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Autore: Queen of Superficial    28/06/2011    10 recensioni
Due pseudogroupies incasinate con le stanze da letto che comunicano tramite un palo dei pompieri. Un non più giovane frontman di una band nel pericoloso olimpo degli dei del rock. Una ragazza innamorata di un'idea, di un artigiano di sogni inconfessabili che poco ha a che fare con l'uomo reale. Una serie di assurdità in fila per due, con la partecipazione straordinaria di ricordi rock, di band nevrasteniche, di chitarre ipnotiche, di fatti di vita non vissuta ma senz'altro vivibile. Così, senza ipocrisia, in una spirale di violente emozioni sulle note di una Manson che creano un'improbabile, tenera, storia d'amore. La storia, tirata a lucido, di qualunque di voi.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Christopher Wolstenholme, Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per la giovane dottoressa Mitchell,
alle sue lapidi e ai suoi frozen yogurt.

 

 

Quando domani ci accorgeremo che non ritorna mai più niente,
ma finalmente accetteremo il fatto come una vittoria.”
(Viaggi e miraggi, Francesco De Gregori.)

 

Al numero tredici di Via dei Fiori Oscuri abitava Andrea O'Malley.
Un nome da mafia irlandese, facilmente fraintendibile: era una ragazza. La chiamavamo Ann.
Pioggia, fulmini e tempesta si abbattevano su Milano, costringendomi a zampettare sotto i balconi e le pensiline del tram. Avevo i pesci rossi nelle Vans.
“Complimenti per la scelta del giorno per farmi visita.”, mi disse, non appena mi vide fare irruzione dalla porta di casa sua, perennemente aperta. Stava china su un tavolo da disegno, affogando tra i bozzetti e gli schizzi: per parlarmi dovette sputare le due matite che aveva in bocca. Rimise il pennello nella custodia da tavolo, e si voltò a guardarmi.
“Cosa ci fai qui a Milano?”
“Hai un asciugamano?”, le domandai, gettando la giacca fradicia su un attaccapanni pericolante.
“Nel bagno.”, rispose, “Sai dov'è.”
Annuii, e saltando la variegata gamma di oggetti sparsi sul pavimento, mi avviai verso la seconda porta a destra.
La sua voce mi raggiunse fino a lì.
“Vuoi un caffè?”
“No, voglio sapere come stai.”
“Sto bene.”
“E ho una cosa per te.”
Tornai in salotto strofinandomi i capelli, e la trovai che sorrideva.
Quando le diedi una grossa busta, il suo sorriso perse un po' di luce.
“Ti aspettavi qualcos'altro?”, chiesi.
Si strinse nelle spalle, e scivolammo in un silenzio pesante.
Si rigirò la busta tra le mani: aveva l'aria di essere piena di fogli.
“Dì pure a Splinter che la chiamerò per tenerla aggiornata dei progressi.”, mi disse, poggiando la busta sul tavolo.
Esitò. “Matt ci tiene davvero.”
“Oh, per favore. Questa è l'ultima possibilità che gli do.”, sputai.
Mi sorrise, allungando una mano per accarezzarmi il lato del collo.
“Stai facendo molto, per lui.”
Scossi la testa, recuperando la giacca.
“Non per lui.”, risposi, seccamente. “Per Ria. Ci vediamo, Ann.”
“Jimmy!”, disse la sua voce, amplificata dalla tromba delle scale.
Mi voltai.
“Niente. Mi dispiace.”
Sospirai.
“Dispiace sempre a tutti quanti, quando ormai è tardi.”

 

I hope that I don't fall in love with you:
falling in love just makes me blue.”
(Tom Waits)

 

Una candela antifumo segnò il diametro della stanza andando a schiantarsi su un parossistico scendiletto a forma di goccia: sfiorò, sibilando, la spalla di mio cugino dormiente, il quale, avvertendo forse lo spostamento d'aria, aprì svogliatamente un occhio e lo puntò nella mia direzione. Me ne stavo acquattata in un metro quadro di bollori di rabbia, vicino alle tende drappeggiate giallo oro, in camera sua.
“Non farmi aprire gli occhi”, implorò, “Sto cercando di soffermarmi il meno possibile su questo osceno arredamento.”
C'è da dire che le occasionali fidanzate di mio cugino, ogni volta che venivano portate a casa sua, erano costrette a fare sesso con il beneplacito di dodici poster di Frank Zappa ammiccante in svariate angolazioni; senonché, pur essendo lui l'ultima persona in grado di giudicare un arredamento, quella volta aveva ragione. Il castello dove mia sorella si era prima sposata, quindi ci aveva trascinati a scopo di relax sfoggiava uno dei dieci tipi di mobilio peggiori al mondo.
Prima di ragguagliarvi sulla lettera che osservavo torva da sei ore e mezza senza osare aprirla, un paio di cenni biografici sulla relazione tra me e i metallari dell'ovest.
La mia parentela con Jimmy, oltre a cagionare l'assurdo pendolarismo Milano – Huntington Beach, mi aveva portato dagli zero ai ventuno anni tutto un ventaglio di bizzarrie genetiche che saltavano, come palle rimbalzine, tra me e mio cugino, e diventavano evidenti in un modo disturbante nei periodi di stress: allora, perso ogni contatto con la terraferma, ci lanciavamo in discettazioni filosofiche che sfociavano in mutui “vaffanculo”, in liti senza né capo né coda, in recriminazioni di fatti accaduti forse nel 1844. A quel punto, senza essere realmente arrabbiati l'uno con l'altra, lui solitamente si metteva a dormire e io mi sedevo a terra, trovando d'un tratto insopportabile il creato.
“Vuoi deciderti ad aprire quella maledetta lettera?”
“Senti, Mercurio. Quando io dico a qualcuno che ho bisogno di riflettere, generalmente è implicito che lo esento dal farsi presente in qualunque modo conosciuto alla civiltà, inclusi lettere, gufi, telegrammi e messaggi nelle bottiglie.”
“Gli hai detto che avevi bisogno di pensare, non che doveva andare a morire ammazzato.”
“Ma è quello che intendevo.”
“Non è vero.”
“Sapevo già che sarebbe successo.”
“Brava, Frate Indovino. Peccato che non sembra servirti a molto, la tua preveggenza.”
“Jimmy, hai fatto così anche quella famosa estate in cui volevi avere per forza ragione su quella faccenda delle lucertole.”
“Quale famosa estate? E' un altro conto aperto risalente all'epoca dell'avvento dei treni a vapore che improvvisamente hai deciso di chiudere a distanza di tre secoli?”
Mi chiusi in un risentito mutismo che aveva lo scopo di attirare l'attenzione. Mio cugino, con una pazienza siddartica, sospirò e si alzò dal letto per venirsi a sedere accanto a me porgendomi una sigaretta già accesa. Mi passò un braccio intorno alle spalle e mi esortò: “Forza, scarafaggio. Leggila.”
Scossi la testa, irremovibile.
“Leggila tu.”

 

Vedi, cara,
è difficile spiegare,
è difficile capire
se non hai capito già.”
(Vedi cara, Guccini.)

 

Scesi le scale a quattro a quattro saltellando come un capriolo, vittima di un tic all'occhio che mi stava facendo sfiorare la schizofrenia ebefrenica.
In giardino c'era un tiepido sole che di tanto in tanto faceva capolino dalle nuvole rade, e si approssimava la sera. Bliss era al telefono a sussurrare, forse ai cavalli. Splinter, invece, scorreva con lo sguardo faldoni di carte, battendo indemoniata con una mano sola sulla tastiera del palmare. Quando la platea mi vide arrivare, cessò di colpo ogni attività.
Inciampando sulle zolle di terra, Jimmy e Synyster, di corsa, si approssimarono a noi.
“Stai calma.”
“Sono calma, Brian.”
“No, non sei calma, mi hai chiamato Brian.”
“Perchè è così che ti chiami, Brian.”
“Sì, ma detto da te mi inquieta: chiamami come vuoi, ma non chiamarmi Brian.”
“Come ti pare, Arturo.”

Mia nonna sventolò due quarti di bicchiere di brandy e gli occhiali da sole verso di noi, facendoci segno di aspettare a fare qualunque cosa finchè non fosse arrivata lei.
“Silvester.”, esordì, porgendogli gentilmente il bicchiere.
“Synyster, nonna.”
“E io che ho detto?”
“Hai detto...”
“Sì?”, intervenne ferrea mia sorella, sfilandosi platealmente gli occhiali da vista.
“Leggi, Splinter.”, le dissi, porgendole due fogli deformati dalla stretta delle mie dita.

 

I tuoi occhi gialli che sotto il sole prendono una sfumatura dorata. La tua sveglia alle otto e quaranta con la stessa suoneria da dieci anni. I sonniferi accanto al tuo letto che non prendi mai perchè hai paura di qualunque dipendenza e già fumi. I tuoi pacchetti di Lucky Strike blue morbide, a proposito. Le tue mutande di superman. I tuoi vinili dei Queen. Le tue fotografie dei concerti con i cantanti di spalle. Le tue quattro versioni dei sonetti di Shakespeare. Il video degli OK!GO sui tapis roulant che ti ipnotizza ogni volta che lo vedi. Le tue copie dei disegni di Leonardo che hanno per soggetto le mani. Le calle sul terrazzo. L'ultimo sms che ricevi prima di andare a dormire, sempre dalla stessa persona. La sfumatura di turchese che è il tuo colore preferito. Il tuo primo racconto, rilegato con il nastro rosso, nel terzo cassetto del tuo scrittoio. I tuoi film preferiti in dvd sul primo scaffale della libreria nella tua stanza. Le tue prime converse nere ormai distrutte nell'armadio con sopra i versi di Knocking on Heaven's door scritti col pennarello indelebile. I tuoi cd di Nick Cave. La foto di te che sorridi con gli occhi bassi spettinata dal vento. I tuoi album di fotografie di persone, paesaggi e farfalle. Il cadavere del tuo vecchio iPod che non riesci a buttare via. Il tuo amato Defender, a cui fa fatica ad entrare la quinta e devi spingere un po'. La rosa rossa che una mattina hai trovato sul letto al posto mio. Il modo in cui muovi le mani mentre dormi, forse cercando qualcosa. Il giorno in cui hai visto i gabbiani volare sopra la tua terrazza e ti sei chiesta cosa cazzo ci facessero, i gabbiani, in una città senza mare. I tuoi capelli a prima mattina. La tua maglia oversize dei Kasabian. Il modo in cui tieni i segreti, reggi gli sguardi, abbracci la tua migliore amica. I tuoi sette modi di amare, i tuoi sorrisi stanchi, l'espressione che hai sul viso quando fumi con le mani sporche di inchiostro nero. I tuoi sforzi per semplificare i giorni complessi. Le tre cose a cui veramente tieni al mondo. Il momento in cui ti fermi e un pensiero ti lampeggia negli occhi. La maniera in cui parli delle stelle, in cui canti certe canzoni, in cui mi guardi le mani rigirandotele nelle tue. Il modo che hai di tenere stretto quello che ami, fisicamente, tra le braccia. Il cielo, che per te ha sempre un'attrattiva particolare e qualche connotazione in più di quelle che vengono in mente, di solito, alle persone normali. La tua grafia disordinata. Il peso di ogni tua frase. Le citazioni che scrivi sui moleskine, perchè sai che torneranno utili, un giorno o l'altro. I tuoi smalti multicolore e i tuoi calzini a righe. La splendida noncuranza con cui porti in giro te stessa, altera e distante da tutto il mondo prosaico per status. La meraviglia incessante che mi provocano le tue affermazioni. Il modo in cui strofini il naso contro il mio e quello in cui infili la testa nel mio collo, inspirando forte il mio odore. I momenti in cui inciampi in te stessa e fai cose assurde, tipo metterti a ballare per strada, perchè sei leggera dentro. Il modo in cui ridi a telefono con tuo cugino, perchè l'ho capito che è solo con lui che ridi così. Lucrezia Borgia. I tuoi bicchieri da brandy con dentro il succo di frutta. Le improbabili coperte che cuce la tua governante. L'ironia che contraddistingue ogni sillaba del tuo sterminato frasario. Tua madre, in tutti i modi in cui ancora vive dentro i tuoi giorni. Ho capito che era da folli credere che tutto questo e un miliardo di altre cose potesse essere soltanto mio, e infatti non lo era. Ho reagito come di mio solito, fingendo che tu non fossi indispensabile, ed è vero, non lo sei. Però che spreco, una vita senza te. Io non credo di farcela, sarò sincero, per la prima e ultima volta. Non cambierò, lo sai, lo hai detto anche tu che le persone non cambiano, non nelle cose importanti. Non so cosa farai, se mi vorrai sentire, se mi vorrai vedere, se sarò capace di un gesto che saprà rassicurarti sul fatto che, quando ti dico che ti renderò felice o almeno sarò in grado di non mandarti al manicomio, tu possa credermi senza riserve. Ma visto che sono qui, e sto scrivendo su un foglio di carta appoggiato al retro della mia chitarra nera, banalmente vorrei dirti grazie: grazie per ciò che hai fatto per me, per come, nonostante me, sei stata capace di amarmi. Grazie di non avermi messo su un piedistallo, di non aver pensato che io fossi il migliore del mondo: lo sai, dai piedistalli non si scende, si cade. Ci sarà un centimetro di te in ogni canzone che scriverò d'ora in poi, forse c'era già prima che io ti incontrassi: centimetro dopo centimetro, un giorno riuscirò a raccontarti tutta. E, semmai dovessi perderti, saprai dove ritrovarti. Intera.
Per quel che vale, io ti amo.
E se il tempo ci passerà sopra come di suo solito, sono abbastanza sicuro che una parte di questo amore sopravviverà comunque, dentro di me, perchè Ria Montague semplicemente non muore, né nella propria vita né in quella altrui.
Avrei dovuto dirtelo ogni giorno, quanto sei straordinaria.
Matt.


Un silenzio da giorno del giudizio, così totale da risultare macabro, accompagnò l'ultima nota della voce di mia sorella.
Mi guardarono.
Cosa hai intenzione di fare?, era la muta domanda dentro tutti i loro occhi.
Poi, all'improvviso, Bliss si alzò da terra e, senza dire una parola, andò via.
La mano di Jimmy, calda e ferma, si posò sul mio braccio.
“Chi, sano di mente, chiederebbe alla persona che ama di correre un rischio del genere?”, articolai, sedendomi in braccio a lui, che mi circondò con le braccia come una culla, uno steccato.
“E qui si apre un'annosa questione:”, osservò Synyster, serio, in piedi a braccia conserte verso il punto in cui Bliss era sparita, “qual è la cosa giusta? Promettere alla persona che ami che cambierai, a rischio di fallire clamorosamente perchè è vero che non si cambia, oppure confermare quella stronzata che sostiene che amare vuol dire anche lasciar andare, per permettere all'altro di farsi una vita lontana dagli abissi di disperazione che la vicinanza comporterebbe?”
“Synyster, tu in una vita precedente devi essere stato Shopenauer, secondo me. Ma come ti vengono?”, intervenne mia sorella, rimettendosi gli occhiali.
Lui si strinse nelle spalle, assorto.
“Ascolta, amore mio.”, disse mio cugino, stringendomi, “La teoria dell'anima gemella ci è stata tramandata da quel peracottaro di Platone, e secondo me è una stronzata epocale. Però ti prego di ricordare, da qui a un ipotetico e improbabile per sempre, che le scelte che non si fanno per paura sono quelle che si rimpiangono fino alla fine di un'esistenza. Siamo un impossibile accozzaglia di mentecatti, noi, ma ci vogliamo bene, da sempre. E pure le pietre sanno che non c'è niente al mondo che io ami quanto amo te. Non c'è 'ma' che tenga, per me, quando si tratta della tua tranquillità, e sono pronto a farmi arrestare per la dodicesima e definitiva volta, se necessario per omicidio, perchè io sono quello che ti ha insegnato ad allacciarti le scarpe, a metterti l'eyeliner e l'importanza dei Metallica; io ti ho scritto sulla schiena la frase che ti sei fatta tatuare, io ti ho vista crescere e cambiare e ti ho persino dovuto spiegare un paio di cose sul sesso che non staremo qui a ripetere. Anche quando avrei preferito darmi fuoco, ho fatto appello a tutto il buonsenso che non ho per esserti d'aiuto. Sono stato pronto a farmi detestare da te, pur di proteggerti. Ecco, questa è una di quelle volte in cui ciò che ti dirò non ti piacerà affatto, e ci tengo a specificare che io per primo stento a credere a ciò che sto per dire.”
Eravamo tutti orecchi.
“Matthew di certo ti ama, deve solo capire il modo giusto per tradurlo in azioni. Non è facile, sai, avere a che fare con una testa come la tua: specie per uno che ha una testa come la sua. Ma quando lo capirà, da solo o con la scarica di mazzate che gli daremo io e Synyster ogni volta che sbaglierà, stai pure certa che non ti deluderà mai più.”
Lo guardai, con una tenerezza immensa come una morsa intorno al cuore. Poi mi alzai, e mi allontanai da loro, da quella lettera, dalle sue parole.
“Spero che sappia quello che fa, perchè sto mettendo a rischio la mia credibilità per difenderlo.”, sentii dire Jimmy, non abbastanza piano perchè io non sentissi.
Chiusi gli occhi, mentre camminavo, finchè le loro voci non divennero un mormorio confuso. Cercai l'altalena sotto il salice, e mi misi a dondolare sempre più forte, fino a toccare il cielo con le Converse. Era una vita che volevo volare, e ancora non c'ero riuscita.
Mi spinsi quanto più in alto riuscissi con il movimento delle gambe, finchè mani gentili sulla mia schiena mi fecero arrivare con i piedi nelle nuvole.
“Jimmy!”, sentii urlare mia nonna, “Se cade si fracassa la testa!”
Mio cugino rise, dandomi un'altra spinta.
“Abbiamo fatto molto peggio, e la testa è ancora lì.”
Le nuvole, così vicine.
La morte mediante trauma cranico, invece, in un altro tempo.
In un'altra storia.

I'm safe up high,
nothing can touch me,
why do I feel this party's over?
No pain inside,
you're my protection.”
(Sober, P!nk.)

 

 

Undici e quarantanove dell'anonimo venerdì notte che si dispiegò davanti a noi, improbabili inquilini provvisori del vecchio castello. Mi ero chiusa in camera mia a leggere un romanzo di Dumas, preda di un malumore di marmo che neanche i frizzi e i lazzi organizzati da una sorella, una migliore amica, cinque metallari e una nonna avrebbero mai potuto scalfire. Un tonfo a momenti non abbattè la porta.
“Sì?”
“La cerca il signor Silvester.”
Mi affacciai all'uscio, presentendo lo zampino di mia nonna, e mi trovai davanti il nostro maggiordomo, Erminio, che reggeva un candelabro di ottone che ospitava tre candele striminzite. Sembrava il conte Dracula.
“E' successo qualcosa?”
Erminio cincischiò alcuni fonemi in una lingua che lì per lì non compresi, dunque mi accinsi a seguirlo per andare alla ricerca di Silvester, che a sua propria volta a quanto pare cercava me.
Quando lo trovai, indossava un pantalone del pigiama di flanella color puffo, avrei giurato non suo, e una maglia dei Metallica.
“Cosa c'è?”
“E' entrato un pappagallo.”
“Un pappagallo?”
“Un pappagallo.”
Riflessi un attimo.
“E da dove è entrato un pappagallo?”
“Dalla finestra della stanza di tua nonna, suppongo, anche se tua nonna sostiene di non averla aperta. Sta per morire dalla paura. Dobbiamo cacciarlo via.”
Sospirai.
“Non potevi chiamare Jimmy?”
Ciabattando dall'altro capo del corridoio, sopraggiunse mio cugino con i coglioni in evidente giostra.
“Mi ha chiamato, infatti. Mi ha chiamato Attilio.”
“Erminio.”
“Sono americano, non so articolare.”
“Io invece sono stanca.”, soggiunse Bliss, che alloggiava in camera con me.
“Dov'eri? Ti ho perso di vista tre quarti d'ora fa.”
“Al telefono.”
“Con chi?”
“Vabbè, e dove sta questo cazzo di pappagallo?”, ci interruppe Jimmy, rifilando un'occhiataccia al maggiordomo e alle candele.
“In biblioteca.”, ci ragguagliò Synyster.
“Ma non si può illuminare un po' di più questo corridoio del cazzo? Io già ci vedo poco.”, disse Jimmy, sistemandosi gli occhiali sul naso.
“No. E' vetusto.”
“Vetusto?”
“Sì, un'illuminazione eccessiva potrebbe nuocere ai parati.”, spiegò Erminio.
Mio cugino si astenne dal rispondere.
“Vogliamo andare?”, domandò Bliss, impaziente.
Mentre ci incamminavamo, Erminio si dissolse misteriosamente nel nulla.
La luce fioca illuminava metri quadri intermittenti di moquette rosso scuro e parati intarsiati d'oro, e noi procedevamo compatti come gli acchiappafantasmi.
“Ma se la nonna non ha aperto la finestra, da dove è entrato il pappagallo?”
“Mistero.”, rispose Erminio, riapparendo dal nulla, “Come molte cose di questo castello.”
“Erminio, grazie.”, commentò Bliss, torva.
Valicammo un numero imprecisato di stanze, rischiarate appena dalla tenue luce delle lampade a muro. La penombra rendeva tutto ancora più inquietante.
Finalmente approdammo alla lugubre biblioteca.
Da quel che potemmo constatare a una prima occhiata, altissimi scaffali di legno scuro, oppressi da libri antichi rilegati in tinte scure, tappezzata di un parquet marrone cupo. Praticamente, una bara di settanta metri quadrati.
“Dov'è la luce?”, domandò Bliss, pregna di spirito d'iniziativa.
“Non c'è, la luce.”
Ci voltammo tutti a guardare Erminio.
“Rovina i libri.”
Jimmy roteò gli occhi al cielo, e il maggiordomo contestualmente piantò il candelabro in mano a Synyster.
“Col vostro permesso, io mi congedo.”
Nessuno glielo aveva dato, questo permesso.
Al che, Synyster disse: “Jimmy, vai avanti tu.”
Mio cugino si voltò meccanicamente a guardarlo.
“E per quale motivo?”
Synyster gettò uno sguardo pudico a noi due donzelle, e poi sussurrò: “Ho paura.”
Mio cugino, molto più diretto, proruppe in un: “Perchè io no Brian? O sei persuaso che ho familiarità con i pappagalli che fanno le violazioni di domicilio?”
La verità è che eravamo tutti e quattro attanagliati da un sinistro terrore.
Comunque, ci appropinquammo.
Dopo alcuni passi, sospesi come barche senza bussola, un sibilo ci sfiorò le orecchie facendoci assaporare l'ebbrezza di ciò che accade immediatamente prima dell'ictus.
Afferrai il polso di Jimmy e lo torsi fino a giungere a un passo dalla frattura scomposta. Jimmy non urlò. Era passato vicinissimo, veloce come un condor, il pappagallo. Poi, un rumore sordo ci lasciò intuire che era rimbalzato contro il vetro della finestra.
Silenzio.
Lungo.
Macabro.
“Sarà morto, avete sentito che botta?”, ottimizzò Synyster.
Bliss lo smontò immediatamente: “Non ci scommetterei.”
Come al solito, il pragmatismo pessimistico di Bliss ebbe la meglio.
Infatti non solo non era morto, ma non era neanche un pappagallo.
Synyster menò uno strillo che neanche Mariah Carey nel momento più fulgido della sua carriera, facendo impallidire i ritratti sulle pareti oltrechè noi, atterriti, inerti.
“E' un pipistrello!”, ululò.
Impazzito.
Selvaggio.
Con il radar fuori uso che stava dando i numeri, perchè percepiva ostacoli e pareti dappertutto e gli suonava nel cervello ogni due secondi.
La bestia riprese a volteggiare frenetica sopra le nostre teste, al che io, Bliss, Jimmy e Synyster prendemmo ad accovacciarci e rialzarci per schivarlo come in una bizzarra danza russa, fino a che non maturammo una decisione univoca, istintiva: ci sdraiammo, scomposti e repentini, letteralmente a terra. Nel compiere questa operazione, Synyster commise un errore agghiacciante: si lasciò cadere di mano il candelabro e le candele ivi allocate, nostra unica fonte di luce, si spensero.
“Sei una testa di cazzo.”
“Ma io...”
Alcuni insulti ai defunti di Synyster fiorirono nella stanza.
“Tacete, sto scegliendo l'arma più efficace e che mi fa meno impressione con la quale uccidere Brian appena usciamo da qui.”, interruppe Jimmy, con il terrore liquido nella voce.
Buio totale.
E quell'essere maledetto che continuava a volteggiare.
Synyster disse, serio: “Dobbiamo aspettare che muore di vecchiaia.”
Non ridemmo.
Ma il pipistrello aveva altri programmi: planò in picchiata e si andò a impigliare dritto nei capelli di Bliss. Lui non sapeva come uscirne. Lei non sapeva come uscirne. Il terrore le trasfigurò il volto. Io vidi il coma nei paraggi, tanta la paura che avevo. La mia migliore amica si scalmanava come una tarantolata, ostaggio delle lacrime. Ero abbastanza sicura che la breve vita che aveva vissuto le si srotolava davanti in qualche istante. Jimmy e Synyster saltarono in piedi, cercando di prendere il pipistrello, senza successo.
Fu allora che mi recai allo scaffale più vicino, estrassi “Guerra e Pace” e, con tutta la forza che avevo, abbattei il volume alla cieca sui capelli della mia amica cercando di centrare l'eventuale posizione del pipistrello impigliato.
Calò il silenzio.
Synyster spinse delicatamente un braccio di Bliss.
“Oh mio dio, ma l'hai uccisa.”, articolò, soavemente tranquillo.
Bliss era viva.
Il pipistrello invece non più.
Presi alcuni respiri di aria rarefatta, scongiurando il padreterno o uno dei suoi sottoposti di richiamarmi immediatamente alla vita eterna.
Quando mi voltai di nuovo, vidi Bliss seduta all'indiana che reggeva a due mani il pipistrello, illuminata dalla fioca luce del candelabro ripristinato da Synyster.
“Non ti fa una grande pena?”, mi chiese, piangendo.
Neanche un grazie.
“Molta.”, risposi io, pervasa da una rabbia omicida che fece sfiorare ai miei amici e parenti una mattanza di massa, se non altro per andare a fare un po' di cortese compagnia al pipistrello dipartito.
All'uscita della biblioteca, claudicanti e ancora preda dei tremori per lo spavento di poco prima, trovammo Erminio e mia nonna.
“Allora, lo avete preso il pappagallo?”

 

Every night I remember that evening,
the way you looked when you said you were leaving,
the way you cried as you turned and walked away.
The cruel words and the false accusations,
the mean looks and the same old frustrations:
I never thought that we'd trhow it all away,
but we trew it all away.”
(Scouting for girls, This ain't a love song.)

 

Knock, knock, knocking on Reverend's door.
“Sì?”
“Jimmy...”
“Entra, scarafaggio.”
Feci capolino dalla porta della stanza.
“Posso dormire con te?”
Lui era semi-disteso sul letto con gli occhiali sul naso e un libro in mano. Non disse niente.
“Ho paura.”, aggiunsi.
Sbuffò, divertito, poggiando il libro sul comodino.
“Ma Dio, quanti anni hai, cinque? Dai, vieni qui.”
Non avevo particolarmente voglia di piangere, quindi optai per un sospiro.
Mi stesi sul suo petto nudo, coperto di tatuaggi, “troppi”, diceva mia nonna, e mi lasciai abbracciare come se avessi cinque anni.
“Bliss non è in camera. Sto provando a chiamarla ma non risponde.”
Il mio iPhone rimbalzò sul letto facendo boing, boing, e lo schermo si illuminò rivelando una foto mia e di Matt che non avevo avuto il cuore di far svanire.
Mio cugino mi rivolse un'occhiata significativa.
“Puoi levarti quell'aria di saggia consapevolezza dalla faccia, Jimmy?”
“No.”
“Hai chiamato Ann?”
“Va bene, via l'aria di saggia consapevolezza.”
“Jimmy?”
“Non intendo parlarne.”
“Io invece sì.”
“Ed è un problema mio perchè?”
“Non fare il ragazzino.”
“Ti uccido il criceto.”
Inorridii.
“Non oseresti mai fare del male a Lucrezia.”, soggiunsi, poco convinta.
Dalla porta spuntarono, senza bussare, tre quarti di Synyster con un sorriso deficiente e le mani a coppa.
“Guardate! Ho trovato un ragno nel lavandino della mia camera. Si chiama Giovanni.”
Jimmy, notoriamente aracnofobico, fece un carpiato con avvitamento nascondendosi dietro il letto.
“Te l'ha detto lui che si chiama Giovanni? Ha famiglia?”, mi unii gioviale al suo entusiasmo.
“Volevo dargli un nome italiano. Rev, vieni a vedere!”
“Synyster, mi devi morire tu se esco da qua dietro.”
“Ma perchè fai tante scene? E' piccolo.”, lo difese Synyster.
“Ria, porta quell'essere immondo fuori dalla mia stanza da letto.”, tuonò Jimmy, categorico, additando.
“Ok. Il ragno però può restare?”
“Ma sei una cucchiaiata di buonumore stanotte, ragazzina!”, mi rispose Synyster, cogliendo il mio sottile umorismo.
Scoppiai a ridere.
“Metti il ragno sotto un bicchiere e vieni qui.”, gli sussurrai, estraendo contestualmente mio cugino per la cinta dei jeans da dietro il letto.
Riuscii a rimuovere i punti di domanda che mi serravano i neuroni in una morsa finchè Synyster non se ne andò, e svanirono le risate. Il calore del suo corpo accanto al mio, le sue unghie smaltate di nero, quell'odore familiare di spiagge della California, Marlboro rosse e tarallucci. Tutto questo bastò al mio cervello finchè il mio amico, sbadigliando, non infilò la porta.
Jimmy si era addormentato a pancia sotto: pensai bene di stendermi addosso a lui. Volevo parlare ancora. Almeno un altro paio di anni. Con tutto il mio peso addosso, non si smosse di un millimetro e continuò a dormire. Erano le tre del mattino. Poggiai la fronte sulle due “L” di “SULLIVAN”, il tatuaggio che gli copriva la schiena da una scapola all'altra, e mi persi tra il nulla e l'addio.
Cercai il cellulare a tentoni, e composi un messaggio.

 

I must be strong, stay a non-believer and love the sound of you walking away. (Franz Ferdinand.)

 

Qual è il punto di rottura? Guardando indietro, si riesce a trovare il momento, perso nelle giorni, in cui le cose sono finite a gambe all'aria? C'è un minuto preciso in cui finisce l'amore, in cui cambiano le cose, in cui ci vedi chiaro, in cui inizia un'amicizia, finisce un periodo, ti innamori di una canzone, il trascurabile diventa fondamentale e viceversa?
Scrissi un altro messaggio, in cerca di risposte. E poi un altro. E un altro ancora.
Jimmy dormiva, l'alba faceva capolino dalla finestra, e io avevo inviato 17 sms, tutti senza risposta. Sospirai, affondando nel cuscino, e cedetti al sonno.

 

Why don't you walk away.

 

Campanelle.
Un messaggio lampeggiò sullo schermo del mio iPhone, e lessi tre volte il mittente prima decidermi ad aprirlo. Era incredibile, e non era da lei. O forse io non la conoscevo abbastanza bene da sapere cosa fosse da lei e cosa no.
Dom rovesciò un po' di latte sul tavolino di cristallo. Se ne stava lì, davanti a me, col bollitore in mano a guardare la macchia allargarsi, in silenzio.
“Sai quel detto del cazzo, non piangere sul latte versato? Bene, ho un'incontenibile voglia di piangere.”
Apprezzai la sottile metafora.
Si era un po' spento, da quella storia di Bliss, e dire che difficilmente lo avrei pensato capace di un sentimento del genere.
Lessi il messaggio, con un sorriso amaro e le mani un po' imbranate.
Era tardi, comunque. Per tutto e per tutti.

 

I love the sound of you walking away.

 

Riaprii gli occhi che Jimmy stava fumando seduto sopra la scrivania vicino alla finestra con il libro del giorno prima in mano e un caffè fumante davanti, assorto.
“Mettiti gli occhiali, Rev.”
“Tu fatti gli stracazzi tuoi, piccola.”, mi rispose, con un sorriso.
Mi tirai a sedere sul letto e diedi un'occhiata al telefono.
17 messaggi ricevuti.
“Cos'è quella faccia, Ria?”
Bussarono alla porta.
“Si può?”
“No.”
Synyster entrò lo stesso.
“Che espressione hai, Ria?”
“Che espressione ho, Brian?”
Synyster e Rev si guardarono saggiamente.
“Mio Dio, statemi lontani, voi e le vostre occhiate complici.”
Mi alzai, alla ricerca di refrigerio, di un mazzo di carte, del maggiordomo.
Matt mi aveva risposto a tutti e diciassette i messaggi, uno per uno, dettagliatamente, teneramente, inopinabilmente.
Mi sentivo iperattiva, confusa, e non riuscivo più a fermarmi a una finestra, perfino fumare una sigaretta mi riusciva difficile. Il mio ferreo buonsenso si era ossidato, e sentivo addosso il peso di tutti i miei fantasmi di qualunque tempo passato e presente.
Avvertii una presenza alle mie spalle.
“M, tu credi in Dio?”
Shadows mi circondò le spalle con un braccio.
“Fai delle domande perturbanti a volte, Ria.”
Sperdermi nei colori psichedelici dei loro tatuaggi, confondermi nel suono delle loro risate, svegliarmi distrutta dopo una nottata alcolica, tutto questo sembrava lontano e offuscato. Il presente era una cartucciera di dubbi e perchè, e io ero incapace di uscirne.
Bliss mi sfrecciò davanti, cincischiando al telefono.
“Ma vi hanno assunti tutti alla CIA? Sono giorni che schizzate da una parte all'altra bisbigliando, smettete di parlare quando arrivo, Zacky addirittura si mimetizza con le tende.”
La risata calda e roca di Shadows mi avvolse come un abbraccio.
“No, piccola.”
“E mi chiamate tutti piccola. Non sono mica Oliver Twist.”
“Con calma. Vedrai.”
E avrei visto, accidenti se avrei visto.

 

Io ti darò tutto quello che ho sognato,
tutto quello che ho cantato,
tutto quello che ho perduto,
tutto quello che ho vissuto.”
(RV, Le Rose Blu.)

 

I telefoni che squillano alle quattro del mattino dispiegano un leggero ma palpabile odore di tragedia imminente.
Jimmy sobbalzò nel letto affianco a me; alzando di scatto la cornetta, abbattè accidentalmente un'abat-jour, mandandola in frantumi.
“Chiunque tu sia mi devi una lampada.”
Bisbigli dall'altro lato della cornetta.
“No, è che io per la prima volta in vita mia stavo dormendo.”
Bisbigli.
“No, prova a chiamare Shadows sul cellulare. Aspetta, anzi, te lo sveglio io.”
Si alzò dal letto trascinandosi dietro il telefono a passi pesanti, quindi uscì sul pianerottolo e strillò con quanto fiato aveva in gola: “MATTHEW!”
Tempo sei secondi, le cinque porte del corridoio si aprirono di scatto, in un univoco, roboante “CAZZO” pronunciato all'unisono dai cinque inquilini, esclusa mia nonna che giunse un po' in differita avendo anteposto un “ma che”.
Quindi, tutti: “CAZZO.”
Mia nonna: “MA CHE CAZZO.”
Jimmy: “Matthew, ti cercano al telefono.”
Il pigiama si mosse con Shadows dentro, strappando la cornetta dalla mano del migliore amico e producendosi in un metallico “PRONTO” che non presagiva niente di buono.
Aggrottò le sopracciglia e ascoltò serio per qualche minuto, dopodichè proruppe in un “ok” e guardò i compagni di band.
“La data di Milano è spostata a domani sera.”
Ci fu un coro di esclamazioni di sorpresa.
“Perchè?”, domandai.
“Dice che hanno un problema con le tubature all'Idroscalo.”
“Un problema con le tubature all'Idroscalo? Mi prendi per il culo?”
“No, hanno già avvertito tutti i fandom. Ann dice che prova a chiamarci da ieri pomeriggio. Volevano spostarla alla fine della prossima settimana, ma domani è l'unico buco libero.”
“Ma in Italia non ce li avete gli idraulici?”
“Sta' zitto, Zacky.”
M, Synyster e Jimmy si scambiarono un'occhiata.
Qualcosa non andava, ma cosa fosse, evidentemente, non mi era dato saperlo.
Fu così, comunque, che alle quattro e mezza del mattino ci ritrovammo a fare una serie di bagagli.
Telefonai a mio padre più volte per avvertirlo dell'esodo che stava per colpire casa nostra, ma non ricevetti alcuna risposta.
Guardai Bliss, col freddo della notte che sorpassava i vestiti per infilarsi nelle ossa, mentre i ragazzi caricavano le valige nelle macchine.
“Morris?”
“Non risponde, starà dormendo.”
“Non hai il numero di telefono di Gertie?”
“Non mi sono mai posta il problema dell'eventualità di doverle telefonare, francamente.”
Comprensibile.
“Guido io.”, dissi a Jimmy, sfilandogli di mano gli occhiali.
Non era il caso di salutare la nuova settimana con un incidente che avrebbe causato un numero imprecisato di morti per colpa della risaputa cecità di mio cugino. Non ci vedeva di giorno, figurarsi di notte.
E dunque partimmo, ancora una volta, senza preavviso.

 

I'm only happy when it rains,
I'm only happy when it's complicated.”
(Garbage, I'm only happy when it rains.)

 

In due ore e mezza, eravamo tornati al caos che ci competeva per diritto di nascita.
Un cimitero di redbull puntellava il salotto di casa mia, deserto se non fosse stato per Chichi, che con le mani nei capelli andava mestamente raccogliendo posacenere traboccanti e lattine schiacciate.
Io volevo solo dormire, dimenticare, trovare pace da quell'inquietudine che mi strozzava il fiato in gola. Desideravo disperatamente un po' di riposo, altrimenti sentivo che sarei impazzita, velocemente, inesorabilmente. Era come avere un esercito di formiche iperattive nell'esofago, nelle vene, nel cervello. La testa mi faceva fuoco e fiamme. Nessun silenzio avrebbe potuto consolarmi.
Eppure, come spesso accade, la vita andava avanti. Quella sera saremmo finiti nel centomilionesimo backstage a trasportare avanti e indietro bottigliette d'acqua ed energy drinks, cercando plettri perduti nelle nebbie e litigando con irsute orde di responsabili della security.
Volevo la calma.
Volevo il passato, quell'odioso tempo ormai perduto che ora mi sembrava luminoso e tranquillo. Quanto lo detestavo, prima. Quanto lo vedevo un vuoto annaspare dentro circostanze ingestibili, intrappolata in una stanza buia e stretta, soffocata dalle mie cose impossibili; e invece ora, illuminato in controluce da un presente oppressivo e claustrofobico come un'afa estiva, mi sembrava una distesa di belle speranze e semplicità.
Sarebbe finita anche quella giornata, come tutte le altre. Il sole sarebbe tramontato per sorgere qualche ora dopo su un giorno identico al precedente, ugualmente inutile, senza senso, senza scampo.
Pensai a mia madre. Pensai che a lungo andare si diventa assuefatti anche alla malinconia, al peso delle assenze, all'ineluttabile e alla tristezza: non mi abbandonava mai, quel senso di inquietudine, cosa importava ciò che sarebbe accaduto? Che senso aveva segnare con una matita il perimetro di obiettivi e sogni? Niente valeva a niente. Non c'era entusiasmo, né completezza, né speranza in me. Ogni cosa, ogni atto di fede, ogni sforzo intellettuale e cardiaco, ogni slancio di forza era frutto della stanchezza di chi ha capito che non c'è niente da perdere né da guadagnare, perchè le cose vanno via di loro spontanea volontà, e non c'è niente che si possa fare per tenerle ferme. Né abbracciarle, né incatenarle, né pregarle, nessuno sforzo di volontà mi avrebbe reso libera, nessuna parola che poteva dire Matt mi avrebbe mai guarita, rassicurata, tranquillizzata. Ero nata nel caos, e dal caos avevo imparato a vedere la bellezza autentica delle cose. Dentro la confusione, nell'anarchia del mondo e degli elementi, in quel costante traballare del mondo. Forse vedevo troppo e troppo in là per conoscere una qualche pace. Forse, semplicemente, le scorte di speranza che uno ha nella vita per me erano terminate. Le avevo consumate già tutte per andare avanti, perchè andare avanti era talmente difficile e richiedeva un tale dispendio di emozioni che ciò che agli altri serviva per una vita a me era bastato giusto per raggiungere i vent'anni. Dopodichè, buio. Squadravo affascinata la vita e la morte e per me non avevano alcuna differenza. Studiavo l'amore in ogni sua forma, chiedendomi se davvero salvava, se poi era così importante essere salvati. Avevo amato Matt oltre ogni cosa, pur sapendo dove saremmo andati a finire, e ora che ci eravamo andati effettivamente a finire, in quel niente fatto di sgomento e rimpianti, non avevo idea di cosa fare.
“Bella la lettera, belli i messaggi, belle le parole che tutti e due sappiamo usare così bene, ma dimmi, amore mio, dimmelo tu cosa dobbiamo fare. Cosa ci aspetta. Perchè mi sento soffocare, è una vita intera che mi sento soffocare, e non ne posso più.”
Poi lo spensi, quel telefono infernale, e mi concentrai sui gabbiani fuori dalla mia finestra, che volteggiavano in cerca di prede.
Cosa vuoi che ci sia qui, per te, gabbiano. Non è questo il posto a cui appartieni. E non dirmi che pensi anche tu che un posto vale l'altro, perchè non c'è luogo al mondo che tu possa chiamare casa. Non me lo dire, che altrimenti è davvero finita.

 

Ma il mio equilibrio è in cielo come i sogni dei poeti,
mai potrei viver come voi che avete sempre la certezza della terra sotto i piedi.”
(I Ratti della Sabina, Il Funambolo.)

 

Che succede stasera?”
Detesto prendere la gente alle spalle, ma a volte non posso esimermi.
E' finito il tempo del tatto e della comprensione: sono giunti i giorni della realtà dei fatti, il più scarna possibile.
“Niente, c'è il concerto.”
“Zacky.”
Zee puntò i suoi occhi verdi dentro i miei, giocherellando con gli snakebites tra una nuvola di fumo azzurro e l'altra.
“Che vuoi che ti dica, Ria? Sono quindici anni che nutro profonda stima nei confronti della tua fine intelligenza.”
Gli sorrisi, benevola.
“Mi dai una sigaretta?”
Mi porse il pacchetto, e mentre accendevo un'infumabile Marlboro rossa l'occhio mi cadde nel cortile, dove Bliss e Dominic parlavano con le teste vicine.
“No, lui non c'è.”, rispose Zack alla domanda che stava formulando il mio cervello in quel preciso istante.
Un misto di sollievo e delusione mi afferrò la bocca dello stomaco.
“Sono stanca, Zee.”
Ma proprio stanca. Presa da una stanchezza antica ed incrollabile, proveniente per direttissima dalla sorda eco dei secoli trascorsi.
“Sai, è normale.”
“Mica tanto.”
“No, Ria, davvero. E' normale che tu non ne possa più. Potresti avere ancora da vivere un anno o sessanta, però, quindi ti prego di considerare bene le contingenze.”
Synyster era uno dei nostri più vecchi e cari amici.
Mandai un messaggio a Fleur per pregarlo di venire al concerto a supportarmi, a sopportarmi, a fare quello che sapeva fare meglio, cioè disinnescarmi a colpi di citazioni dotte e buone ragioni. Nella speranza che, per caso, si trovasse accidentalmente su suolo italico.
“Tieni. Bevi.”
Synyster mi mise in mano una Heineken gelata.
“A te pensavo.”
“Io e Bliss non potevamo mai funzionare insieme, smetti di preoccuparti per me e preoccupati di te e dell'infinita sfilza di problemi psicologici che ti affliggono.”
Mi sorrise, fraterno.
“Synyster, ora che ti vedo alla luce non posso esimermi dall'informarti del fatto che sei davvero bellissimo.”
“Adulatrice.”
“No, sono seria. Sei l'uomo più bello che io abbia mai visto.”
Un cazzotto affettuoso mi colpì la spalla.
“Ti voglio bene.”
“Anche io.”
“Basta.”
“Sì.”
Jimmy barcollò verso di noi canticchiando una vecchia giga irlandese.
“Dobbiamo essere al soundcheck tra tre quarti d'ora”, solfeggiò poi, seguendo la melodia.
Sospirai in faccia a una nuvola a forma di coniglio, facendo girare la birra nella bottiglia.
“Caro cugino, i conti non tornano.”
Il giorno in cui era morta la cosa che mi era più cara al mondo non era accaduto niente. Ero troppo piccola, troppo seria, troppo silenziosa per accorgermi che fuori c'era una realtà gravida di eventi e compromessi. La tragedia si era abbattuta come un fulmine un'estate ad Hungtinton Beach, in camera tua. Avevo otto anni. C'era una foto di te bambino in braccio a mia madre, sul dondolo nel patio. E' stato lì che ho realizzato davvero e per la prima volta la sua morte. Perduta, andata, svanita per sempre. I tuoi capelli biondi ti svettavano in testa come aculei, incuranti della forza di gravità e del pensiero comune. Tacesti, all'improvviso. Guardando quel viso che iniziava a somigliare di più al mio con l'avvicinarsi della pubertà, sentii tutti i miei organi interni frantumarsi in un fracasso assordante. Ero rotta in punti che neanche sapevo di avere, un unico insieme di cocci taglienti alti un metro e quaranta. Incrociai me stessa nello specchio. Com'è possibile, mi chiedevo, com'è possibile che io sembri ancora intera? Nessun taglio, nessuna fessura, nessun segno visibile dello sfacelo che si era appena verificato dentro di me.
Mi prendesti per mano, affatto imbarazzato o impacciato, e mi portasti al cimitero.
Fissando la foto di mia madre sulla lapide bianca, inspirai a fondo il profumo pungente dell'erba e dei fiori appassiti.
Aveva un odore acre, l'eternità.
Quando tornammo a casa, Synyster suonava in garage e l'orologio batteva le sette. Era arrivato Matt con delle atroci pizze alte e bruciacchiate, era il periodo in cui voi facevate conoscenza con le birre e io mi innamoravo, a turno, di tutti i tuoi amici. Osservai le mani di Brian muoversi sulla chitarra, sentendo l'irripetibile sfarfallio emotivo che mi impestava lo stomaco, e uno strano calore alle guance. Improvvisamente, il macigno che avrebbe sempre cercato di trascinarmi nella tomba di mia madre pesava di meno.
L'amore, pensai, l'amore è il contrario della morte. L'unico peso in grado di riequilibrare quella terribile bilancia.
Quattordici anni dopo, di amore e di morte potevamo dire che me ne intendevo abbastanza.
Cercai le vostre mani sul mio terrazzo, stanca di nascondere, tacere e sopportare. Stanca di pensare a come evitare l'inevitabile, tanto ormai la tragedia in quattro atti tra Bliss e Synyster si era già consumata.
Solo voi potevate allontanarmi dalle tombe.
Solo voi, inviolabili nel ricordo, potevate far tornare dritto l'ago della bilancia.

 

Quand'ero piccolo
mi innamoravo di tutto,
correvo dietro ai cani.”

(Fabrizio De Andrè, Coda di Lupo.)

 

Non ho niente da dire, stasera.
Non ricordo neanche come si faccia a respirare, incastrata tra l'eterno e l'attuale, ostaggio dell'antropologia, distesa per lungo in un frozen yogurt, con il traffico fermo sulla tangenziale.
Arrivederci e grazie alle mie muse, fino al prossimo capitolo, e ai tramonti sopra la collina di fronte al mio balcone, che creano equivoci e fanno sentire cretina la gente.
Grazie a voi per la paziente attesa e per le parole sincere, per la sopportazione, le minacce di morte e per i messaggi notturni.
Grazie a Matthew Bellamy per avermi causato un considerevole apporto di ansia e per la meraviglia che affoga le parole delle sue sconclusionate riflessioni in chiave di violino.
Grazie a quell'idiota della mia migliore amica, impagabile fonte di ispirazione, alla quale una certa Leana non stava simpatica perchè non le ha mai fatto il caffè buono.
Grazie a Fleur e a tutto ciò che è e che fa, mentre Dumbo di qua libera i baldi.
Grazie al mio vicino di casa e al mistero dei lumini in fila sul suo terrazzo, bollati come pista di atterraggio per angeli e zanzare.
Grazie a Hindra e Cadio, alle loro teorie sul chiudere il gas prima di morire e sulla metafisica dei fazzoletti, ma soprattutto ai loro diversivi per impedirmi di impazzire.
Grazie al mio splendido fratello, che quando ha tempo dedica alcuni dei suoi preziosi neuroni di dieci anni a cercare di seguire i miei ragionamenti.
Grazie a Pelagotti Giovanni, e alle sue sei zampe provvisorie.
Grazie alla gente, ivi inclusa mia madre, che litigava fuori al mio balcone sulla vita dopo la morte.
Thank you, love of my life and thank you, love of my afterlife.
Al Reverendo, grazie e vaffanculo. Lui sa perchè.
C'è una luce che splende nel cielo, ma mi sa che è un aereo.
E scusate la suspance.
Grazie, piccole. (Anche voi, come Ria, siete un po' Oliver Twist.)
Q.


 



 

 

 

   
 
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