille peripezie, che simboleggiava il suo nuovo stile
di vita: insomma, aveva perso un pezzo della sua vita. E la cosa lo rendeva
facilmente irritabile. Certo era che l’avrebbe recuperato in un modo o
nell’altro, a costo di fare irruzione nel covo dei Demoni, perché senza la sua
fida cappa nera lui non intendeva starci, no.
Camminava in modo
irregolare e spezzato da improvvisi slanci volti ad accelerare sempre di più, e
mai si guardava indietro, perché era sicuro di aver seminato da un pezzo i suoi
inseguitori. Aveva perso il mantello per farlo.
Avanzava sulla
fredda terra bagnata, evitando prontamente pozzanghere di fango e acqua
piovana, che più procedeva più erano frequenti. Questo perché si era
allontanato dalla città, che ormai giaceva silenziosa alle sue spalle,
presentandosi come un ammasso geometrico di palazzi e tetti grigi semi avvolti
dalla nebbia, che aveva giocato un ruolo fondamentale nel tiro mancino appena
compiuto ai danni dei Demoni.
Il sentiero che
percorreva era stato abbandonato a se stesso molti anni prima, quando i
progetti per il vecchio tribunale erano andati in fumo. Nessuna asfaltatura era
stata fatta, nessun marciapiede costruito, nessuna illuminazione rendeva il
procedere più agevole. Il buio quasi assoluto inondava quello scenario così
quieto ed immerso nel cupo riposo notturno nevoso, distrutto rapidamente di
quando in quando dalle stridule o grottesche grida di gufi o dal lamentoso
miagolare di felini selvatici. Un tempo, quando erano stati piccoli, Auror gli
aveva confidato di avere paura di quel verso in piena notte: le ricordava,
diceva con quei suoi grandi occhi supplichevoli, il pianto dei bambini. Di
conseguenza, ogni volta che un nuovo miagolio rompeva quel quadro di serenità,
il sangue di Nathan per un attimo si gelava, e la sua mente ricorreva a mille
orribili immagini di bambini che scoppiano in lacrime.
Accelerò ancora
quella che ormai era una marcia. Aveva scorto al di là della grande curva
l’edificio che un tempo doveva essere stato bianco, ma che ora appariva
ricoperto di verdi e secchi rampicanti e annerito da un antico incendio che si
era sviluppato nel bosco poco lontano. Il vento notturno soffiava più forte, e
il rumore delle fronde in movimento, che di solito riusciva a calmare l’animo
irrequieto di Nathan, ora aveva solo il potere di renderlo ancor più nervoso,
irritato, poiché pensava di essere fin troppo simili a quegli eroi romantici
che ultimamente andavano fin troppo di moda in letteratura.
Il suo animo ebbe
tuttavia da calmarsi quando, dopo essere finalmente giunto all’ex pretura, aver
sceso i gradini di quel sotterraneo a cui solo un Angelo sapeva accedere ed
aver attraversato il corridoio delle candele, entrò infine nella sala comune
del covo.
Strabuzzò gli
occhi; era vuota.
Dov’erano finiti
tutti?
Avanzò cautamente
all’interno della grande sala deserta e fredda, scorrendo con gli occhi sul
pavimento bianco e nero non calpestato da nessuno se non da lui. Si guardò
intorno, dicendosi che non vedere nessuno poltrire sui grandi divani neri ai
bordi della stanza ovale era davvero un evento. Di nuovo: dov’erano finiti
tutti?
“E ora che cosa
dovrei fare? Nessuno potrebbe offendersi se tornassi indietro.”
Così ragionando,
continuò a lanciarsi occhiate sospettose intorno. Solo allora gli vennero in
mente le parole dell’adepto che gli era stato inviato due sere prima: un
esponente di un’aristocratica famiglia si sarebbe trovato lì quella sera, era
dunque ovvio che nessuno fosse in giro. Giusto, era proprio per quello che era
stato chiamato.
Diede una
sistemata veloce – per quanto possibile – agli abiti, nel vano tentativo di far
loro riassumere la stessa bianchezza di quando li aveva indossati, quindi si
avviò verso la grande porta in ottone tre metri a destra rispetto a quella da
cui era entrato: doveva trovare qualcuno.
Sfortuna volle che
dopo tanto peregrinare all’interno del covo – che da Jen
e Marcus era chiamato “Corte”, ma che tra tutti gli altri Angeli era conosciuto
come “la gabbia degli uccelli” -, la prima persona che incontrò fu l’ultima che
voleva avere il piacere di rivedere dopo tanto tempo.
Adam Forster
lavorava da molto, moltissimo tempo presso gli Angeli, tanto che si diceva che
lui e l’associazione avessero la stessa età, ma il suo nome era quasi sempre
nuovo per quelli che l’udivano. Basso, dalla pelle bianca come quella di un
cadavere, le mani scheletriche rovinate da quella cattiva artrosi così comune
tra gli anziani della sua età – e tuttavia nessuno a guardarlo in volto sarebbe
mai riuscito a dargli un’età.
Scrutava il mondo
con occhi indagatori piccoli e serpentini, con una durezza e un forte disprezzo
nello sguardo che lo rendevano antipatico ai più. Eppure, conoscendolo bene, ci
si sarebbe resi conto che quegli occhi verdissimi erano pieni di esperienza,
ormai saturi di vita, ma ancora vogliosi di novità. Conoscendolo bene, ci si
sarebbe resi conto anche della scelleratezza di cui era capace, della sua
totale mancanza di sensibilità e di scrupoli.
Avanzava così, con
un buffo riflesso sulla testa calva, avvolto in un elegante abito verde scuro
in stile orientale. Nathan, che aveva appena varcato la soglia di quel
corridoio dopo aver controllato l’ennesima stanza – vuota -, si fermò d’istinto
non appena i suoi occhi celesti si posarono su quelli duri e gelidi di Forster.
Anche Forster
smise di avanzare, incrociò le braccia al petto e fulminò il giovane «Sei in
ritardo, Metherlance.»
«Mi sono imbattuto
in uno spiacevole contrattempo, signore.» rispose immediatamente Nathan, che
ormai ben sapeva che lasciarsi mettere i piedi in testa da Forster una volta
significava averli in testa per sempre.
Forster non
rispose. Aveva le mani strette davanti al grembo e sul volto un’espressione che
dava i nervi all’Angelo: un sorriso appena accennato, e gli occhi socchiusi in
un’espressione di compassione, come se stesse cercando di fargli comprendere
quanta pena provava per lui.
Nathan stette in
silenzio, sinceramente a disagio. Provava un profondo disprezzo per quell’uomo
così meschino, che dopo la brutta avventura appena vissuta sembrava la
ciliegina sulla torta della sua brutta giornata.
«Sono qui
principalmente per fornire le informazioni che ho riguardo-…»
«Sì, lo sappiamo,
Metherlance.» lo interruppe l’uomo.
Quanti pensieri
poco gentili avrebbe voluto formulare Nathan! Ma per quanto ne sapeva quel
tizio poteva anche saper leggere nel pensiero, per cui si limitò ad aggiungere
«… Riguardo i due Demoni che mi hanno braccato fino a pochi minuti fa.»
L’anziano rimase
interdetto ed alzò un sopracciglio con fare stupito. Lo fissò come se avesse
appena detto qualcosa di molto strano, qualcosa che non si aspettava, e questo
fece pensare a Nathan che forse, dopotutto, gli Angeli erano davvero estranei a
quella serie di brutti eventi.
«Andiamo di là.»
ordinò Forster, riprendendo immediatamente il suo abituale contegno di persona
abbastanza odiosa.
«Avremo modo di
parlare di questi fatti dopo che ti avremo fatto conoscere lady Varens.»
Giusto, si disse
Nathan, era lì anche per conoscere un aristocratico, anzi, un’aristocratica.
Annuì seriamente, chiedendosi quanto notizie su strani movimenti da parte dei
Demoni, sicari e tentati omicidi potessero realmente essere inferiori rispetto
ad una nobildonna francese.
D’accordo, Forster
lo aveva avvertito che dovevano incontrare una nobildonna francese, e così era
stato. Nathan aveva davanti questa nobildonna francese… e ora si chiedeva: ma
quanti anni aveva?
Dall’alto del suo
metro e novanta, non poteva che provare una sorta di strana tenerezza guardando
quella cosetta di un metro e sessanta scarso.
Stava seduta
composta su una grande poltrona rossa, Georgiana Varens,
una poltrona dove sarebbero potute entrare tre Georgiane. Con le piccole e scarne
mani reggeva una tazza di porcellana bianca più o meno quanto la sua pelle, pallida
come un cencio, un po’ come quella di tutti gli Angeli. Ogni suo arto pareva
più quello di una bambina che di una ragazza in procinto di diventare una donna,
soprattutto guardando al leggero tremolio che la percorreva. Chiunque l’avrebbe
associato a una qualche forma di malattia, ma, osservandola, Nathan si sentiva
investire dai suoi sentimenti, dalla sua emozione, dalla sua timidezza. Era la
timidezza a farla tremare in quel modo.
“No, davvero,
stiamo scherzando?” pensò ancora tra sé e sé quando i suoi occhi incontrarono
quelli grandi e rotondi della lady
bambina, vivi e supplichevoli – sembrava davvero pregare che l’attenzione si
spostasse su qualcun altro -, colorati di un verde pallido.
Assomigliava
tantissimo a una bambola, lady Georgiana, e più Nathan la guardava più se ne
convinceva; lei aveva appena posato la tazzina su un piattino che reggeva tra
le flebili mani ora, e nello spazio tra il tavolo di vetro che le stava davanti
e la poltrona agitava pian pianino i piccoli piedi rinchiusi in un paio di
scarpette rosse, così come il resto del suo vestito semplice ma raffinato, sul
quale ricadevano lunghi boccoli castani, che salendo venivano imprigionati da
una cuffietta bianca.
Nel complesso, non
le avrebbe dato più di quindici anni.
«È un piacere fare
la vostra conoscenza, monsieur.»
sillabò Georgiana finalmente, con una vocina debole ed acuta, che Nathan
avrebbe davvero visto bene addosso ad una bambola, in un inglese zeppo di
accenti sbagliati.
Gli suscitò un po’
di tenerezza, e questo lo spinse a rompere quel gelido ghiaccio instauratosi da
quando era entrato in quella grande stanza color platino occupata solamente da
lui, Forster, Jen e Georgiana. Marcus non c’era.
Le sorrise in modo
affabile per poi inchinarsi, lei gli porse la mano e lui ne baciò il dorso.
«Enchanté, mademoiselle Varens.» le rispose in quel poco di francese che
sapeva, perché non ci voleva molto ad intuire che la ragazza si trovava a
disagio nel dover parlare una lingua che non era la sua.
Infatti, proprio
come immaginava, la giovane a quelle parole ben conosciute fece una gran
sorriso ingenuo e felice, ed esplose in vivaci parole con un nuovo accetto
elegante e fine «Oh, parlez-vous français?»
E lui, dopo
essersi rimesso in piedi, annuì «Comme ci comme ça, mademoiselle.»
Jen, che fino a quel momento era rimasta in
silenzio seduta su una poltrona nera accanto a quella di Georgiana, batté
allegramente le mani e sorrise estasiata «Che meraviglia! Non immaginavo che
conoscessi il francese, Nathan!»
L’Angelo voltò lo
sguardo a lei, che aveva salutato subito dopo essere entrato, e la corresse
delicatamente «All’incirca, mia signora. Conosco i fondamenti della lingua, ma
non sarei mai in grado di intrattenere una conversazione in corretto francese.»
E, in effetti, gli
risultava già abbastanza arduo parlare in inglese col marcato accento tedesco
che tradiva le sue origini, figurarsi una lingua piena di suoni molli come il
francese!
«Lo scopo è
insegnare a lady Varens l’inglese…»
riprese la parola Forster, uscendo dall’oscurità della stanza in cui fino a
quel momento si era rifugiato.
Fece scorrere lo
sguardo sui due ospiti, e Nathan avvertì la paura di Georgiana quando fu il suo
turno di essere squadrata: era davvero intimorita da quell’uomo, e l’Angelo non
riusciva a darle torto.
«… Poiché dovrà
rimanere a lungo in Inghilterra, a meno che gli Angeli non decidano di
affidarle missioni in Francia. Impresa che, a mio dire, si prospetta molto
ardua.» concluse così , a voce sempre più lenta e bassa, continuando a posare
insistentemente lo sguardo sulla ragazzina.
Avvertendo il
fortissimo disagio di lei – che abbassò il capo e si fece ancor più piccola –
Nathan si frappose tra gli occhi di Forster e la sua flebile figura, chiedendo
con fare leggermente sorpreso «Dunque è una di noi?»
A Forster non
parve piacere quell’intervento; alzò quei suoi occhi serpentini su Nathan, e,
gelido nella voce quasi quanto era rigido nei movimenti, sibilò «Così sembra.»
e poi stette in silenzio.
Neanche il biondo
seppe rompere quel momento di tensione, preso com’era dalla valanga di
fortissime emozioni di Georgiana.
Bene, avevano
fatto conoscenza, ora potevano parlare di quello che interessava a lui?
Voltò gli occhi a Jen, che sorseggiava comodamente seduta una tazza di the, e
fece per parlare, ma lei lo anticipò, sollevando le lunghe ciglia con fare
molto femminile «Lady Varens è appena arrivata tra
gli Angeli, Nathan, e come vedi conosce ben poco l’inglese. Per questo ti
abbiamo convocato.»
Allora,
finalmente, Nathan capì quale sarebbe stato il suo compito: insegnare l’inglese
a una francese. Che strazio. Era stato già abbastanza difficile con quella
testona di Annlisette – che poi parlava un dialetto, neanche una lingua del
tutto diversa.
«Accetterei
volentieri, milady…»
«Ma?» lo
interruppe lei, alzando un sopracciglio, come sfidandolo a sfidarla.
«Ma ciò
comporterebbe una mia assidua presenza alla Corte. E, se vorrete ascoltare ciò
che ho da riferirvi riguardo l’attentato di villa Stevenson, capirete quanto un
frequente recarmi qui possa comportare seri rischi sia per me sia per voi.»
conciso e determinato, come sempre andò a colpire al punto.
Se volevano il suo
aiuto dovevano prima ascoltarlo.
La donna parve un
attimo sorpresa da tutta quella determinazione, ma poi fece un sorriso gentile
ed alzò la mano destra per indicargli una delle tre poltrone ancora libere «Ma
certo. Accomodati e raccontaci tutto.»
E Nathan lo fece.
Dopo aver preso posto ed aver lanciato un’ultima, titubante occhiata alla
piccola Georgiana – sarebbe rimasta lì ad ascoltare quelle informazioni
riservate? -, cominciò ad esporre gli accaduti: la sera del ballo, l’attacco
del killer, la morte di Angelica Rodriguez – unico avvenimento su cui erano già
stati adeguatamente informati; Jen si mostrò
profondamente addolorata da quella terribile tragedia -, l’accecamento di
Damon, infine l’inseguimento di quella notte che poteva forse ricollegarsi al
Demone-messaggio umano che avevano ucciso poco tempo prima. Evitò espressamente
di parlare di Ann: gli Angeli non sapevano che ella si trovava a Terren, e non
osava immaginare che cosa avrebbe detto – o fatto - Marcus se l’avesse
scoperto.
Alla fine del suo
racconto, il silenzio prese il posto delle parole. Nessuno sembrava voler più
proferire nulla riguardo quei terribili eventi: la comandante, seduta con le
gambe a cavallo, picchiettava col dito sul tavolino davanti a lei ed aveva lo
sguardo accigliato di chi sta pensando fittamente; Forster, il quale non aveva
mosso un muscolo né detto alcunché durante il racconto, era rimasto in piedi
accanto alla porta d’ottone, stava in attesa di una qualche reazione da parte
di qualcuno. Tale reazione, ironia della sorte, venne proprio da colei aveva
meno capito le parole di Nathan, e che era rimasta a dondolare le corte gambe
con fare confuso. A un certo punto, Georgiana starnutì. Fu uno starnuto
piccolo, acuto, buffissimo, che però distrusse in un attimo la pesante
atmosfera creatasi.
Tutti gli occhi le
furono addosso, la ragazzina arrossì violentemente ed abbassò il piccolo viso «D-désolé…» si
scusò timidamente.
Jen ridacchiò, Nathan le rivolse un sorriso
gentile, Forster, beh… lui rimase in silenzio, ancora, senza fare niente di
particolare.
«Sai, Nathan…»
riprese la parola il capo degli Angeli, col viso ora illuminato di un’espressione
più fiduciosa, sebbene fosse ancora visibilmente abbattuta per la mole di
brutte notizie ricevute «Lady Varens può sembrare
tanto piccola e indifesa, ma ti assicuro che è un asso nell’arte della spada.»
«È una notizia che
mi rincuora.» le rispose lui, per poi notare quanto quelle parole di elogio –
quelle le comprendeva, eh? – facessero piacere alla piccola Georgiana.
«Ammetto che tra
gli Angeli ci sono persone che parlano il francese molto meglio di te.»
continuò Jen, tornando a poggiare le spalle alla
spalliera con fare ora più rilassato e meno grave «Hai un accento così… così…
pesante.»
«Cafone.» la
corresse Forster.
Nathan fece un
verso contrariato, dispensando con generosità occhiate fulminanti. Georgiana
rise teneramente.
«Non, non!» intervenne la francese,
stavolta con fare più spigliato e spontaneo «Il suo francese è buono, molto
buono!» e sorrise al biondo, guadagnandosi così molti gradini nella scala della
simpatia.
«Merci, mademoiselle.»
Ma alle parole di
lui, Georgiana tornò ad essere timida e imbranata, e si chiuse di nuovo in un
silenzio ostinato.
Jen ne approfittò per riprendere parola
«Dicevo, ora che Damon è stato messo fuori gioco – e comunque tranquillo, non
verrà assolutamente allontanato da noi - servirà qualcuno per proteggere i
nostri ambasciatori, tra cui se ben ricordo c’è anche la tua amica Sogno Darkmoon.»
«Posso pensarci
io.» affermò con convinzione l’Angelo, che non aveva la minima voglia di farsi
proteggere, o peggio ancora, scavalcare da una ragazzina che dimostrava a
malapena quindici anni.
«Per ora.» incalzò
la donna, e sorrise. Si acquietò, con quel sorriso strano sul viso che Nathan
non riusciva a interpretare. La fissò a lungo prima che ella rispondesse
finalmente ai suoi silenziosi perché «Beh, presto torneremo a Hidel…»
Un nome. Un nome
bastò a riaccendere nel biondo un’antica speranza, a destare la sua attenzione
come mai Jen era riuscita a fare, e lei lo notò. Quel
villaggio poteva essere un’arma a doppio taglio contro quell’Angelo. Ed era
vero: Angel gli aveva accennato che Jen si stava
muovendo per convincere Marcus a farlo tornare al villaggio, ma fino a quel
momento la sua era stata solo una speranza molto irreale.
«Dovrai ricominciare
a fare il supervisore, no?» domandò infine, col suo risolino astuto.
«… Milady?» non
riuscì a trattenersi lui. Poggiò i gomiti sulle ginocchia, piegandosi in avanti
col busto, come chi parla di un grande segreto «Credevo che non avreste più
acconsentito…»
Si bloccò. Non era
il caso di ricordarle di Ann, non sarebbe stato saggio.
Lei rise
allegramente, provocando un’espressione confusa in Georgiana, che probabilmente
non capiva granché della loro discussione «Ma allora non mi conosci, Nathan! E
ora ascolta il nostro piano.»
“Nostro?” si
chiese l’Angelo, che ormai era abituato a cercare di strappare con le pinze
ogni informazione possibile a Jen e Marcus. La
domanda alla sua silenziosa risposta venne subito dopo da Forster, che si
avvicinò a passi lenti - e ad ogni passo la paura di Georgiana aumentava.
Nathan pensò che la ragazzina dovesse essere stata vittima di quel mostro per
arrivare a quei livelli di inquietudine.
Si accomodò meglio
sulla poltrona, rimettendosi composto e con le spalle
contro la spalliera. Ammetteva di non fidarsi con sicurezza di quei due –
paradossalmente, l’estranea Georgiana sembrava quella più degna di fiducia là
dentro -, non voleva lasciarsi ingannare o sfuggire qualcosa.
La bella
comandante riprese parola dopo aver allungato una mano sulla piccola testa di
Georgiana per carezzarla dolcemente «Può non sembrare, ma Georgiana è
perfettamente autosufficiente: sa cucinare, cucire, combattere se necessario, è
una ragazza molto giudiziosa. I suoi difetti principali stanno nella sua
immensa timidezza, che le impedisce un qualunque tipo di rapporto umano, e
nella sua estraneità con l’inglese. In entrambi i casi, tu potresti darle un
forte incentivo a migliorare.»
«Perdonate la scortesia…» la frenò l’Angelo, volendo mettere i puntini
sulle i. Accennò a una risatina divertita «Ma non credo proprio di essere in
grado di farle vincere la timidezza coi miei modi alquanto…
glaciali.»
«Ed esigenti.» Jen alzò un dito, come riprendendolo «Appunto per questo
confido che farai un ottimo lavoro nell’insegnarle l’inglese. A lei piace
mettersi alla prova, e tu sei molto pretenzioso. Georgiana imparerebbe in
fretta.»
Due cose non piacevano
a Nathan in quella frase: quel “farai” che metteva in chiaro quanto Jen fosse irremovibile dalla sua posizione – aveva deciso
che lui avrebbe fatto da insegnante e gliel’avrebbe imposto -, in secondo luogo
quel cercare di riportare l’attenzione su Georgiana. Perché? Che diavolo
avevano veramente in mente? Potevano benissimo affidarla a un altro, tra di
loro molti parlavano entrambe le lingue senza difficoltà, e Georgiana avrebbe
sicuramente ottenuto risultati migliori con loro. Quell’accenno a Hidel lo
inquietava particolarmente: cominciava a temere seriamente che…
«Resta il problema
del dovermi recare qui ogni giorno.» provò ancora.
Forster intervenne
a questo punto, alzando gli occhi serpentini su di lui «No. La porteresti con
te, a casa tua.»
Ecco, fu a quel
punto che a Nathan si gelò il sangue.
«Vivi da solo, un’assistente
potrebbe rivelarsi molto utile per uno scienziato come te.»
L’Angelo fece un
tirato, tiratissimo sorriso «… Sicuramente.»
Ora il problema
era uno solo: come avrebbe giustificato la presenza a casa sua di quella
contadina di Hidel che lo aveva ficcato nei guai? Spostò lo sguardo sulla
ragazzina castana. Non sembrava una ficcanaso né una traditrice, ma la natura
degli Angeli era infida ed opportunista, questo lui lo sapeva bene, e non c’era
mai da fidarsi completamente.
«Lo stesso vale
per quando tornerai a Hidel.» riprese Forster «Avrai molto lavoro, Metherlance.
Dovrai tenere gli occhi molto più aperti di prima, fare turni di guardia
all’interno del villaggio; dei confini esterni ce ne occuperemo noi. Avrai sicuramente
bisogno di un aiuto, e Georgiana Varens può dartelo
senza dare nell’occhio.»
Nathan ora capiva
fin troppo bene: volevano mettere Hidel sotto stretta sorveglianza, probabilmente
mentre loro riprendevano quelle maledette trattative con i pazzi Demoni, nella
speranza di evitare qualsiasi ripercussione sui villici. Il discorso di
Forster, così ricco di pause logiche e frasi ragionate, non faceva una piega.
Da solo non poteva farcela, questa era la dura verità. Doveva portare con sé
Georgiana, che in caso di attacco avrebbe saputo combattere, raccomandare ad
Ann di uscire il meno possibile da casa, inventarsi scuse per convincere i
villici a non uscire di notte se possibile.
Annuì fermamente
«Sì, avete ragione.»
Avvertì forte
soddisfazione da entrambi i pezzi grossi, sollievo da Georgiana, e quei
sentimenti lo inquietarono, perché per un attimo si sentì come un topo caduto
in trappola. Si rabbuiò. Oh, se solo avesse potuto avvertire anche le loro vere
intenzioni invece di inutili emozioni!
Jen batté le mani davanti al petto
allegramente «Bene! Allora è deciso!»
Forster intervenne
di nuovo, impedendo a Nathan di immergersi nei suoi ragionamenti - sembrava
tutto perfettamente calcolato per non dargli il tempo di ragionare.
«La ragazza dovrà
cambiare cognome.»
Georgiana sbiancò.
Aveva evidentemente capito che cosa volevano da lei: che fosse del tutto
irriconoscibile.
«Sì.» convenne il
biondo, allungando lo sguardo verso di lei «È necessario se non vogliamo essere
scoperti.»
La ragazzina parve
molto indecisa. Fece scorrere lo sguardo su ognuno dei presenti, probabilmente
alla ricerca di una parola di conforto, di un aiuto, ma non trovò niente se non
totale indifferenza.
“Benvenuta tra gli
Angeli” pensò velenosamente Nathan.
Georgiana
Metherlance, ecco chi era diventata. Lei era Georgiana Metherlance, una cugina
francese di Nathan Metherlance.
Camminavano per
quelle buie strade di Terren - che a Georgiana facevano molta paura -, lei e monsieur Metherlance, al quale lanciava
di tanto in tanto piccole occhiate indagatrici.
La ragazzina era
avvolta in una pesante cappa rossa, indossava anche un paio di stivali molto
alti, guanti neri, una sciarpa nera che la copriva fino al naso e un cappello
di lana che provvedeva a coprire il resto, lasciando visibili solamente gli
occhi. Nel complesso era molto buffa, e si capiva a colpo d’occhio che era una
nobile, proprio per questo Nathan doveva prestare il triplo dell’attenzione
ogni volta che qualcuno posava lo sguardo su di lei.
Georgiana tremava
spesso nonostante tutta quella roba che aveva addosso. Da quando era giunta in
Inghilterra aveva cominciato a soffrire quel nuovo tipo di freddo così duro e
dilaniante, capace di entrare nelle ossa con insistenza pungente. Infine, tra
le mani stringeva una valigia marrone che era il suo unico bagaglio da quando
era giunta nella vecchia Inghilterra.
“Georgiana
Metherlance”, continuava a pensare.
Era possibile veramente
cancellare in una sola serata un intero passato? Lei ci avrebbe provato, perché
era stato monsieur Forster a
ordinarglielo.
Doveva accelerare
il passo abbastanza spesso per riuscire a star dietro a Metherlance, che si
muoveva molto velocemente.
«Attendez, monsieur!» lo pregava in quei momenti,
quando rimaneva troppo indietro e doveva cominciare a correre per raggiungerlo.
A quel punto
Nathan si voltava, si scusava e le diceva che avrebbe camminato più lentamente.
Ma non lo faceva mai. Sembrava avere molti pensieri per la testa, mentre
camminava con lo sguardo fiero verso avanti, senza mai guardarsi indietro.
Georgiana provava
già grande stima per lui, ma non era sicura di riuscire a reggere i suoi modi
di fare.
L’uomo non
sembrava avere la minima intenzione di fare conversazione – forse pensava
ancora a quello che avrebbe dovuto fare in quel posto che avevano chiamato
Hidel, o magari volgeva la sua attenzione all’uomo di nome Damon di cui aveva
chiesto le sorti poco prima di lasciare la Corte.
«Damon Darkmoon rimarrà dei nostri nonostante la sua cecità.»
aveva detto Jen «Tuttavia, non possiamo correre il
rischio di portarlo a Hidel, ci sarebbe solo d’intralcio. Rimarrà qui a Terren,
a farsi curare. La cecità non sempre è permanente, magari, con un po’ di
fortuna e le dovute cure, tra qualche anno potrebbe ricominciare a vederci.»
Georgiana si era
interrogata a lungo su chi potevano essere le persone di cui avevano parlato
durante l’incontro, ma nessuno le aveva risposto. E così, ancora una volta, non
poteva far altro che abbassare la testa e, in triste silenzio, accelerare il
passo per seguire qualcuno.
«Monsieur Metherlance!» lo chiamò ad un
certo punto, quando si trovarono ad attraversare una buia strada stretta e
molto lunga, che le faceva paura.
Nathan, che si era
di nuovo immerso nei suoi pensieri, non poté fare a meno di pensare che quella
ragazza pronunciava davvero bene il suo cognome. Chissà, forse il primo
Metherlance era stato proprio francese? Si voltò e le rivolse stavolta uno
sguardo più curioso.
«Ascoltate, milady.»
le disse in inglese «Potete parlarmi in francese se preferite, ma io mi
rivolgerò a voi solamente in inglese, lentamente e con precisione, così da
farvi comprendere la pronuncia corretta.»
«Oui, merci.» riprese la ragazzina.
Finalmente lo raggiunse, e, guardandosi intorno con fare spaesato, aggiunse col
suo timido inglese «Posso chiedere dove siamo? Questo luogo mi mette un po’ paura.»
Gettò lo sguardo
sulla muffa che ricopriva gli angoli in cui i muri delle case incontravano il
lastricato bagnato, sui topi che attraversavano a grande velocità le strade, e
quando il muso di uno di quelli si voltò verso Georgiana e un paio di piccoli
occhietti rossi incontrarono i suoi, la ragazzina si voltò verso Nathan con
grandi lacrime sulle palpebre.
«Questi sono i
bassifondi, milady.» le spiegò lui, le mise una mano sulla spalla e cominciò a
guidarla, stavolta a voce veramente bassa, essendo quelle informazioni
riservate «È necessario passare da qui per raggiungere voi-sapete-cosa
dal centro di Terren. Non siete mai stata a Terren?»
La bruna scosse il
capo «Mai. Sono arrivata da pochi giorni. E… perché
bisogna passare per i bassi… bassì-fondi?»
«Bassifòndi, milady.» la corresse lui: gli sembrava di
essere tornato ai tempi in cui correggeva Ann.
Già, a proposito
di Ann, da quanto tempo l’aveva lasciata sola? Durante la nottata il suo
pensiero era spesso corso alla contadina: stava bene? Le era accaduto qualcosa
in sua assenza? Sogno e Damon l’avrebbero sicuramente protetta in caso di
attacco, ma si sentiva lo stesso in forte ansia.
Attraverso la
nebbia, stavano attraversando il luogo dove era avvenuto l’inseguimento poche
ore prima, tuttavia non poteva andare a recuperare il mantello – se c’era
ancora -, perché aveva Georgiana con sé, e i nobili sono capaci di essere
veramente odiosi davanti a un po’ di sporco.
«Perché nessuna
persona assennata si sognerebbe mai di attraversare una zona malfamata come
questa. È un modo per celare voi-sapete-cosa.»
rispose finalmente alla domanda che gli era stata posta.
«Oh.» la ragazzina
mise un dito sulle labbra, come se stesse pensando seriamente. Alzò infine lo
sguardo a lui con espressione preoccupata «Quindi noi siamo…
deassennati?»
Quelle parole
fecero ridere a bassa voce l’Angelo «Per quanto mi riguarda, sì.»
Attraversarono in
fretta quella parte di città, presi com’erano lui dall’impellente bisogno di
assicurarsi dell’incolumità di Ann, lei dalla voglia di uscire dalla fitta
nebbia che li avvolgeva da quando erano usciti dal covo.
Georgiana non
pensava che Terren fosse così paurosa. A Parigi, la sua patria, le avevano
spesso parlato dell’antica e misteriosa Inghilterra, terra di fate, mostri e
leggende. Nei racconti della sua cara madre – inglese, mentre il padre era
francese, sposati per un matrimonio combinato -, figurava sempre come un luogo
inquietante ed affascinante, dagli splendidi e selvaggi paesaggi e dalle cupe e
fredde città. Georgiana Varens adesso si sentiva
parte di quel mondo, e un po’ ne aveva paura. Dunque non poteva far altro che
staccare a forza gli occhi dalle ombre dalle strane forme, dalle poche persone
che passeggiavano quietamente per quelle vie notturne e fangose. Si rifugiava
presso Nathan Metherlance, suo unico punto di riferimento in quel momento, ma
nemmeno lui sembrava meno pauroso delle altre forme che quella notte le si
avvicinavano troppo spesso.
«Siamo arrivati.»
fu l’unica cosa che Nathan disse quando si fermarono davanti a un grigio e
anonimo palazzo di quattro o cinque piani.
Mentre lui
trafficava con le chiavi alla ricerca di quella giusta, Georgiana impiegò
qualche secondo ad osservare il luogo, per imprimerlo meglio in mente.
Non era un posto
brutto ma neanche bello, con quei muri un po’ ammuffiti, che di tanto in tanto
sembravano pronti a perdere qualche mattone. La cosa preoccupava la ragazzina:
era davvero agibile, quel palazzo? Le ringhiere sui vecchi balconi, per quel
poco che riusciva a vedere, sembravano mangiate dalla ruggine – aveva sempre
odiato la ruggine, le dava un forte senso di degradazione, di morte e di
abbandono. Le avrebbe ridipinte lei quelle di casa Metherlance, ovviamente se
ce ne fosse stato bisogno.
«Milady.» la
chiamò Nathan, destandola dai suoi sogni.
Lei scattò
sull’attenti, come a volersi scusare di quella distrazione «Oui?»
Lui aveva
finalmente aperto la vecchia e pesante porta di ferro e vetro d’ingresso e la
teneva ferma con una mano, invitandola con l’altra ad entrare «Prima di salire,
c’è una cosa di cui vi vorrei parlare.»
«Vi ascolto.»
annuì la ragazzina, sbattendo un paio di volte le palpebre. Mise le mani in
grembo e cominciò a strofinarle contro la calda lana del cappotto, nella
speranza di riscaldarle.
«Con me vive una
ragazza.» esordì lui, catturando subito la sua attenzione «In realtà la sua è
una permanenza assolutamente momentanea, ben presto tornerà al suo paese
natale: Hidel, di cui abbiamo parlato poco fa. La sua è una visita di cortesia,
e per pura casualità ha avuto modo di conoscere anche Sogno e Damon Darkmoon, che vi presenterò domattina. Non sa niente degli
Angeli, niente di niente, perciò in sua presenza dovreste prestare il doppio
dell’attenzione.»
Georgiana annuì
con fare deciso, e quello per il momento bastava a Nathan, che tuttavia non si
fidava. Era lui in realtà che avrebbe dovuto prestare il doppio
dell’attenzione, non lasciare più Annlisette da sola, soprattutto se in
compagnia di Georgiana. Per quanto ne sapeva lui, quella ragazzina dagli occhi
spauriti poteva in realtà essere una spia degli Angeli – cominciava ormai a
diffidare persino della propria ombra.
«Un’altra cosa.»
aggiunse, notando che Georgiana si apprestava ad entrare.
L’attenzione di
lei fu di nuovo assoluta.
«Potrà sembrare
irriverente, ma considerando che siamo “cugini” potrebbe apparire strana tutta
questa formalità.»
La ragazzina,
capito al volo dove lui voleva arrivare, arrossì e scosse il capo «Excusez-moi, ce n’est pas possible!»
La cosa sembrava
davvero non piacerle, ma Nathan era già preparato a dinieghi, e, dopo qualche
tentativo, riuscì finalmente a trovare un accordo: avrebbero continuato a darsi
del voi, tuttavia chiamandosi per nome quando si trovavano in compagnia di Ann
- ovviamente avrebbero poi esteso la precauzione a tutti gli abitanti di Hidel.
Con Sogno e Damon non sarebbe stato necessario.
Georgiana non se
n’era ancora accorta, ma gli occhi di lui le erano perennemente puntati
addosso, alla ricerca di un qualsiasi dettaglio che potesse etichettarla come
persona pericolosa. Osservava con attenzione ogni movimento, cercando di capire
se era dettato davvero dalla timidezza o dalla paura di essere scoperta, ogni
espressione sembrava quella di una maschera, ogni parola poteva essere ben
calcolata, e tutta quella apparente sincerità poteva rivelarsi una perfetta
menzogna. Insomma, era decisamente poco propenso a farsi prendere in giro di
nuovo, non ora che poteva mettere in pericolo anche Ann.
Fu così che quando
entrarono in casa studiò ogni sguardo curioso lanciato dalla ragazzina
all’ambiente, ai mobili, alle sedie, al balconcino, al tavolo su cui ancora
erano poggiati disordinatamente tanti libri, ai mucchi di carte concentrati su
una poltrona.
«Che confusione più che confusa!*» si lasciò
scappare ad un certo punto.
Nathan le lanciò
un’occhiata acre «Sono uno studioso, Georgiana.»
Non capiva proprio
la necessità che tutti avevano di fargli notare quanto fosse disordinato. Il
che non era neanche del tutto vero, perché lui nel suo disordine aveva creato
un ordine universale solo a lui conosciuto, che lo faceva sentire in qualche
modo più potente rispetto agli altri, che tentavano inutilmente di capire il
motivo per cui su un libro di greco antico fosse poggiata la pianta del Crystal
Palace*.
Mentre Georgiana
si chiudeva in un silenzio imbarazzato, Nathan raggiunse un cassetto dove
teneva le poche coperte di cui disponeva. Ne uscì una piegata in quattro e, con
un gesto secco, l’aprì, mostrandola in tutta la sua semplicissima monocromia
bianca. Sembrava molto pesante, e la ragazzina ne trovò conforto: avrebbe
dormito al caldo, sperava. Posò silenziosamente il suo bagaglio sul pavimento.
«Mi dispiace, ma
per stasera dovrete accontentarvi del divano.» annunciò lui, correndo con gli
occhi al vecchio ammasso di molle, rattoppi e polvere.
La giovane non
parve affatto triste, anzi, ringraziò della premura e chiese di potersi
ritirare il più presto possibile. Lo disse con un’espressione così
supplichevole che Nathan non riuscì a dirle di no, le sorrise e la lasciò sola.
«Bonne nuit.» la
salutò, ricevendo un sorriso in cambio.
Immaginava che
trovarsi da sola in un posto sconosciuto l’avesse duramente provata, non la
biasimava assolutamente – dopotutto era ancora una ragazzina.
E poi… prima di chiudersi la porta alle spalle e lasciare che
il visetto scarno sparisse nell’altra stanza, gli era parso di vedere qualcosa,
una sorta di barlume di speranza negli occhi di lei. Non seppe interpretarlo, di
nuovo. Perché già bene conosceva quel bagliore, lo aveva visto nello sguardo di
tanti nuovi Angeli. Tuttavia era sempre intenso quando fulmineo, e si
dissolveva con velocità spaventosa.
La stanza in cui
Nathan era entrato era quella da letto dove riposava Annlisette, immersa in un
sonno profondo. Che sollievo, stava bene. L’Angelo si concesse un’espressione
ingentilito.
L’ambiente era
buio, la notte regnava sovrana; solamente un raggio di luna penetrava
attraverso le tende della porta che dava sul balconcino, illuminando la parte
di camera occupata dall’armadio e da un comò che conteneva moltissime cose: da
fotografie a progetti, da oggetti per la ricerca a stoffa per rattoppare, da
libri ad armi – delle pistole in dotazione dagli Angeli che il biondo aveva
nascosto molto bene, nella speranza che la curiosità di Ann non arrivasse
perfino a farla scartabellare tra i suoi libri in tedesco.
Si tolse
silenziosamente la giacca, sfilando prima l’una poi l’altra manica, per
poggiarla quindi sulla sedia accanto al comò. La perdita del suo mantello era
stata una cosa terribile ai suoi occhi – per lui era davvero come perdere una persona,
per quanto assurdo potesse sembrare -, eppure quella rabbia covata fino a quel
momento sembrava assopirsi mentre posava gli occhi sul profilo di Annlisette
addormentata.
La ragazzina
sognava quietamente stesa sul fianco destro, con un braccio nascosto sotto i
caldi strati di coperte e un braccio fuori, posato sul guanciale. I lunghi
capelli erano sparsi in modo selvaggio eppure elegante, ricordavano moltissimo
a Nathan quelle tele di ragno che da bambino amava osservare per ore, cercando
di carpirne i segreti di tanta semplicità capace di tanta bellezza. Ridacchiò
tra sé e sé silenziosamente, pensando che forse Ann si sarebbe sentita offesa
se avesse udito quel paragone.
Nel modo più
raccolto possibile – quasi si sentì un ladro -, riuscì a cambiarsi ed infilarsi
addosso qualcosa che non emanasse quell’orrendo fetore delle vie di Terren. Non
si sarebbe mai sognato di avvicinarsi alla sua principessa in quel modo
impresentabile.
Nel raggiungere il
letto sciolse anche il fiocco con cui teneva legate la sua lunga zazzera
disordinata e ribelle – eh sì, Ann poteva provarci quanto voleva a comandargli
di tagliarsi quei capelli che lo facevano sembrare lo scienziato pazzo, ma non
ci sarebbe mai riuscita.
Del resto, come
imporre a uno scienziato pazzo di non essere più scienziato pazzo?
Silenziosamente,
calò sul colpo della ragazza come un vampiro cala sulla sua vittima. A sua
volta si stese su un fianco, allungò una mano per posarla delicatamente sulla
spalla coperta di lei e carezzarla con garbo.
«Mmh…» si lamentò la ragazzina.
Aveva il sonno
leggero? Nathan sorrise. Pensava che Ann fosse una di quelle ragazze che non
venivano svegliate neanche dalle cannonate. O forse, molto più probabilmente,
da quando il mondo le cadeva addosso lentamente aveva cominciato a rimanere in
allerta anche durante il sonno.
«Shh, tranquilla, sono io.» le sussurrò all’orecchio con
tono basso e rassicurante, e quando lei si sforzò di aprire un occhio offuscato
dal sonno lui le sorrise.
Ad Annlisette,
ancora completamente intontita dalla sonnolenza, parve di essere ancora dentro
uno dei suoi sogni. Nathan non era mai entrato in quella camera di notte,
nemmeno quando tornava alle prime luci del mattino. Non si era mai preoccupato
di assicurarle che era rincasato e che stava bene, perciò quello doveva essere
un sogno.
«Sto sognando?»
chiese ingenuamente, suscitando in lui un mezzo sorriso.
«Può darsi.»
Fu la risposta,
seguita da un freddo bacio sulla fronte. I baci di Nathan erano sempre freddi,
soprattutto quando tornava a quell’ora, dopo aver passato tutta la notte chissà
dove, in compagnia di chissà chi. Una cosa che accendeva la fiamma della
gelosia nel piccolo cuore di Ann, che andò con la mano a stringere quella di
lui posata sulla sua spalla.
«Stai bene? Non
hai preso tanto freddo, vero?» aggiunse la ragazza. Incontrò i suoi occhi, che
sembravano più bui del solito, e da quello capì che c’era qualcosa che lo
angosciava.
Lui le assicurò
che andava tutto bene, e ancora una volta lei portò pazienza, perché sapeva che
era inutile combattere contro lui e le sue manie. E poi, se non riusciva a
reggere un confronto verbale quando era nel pieno della lucidità, come doveva
riuscirci in quel momento?
«Lo dici per non
farmi preoccupare.» affermò comunque.
Lui rise ed annuì
«È vero.»
Raramente Ann
aveva avuto modo di osservare così da vicino Nathan al buio, ma ogni volta era
un’emozione. Nelle tenebre, era come se il suo viso subisse una
trasfigurazione, diventando la cosa più bella e desiderabile che avesse mai
visto. O forse erano semplicemente gli effetti collaterali del sonno e del buio
che nascondeva le imperfezioni, il che sarebbe stato molto più logico.
Anche se, a dirla
tutta, in quella storia di cui si sentiva quasi protagonista c’era davvero ben
poco di logico…
Sentì le dita di
lui percorrere la pelle del suo braccio con lentezza, e quel tocco ebbe lo
strano potere di trasmetterle emozioni
e voglie che un cristiano non
dovrebbe avere. Arrossì e si chiuse in un silenzio statuario, preferendo
nascondersi tra le braccia del suo Angelo.
Lo sentì
ridacchiare, e in quel momento si ricordò che…
«Smetti
immediatamente di sentire le mie emozioni, disgraziato!» le parole le uscirono
come un fiume in piena, allo stesso modo in cui le sue guance si colorarono
così improvvisamente di un rosso così vivo da sembrare prese da un incendio.
Nathan allungò una
mano per sfiorarle il mento, che sollevò piano «Lo sai che non è una cosa
volontaria. E poi…» riecco il suo famoso sorriso
beffardo «Perché te ne vergogni?»
«E tu perché ne
ridi?» sbottò la ragazzina, fulminandolo con le occhiate più atroci del suo
repertorio.
La mano di lui si
sollevò ancora fino a raggiungerle una guancia, sulla quale posò una carezza
«Perché il modo in cui cerchi in tutti i modi di mettere da parte ogni
debolezza è molto dolce.» quindi, dopo una breve pausa, aggiunse «Sei una bella
persona, non nascondere te stessa dietro un velo.»
Se fosse stata in
grado di pensare, la giovane straniera sicuramente avrebbe riflettuto su quelle
parole, ma in quel momento una profonda sonnolenza le impediva di mettere a
fuoco ogni cosa che non era il suo amato Angelo.
Che fosse più
spontanea, era questo che Nathan voleva? Dopo tutto quello che era accaduto,
dopo la straziante morte di Angel che ancora anneriva le sue giornate, con la
paura che Hidel potesse essere divorato da un momento all’altro, era davvero il
caso di mostrarsi ingenua com’era sempre stata? Qualcun altro si sarebbe
approfittato di lei, o peggio, si sarebbe accorta in tempo dell’ennesimo
terremoto distruttore quando sarebbe arrivato?
Aveva tanta paura,
era questo che non voleva ammettere, la consapevolezza che la faceva chiudere
in se stessa.
Una nuova carezza
le solcò il viso «Niente paura, principessa. Sei molto più coraggiosa di quanto
credi…» lo sentì consolarla, e lei sollevò il viso
per incontrare i suoi occhi «Ce la faremo sicuramente.»
Annlisette si
sentì invadere il cuore da un grande calore, ed annuì ripetutamente mentre uno
spontaneo sorriso le si allargava sul volto. Cercò ancora una volta riparo tra
le braccia dell’unica persona di cui poteva fidarsi mentre era lì, a Terren,
nelle sue carezze, nelle sue così rare ma intense affettuosità, nei suoi baci,
nelle loro mani intrecciate, in un desiderio diverso da quelli provati fino a
quel momento.
E in intanto,
fuori, cadeva la neve.
Note:
#1: Georgiana cita “Paradise
Lost”, John Milton, II.
#2: Il Crystal
Palace era un enorme edificio allestito nel 1851 per ospitare l’Esposizione
Universale, a Londra. Fu smontato e ricostruito a Levisham
nel 1854 – dunque nel tempo in cui è ambientata la nostra storia -, per poi
essere definitivamente distrutto da un incendio nel 1936.
Note dell’Autrice:
Questo capitolo è arrivato con un po’ di
ritardo, me ne scuso *inchin* come molti altri di voi, anch’io sono purtroppo
presa dalla maledizione degli esami di maturità – mai odiato Seneca come ieri
-.-“ -, quindi tra preparazione, ripasso, percorsi ed esami veri e propri
questo capitolo ha subito un enorme ritardo. Anche perché, come avete visto, è
un capitolo molto denso, dove finalmente sono stati introdotti Georgiana Varens e Adam Forster, due
personaggi importantissimi all’interno della storia ^^ adoro Georgiana! Ho
progetti grandissimi per lei, quasi ai livelli dei progetti che ho per Nathan!
A proposito, ultimamente l’attenzione si è spostata su di lui, ma non abbiate
paura, fan di Ann, perché la nostra eroina a breve lo butterà fuori dalla scena
xD credo che per un po’ non vedremo più Nate – se non
per brevissimi intermezzi -, per cui volevo farvi godere il nostro sadico angioletto
un po’, prima di farlo sparire. Mi rendo conto che questi capitoli diventano
sempre più lunghi, e la cosa mi fa paura! Il prossimo aggiornamento…
eeeh, non saprei. Devo prima finire gli esami, poi mi
butterò su Snow, nella speranza di finirlo a breve –
eh sì, siamo quasi a fine storia! Che commozione! (Lettori: E menomale! Ti sei
portata la testa!)
Bene, prima di lasciarvi, posto il link
ad un disegno che ho fatto ai tempi del capitolo 21 e che puntualmente ho
sempre dimenticato di farvi vedere xD è una cosina
simpatica, magari vi strapperà un sorriso:
http://img641.imageshack.us/img641/6213/nathandamonannsogno.jpg
In ordine da sinistra verso destra:
Sogno, Ann, Damon e Nathan – devo aggiungere Georgiana, così il gruppo dei
protagonisti è al completo ^^
E ora mi immergo nelle tenebre dello studio.
Auf wiedersehen! *svolazza mantello*
Nathan: Il mio mantellooooooo!
ç_____ç