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Autore: La Signora in Rosso    25/06/2011    6 recensioni
"...senza quel dannato pomeriggio non sarebbe incominciato nulla."
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buongiorno a tutti. Probabilmente vi siete anche dimenticati di questa fic, perchè è più di un mese che non aggiorno.
Coloro che mi conoscono sanno che ho avuto un blocco di quelli potenti che mi ha impedito di scrivere.
Avrei potuto pubblicare prima qualcosa, ma non ero sicura del risultato, e piuttosto che postare qualcosa di veramente illegibile preferivo aspettare.
Mi dispiace, se qualcuno era curioso di leggere lo sviluppo, di avervi fatto attendere così tanto.
Parliamo di questo nuovo capitolo: non mi entusiasma, a dir la verità. Per questo vi chiederei gentilmente di dirmi che ne pensate, in modo da migliorarlo.
Beh, scusate ancora. Un abbraccio e buona lettura. :)








I suoi occhi si aprirono, il battito del cuore accelerato che gli pulsava direttamente in gola, il rombo del tuono ancora nelle orecchie.
Gerard era disteso a letto, ancora vestito con i jeans e la maglietta di quasi una settimana prima, di QUEL giorno .
Era rimasto con Frank in cucina per il tempo di una canzone fantasma – una vecchia ninna nanna che gli cantava sua nonna - fusi assieme in un abbraccio senza pari, e poi lo aveva lasciato:
lo aveva allontanato da sé, fissando il suo sguardo in quello del più piccolo e gli aveva sussurrato che forse era meglio che gli lasciasse un po’ di tempo per pensare, che non voleva forzare le cose, che capiva.
Frank era rimasto interdetto: vedeva che per colpa della sua reazione ora Gerard era più distaccato e attento ai propri gesti e parole... capiva che le cose non sarebbero dovute andare così.
Ma capiva anche che mancava poco perché il suo vaso traboccasse sotto il peso di un’ultima fatidica goccia, e mancava così poco che sentiva già l’acqua increspata, i cerchi concentrici che si allargavano fino al bordo smussato, colando fuori con lentezza.
Sì, aveva bisogno di tempo.
Ma allo stesso tempo non voleva rimanere solo, perché mandare via Gerard significava respingerlo?
Oppure che avrebbe avuto l’occasione, in un futuro molto prossimo, di rivederlo e ricominciare da zero?
Perché, sebbene si conoscessero così poco, Frank aveva capito anche che ormai si sentiva legato a Gerard da un legame più profondo della semplice conoscenza o amicizia… questo lo aveva compreso. E sperava che fosse lo stesso anche per l’altro.
Per questo motivo annuì lentamente, guardando il pavimento, senza avere neanche la forza di alzare lo sguardo.
Ed era rimasto lì in cucina a contemplare le piastrelle fino a quando non aveva sentito la porta dell’ingresso chiudersi con un colpo leggero.


Una volta fuori, Gerard rimase per un po’ a guardare la porta che si era appena chiuso alle spalle, una lacrima - una sola - che dal mento precipitava sul petto, creando un alone ancora più nero del nero della sua maglietta.
Poi era tornato a casa senza nemmeno pensare alla strada che stava percorrendo; con gesti automatici aveva parcheggiato ed era entrato in casa, scorgendo la sua famiglia seduta sul divano del salotto intenta a guardare la televisione. Aveva alzato una mano per salutarli, biascicato (o forse no, forse era frutto della sua immaginazione) che non aveva fame e che andava in camera sua, e lì era rimasto, disteso sul letto e ancora vestito, per 5 giorni.
Non aveva fame, qualche volta scendeva a prendersi un caffè quando non c’era nessun’altro in casa, non andava a lezione, non dipingeva.
Per il resto giaceva sveglio sul letto, sopra le lenzuola stropicciate; solo qualche volta si addormentava, quando – sfinito dai troppi pensieri e preoccupazioni – non riusciva più a tenere gli occhi aperti. Come quella mattina, fino al momento in cui un tuono violento non lo aveva scosso dal torpore senza sogni che si era impadronito di lui.
Il temporale aveva ripreso a battere sulla cittadina: dalla sua finestra aperta entrava la pioggia sospinta dal vento gelido che gonfiava le tende come le vele di una nave.
La sua camera avrebbe potuto prendere il largo, sospinta in maniera così forte da quel vento potente… probabilmente non sarebbe stata una brutta idea, pensò Gerard, alzandosi a fatica dal suo giaciglio e accostandosi alla finestra.
Guardò con apprensione le strade allagate e l’orizzonte illuminato dai lampi.
Frank aveva paura del temporale. Lo sapeva.
E lo immaginava raggomitolato nel suo letto, il sale delle lacrime ancorato alle sue ciglia umide, tremante sotto le coperte.
Di impulso si girò, prese la giacca e si avviò verso la porta di camera sua. Con la porta già mezza aperta sul buio del corridoio e la mano ancora appoggiata sul pomello però si fermò e lentamente si voltò verso la radiosveglia.
I numeri grandi e di un verde alieno gli dicevano che erano le 04:30 del mattino.
04:30.
Quasi l’alba.
Un nuovo giorno.
Il sesto, dopo 5 di silenzio.
Si ritrasse e tornò a sedersi sul letto, la giacca ancora in mano.
Poi un sottile ronzio. Silenzio. Di nuovo quel rumore.
Una tiepida luce si diffondeva dalla tasca della sua giacca in pelle, che vibrava a tempo con il ronzio.
Ci mise un po’ per capire che il suo telefono stava vibrando, e che c’era qualcuno, di là, che attendeva che lui rispondesse o che leggesse il messaggio.
Non si ricordava di avere lasciato il telefono lì, nella giacca… quando era stata l’ultima volta che lo aveva usato? QUEL giorno?
Attese un secondo di troppo e il buio misto al silenzio calò nuovamente sulla stanza.
Con le lunghe dita ossute aprì la cerniera e premette un tasto per sbloccare la tastiera, illuminando il piccolo schermo, rivelando il nome della persona che lo aveva cercato.
Una chiamata persa da: Frank.
I suoi occhi leggevano, ma il cervello non collegava le due cose, come se lo avesse abbandonato, intento a crogiolarsi ancora nel sonno.
Prese paura quando il piccolo apparecchio gli tremò nuovamente nelle mani: un sms.
Il cellulare continuava a tremare per riflesso delle sue dita nervose, che non riuscivano a rilassarsi di fronte a QUEL nome, illuminato sullo schermo, marchiato nella sua testa a chiare lettere di fuoco. Un colpo leggero col pollice e la bustina si aprì, rivelando il suo misterioso contenuto.



Dovette leggerlo tre volte per capire la prima frase.
“Sono un coglione.”



Altre tre per capire la seconda.
“Mi manchi, e non sai quanto… “

Per capirne il significato complessivo dovete passarsi una mano sugli occhi stanchi e darsi un sberla in piena guancia.

Rumore di vetro che si frantuma per terra: era il muro sottile che li aveva separati in questa settimana.
Sottile perché entrambi non avevano fatto altro che pensarsi, per sei giorni, assottigliando il muro, rendendolo impalpabile come un filo di vetro, fino a che esso non si era rotto sotto le loro mani, i loro occhi.

“Sono un coglione. Mi manchi e non sai quanto… e non capisco come ho fatto a far passare una settimana, quando avevo già compreso che mi saresti mancato il giorno dopo. Il resto è stata duro da digerire. Ma… è andato. Semplicemente andato. E c’è questo fottuto temporale… e….”

E cosa? Vieni qui? Posso venire io? E cosa???
Gerard scaraventò il cellulare e si prese il volto tra le mani… che cosa doveva fare?
Andare o non andare?
Ovviamente non ce l’aveva con Frank per aver aspettato tutto questo tempo, assolutamente no, senza alcun dubbio, poteva metterci la mano sul fuoco.
Però erano anche quasi le cinque di mattina… e avrebbe svegliato i suoi… e adesso si accorgeva che puzzava perché in una settimana non aveva fatto altro che starsene sdraiato a letto.
Non poteva andare, no.

“Ma lui aspetta te, deficiente! “

- Ma non posso presentarmi così, in queste condizioni… no. –

Prese il cellulare e lo spense: così almeno non avrebbe avuto la tentazione di chiamarlo o mandargli messaggi o quant’altro. No. Non doveva.
Si alzò e in punta di piedi entrò nel bagno di servizio in fondo al corridoio: una volta dentro accese la luce dello specchio e azionò il getto d’acqua della doccia, flebile, leggero.
Poi si liberò dei vestiti e li buttò con cautela in un angolo.
Una volta entrato in doccia si frizionò per bene i lunghi capelli corvini, avvolto dal profumo intenso del doccia shampoo, e si massaggiò il corpo indolenzito dalla reclusione forzata.
Con gli occhi chiusi sotto lo spruzzo di acqua calda contava i secondi che impiegava, o che sprecava, per farsi una doccia.
Un minuto dopo era fuori, un lungo asciugamano morbido che gli copriva le gambe.
Un minuto dopo era vestito, i capelli bagnati – ma tanto fuori diluviava, non avrebbe avuto grossi problemi - e la giacca in mano.
Un minuto dopo era sotto un ombrello mezzo rotto che camminava veloce verso casa di Frank: erano pur sempre le 5 di mattina, non poteva mica prendere l’auto dal garage!
Il telefono? Abbandonato sul letto, spento, la segreteria che registrava un messaggio: “Vieni”.

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L’acqua nelle scarpe, nei vestiti, che colava dalle tempie, scendendo lungo il collo e la schiena: era completamente zuppo.
Ma continuava imperterrito a camminare, le mani tremanti che reggevano un ombrello ormai rotto dalle raffiche di vento.
Un lampo illuminò la sua figura nera, che veloce attraversava la strada. Poi di nuovo il buio bagnato della notte, rischiarato ad intermittenza da un lampione chinato sulla strada.
Con uno slancio saltò una pozzanghera per poter atterrare sul marciapiede, dove lo aspettava un’altra pozza gelida.
Dai piedi ormai congelati sentì salire lungo le gambe una nuova ondata di freddo, che si dipanava sul suo corpo rendendolo un unico fascio di carne tremolante.
E poi raggiunse la porta vetrata della casa di Frank, e rimase lì ad osservare il campanello.
Avrebbe dovuto suonare?
Sì, altrimenti non poteva entrare.
Ma Frank lo avrebbe lasciato entrare?
Se non suonava non lo avrebbe mai saputo.

Erano quelle domande inutili che le persone si pongono quando in realtà sanno già la risposta ma vogliono ritardare il momento nel quale scopriranno se è giusta.
E quel momento arriva sempre, deve arrivare.

Alzò il braccio e appoggiò l’indice sul pulsante a fianco della targhetta col nome di Frank.
Subito sentì scattare la porta, come se il ragazzo fosse stato lì, incollato al citofono ad aspettarlo con ansia.
E forse era anche così.
Sicuramente era così.
Entrò ed appoggiò l’ombrello in un angolo, creando un lago sul pavimento lustro, poi si avvicinò alle scale, insicuro sul da farsi.
Ma ormai era dentro, avrebbe avuto il coraggio di voltarsi e tornarsene a casa?
No.
Avrebbe avuto il coraggio di salire quei gradini e bussare alla porta?
Se lo stava chiedendo quando sentì una chiave girare nella toppa, il rumore che – amplificato dalle scale- scendeva fino a lui.
Poi un fruscio e una lama di luce che rimbalzava sugli scalini.
Prese un respiro profondo, come se non avesse mai veramente respirato fino a quel momento, e raggiunse la fonte di quella lama di luce.

Frank era sull’uscio semi aperto, visibile solo a metà, che con un occhio guardava il buio delle scale.
Un tuono. Una figura nera che saliva. Quegli occhi verdi che guardavano in alto. Guardavano lui.

Il mio maestro di canto dice che se non riusciamo a prendere le note giuste è perché ci sforziamo di fare qualcosa contro il nostro corpo.
Se lo seguissimo, se ci muovessimo come lui vuole, anche la nostra voce uscirebbe secondo tale movimento.
Non è qualcosa che decidiamo noi, con la parte intelligente del nostro cervello. È uno slancio.

Questo è quello che fece Frank.
Non decise razionalmente di spalancare la porta e buttarsi in direzione di quella figura nera, scontrando il suo viso contro quel petto magro, allacciando le braccia a quel collo.
Fu solo un movimento che il suo corpo sentì come naturale da fare in quel momento, un movimento dettato dal bisogno che quel corpo aveva di sentirne un altro vicino a sé.
Gerard rimase senza fiato. Era arretrato di un passo sotto il peso del ragazzo, ma lo aveva tenuto stretto a lui, ricambiando l’abbraccio, a costo di cadere.
Frank respirava pesantemente contro la sua maglietta bagnata, a bocca aperta, e sentiva quel calore diffondersi come un balsamo caldo sul suo corpo gelato.
Come una cioccolata calda presa in inverno. Come un sorso di liquore che ti incendia la gola.
Frank era come quel liquore, lo rendeva ebbro, gli faceva girare la testa, ma era buono, e caldo, e confortante.
Abbassò il volto verso il più piccolo e inspirò il suo profumo. Aveva i capelli bagnati che emanavo un odore fresco di shampoo.
Passò una mano sulla sua guancia per guardarlo negli occhi e vide che qualche sbuffo di crema bianca ricopriva dei taglietti rossastri su quella pelle tesa, come quando dalla fretta si sbaglia a radersi, la lama che bruciante affonda nella carne.

- Che hai fatto? –
Un dito che cauto gli sfiorava il volto.

- Ah… ehm… ho cercato di rendermi… presentabile… -


- Non sei andato a scuola in questi giorni? –
“Che domanda stupida… uno può andare in giro anche con la barba di Babbo Natale se vuole…”

- Ehm… no. Mi hanno chiamato il… il secondo giorno. Ma ho detto che stavo male… un virus. Non mi hanno più detto niente poi… -

Silenzio.
Se ne stavano zitti, ancora abbracciati a guardare altro che non fossero loro.

- …. Senti… vuoi entrare? Ti… ti cambi almeno, metti qualcosa di asciutto. Io… -

- Se vuoi, sì…. –

- Ehm, adesso credo di sapere cosa voglio… e… vieni dentro. –

Lo prese per mano e lo portò in casa, l’unico rumore quello dei loro respiri e il cigolio delle scarpe bagnate di Gerard sulle piastrelle.
Frank lasciò che lo superasse, voltandosi così a chiudere piano la porta. Quando si tornò a girare Gerard era di fronte a lui, che lo guardava con apprensione.
Si stava trattenendo, lo capiva. Ma non avrebbe dovuto farlo più.
Il seguito fu un nuovo slancio, delle sue labbra verso quelle del ragazzo, delle sue mani verso quelle dell’altro.
Uno slancio fu anche raggiungere la camera da letto di Frank.
Uno slancio fare l’amore, per la prima volta, insieme







Ok, l'avete letto tutto, quindi vi meritate una razione extra di biscotti come premio. ^^
Prima di tutto vi ringrazio, e poi... poi spiego perchè non ho inserito la scena lemon. A mio parere avrebbe rovinato l'atmosfera che si era creata, e la poesia del tutto. Poi, boh, è una mia idea.
E forse è pure troppo corto. D:
Un abbraccio.
LOVE IS LIKE SUICIDE
  
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