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Autore: Melanto    28/06/2011    8 recensioni
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.»
E Yuzo e suo padre hanno smesso di cercarsi.
Si sono persi negli anni, negli obiettivi opposti, nelle spalle girate e nelle porte chiuse. Nelle strade dritte e concrete della famiglia Morisaki, mentre quelle di Yuzo inseguono le linee curve di un pallone; una scelta che suo padre non è disposto ad accettare.
Ma la guerra è fatta di vittime, e mentre si tenta di rimettere insieme i cocci delle certezze in frantumi, ognuno cercherà anche quello che ha perso.
...perché anche le cose perdute si trovano, basta solo saperle cercare.
[lo Shonen-ai è un elemento marginale]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il lungo sonno della Lucciola
- Part VIII: Voulez-vous? This is Hope -

 

Baiko legò l’ultimo fermo sul tettuccio dell’A5 grigia e si portò le mani ai fianchi, osservando il lavoro con soddisfazione. La bici era stata caricata un po’ alla buona, poiché la vettura non era dotata di portapacchi, ma per il breve tratto che avrebbe dovuto percorrere per tornare a Nankatsu andava più che bene.
«Sei sicuro di non voler restare qui, per oggi?» Chiyo era in piedi accanto all’auto a osservare le manovre del figlio.
«No, mamma. Devo andare da Yuzo e ho ancora delle cose da fare.»
La donna sorrise. S’avvicinò adagio e gli poggiò la mano sul braccio, attirandosi il suo sguardo. «Cerca di parlare anche con Haruko, ha bisogno di te…»
«Non so quanto voglia avere a che fare con me, per adesso» Baiko accennò un sorriso affranto. «Forse è ancora troppo presto per presentarsi davanti a lei. Ma ci proverò. Al massimo mi sbatterà la porta in faccia.» Si sporse e le diede un affettuoso bacio sulla fronte. «Se vuoi che ti venga a prendere per portarti da Yuzo, basta che tu mi faccia una telefonata. Va bene?»
Chiyo scosse il capo. «Non preoccuparti, ci penserà l’autista, tu… credo che avrai dei giorni impegnati.» Anche se non sapeva bene cosa avrebbe fatto suo figlio, sapeva che non sarebbe più rimasto immobile ad aspettare che qualcosa avvenisse. «Piuttosto, vedi di mangiare. Scommetto che sono giorni che non tocchi cibo.»
Baiko si passò una mano dietro la nuca, provando a stemperare l’imbarazzo. «Ma no, mamma. Qualcosa l’ho mangiata…»
«Qualcosa
«…di precotto.»
La donna sospirò, tornando a scuotere il capo. «Sei sempre stato negato in cucina. In economia domestica eri un disastro.»
«Beh, peggio di così non posso fare.»
Chiyo inarcò un sopracciglio, stringendo gli occhi, le rughe si accentuarono. «Non hai mai cucinato in quest’ultimi trent’anni circa.»
«Posso sempre imparare, no? A cinquant’anni diventerò un cuoco provetto, sta’ a vedere.» Doveva recuperare. Tutto ciò che aveva dato per scontato e di cui non si era mai curato, anche le cose più banali come la gestione di una casa. La loro casa. Non voleva più essere un estraneo là dentro. Se quella dimora avrebbe dovuto rappresentare la loro biografia – sua, di Yuzo e di Haruko –, allora non voleva essere un semplice nome di passaggio che aveva ‘alloggiato’ lì, ma non l’aveva mai vissuta.
Baiko diede un ultimo abbraccio a sua madre e quest’ultima sospirò ancora una volta, ma era più serena di quando suo figlio si era presentato davanti alla porta con quell’aria stravolta e stanca. Adesso sembrava più forte, paradossalmente più sicuro anche se di sicuro non c’era nulla. Adesso aveva una nuova direzione da seguire.
«Fai attenzione lungo la strada.» si raccomandò e poi lo lasciò andare.
«Se ci dovessero essere delle novità, ti chiamerò subito.»
«Ah! Ancora un attimo!»
Chiyo lo fermò che stava per salire in macchina. La osservò fare cenno a Mina che avanzò svelta reggendo il vaso con la composizione rikka shofutai. La donna la prese dalle mani della domestica e gliela porse. Con un sorriso affettuoso si raccomandò: «Portala al mio Yuzo, va bene?»
Baiko ricambiò il sorriso. «Certo, mamma. Ne sarà felice. Gli è sempre piaciuto vederti lavorare con le piante.» Con cura sistemò il vaso nel sedile davanti, fermandolo in modo che non cadesse o si inclinasse.
Infine, salì in macchina e, in poche manovre, lasciò la tenuta di famiglia diretto a Nankatsu.
Faceva caldo, ma non aveva acceso l’aria condizionata: voleva godersi il vento che filtrava dal finestrino aperto, come ai vecchi tempi. Quando era piccolo, e d’estate usciva con i suoi genitori per andare a trovare qualche parente sparso nella Prefettura, adorava sentire l’aria sulla faccia, che spettinava i capelli. Dopo si ritrovava tutto in disordine, ma non gli importava. Negli anni che avevano preceduto il diploma del liceo, non gli era mai importato del rigore e della disciplina, anzi, se poteva abbattere le regole di suo padre lo faceva, per ribellione.
Sorrise, sentendo il vento insinuarsi tra i capelli per agitarli a suo piacere. Sorrise nell’avvertire l’aria che gli mordicchiava le orecchie e il lato della guancia. Sorrise nel tentare di opporre resistenza con le dita della mano aperta, fuori dal finestrino, che sembrava volesse catturare il vento all’interno del palmo. Davanti a lui, la strada correva veloce e tranquilla, con il sole che iniziava a planare verso Ovest e il mare che scompariva alle spalle. C’erano solo i rumori della sua auto e di quelle circostanti, nella corsia opposta. C’era il rumore dell’aria che entrava dal finestrino.
Voleva un po’ di musica.
Baiko adocchiò la radio incorporata alla plancia con sguardo critico. L’aveva mai accesa prima? Sul momento non se lo ricordò. Di solito, quando al mattino andava in azienda, la sua mente era già presa dallo stilare un resoconto giornaliero di quello che avrebbe dovuto fare. Il telegiornale lo seguiva esclusivamente la sera quando rientrava a casa e quell’auto l’aveva da pochi anni.
Arricciò le labbra in una smorfia.
A conti fatti, no, non l’aveva mai accesa.
Baiko pigiò un paio di tasti alla cieca e la musica partì, da una stazione a caso. Musica giapponese. Qualcuno cantava di un amore perduto, con vocina di zucchero.
La smorfia si accentuò.
«Lagna» decretò cambiando stazione.
«Lagna» decretò ancora quando un’altra canzonetta arrivò alle sue orecchie.
«Lagna. Lagna. Lagna» sbuffò. «Perdio! Possibile che non ci sia una stazione che faccia musica degna di questo nome?!»
D’un tratto una melodia familiare, uscita da sogni a cavallo degli anni ’70 e ’80 gli fece fermare la mano e distendere il sorriso.
«Ora sì.»
Si rilassò contro lo schienale muovendo a tempo il piede che era leggermente appoggiato sulla frizione, le dita tamburellavano sul bordo del volante e la sua testa teneva il ritmo.
«And here we go again, we know the start, we know the end. Masters of the sceeeene. We’ve done it all before and now we’re back to get some more. You know what I meeeeaaan!»
Non canticchiava da anni. Impossibile che avesse chiuso fuori anche una cosa così banale e quotidiana, a volte talmente scontata da farla senza nemmeno rendersene conto. C’era chi lo faceva sotto la doccia, mentre era supermercato, mentre guidava, appunto, ma lui non aveva avuto tempo. La testa persa in cose pratiche, concrete e imminenti.
Sorrise, scuotendo il capo.
Non vedeva l’ora di arrivare a casa e cominciare a recuperare quello che aveva stupidamente lasciato che gli passasse accanto, con indifferenza. Aveva un’improvvisa fame di conoscenza, di voglia di sapere; curioso, come quando da ragazzino perdeva le ore a studiare un edificio più particolare, un ponte, un tempio. Guardò il vaso con il rengyou lì accanto e mentre la radio continuava a domandargli quel ‘Vuoi? Vuoi?’, con insistenza e durezza, dentro di sé sembrava quasi voler ruggire quel: ‘sì, certo che voglio!’.
Agire senza rimpianti.
Riprendersi tutto ciò che aveva lasciato andare.
Riprendersi il tempo perduto.
Riprendersi Yuzo.
Fece scivolare l’auto nel cancello in maniera silenziosa.
La serranda del garage era chiusa e lui nemmeno l’aprì. Scese dall’Audi e la prima cosa che fece fu di liberare la bici dall’imbracatura che la teneva ancorata al tettuccio. A spalla la portò nel giardino dietro casa e l’appoggiò contro il muro dell’abitazione: le avrebbe dedicato tutte le attenzioni per rimetterla a nuovo.
Baiko annuì con un sorriso e si diresse nuovamente alla macchina. Con delicatezza prese il vaso che le aveva dato sua madre e si avviò all’ingresso. Le chiavi tintinnarono mentre le ripescava dalla tasca di quel paio di pantaloni terribilmente old-fashioned. Era un miracolo che gli entrassero ancora… un po’ risicati, aveva dovuto ammettere con un piglio infastidito – “Ho la pancetta? Quando l’ho messa?!” –, ma si era dovuto accontentare.
Entrò, l’odore di chiuso e estraneità lo investì facendogli storcere il naso. Doveva cominciare a trovare un punto di incontro con quella casa, con ogni stanza, ogni stipo. Scoprire quale fosse il posto di tutte le cose che gli stavano intorno. Doveva cominciare a viverla, perché voleva scrivere, in quelle mura, parte della sua storia.
Chiuse l’uscio sui propri passi, adagio, e appoggiò il vaso sul mobile accanto all’ingresso.
Baiko guardò le scale e stavolta fu la mente a muoversi prima del corpo, proiettata già in cima, sul pianerottolo, ad aspettare che le ossa la seguissero trascinando pelle e muscoli. E quando furono di nuovo insieme, gli occhi si puntarono sulla porta chiusa della stanza di Yuzo.
La guardò a lungo, da quella distanza, prima di avvicinarsi, e anche quando l’ebbe a un passo rimase fermo per un breve ma intenso momento in cui sembrò raccogliere tutto il coraggio – quello vero – e tutta la determinazione. Afferrò la maniglia e l’odio, per la seconda volta, non lo respinse. Entrò e richiuse la porta in maniera decisa, ma senza sbatterla. L’accompagnò con precisione e rimase fermo lì, appoggiato con la schiena alla superficie.
L’aeroplano di legno occhieggiava sul davanzale in attesa di spiccare il volo e tutto il resto era rimasto invariato, come il senso di estraneità a quel mondo, ma stavolta non si sentiva spaesato o a disagio; non cadeva dalle nuvole, ma aveva accettato la realtà, l’aveva capita e fatta sua ed era pronto ad affrontarla.
Guardò il letto, il pallone al suolo, le foto attaccate al muro vicino alle medaglie, guardò la scrivania e tutto ciò che era rimasto abbandonato su di essa, guardò i libri, i cd ordinati, la console con i videogame.
«Noi avevamo cominciato bene ma ci siamo persi per strada» iniziò, lasciando la porta per avanzare di qualche passo. Baiko parlava alle mura, alla presenza di Yuzo che in quella stanza era rimasta appiccicata ovunque; quello era il capitolo di suo figlio nella biografia della casa. «So bene di avere la maggior parte della colpa e di non averti reso le cose facili, ma io… non sono disposto a gettare la spugna.» Raggiunse il davanzale, e sfiorò l’aeroplano, accennando un sorriso. «Noi siamo ancora in tempo. Io sono ancora in tempo per recuperare tutto quello che ho perso di te, delle tue conquiste e delle tue sconfitte. Questa volta farò anche l’impossibile per non sprecare un solo attimo, quindi, ricominciamo da capo…» si girò, appoggiandosi di spalle al davanzale e annuendo adagio. Negli occhi brillava una luce nuova e sulle labbra un sorriso sincero. «Ciao, Yuzo, sono papà… e voglio conoscerti meglio.»

 

“Voulez-vous? /
Vuoi?
Take it now or leave it /
Prendere o lasciare.
Now it’s all we get /
Ora è tutto ciò che abbiamo;
nothing promises, no regrets /
nessuna promessa né rimpianti.
Voulez-vous? /
Vuoi?
Ain’t no big decision /
Nessuna grande decisione;
you know what to do /
sai cosa fare
la question c’est voulez-vous /
la questione è: ‘vuoi’?.
Voulez-vous? /
Vuoi?

Abba - Voulez-vous?

 

*

“Today /
Oggi
there is nothing left to say /
non c’è niente da dire.

We all know that /
Tutti sappiamo
just a word can brake us into pieces /
come una sola parola possa romperci in pezzi
so as we cannot forget /
tanto da non poter dimenticare.

 

La mattina di Haruko iniziava alle sei.
Ma non si poteva dire che avesse veramente una fine. Diciamo che le sei era l’orario in cui si alzava dal letto, però era già sveglia da molto. A volte non sentiva nemmeno il bisogno di dormire perché tanto c’era Yuzo che dormiva anche per lei. Altre volte – la maggior parte – non ci riusciva. Semplicemente, chiudeva gli occhi e le immagini di quello che era accaduto le scorrevano dietro le palpebre serrate nemmeno fossero state gli schermi di un cinema.
Riusciva ad addormentarsi solo quando era davvero esausta. Crollava in un sonno senza sogni che considerava benedetto, ma alle sei la sveglia suonava di nuovo e lei tornava a essere parte della realtà. Una realtà che, giorno dopo giorno, si faceva più difficile da sopportare.
L’idea di perdere suo figlio la lacerava un po’ alla volta, in maniera continua come un filo di lana che veniva tirato lentamente; si vedevano le maglie saltare una ad una. Ma Haruko cercava di non pensarci e di concentrarsi solo sulle azioni stabilite che scandivano la giornata fino a che non raggiungeva l’ospedale.
Si alzava, preparava la colazione per Kyoshi, si lavava, si vestiva e usciva di casa alle sette. L’orario delle visite iniziava alle sette e mezza. Un quarto d’ora per arrivare in ospedale e un altro quarto d’ora d’attesa fuori dalla stanza fino a che l’infermiera non le diceva che poteva accomodarsi.
Allora, una volta dentro, accanto a Yuzo a tenergli la mano, il tempo si fermava, indifferente a tutto il mondo che restava fuori. Sarebbe potuta venire giù anche l’Apocalisse e lei non si sarebbe mossa. Mai. Per nessun motivo. Doveva restare a vegliare il suo sonno e ad aspettare che finalmente riaprisse gli occhi.
Suo padre le portava il pranzo che consumavano nella piccola saletta dalla quale poteva sempre controllare, attraverso i vetri, che suo figlio stesse bene. La veglia e l’isolamento riprendevano dopo pranzo, anche se non si interrompevano mai davvero, fino a che, alle diciotto, non suonava il ‘gong’. Il suo orario di visite terminava e non perché lo volesse, ma perché sapeva che a quell’ora giungeva Baiko.
Anche lui era un abitudinario, rispettava sempre gli orari, quindi alle diciotto precise avrebbe fatto la sua comparsa oltre le porte dell’ascensore. Per questo lei lasciava la stanza cinque minuti prima.
Non voleva incontrarlo. Non voleva vederlo. Non voleva nemmeno ascoltarlo.
Nessuna delle sue giustificazioni, nessuno dei suoi ‘mi dispiace’ – qualora si fosse degnato di dirne uno – sarebbero mai bastati per perdonarlo di quello che aveva fatto, di aver messo suo figlio con le spalle al muro, di averlo portato a un simile livello di esasperazione, di aver distrutto i suoi sogni e la loro famiglia. Di averlo lasciato lì, in bilico, con l’ansia di sapere che sarebbe bastato un niente per farlo cadere.
Per sempre.
E lei non voleva.
Anche quel giorno, Haruko si alzò alle sei e alle sette fu fuori di casa. Alle sette e un quarto si sedette nella sedia in plastica davanti alla stanza e alle sette e mezza l’infermiera le disse che poteva accomodarsi.
«Oggi è una bella giornata.» Aveva il sorriso sulle labbra, mentre apriva le tende affinché nella camera entrasse la tenue luce del sole nascente. «Gli esperti parlavano di trentaquattro gradi. Meno male che qui dentro si sta freschi, vero?»
Haruko raggiunse il letto e si accomodò nella sedia lì accanto. Come ogni giorno, cercò  la mano di suo figlio e la prese tra le sue. Quella di Yuzo era molto più grande, con dita lunghe non troppo ossute. Ormai la conosceva a memoria per tutto il tempo in cui restava a carezzarla con amore.
«Il nonno ha detto che passerà nel pomeriggio per venirti a salutare. Sai, aveva un po’ di lavoretti da fare. Mi sta sostituendo nelle faccende domestiche. Dovresti vederlo, è un bravo casalingo» ridacchiò, guardando gli occhi chiusi di suo figlio.
Lei non aveva tempo né voglia di occuparsi di altro se non di Yuzo, anche se a conti fatti non doveva fare nulla oltre restargli vicino, ed era su quello, ormai, che aveva costruito tutta la sua giornata: sulle attese. Aspettava di vedergli aprire gli occhi e la speranza non abbandonava il suo viso, perché senza di essa non avrebbe avuto nient’altro a tenerla in piedi, a farla svegliare ogni giorno, a farle buttar giù un pasto frugale. Senza la speranza, Haruko si sarebbe consumata, immobile. Il tempo non avrebbe avuto più un senso perché non ci sarebbe stata l’attesa di un miracolo a scandire i secondi.
Senza la speranza, sarebbe morta in maniera lenta e inesorabile.

 

“Leather, covers, broken glasses, playing music and the /
Pelle, coperte, vetri rotti, musica che suona e
rain, airplanes, morbid phrases turning into dust /
pioggia, aeroplani, frasi morbose che diventano polvere.

Spinning around, swimming, jumping /
Spingendo, nuotando, saltando
in a world of sounds /
in un mondo di suoni
you are always in my favourite dreams /
sei sempre nei miei sogni migliori
lovely, tender and proud /
amabile, tenero e orgoglioso.
You may be /
Potresti essere
running around searching, looking for something /
alla ricerca di qualcosa
to find while I’m still here waiting for you /
da trovare mentre io continuo a rimanere qui ad aspettarti.
Do you see me at all my sweet love? /
Puoi vedermi mio dolce amore?

L’AuraToday

 

*

 

“You say ‘yes’, I say ‘no’ /
Tu dici ‘sì’, io dico ‘no’.
You say ‘stop’ and I say ‘go go go’ /
Tu dici ‘fermati’ e io dico ‘andiamo, andiamo, andiamo’.

 

Kyoshi lasciò il supermercato che erano le cinque passate da un po’.
Una volta fuori, mise mano al foglietto su cui aveva annotato tutte le commissioni da fare. Con gioia scoprì di aver finito e che quindi poteva andare all’ospedale da suo nipote. In cuor suo sperava ardentemente ci fossero novità, ma visto che non aveva ricevuto nessuna notizia da Haruko si rassegnò all’idea di trovarsi alla fine di una giornata come le altre.
Prima di andare da Yuzo, però, sarebbe passato da Baiko.
Era davvero molto preoccupato per lui. Le ultime volte che lo aveva incrociato all’ospedale lo aveva visto ancora perduto, come una barca alla deriva, vele sgonfie, abbandonata dal vento. Voleva accertarsi che stesse bene, per quanto bene fosse un termine davvero relativo nel suo caso.
A passo lento si incamminò in direzione della villetta che non era troppo lontana dal supermercato. In quel momento, sentì il cellulare agitarsi nel taschino della camicia e lui inforcò gli occhialetti che aveva appesi al collo per leggere sul display.
Era Chiyo.
All’insaputa di Baiko, alla fine, le aveva detto tutto e la donna non aveva fatto passare giorno senza telefonargli per avere informazioni.
«Obaa-chan(1)» rispose l’uomo in tono scherzoso.
«Buonasera a te, ojii-chan(2)
Gli sembrò che fosse di buon umore.
«Come stai?»
«Ah, beh, a parte la solita anca malmessa, non posso lamentarmi. Tu, Kyoshi, tutto bene? Come sta Yuzo?»
L’uomo si fermò all’attraversamento pedonale oltre il quale vi era il quartiere residenziale dove viveva suo nipote.
«Non sono ancora andato in ospedale. Ho appena fatto un po’ di spesa. Però credo non ci siano novità. Haruko non mi ha fatto sapere nulla.»
Sentì Chiyo sospirare pesantemente all’altro lato. «Sì, capisco.»
Anche lui mantenne un tono grave per quanto avesse tentato di stemperarlo.
«Stavo andando da Baiko. Volevo vedere come stava.»
Diversamente da quanto si sarebbe aspettato, la donna gli parlò con tranquillità e anche allegria.
«Oh, non preoccuparti per lui. Ora sta bene.»
Kyoshi si fermò all’altra parte dell’attraversamento, visibilmente stupito.
«In che senso? E’ successo qualcosa?»
«Oggi è venuto qui, a casa, per parlarmi di quello che è accaduto.»
E già questo gli fece distendere un largo sorriso, che rimase nascosto sotto i baffi e la barba. Era stato sicuro che l’avrebbe fatto, che avrebbe preso il coraggio e sarebbe andato da lei per dirle la verità.
«Quando me lo sono trovato davanti, ho visto in lui un uomo che aveva appena toccato il fondo, proprio come mi avevi detto, ma… che non era più così distaccato verso gli eventi. Forse aveva già cominciato a risalire.»
Kyoshi sospirò sollevato, riprendendo a camminare nel calore più tiepido e sopportabile del pomeriggio.
«Allora posso dire di aver avuto ugualmente una buona notizia, oggi.»
«Oh, ma non è tutto» rise Chiyo. «Abbiamo parlato un po’ e poi… di colpo ha preso la bici ed è uscito per fare un giro. Ha trovato i suoi vecchi amici, ha giocato a baseball…»
Mentre lei parlava, Kyoshi sorrideva divertito e sollevato. Baiko aveva rotto il guscio, aveva trovato la forza di alzare la testa e tornare a essere vivo.

«Sagara-san, vorrei chiedervi il permesso di poter frequentare vostra figlia Haruko.»
«Tu… se non sbaglio sei il figlio di Shuzo Morisaki.»
«Sì, signore.»
«E non pensi che sia un po’ presto per simili formalità? Hai solo sedici anni…»
«Beh, visto e considerato che non cambierò idea, perché aspettare?»

«Quando è andato via aveva l’aria di chi sapeva esattamente cosa doveva fare. Sono sicura che ora le cose andranno meglio.»
Kyoshi girò attorno a una casa, scorgendo finalmente la villa in lontananza. «Meno male. In tutti questi anni, era diventato sempre più chiuso e inflessibile. Finalmente possiamo sperare che tutto cambi.»
«E Haruko? Lei come sta?»
Il sospiro che emise fu già una chiara risposta per Chiyo.
«E’ molto stanca. Passa tutto il giorno all’ospedale e quando è a casa non fa che aspettare l’arrivo del nuovo giorno per poter tornare da Yuzo. Le manca il sostegno di Baiko, ma al tempo stesso non vuole nemmeno sentirlo nominare. Ogni volta che ci provo si infuria.»
«Anche questo cambierà, ojii-chan, dobbiamo pazientare.»
«Lo spero» emise un sonoro sbuffo, lisciando la barba candida. «Se solo riuscissero a parlare, forse qualcosa, adesso, si smuoverebbe. Anche se temo la reazione di Haruko. L’ultima volta che si sono trovati faccia a faccia è stato straziante.»
«Kyoshi, l’incidente era appena avvenuto; Haruko era piena di rabbia e dolore, mentre Baiko era smarrito e senza certezze. Avevano bisogno di tempo.»
L’uomo si fermò sul limitare del perimetro della villetta. Appoggiò la busta al suolo e mise via gli occhialetti.
«Forse hai ragione tu. E alla fine a noi non resta che rimanere in disparte.»
«Già e poi sono grandi e vaccinati mentre noi siamo dei vecchietti. Tutto ciò di cui dobbiamo occuparci è del nostro nipotino. I nonni servono a questo.»
Alla risata di Chiyo si unì la sua.
«Va bene, obaa-chan. Ti terrò informata.» salutò Kyoshi e Chiyo, prima di chiudere, gli raccomandò ancora una volta di stare tranquillo perché l’onda di marea stava cominciando a ritirarsi e i granchi sarebbero di nuovo spuntati da sotto la sabbia.
L’uomo ripose il telefono nel taschino, afferrò la busta della spesa e avanzò. Arrivato davanti al cancello fece per bussare, ma il suono di una musica lo fermò che aveva quasi il dito sul tasto del citofono.
Kyoshi allungò il collo per scorgere tra le sbarre della cancellata ma sembrava tutto tranquillo e non vi erano finestre aperte, sulla facciata anteriore. Camminò lungo il perimetro, seguendo quelli che gli sembravano i Beatles. Col naso all’insù si fermò al confine con la villetta limitrofa osservando il lato dove affacciava la stanza di Yuzo ed era proprio da lì, dalla finestra aperta, che arrivava la musica; da quella stanza, che era l’ingresso al mondo di suo nipote di cui Baiko non aveva mai fatto parte. Varcare quella soglia, entrare nel suo rifugio, era come fare un passo avanti per poterlo finalmente raggiungere, quel mondo, e Baiko ne aveva ancora di passi sulla sua strada.
Kyoshi sorrise. Sì, non c’era davvero più motivo di preoccuparsi per lui.
Lentamente tornò indietro, dirigendosi alla fermata del bus che lo avrebbe portato all’ospedale.

 

“I say ‘high’, you say ‘low’ /
Io dico ‘alto’, tu dici ‘basso’.
You say ‘why?’ and I say ‘I don't know’ /
Tu dici ‘perché?’ e io dico ‘non lo so’.

 

La sorpresa della scoperta gli scavò dentro, rimestandogli le viscere come zolle di terra prima di un rinvaso: mescolavano, rendevano omogeneo, pronto per accogliere la pianta e favorirne la crescita; un nido.
E quello che stava scoprendo gli aveva tracciato un sorriso sempre più ampio e incredulo.
Baiko era partito dalla musica, anche se aveva desiderato avere mille occhi e mille mani per vedere e toccare contemporaneamente in ogni parte di quella stanza. Aveva preso a scorrere col dito la fila di cd ordinati su una piccola mensola posta sopra la scrivania, parlando da solo, parlando agli oggetti. Parlando a Yuzo, alla sua presenza rimasta nella camera e dentro di lui: forse l’avrebbe sentito.
Era rimasto felicemente sorpreso nello scorgere, tra nomi e titoli a lui sconosciuti – i Nirvache? –, ‘Imagine’ di John Lennon.
«Album fantastico, quello!»
Ma quando, subito accanto, erano spuntate le raccolte dei Beatles si era scoperto emozionato: avevano qualcosa in comune. Qualcosa di recente e non affondato in ricordi passati. Qualcosa di tangibile e concreto.
L’emozione aveva raggiunto gli occhi quando si era trovato davanti a David Bowie.
«E’ incredibile…» aveva bofonchiato prendendo uno dei cd e guardando la copertina che si vedeva essere stata usata, aperta e sfogliata chissà quante volte. «…io questo ce l’ho in vinile!»
Non aveva saputo se ridere o piangere e nel dubbio aveva fatto entrambe le cose senza sentirsi un cretino.
«Se sapessi che piacciono anche a me, forse prenderesti a odiarli.» Ma diversamente da quello che aveva creduto quando si trovava a Suruga-ku, si era reso conto che no, Yuzo non l’avrebbe fatto. L’infantile di famiglia era lui e per fortuna suo figlio aveva preso da Haruko.
Con decisione aveva afferrato una delle raccolte dei Beatles e aveva acceso il portatile di Yuzo.
Nessuna password.
Il ragazzo sapeva che tanto loro non avrebbero messo mano nelle sue cose e quindi non aveva motivo di nascondersi. Baiko aveva sospirato: chissà se sarebbe stato ancora dello stesso parere.
Come sfondo del desktop, l’uomo si era trovato davanti la foto di diploma di suo figlio e dei suoi amici.
In quel momento s’era ricordato di non avergli detto nessuna parola affettuosa o di incoraggiamento, nessun complimento. Anzi. Era stato convinto che così l’avrebbe spronato a dare sempre il massimo, a spingere fino in fondo. E invece non aveva fatto altro che distruggerlo. Colpo di scure, l’albero cade.
Aveva osservato i volti sorridenti di ragazzi e ragazze a lui sconosciuti.
O forse no.
Forse avevano iniziato a divenire già più familiari nel momento in cui era rimasto a guardarli uno per uno.
Aveva riconosciuto il ragazzo con i ricci. Quello con i denti a coniglio. Il ragazzo alto e spesso che aveva consolato la ragazza con i capelli corti all’uscita dall’ospedale. La ragazza stessa.
Aveva riconosciuto Mamoru.
Circondava con un braccio il collo di suo figlio sollevando il diploma e sorridendo in camera. Yuzo faceva altrettanto: diploma al cielo, felicità nelle labbra che non celavano i denti e si era ritrovato a sorridere anche lui, di riflesso, come fosse stato il fotografo dietro l’obiettivo.
Aveva fatto partire il cd e la musica s’era diffusa in tutta la stanza affinché scacciasse il silenzio delle cose.
Poi era passato ai libri.
Si era ricordato che Yuzo gli aveva detto di stare studiando, ma non Economia.
Aveva guardato i volumi aperti sulla scrivania ma quando aveva letto ‘Letteratura Straniera’, ‘Storia della Letteratura Giapponese’ aveva iniziato a urlare, portandosi le mani nei capelli.
«Ommioddio! Un intellettualoide!»
Quella era stata l’ultima cosa che si sarebbe aspettato da Yuzo: gli piaceva la letteratura, la parola scritta. Aveva sollevato lo sguardo ai libri che occupavano l’intera scaffalatura osservandoli con occhi diversi e cominciando a capire perché ce ne fossero così tanti, in particolare stranieri, riscoprendo un altro elemento che li vedeva più vicini: entrambi peccavano di spirito nazionalistico, anche se Yuzo un po’ meno di lui, e non ascoltavano musica giapponese.
Baiko era avanzato nei pressi della libreria, aveva sfiorato le costine dei volumi che erano passati nelle mani di suo figlio e in quel momento un’idea gli aveva attraversato la mente: avrebbe potuto leggergli qualcosa. Non lo faceva da un tempo che risaliva alla coperta con l’Arcadia e ai peluche. Di solito era sempre stata Haruko a leggergli le favole prima di dormire, lui preferiva ascoltare.
Baiko aveva guardato il letto, sul quale si erano materializzati tutti e tre.
C’era sua moglie che leggeva, mimando con la voce e cambiando le intonazioni a seconda dei personaggi.
C’era lui che restava all’altro capo del letto.
C’era Yuzo che, sdraiato al centro, tra loro due, ascoltava con gli occhioni spalancati, attenti, per non perdersi nemmeno una parola.
Il suo amore per le storie esisteva già allora, come quello per il calcio, e lui aveva permesso che venisse seppellito da strade fasulle. Ma tutto poteva cambiare, anche quando sembrava impossibile, e se lui stava cambiando: perché non poter sperare di vedere cambiato anche tutto il resto? Sperare di vedere di nuovo gli occhi di suo figlio vigili e attenti, pronti per ascoltare una nuova storia? Una storia come la loro, ad esempio, quella di un padre pentito e di un figlio addormentato. Il finale l’avrebbero potuto inventare assieme.
L’immagine di loro tre si era dissolta e lui aveva indugiato, davanti alla libreria, cercando la copertina più consunta, che sapeva di vissuto e che, quindi, Yuzo doveva aver amato particolarmente, e gli era parso che fosse proprio quella con il bordo blu e giallo chiaro; quella col disegno di un veliero.
Baiko aveva preso il volume e l’aveva rigirato tra le mani, prima di iniziare a sfogliarlo. Post-it e bigliettini erano fermi tra le pagine e alcuni passaggi erano stati sottolineati, come se avessero avuto un qualche significato particolare. Lui aveva sorriso e l’aveva messo da parte, appoggiandolo sulla scrivania, accanto al computer.
Si era poi guardato intorno e l’angolo dedicato ai premi calcistici aveva subito accalappiato i suoi occhi. Quello sport, che era stato l’inizio del loro dividersi, adesso era lì a dirgli di avvicinarsi, di conoscerlo meglio perché apparteneva a suo figlio e non poteva rifuggirlo.
Baiko si era fatto dappresso con le mani nelle tasche, sporgendo il viso per leggere le scritte sull’oro di quei dobloni ornati da lunghi nastri.
Campione nazionale. Campione del mondo under sedici. Campione del mondo under venti.
Aveva sentito la pelle delle braccia incresparsi in un brivido che gli era corso lungo tutta la schiena. Un brivido che aveva riconosciuto essere di orgoglio ed emozione per quei riconoscimenti. Attorno, foto delle formazioni, da quelle scolastiche alle varie nazionali, e altri scatti nei momenti più disparati, attimi delle partite, attimi di relax. Sguardo serio, concentrato, oppure sorrisi che nascevano dal cuore e sembravano gridargli la gioia che provava in quello che faceva, nello stare in campo a pestare l’erba rada come fosse l’unico mondo in cui avrebbe potuto vivere.
«Ti rivedrò sorridere così.»
E non era stata un’ipotesi o una domanda a una fotografia immobile, quanto un’affermazione, una certezza. Lui avrebbe visto Yuzo sorridere ancora perché aveva speranza e non era troppo tardi. Perché aveva smesso di credere che lo fosse.
Nell’ultimo ripiano in basso, Baiko aveva afferrato degli album fotografici un po’ più vecchi, visto che ormai i rullini non si usavano praticamente quasi più, e si era diretto alla finestra dove stava tutt’ora.
Seduto sul davanzale, con la musica che scivolava dal computer, sfogliava attimi di felicità.
«Santo cielo, quanto è pagliaccio questo tuo amico?!» sbottò a un tratto guardando l’ennesima foto in cui Ryo Ishizaki faceva le smorfie. «Sembra una scimmia!» e si mise a ridere da solo. Poi altri ragazzi che avevano indossato la maglia della squadra scolastica e quella della nazionale assieme a Yuzo; tanti piccoli campioni aveva il Liceo Nankatsu, accidenti. Quello con i ricci era impegnato in una gara assieme a quello con i denti sporgenti a chi mangiava più ramen; le bocche piene e le bacchette che tiravano via altri spaghetti dalle ciotole. Il gigantone si lanciava in piscina sorprendendo le ragazze, ferme sul bordo, con gli spruzzi. Suo figlio e una delle manager impegnati in chissà che lavoro tra fogli di carta, colori e colla.
«Siete davvero un bel gruppo. Anche io ne avevo uno così, te ne dovrò parlare.» ridacchiò girando pagina dove altre foto, altri sorrisi e altre smorfie scorsero davanti ai suoi occhi. Le labbra avevano assunto di nuovo una piega affettuosa.
«Loro vengono spesso a trovarti, lo sai? Ti vogliono bene» disse, ripensando alle volte che li aveva incrociati anche se loro ignoravano chi fosse. Gli unici a sapere che lui era il padre-mostro erano Mamoru, quello con i ricci e quello con i denti sporgenti, di cui aveva addirittura imparato i nomi: Teppei e Hajime. Stava diventando bravo.
«E senti… ma c’è la tua ragazza tra queste? No perché non ci credo proprio che non ne hai una. Un bel giovanotto, sportivo, campione del mondo: devi avere la ragazza. Che cavolo, sei mio figlio!»
Le uniche donne che comparivano con maggiore frequenza negli scatti erano le tre manager della squadra di calcio, ed erano davvero graziose. In particolare, quella che sembrava essere la più piccola aveva sempre un sorriso solare, scherzava con tutti e spesso lei e Yuzo erano ritratti assieme.
«Sarà mica questa qui? Se fosse è davvero carina.» Ma non ne aveva la certezza, anche perché in nessuno scatto erano da soli. Di solito c’erano sempre gli altri compagni, soprattutto Mamoru. Baiko pensò solo in quel momento che il ragazzo potesse essere non un amico qualunque, ma il miglior amico di suo figlio. Prima non ci aveva fatto caso, ma il giovane gli era accanto quasi il novanta per cento delle volte. Anche nelle foto in cui c’era la ragazza graziosa. Ragazza che Yuzo non sembrava osservare con lo sguardo da innamorato. Perché le persone che si amano si guardano in maniera diversa, come se si accarezzassero con gli occhi quando le mani non possono farlo. Le iridi cercano le parole che la bocca non dice scavando nello sguardo. E ridono in maniera diversa, gli innamorati, tra loro, come se non ci fosse un domani, come se l’altro debba ricevere solo i sorrisi migliori.
Lui lo conosceva bene, perché ci era passato con Haruko, sapeva cosa fosse l’amore. Era mostrare la stessa espressione pur facendola apparire totalmente diversa perché dipendeva dalla persona cui era rivolta.
Ecco, proprio come Yuzo guardava…
Guardava…
Baiko ebbe un sussulto e rizzò la schiena nemmeno gli avessero dato una scudisciata dritto nella spina dorsale.
Lo sguardo adorante che sembrava voler donare il mondo intero era proprio sotto i suoi occhi, c’era stato per tutto il tempo che aveva sfogliato quegli album e non se n’era mai accorto.
Svelto afferrò gli altri volumi, guardando, cercando, confrontando.
E tutto questo non fece altro che confermare la sua impressione.
Proprio come Yuzo guardava Mamoru.
«Oh.»
Sbottò, allarmato e con il volto in fiamme.
«Oh! Oh! Oh!»
Baiko richiuse subito tutto facendo mente locale e tentando di capire quello che aveva appena scoperto. Si passò una mano nei capelli e l’altra al fianco, camminando per la stanza con gli occhi spalancati. La mano coprì il volto e poi si tuffò di nuovo tra i capelli. Girò in tondo e infine si fermò davanti alla scrivania.
«Ok, ho visto troppo!» rise nervosamente. Un troppo che non aveva sospettato. Ma proprio per niente. «Ne… ne riparliamo un’altra volta, vuoi?... niente panico… niente panico…» Girava sul posto come una trottola, mentre cercava di trovare il modo in cui poter, spudoramente, cambiare argomento. Si sentiva in imbarazzo nemmeno avesse avuto Yuzo di fronte, che glielo diceva a chiare lettere; che gli diceva che lui, in realtà…
«Ah! Ma vediamo cos’hai nell’armadio, come ti vesti! Non ne ho idea!»
Aprì le ante e, sul momento, non riuscì a vedere che forme e colori avessero gli abiti. Rivedeva il modo in cui Yuzo guardava Mamoru. Un modo complice, che era rivolto solo a lui e a nessun altro.
Non doveva pensarci, non era ancora pronto per farlo, per approfondire, per capire fino in fondo e comprendere le conseguenze che avrebbe comportato. Perché ci sarebbero state ed erano inevitabili.
Baiko sbatté velocemente le palpebre un paio di volte, sciogliendo quei sorrisi esclusivi nei colori dei jeans e pantaloni che aveva davanti. Camicie eleganti, altre più sportive. Jeans larghissimi che gli fecero inarcare un sopracciglio.
«Ma quanto cavolo è basso il cavallo di questi pantaloni?!» esclamò, guardando poi quello che lui stava indossando, rimediato tra i suoi abiti della giovinezza: perfetto stile anni ’70/’80. «Certo che la moda è proprio cambiata, eh.» Poi ripensò al suo guardaroba attuale; vide i completi in giacca e cravatta appesi alle grucce, colori grigi, scuri, sobri. E tutti uguali. Il suo rigore chiuso nella sfera. Accennò un sorriso sbilenco, tornando a guardare i jeans modello baggy(3) di Yuzo. «Credo proprio di dover andare a fare un po’ di shopping.» Richiuse adagio le ante dell’armadio e sospirò. «Se mi sentisse tua madre!»
L’occhio cercò le lancette sull’orologio da polso. Era ora di andare in ospedale e avrebbe dovuto cambiarsi per non sembrare un nostalgico dei figli dei fiori.
«Beh…» Adagio spense il computer e afferrò il libro che avrebbe portato con sé. I Beatles tacquero di colpo, mentre si dirigeva piano verso la porta. Con un’ultima lunga occhiata si guardò intorno, abbracciando quel mondo che ora gli sembrava un po’ meno straniero e sconosciuto. «…come prima volta non è andata male-male, non credi? Devo apprendere ancora un sacco di cose, ma… questa strada mi piace.» Sorrise, la mano sulla maniglia e il corpo già per metà fuori dalla stanza. «Ci vediamo tra poco, figliolo, e potremo parlare un po’ faccia a faccia.» Adagio si chiuse la porta alle spalle.
Le foto appese alla parete oscillarono leggermente alla piccola corrente d’aria, in un saluto frusciante.

 

“You say ‘goodbye’ and I say ‘hello’ /
Tu dici ‘addio’ e io dico ‘ciao’.
Hello, hello /
Ciao, ciao.
I don’t know why you say ‘goodbye’, I say ‘hello’ /
Non so perché tu dici ‘addio’, io dico ‘ciao’.

The BeatlesHello Goodbye

                                                                                                                                                                                    
*

“Everybody needs a little time away”, I heard her say, “from each other” /
“Tutti hanno bisogno di stare un po’ di tempo lontani”, l’ho sentita dire, “l’uno dall’altra.”
“Even lovers need a holyday far away from each other” /
“Anche gli innamorati hanno bisogno di una vacanza lontani l’uno dall’altra.”

 

La giornata era trascorsa uguale alle altre, spegnendo, assieme a ogni tramonto, le sue speranze quotidiane.
Haruko era rimasta sempre accanto a Yuzo, uscendo solo quando erano passate le infermiere per i controlli e quando erano venuti gli amici di suo figlio. Non trascorreva giorno senza che un gruppetto di loro non facesse un salto in ospedale.
Hajime e Teppei c’erano sempre, non avevano ancora iniziato i ritiri nelle rispettive squadre, mentre gli altri si alternavano. Mamoru, invece, faceva la spola tra Nankatsu e Yokohama: partiva la mattina per tornare la sera. Come terminava gli allenamenti, si metteva sul primo treno. Haruko se lo vedeva arrivare, armato di borsone, direttamente dalla stazione. Di solito preferiva presentarsi da solo, ma quando arrivava insieme agli altri se ne stava sempre più in disparte, con le braccia conserte a guardare oltre il vetro e a non spiccicare parola.
Haruko si era accorta di come parlasse solo quando erano da soli.
Mamoru era un bravo ragazzo ed era ferito, proprio come lei; lo vedeva, lo capiva, Yuzo lo avevano trovato insieme e Mamoru, anche se parlava poco o non lo dava a vedere, non se ne faceva capace.
Haruko capiva anche questo, nemmeno lei era in grado di accettarlo e così, semplicemente, ci passava sopra, concentrandosi solo sulla speranza del domani.
«Ho fatto prima possibile.»
Haruko si volse a incrociare lo sguardo di Kyoshi che era appena entrato nella camera.
«Ciao, papà.»
L’uomo appoggiò la busta vicino alla porta e avanzò, bianco anche lui nel bianco della stanza e delle lenzuola, per fare una carezza affettuosa al viso del nipote.
«E allora? Niente nemmeno oggi?»
Haruko scosse il capo; la mano di Yuzo ancora tra le sue.
Kyoshi si sedette al suo fianco, sforzandosi ugualmente di mostrarle un sorriso fiducioso. «Vedrai che domani andrà meglio.»
Una nota affranta sfuggì al sospiro di Haruko. Lo sguardo di nuovo al figlio. «Sì, domani. Quanti ancora ne dovrò aspettare?»
La donna avvertì il tocco gentile di suo padre attorno alle spalle. La scosse un po’ e nel folto della sua barba, ora candida, lei aveva sempre saputo trovare tutti i sorrisi del mondo.
«Lo so che è difficile, ma non possiamo fare altro. Non arrendiamoci.»
Haruko annuì, dando una veloce occhiata all’orologio. Mancavano dieci minuti alle sei e ogni volta l’idea di doversi separare da Yuzo le spezzava il cuore in due.
«Ho parlato con Chiyo, prima. Ha detto che Baiko-»
«Non voglio saperlo.»
Il tono era cambiato in un attimo, divenendo gelido. Haruko si era irrigidita. Con un gesto deciso e incollerito si liberò dall’abbraccio di suo padre.
Quest’ultimo non demorse, aggrottando le sopracciglia.
«Haruko, è tuo marito. Non potrai evitarlo per sempre.»
«Non mi interessa!» la donna s’alzò in piedi, allontanando malamente la sedia che strisciò sul pavimento. «E’ per colpa sua se mio figlio è in queste condizioni, lo capisci? È per colpa sua se rischio di perderlo per sempre! Non devi nominarmelo! Non voglio!» Animata dalla fretta afferrò la borsa e lasciò la stanza senza dare modo a Kyoshi di fermarla o replicare, tanto non l’avrebbe ascoltato.
Baiko le aveva fatto troppo male in un solo momento e anche se le loro strade, le loro vite si erano incrociate più di trent’anni prima non poteva perdonarlo, non ci riusciva.
Non voleva incontrarlo. Non voleva vederlo. Non voleva nemmeno ascoltarlo.
Eppure…
Eppure quando al mattino si svegliava, quando restava ore e ore accanto a Yuzo, quando la sera non riusciva a dormire per la paura di veder vanificare le attese e svanire le speranze… era la sua mano sulla spalla, che desiderava di avvertire. Quella mano grande e dalle dita lunghe, non troppo ossute.
Voleva percepire il tono sicuro della sua voce che le diceva che sarebbe andato tutto bene.
E potergli credere.
Haruko bofonchiò stizzita e con gli occhi leggermente lucidi davanti alle porte chiuse dell’ascensore occupato. Non aveva voglia di aspettare; se si fosse fermata si sarebbe messa a piangere, lo sapeva, così s’avviò per le scale, scendendole velocemente, lo sguardo fisso a terra, la testa persa in mille pensieri.
Urtò qualcuno e per poco non perse l’equilibrio, ma venne afferrata per un braccio, in modo che non cadesse.
«Ah! Mi dispiace…»
«No, colpa mia. Non guardavo dove-»
Riconobbe la sua voce all’istante, sollevando lo sguardo. In quello di Baiko lesse la stessa sorpresa e smarrimento, come se entrambi non fossero stati preparati a trovarsi di nuovo l’uno di fronte all’altra.
Nei brevi istanti in cui rimasero a fissarsi senza dire nulla, ad Haruko non sfuggì nessuno dei suoi cambiamenti. Perché era cambiato, Baiko, per lei non c’erano dubbi, le era bastata un’occhiata. Ventidue anni di matrimonio sapevano insegnare più di quanto ci si poteva immaginare, senza nemmeno rendersene conto. Nei suoi occhi non lesse più la severità cui aveva finito per abituarsi, non c’era distacco, c’era timore – forse nei suoi confronti – c’erano calore e vita… qualcosa di nuovo e vecchio al tempo stesso, qualcosa che era già appartenuto al suo sguardo e poi era scomparso. Qualcosa che le fece desiderare ancora, più di prima il suo tocco, il suo sostegno. Ma c’era anche il rancore, questa volta dentro di lei, e non avrebbe ceduto il passo tanto facilmente.
Quando Baiko fece per parlare, Haruko si liberò dalla sua presa con uno strattone deciso. Le sopracciglia si aggrottarono sullo sguardo risentito, mentre l’altro rimaneva in silenzio. L’intento di dirle qualcosa frenato di colpo, dietro il suo gesto.
Haruko gli rivolse un’ultima occhiata feroce e ricominciò a scendere le scale.
Baiko la guardò, fissò la sua schiena allontanarsi svelta. Come aveva creduto, lei non voleva nemmeno che lo toccasse e il suo odio, com’era accaduto quando aveva tentato di entrare nella stanza di Yuzo, aveva assunto una consistenza tale da avvolgerla come un mantello. Ma lui si era ripromesso che non avrebbe più rifuggito gli ostacoli, a costo di sfracellarcisi contro, a costo di distruggerli a mani nude sarebbero tornati a essere null’altro che fragile sabbia.
Le corse dietro, raggiungendola sul pianerottolo. Rapidamente poggiò il vaso sul davanzale della grande finestra che illuminava quella parte di scale e le afferrò il braccio, impedendole di fuggire.
«Aspetta, Haruko-»
«Non voglio ascoltarti!»
«Fammi almeno parlare…»
Haruko lo trafisse con lo stesso sguardo che gli aveva rivolto l’ultima volta che si erano trovati di fronte. «Ah, vuoi parlare? Adesso vuoi parlare? Sai quante volte Yuzo avrebbe voluto farlo con te ma non ti è mai importato nulla?! Lo sai?! Bene, allora vai a parlare con tuo figlio, ora, e senti che cosa si prova perché lui non ti risponderà, hai capito? Non ti risponderà…» l’odio si sciolse nelle lacrime che le riempirono gli occhi e nelle labbra strette, tremanti.
Baiko non nascose il dolore per quelle parole né la consapevolezza di quanto fossero vere. Sapeva che avrebbe parlato al vento, che Yuzo non gli avrebbe detto nulla, forse non l’avrebbe nemmeno sentito, ma lui voleva almeno sperare che in un modo o nell’altro le sue parole riuscissero a raggiungerlo, ovunque si fosse trovato, e fargli compagnia.
«Non risponde nemmeno a me… io gli parlo, ma lui… lui…»
Haruko si coprì la bocca con la mano per trattenere un singhiozzo mentre le lacrime venivano giù implacabili. Anche per quello non avrebbe voluto parlare con lui, perché dopo la rabbia sarebbe crollata.
La stretta di Baiko al suo braccio si fece più dolce e leggera, si diramò lungo la schiena e si fece abbraccio, solido, protettivo, accogliente. Il suo petto divenne il rifugio in cui fin dall’incidente avrebbe voluto rinchiudersi, trovando sostegno in quel profumo familiare.
Si aggrappò alla sua camicia, priva dell’ordine imposto dalla cravatta e dall’austerità della giacca e pianse tra astio e dolore, odio e amore. Perché per quanto egli fosse la causa, solo lì, nascosta dentro di lui, riusciva a trovare tutta la speranza di cui aveva bisogno per affrontare le attese.
«Lo so.»
Baiko appoggiò le labbra sui suoi capelli. Le mani scivolavano lungo la schiena di Haruko, cullavano. «Non sono stato un buon padre in questi anni ed è ingiusto che ora anche tu stia pagando per i miei errori. E lo so… lo so che Yuzo non mi risponderà ma io gli parlerò lo stesso, davvero. Gli parlerò…» chiuse gli occhi, respirando il suo profumo. «E aspetterò il suo risveglio.»
Haruko si passò alla buona la mano sugli occhi allontanandosi da lui di qualche passo, l’abbraccio ormai sciolto. Lo guardò negli occhi, stringendo il manico della borsa.
«Avresti… avresti dovuto farlo quando ne avevi l’occasione, quando non era tardi e adesso… io non posso perdonarti, non posso… non ci riesco…»
Odio e amore.
Baiko accennò un sorriso sincero. «So anche questo e non ti chiederò di farlo.»
Lei titubò, guardandolo attentamente. «Stai… imparando a vivere senza di me?»
«Detta così, suona quasi come se non dovessi più-» si interruppe all’improvviso, come se fosse la cosa più naturale da fare.
Come se non dovessi più tornare a casa.
Forse perché negli occhi di Haruko lesse uno sguardo che non smentiva tale ipotesi, uno sguardo che non sapeva come dare il colpo di grazia alla bestia in agonia. E la bestia era lui, lo era sempre stato.
Sospirò, il sorriso si fece mesto, ferito in maniera talmente evidente anche se Baiko fece di tutto per nasconderlo.
«…siamo già a questo punto?» abbassò lo sguardo al suolo e si passò lentamente una mano dietro la nuca. Non poteva pensare di poter perdere anche lei. La vita stava diventando troppo crudele nella sua vendetta.
Haruko si toccò nervosamente l’orecchino. «Non lo so a che punto siamo né so a che punto voglio arrivare…» ci aveva pensato in quei giorni, nei momenti in cui il silenzio cadeva nella stanza di Yuzo o quando la notte non riusciva a prendere sonno. Se il suo odio era tanto forte, non importava quanto fosse l’amore: insieme non potevano restare, non avrebbe avuto senso. Se Yuzo fosse morto o rimasto addormentato per sempre, avrebbero finito col rinfacciarsi di tutto,
in maniera atroce, e lei non era pronta per poter sopportare altra sofferenza. «Forse è troppo tardi.»
Ma Baiko, a quelle parole, sollevò nuovamente il capo e sorrideva, questa volta con serenità. Allungò una mano per sfiorarle la guancia.
«Anche io credevo che lo fosse, per tutto. Ma qualcuno mi ha fatto capire che non è mai troppo tardi.» Nel profondo dei suoi occhi scuri, Haruko lesse fiducia. «Per questo vado a parlare con mio figlio.»
Un po’ titubante le si avvicinò per baciarle la fronte e lei non si ritrasse, ma chiuse leggermente gli occhi per concentrarsi solo sul tocco delle sue labbra.
Era da tanto che non avvertiva simile affetto nei suoi gesti. Da troppo erano divenuti meccanici, freddi. Ma adesso tutto sembrava essere tornato indietro, come se gli ultimi anni di piombo non fossero mai esistiti.
«Sappi che non mi arrenderò» disse infine Baiko, lasciandola andare. Ma nei suoi occhi, Haruko non lesse lo spirito di rivalsa e vendetta che era solito animare il suo animo combattivo, eppure era sicura, questo sì, che avrebbe fatto di tutto per tenerla con sé. Anche in quello, capì che Baiko era profondamente cambiato.
Haruko lo vide volgerle le spalle e avvicinarsi al davanzale della finestra per prendere un vaso. Pensò subito fosse una composizione di Chiyo. Poi lo vide allontanarsi lungo la scalinata. Lei non disse nulla, limitandosi a guardare ancora nella sua direzione prima di scendere le scale dalla parte opposta.
Odio e amore.

 

“And after all that's been said and done /
E dopo tutto quello che è stato detto e fatto
you're just a part of me I can't let go /
sei la parte di me che non posso lasciare andare”

 

Stringeva convulsamente il vaso perché era quanto di più reale gli fosse rimasto, al momento.
Mentre camminava per raggiungere la stanza di Yuzo, Baiko pensava all’irrealtà di quell’incontro inaspettato.
Gli era sembrato che tutto si saldasse e disfacesse contemporaneamente. Haruko gli aveva mostrato come il loro legame si fosse sfilacciato e stesse scomparendo. Ma lui l’aveva stretta tra le braccia, l’aveva consolata… come poteva pensare di perdere lei proprio adesso che era sulla strada per ritrovare suo figlio?
Divorzio.
La sola idea riusciva a farlo ridere per la sua assurdità, ma quest’ultima stava cominciando a diventare sempre più reale, tangibile. Temibile.
Baiko strinse il vaso ancora di più col rischio quasi di mandarlo in frantumi. Non avrebbe mollato, come per Yuzo avrebbe lottato per non perdere anche lei, perché insieme sarebbero dovuti tornare a essere la famiglia che un tempo, molto lontano, erano stati.
Si fermò di colpo prima di entrare nella stanza, prendendo un profondo respiro. Rilassò i muscoli, cercò di distendere i nervi, voleva essere tranquillo per parlare a Yuzo con calma.
Quando aprì la porta non si sorprese di trovare Kyoshi seduto su una sedia.
L’uomo si volse e dal viso un po’ preoccupato sembrava aspettarsi qualcun altro. Appena si accorse che era lui, distese un sorriso.
«Baiko. Sei arrivato prima del solito.»
L’interpellato notò solo allora che mancava qualche minuto alle sei.
«Buonasera, papà.»
«Oh, che bei fiori!»
Baiko sorrise, raggiungendo il mobile accanto al letto. «Sono un regalo di mia madre.» Poi si rivolse a Yuzo, facendo quello che Kyoshi non si sarebbe mai aspettato e che lo lasciò piacevolmente sorpreso. «Hai sentito, figliolo? Sono per te, da parte della nonna.» Baiko sorrideva mentre poggiava la composizione sul mobile. «Un bellissimo rengyou con l’augurio che tu possa andare a trovarla presto.»
Il sorriso di Kyoshi si addolcì da sotto i baffi folti. «E’ stato davvero un bel pensiero, sono sicuro che gli piacerebbe molto.»
«Sì, anch’io.» Baiko tolse la piccola borsa da netbook che pendeva da una spalla e la appoggiò alla spalliera della sedia accanto all’uomo, la stessa che pochi minuti prima era stata occupata da Haruko.
«Senti… per caso, mentre venivi qui, hai incontrato mia figlia? E' andata via giusto qualche minuto fa…»
Kyoshi l’aveva presa un po’ alla larga, ma Baiko comprese essere quello il motivo dello sguardo preoccupato appena era entrato. Ora che ci pensava, Haruko le era sembrata nervosa quando si erano scontrati sulle scale, ma poi la sorpresa di averla lì l’aveva distratto da tutto il resto. Inspirò a fondo, tendendo le labbra in una smorfia divertita che cercava di stemperare l’ansia per le sue parole.
«Sì. Ci siamo incontrati.»
«Oh...»
«Non mi ha preso a sberle come l’ultima volta, stai tranquillo papà.»
E la notizia fece effettivamente tirare un sospiro di sollievo all’uomo. «Potrei considerarlo un buon inizio. Che è successo?»
«Di certo non ha fatto i salti di gioia né vuole saperne di perdonarmi. Ci vuole tempo per queste cose…»
«Eh, è una gran testarda. Io ho tentato di parlare con lei e farla ragionare, ma-»
«Papà, davvero, non preoccuparti. Va tutto bene. Le cose si sistemeranno con calma, un po’ alla volta… bisogna saper aspettare.»
Kyoshi si lasciò sfuggire una breve risata. «Ultimamente sembra diventato sempre più difficile.»
«Lo so.»
Il padre di Haruko si alzò lentamente, sgranchendo adagio le ginocchia un po’ scricchiolanti. «Allora io vado. Nella fretta, mia figlia ha dimenticato la busta con la spesa.»
«Prenditi cura di lei, papà. Ci vediamo presto.»
«Certo, figliolo. Ciao, nipotino.»
Baiko rimase a fissare l’uscio che si chiudeva e la sua figura che scompariva oltre i vetri. Inspirò.
«Non biasimarmi se gli ho mentito. Il nonno si preoccupa già abbastanza, non mi andava di dargli altri pensieri.» Si volse di nuovo, gli occhi in direzione del viso di Yuzo, su quei tratti familiari in cui ritrovava parte delle linee del proprio volto e parte quelle di Haruko. Inclinò leggermente il capo. «E tu che dici? Riuscirò a tenerla stretta? A tenere stretto anche te?» ma la domanda rimase senza risposta, nemmeno un cenno minuscolo, un filo di speranza. Niente.
Baiko si alzò, quasi per istinto. Si avvicinò un po’ di più al letto, appoggiandosi al bordo sollevato. Osservò le palpebre chiuse, le labbra strette ma rilassate, l’espressione sopita e distesa. Le bende dell’operazione gli mettevano i brividi e lui non sapeva spiegarsi bene il perché; forse lo terrorizzava l’idea che gli avessero inciso la testa, l’osso, fino ad arrivare al cervello. Il solo pensiero che avessero toccato una parte così preziosa di suo figlio gli metteva angoscia e paura.
Sfiorò le bende in un gesto svelto e incerto. La mano si era mossa da sola e sembrava quasi avesse paura di essere più concreta. Ritentò, e il tocco divenne una carezza. Il palmo e le dita si poggiarono appena sulla fronte e poi seguirono la curva del cranio. Nemmeno si chiese da quanto tempo non toccasse suo figlio, da quanto non gli rivolgesse un gesto così affettuoso e gratuito. Non se lo chiese, perché la risposta avrebbe potuto spaventarlo e minare gravemente quella strana sicurezza che era riuscito a ricomporre.
Sorrise nel sentire il calore di Yuzo sotto le dita.
«La mamma ha ragione, fa davvero male non avere risposta, ma vedrò di abituarmi, in fondo, non posso fare altro. Chissà quante volte è toccato a te abituarti a una situazione odiosa, insopportabile.»
Tirando un profondo sospiro tornò a sedersi, assumendo un’aria più rilassata e un po’ complice. La negatività, i ricordi spiacevoli, le recriminazioni voleva lasciarsele alle spalle, pensare solo al buono che non aveva mai visto né cercato. Voleva costruire, non demolire.
«Allora, cominciamo col dire che è stata una giornata impegnativa e che da oggi si cambia. Si cambia tutto. Ti mostrerò un papà che non avresti minimamente sospettato e in cambio io cercherò di conoscere te, di capire cosa ho lasciato indietro e cosa sei diventato, mentre ero troppo impegnato a non vederti crescere. Per prima cosa: ho rovistato nella tua stanza!» Ridacchiò, sollevando le mani, come per difendersi. «Oh! Lo so che non si spia, ma avevo un bel po’ di notizie arretrate da recuperare, va bene? Chiamala ‘terapia d’urto’! Ho visto le tue foto, spulciato tra i libri… ascoltato i cd. Ti piacciono i Beatles, eh? Questo lo hai preso da me, ah-ah! È nella genetica. E Bowie… ti piace Bowie ed è più di quanto avessi mai sperato.» Il sorriso si addolcì, assumendo una sfumatura malinconica. «Mi… mi ha fatto uno strano effetto scoprire che abbiamo dei gusti in comune. È stato bello. Era continuità, da me a te, pur senza saperlo.» Baiko scosse il capo, cambiando posizione sulla sedia. «E cos’è ‘sta storia che sei un letterato, mh? Li ho visti i libri, avresti potuto dirmelo-… No, hai ragione, a che sarebbe servito? Tanto non ti avrei ascoltato.» Era difficile riuscire a controllare la negatività dei pensieri e della consapevolezza d’esser stato un padre orribile; ogni tanto salivano a galla e cercavano di afferrarlo, per farlo sprofondare di nuovo nello sconforto, nel rimorso. Ma lui stava imparando a non lasciarsi trascinare, a reagire. A combattere. Scrollò le spalle, mettendo mano alla borsa del netbook. «Ti ho portato una cosa. L’ho preso dalla tua libreria. Hai un sacco di volumi ma questo aveva segni e sottolineature… deve piacerti molto, così ho pensato di leggertelo. Lo so, la mamma era molto più brava di me, ma dovrai accontentarti del sottoscritto.» Baiko infilò gli occhiali da vista e sollevò il tomo, leggendo in tono solenne: «‘La grande Trilogia del Mare: Ai confini della Terra’, di William Golding.» Sfogliò le pagine adagio, sentendo il ruvido della carta sotto i polpastrelli e immaginando Yuzo fare altrettanto, magari con maggiore avidità di sapere. «Libro Primo: ‘Riti di Passaggio’. Capitolo Uno: ‘Riverito Padrino, con queste parole do inizio al diario che mi sono impegnato a tenere per voi…’»
Fuori dalla stanza, tra il muro e il vetro, un giovane con il borsone sulla spalla rimaneva, non visto, ad ascoltare le sue parole.

 

“Hold me now /
Abbracciami adesso.
It’s hard for me to say ‘I’m sorry’ /
È difficile per me dire ‘mi dispiace’.

ChicagoHard to say ‘I’m sorry’

 


[1]OBAA-CHAN, [2]OJII-CHAN: letteralmente ‘nonnina’ e ‘nonnino’. X3

[3]BAGGY: sono i jeans con il cavallo bassissimo. XD Molto alla rapper/hiphopper! *-* Io li amo! X3 Ce li ho, sono La Comodità.


Le auto de "Il lungo sonno della Lucciola":

- Audi A5: sono stata un po' indecisa tra la A6 e la A5. Volevo una bella berlina, elegante, da uomo d'affari. Alla fine ho scelto la A5 :3 (*clicca qui*)


Le canzoni del capitolo:

- Voulez-vous? (Abba): ma perché gli Abba sono gli Abba, andiamo! XD E ammetto che questa è la mia preferita tra le loro canzoni! *-* Ci voleva qualcosa di più grintoso, no?! X3

- Today (L’Aura): ammetto che Haruko è sempre avvolta da un’aura molto drama anche perché, insomma, credo sia normale nella sua situazione. E questa canzone calzava a pennello. Ammetto di averne visti due di video ispirati a “Today”; ho messo quello ufficiale perché mi sembrava il più adatto, però ci tenevo a linkarvi anche l’altro (*-* realizzato a Torino! E’ stato bello riconoscere i luoghi!): *cliccameeee, tanto tanto intenZamente* La cosa bella è che sono tutte fotografie, scattate e montate in modo da sembrare un video. :D io trovo che sia bellissimo!

- Hello Goodbye (The Beatles): X3 non potevo non mettere ancora i Beatlesini! HelloGoodbye fa riferimento all’inversione di ruoli in cui Baiko e Yuzo si sono ritrovati. Prima era Yuzo a cercare il dialogo e a ritrovarsi solo porte chiuse, adesso è tutto il contrario. Baiko dice ‘Hello’ e Yuzo risponde ‘Goodbye’ :3

- Hard to say ‘I’m sorry’ (Chicago): Anche qui non ho usato il video originale! XD Anche perché ammetto che questo mi piace di più *-* Adoro gli animaletti! Canzone adattissima al momento di ‘pausa’? ‘Riflessione’? Haruko l’ha buttata lì, per il resto chi lo sa.
Mi domando se vi siate mai accorti che Baiko non ha mai detto, fino ad ora, le due famosissime paroline magiche: “Mi dispiace” :3 Per una persona così orgogliosa, anche se consapevole dei propri errori, resta sempre molto difficile da dire. Ce la farà?



Ringraziando come sempre tutte le persone che continuano a seguire questa storia, volevo annunciarvi *parappapàààà* che i capitoli saranno 12 (conteggio definitivo XD). Il prossimo è quasi terminato e gli altri sono tutti in scrittura compulsiva, quindi, *-* penso (e lo dico piano piano!) che non ci saranno aggiornamenti rallentati! YAY per me! *w* (anzi, se finisco prima del previsto, vi troverete gli aggiornamenti accelerati! XDDD).

:D ci ritroviamo al prossimo capitolo!

   
 
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