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Autore: Alaire94    27/06/2011    1 recensioni
Si dice che le sirene anneghino i marinai trascinandoli nell’oscurità degli abissi. Si dice che basti uno sguardo per innamorarsi di una sirena, uno sguardo color del mare che porta con sé un legame eterno e indissolubile.
Eppure si dice anche che siano solo le leggende di un piccolo paesino carico di misteri, dove la luce di un faro illumina le acque cristalline della baia…
Era proprio bella quella baia: l’aria sapeva di antichità, delle lunghe battaglie in mare del passato e della salsedine delle reti dei pescatori.
Sembrava quasi di sentire ancora le urla dei mercanti sul molo e dei marinai sulle navi piene d’oro che si accingevano ad ormeggiare.
Aveva vissuto tempi di splendore, mentre ora non era altro che una baia dimenticata dall’uomo dove la natura brulla aveva avuto il sopravvento sulle attività umane.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2

Vi era una nave giù al porto. Era un veliero e portava un vessillo pirata: due spade incrociate e un serpente dagli occhi scarlatti.

Non potevo vedere i marinai, ma già immaginavo le spade sguainate e i sorrisi compiaciuti. Vedevo già un’orda di uomini dall’odore di salsedine che con un grido feroce assaltavano il paese, si infiltravano nelle vie strette, sfondavano porte e razziavano tutto ciò che trovavano sul loro percorso. Nulla sarebbe rimasto al loro passaggio, se non un insieme di case distrutte e gente impaurita.

Forse soltanto io mi sarei salvato, in cima al faro che guardava sul mare, sul cucuzzolo del picco più alto e avrei guardato il paese da quell’altezza senza sapere che fare, senza il coraggio di correre a prestare il mio aiuto.

Il veliero attraccò al molo. Ero l’unico che da quella piccola finestra poteva sapere del loro arrivo, ma non mi mossi, non una parola uscì dalla mia gola. Sarei stato complice anche io di quell’irruzione…

Mi voltai, ritrovandomi nel salotto e sedendomi sul divano impolverato. Cercai di rilassarmi perché il cuore batteva all’impazzata, ma non era un’impresa facile: sentivo una presenza in quella stanza.

Era un’ombra maligna che aspettava il momento opportuno per pugnalarmi alle spalle.

Guardai dietro di me e lo vidi: era senza un occhio e la sciabola che stringeva fra le mani stava per calare sulla mia testa.

Non mi chiesi come fosse arrivato lì, né cosa volesse fare del faro. Mi limitai a chiudere gli occhi e aspettare la fine…

 

Aprii gli occhi.

Il cuore batteva nel petto e qualche rivolo di sudore mi calava dalla fronte. I miei sensi erano ancora storditi dal sonno e per qualche secondo mi domandai dove mi trovavo; quelle pareti bianche cosparse di macchioline nere e quell’armadio di legno scuro su cui uno specchio rifletteva la mia figura fin troppo snella, non assomigliavano per nulla alla mia camera da letto.

Poi ricordai della lettera, della morte dello zio, del faro di cui ero il guardiano e tutto mi apparve un po’ più chiaro. Tutto, a parte il sogno da cui mi ero appena svegliato che mi aveva lasciato inquieto.  Avevo paura che vi fosse un pirata nascosto dentro l’armadio o sotto la scrivania e quasi mi sembrava di percepire una presenza oscura in quella stanza.

Improvvisamente un rumore spezzò il silenzio dell’abitazione. Si era trattato di un rumore secco e tintinnante.

Il cuore fece un tuffo nel petto e mi alzai immediatamente dal letto. Ero abituato a vivere da solo, fin da quando mia madre si era trovata un nuovo marito, ma tuttora l’idea che qualcuno potesse introdursi in casa continuava a spaventarmi.

Il suono di un vetro rotto rimbombò. Non potevo più restare nella mia stanza, lasciando che i ladri si introducessero in casa proprio la prima notte che dormivo al faro. 

Accesi la luce e mi guardai intorno in cerca di qualche oggetto da utilizzare come arma. I miei occhi accarezzarono lentamente la scrivania vuota a parte qualche libro impolverato e un’abat-jour d’altri tempi, giunsero al comò su cui avevo poggiato i vestiti ancora da sistemare fino ad arrivare all’angolo dove avevo riposto la scopa con la quale durante il giorno avevo dato una pulita alla camera.

Senza soffermarmi sul resto della stanza afferrai la scopa e una volta uscito cominciai a scendere la scala a chiocciola.

L’oscurità creava un’atmosfera lugubre che mi inquietava, resa ancora più paurosa dal canto dei grilli e degli uccelli notturni provenienti dalla vegetazione circostante.

Senza contare il fatto che io avevo sempre avuto timore degli animali notturni. Da piccolo infatti un pipistrello si era appigliato ai miei vestiti e mi aveva fatto fischiare le orecchie a forza di produrre quel suo verso stridulo e snervante.

Da allora odiavo particolarmente quegli esseri volanti e proprio per questo, quando il loro verso giunse alle mie orecchie, mi si accapponò la pelle. Strinsi allora più forte il manico della scopa e procedetti cercando di fare silenzio.

Arrivai fino al piano terra. La porta del ripostiglio era aperta come l’avevo lasciata prima d’andare a dormire, ma se il buio prima era totale ora una sottile luce bianca penetrava nella stanza, illuminando le cianfrusaglie accatastate sul pavimento.

 Il cuore prese a battere ancor più velocemente: avevo chiuso l’unica finestra della stanza, mentre ora lo spiraglio di luce penetrava proprio da essa nel cui vetro vi era un buco, un occhio che guardava all’esterno.  

Sotto la finestra si trovava un piccolo cumulo che come polvere di stelle luccicava ai raggi della luna e in mezzo a questo una macchia scura, un sasso grigio, stonava col luccichio.

Prima di osservare ciò che era accaduto alla finestra, mi accertai che non ci fosse nessuno, ma per fortuna il silenzio era calato nuovamente nei pressi del faro.

Dopodiché, più tranquillo, mi concentrai su ciò che era accaduto alla finestra: il sasso che ora giaceva in mezzo ai vetri rotti doveva essere stato lanciato da qualcuno.

Lo raccolsi. Vi era un biglietto attaccato con una piccola corda su cui, a caratteri maiuscoli e minuscoli, vi era scritto semplicemente “vattene”.

Un nodo mi si strinse in gola: ero appena arrivato e già qualcuno voleva che me ne andassi, tanto da spingersi a compiere gesti intimidatori.

Coprii la finestra rotta con una vecchia tenda che trovai fra le cianfrusaglie della stanza e tornai a letto.

Feci fatica ad addormentarmi e quando ci riuscii i miei sogni furono tormentati.

 

Il sole penetrò dalle fenditure della tapparella e mi illuminò il viso, sottraendomi con sollievo dal mondo onirico.

Il sasso era ancora lì, poggiato sul comodino di fianco al letto, dandomi la conferma che non si era trattato solo di un sogno. Mi misi supino, guardando il lampadario e il soffitto sopra di me, mentre pensavo a cosa fare.

Non potevo fare finta che nulla fosse successo: ciò che loro volevano era che me ne andassi in silenzio con la stessa velocità con cui ero arrivato.

Non l’avrei fatto. Forse mi credevano debole, un giovane sprovveduto disposto a farsi schiacciare come una formica. Ebbene, si erano sbagliati: non erano certo un sasso e una finestra rotta che mi avrebbero spinto a lasciare l’esistenza che avevo scelto.

Dal momento in cui avevo letto quella lettera e fatto i bagagli, avevo preso una decisione che difficilmente avrei abbandonato, l’avrei difesa con le unghie e con i denti.

Forte di questa determinazione mi alzai dal letto e mi vestii velocemente, per poi abbandonare il faro, diretto al paese.

La stradina che portava a Campielli era scoscesa e la si poteva percorrere soltanto a piedi.

Si snodava all’interno di un fitto bosco di pini marittimi dove le cicale producevano il loro regolare canto, ogni tanto rotto dal cinguettio di qualche uccellino.

Io però non avevo tempo di soffermarmi all’ombra dei pini: avevo importanti questioni da risolvere.

Presto intravidi le prime case del paese. L’abitazione di un vecchio pastore, una casetta in mattoni dal tetto spiovente, e un’altra dai muri bianchi e grandi finestre. Piano piano le case si fecero più fitte, si ammassavano gradualmente come formiche attorno a un formicaio, finché non giunsi nel cuore di Campielli, diretto alla via principale.

Alcune vie non erano nemmeno asfaltate, ma ricoperte di lisci ciottoli che facevano male sotto le sottili suole delle scarpe. Eppure, per quanto fossero scomodi, era suggestivo camminare per quelle vie acciottolate: ricordava i tempi antichi, quando per quelle strade risuonavano i tintinnii delle armature e i nitriti dei cavalli. L’eco della storia era forte in quel paesino: tutto sembrava rimasto tale e quale, come se il tempo si fosse fermato, lasciando intatte le vie e i palazzi in mattoni rossi.

Presto raggiunsi la via principale. Ancora non sapevo orientarmi bene, essendo appena arrivato, ma questa volta volevo cavarmela da solo, evitando lo sguardo astioso delle donne anziane, sedute a rammendare su una sedia di legno appena fuori dalla soglia di casa.

Procedetti lungo la via, guardandomi attentamente attorno, alla ricerca di un portone più grande degli altri.

Ero quasi arrivato al molo e già vedevo una striscia di blu dietro le ultime case, quando finalmente vidi un portone in legno sulla destra.

Era incorniciato da due colonne bianche addossate alla parete e in alto due giovani angioletti dai visi paffuti portavano una pergamena con una scritta sbiadita. Anche quello, come tutto il resto lì a Campielli, era antico e aveva resistito impavido allo scorrere del tempo.

Senza esitare spinsi l’enorme maniglia, entrando nella caserma. Il pavimento era molto liscio, tanto che rischiai di scivolare e sulla destra un poliziotto in divisa se ne stava all’interno di una piccola cabina intento a compilare un foglio.

Mi avvicinai, schiarendomi la voce per attirare l’attenzione.

- Desidera? – chiese il poliziotto dopo aver sollevato la testa.

- Vorrei sporgere denuncia per… un atto di vandalismo – dissi, rendendomi conto solo in quel momento di non aver pensato ai giusti termini da utilizzare.

Il poliziotto non ebbe nessuna reazione, ma mi lanciò un’occhiata da dietro gli occhiali dalle lenti rettangolari.

- Si accomodi da quella parte – disse, indicando una porta sulla sinistra.

Mi ritrovai in una sala d’aspetto lungo il cui perimetro vi era una fila di sedie di plastica su cui mi sedetti.

Passarono almeno venti minuti prima che mi chiamassero, tanto che cominciai a spazientirmi.

Per fortuna, però, il poliziotto di poco prima spuntò sulla soglia.

- Il maresciallo la sta aspettando – annunciò.

Mi alzai e il poliziotto mi condusse lungo il corridoio, per poi aprire una porta sulla destra.

- Permesso – dissi educatamente oltrepassando la soglia.

- Avanti, avanti! – rispose una voce squillante.

Era un semplice ufficio, con un armadietto grigio dalle ante ammaccate, una scrivania in legno chiaro e un vecchio computer che produceva un fastidioso ronzio.

L’uomo seduto dietro la scrivania era corpulento, con una pancia tonda e sul suo volto, su cui spiccava un naso 
enorme e rosso, si apriva un sorriso di falsa cortesia che si spense un po’ nel vedermi.

Il maresciallo mi indicò una sedia davanti alla scrivania, dove io mi sedetti.

- Buongiorno, mi dica… - esordì il poliziotto mentre estraeva un modulo dal cassetto.

Frugai nella tracolla che avevo portato. – Sono stato vittima di un atto di vandalismo… qualcuno ha tirato un sasso contro la mia finestra, rompendola.

Mentre dicevo ciò appoggiai sulla scrivania il sasso a cui era ancora attaccato il biglietto.

Il poliziotto lasciò cadere sul piano la penna con cui stava compilando il foglio, sollevò le sopracciglia e mi lanciò uno sguardo di superiorità che mi irritò.

- Non penso ci siano i termini per una denuncia – disse semplicemente.

Mi irrigidii, trattenendo il nervosismo che mi stava attanagliando.

- E’ un biglietto intimidatorio, qualcuno ha rotto la finestra e avrebbe potuto introdursi in casa – ribattei, già piuttosto infervorato.

Il maresciallo si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sul tavolo e mi sorrise. – Vede… forse sarebbe meglio che lasciasse perdere, in fondo è una cosa da nulla, nessuno si è fatto male… non consideri certe minacce e viva tranquillo – spiegò lentamente, come se stesse parlando con un malato mentale.

Sentii la rabbia invadermi il corpo. Se fossi stata una persona impulsiva probabilmente avrei urlato qualche insulto o sferrato un pugno, togliendo dalla faccia dell’uomo quel falso sorriso, ma siccome ero invece dotato di una discreta pazienza mi limitai a rimettere il sasso nella tracolla e ad alzarmi.

Mi stupii ancora di più del mio autocontrollo quando, prima di uscire dall’ufficio, dissi con un umile sorriso: - sì, ha ragione… arrivederci.

Veloce come un missile ripercorsi il corridoio fino a giungere all’entrata.

Il poliziotto mi osservò perplesso mentre cupo in viso uscii dalla caserma accennando appena un saluto.

*** 

Angolo autrice: 

grazie a tutti coloro che hanno letto, inserito la storia fra ricordate e seguite e soprattutto alle buone anime che hanno espresso il loro parere tramite le recensioni, ovvero Atomo e Iloveworld... spero continuiate a leggere la storia e a recensire... 

sono infatti molto interessata al parere di voi lettori, per cui non siate timidi e lasciatemi un vostro parere di qualsiasi tipo!

   
 
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