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Autore: Melanto    05/07/2011    8 recensioni
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.»
E Yuzo e suo padre hanno smesso di cercarsi.
Si sono persi negli anni, negli obiettivi opposti, nelle spalle girate e nelle porte chiuse. Nelle strade dritte e concrete della famiglia Morisaki, mentre quelle di Yuzo inseguono le linee curve di un pallone; una scelta che suo padre non è disposto ad accettare.
Ma la guerra è fatta di vittime, e mentre si tenta di rimettere insieme i cocci delle certezze in frantumi, ognuno cercherà anche quello che ha perso.
...perché anche le cose perdute si trovano, basta solo saperle cercare.
[lo Shonen-ai è un elemento marginale]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il lungo sonno della Lucciola
- Part IX: Your photos, your life… your strength -

 

“Verrà il tempo in cui trascorrerò le ore
all’ombra di un cielo di stelle.
Aspetterò in silenzio,
al tramonto,
la luce del tuo sguardo”

 

Aprì gli occhi di scatto e il cielo dal colore indecifrabile gli apparve immutato.
Il cielo senza sole, il mormorio del mare, l’odore di salsedine.
Non si mosse, ma rimase a guardare la volta infinita.
La sensazione di catarsi, completezza totale e leggerezza era durata solo per un attimo. Gli era sembrato di perdersi in essa, quando si era trovato avvolto dall’acqua.
Anche quella, quindi, era stata una proiezione mentale.
«Sono ancora qui.»
- Ci sei andato vicino. -
Yuzo girò il volto, rimanendo sdraiato. Trovò subito la figura di Mamoru al suo fianco, le braccia appoggiate sulle ginocchia piegate e gli occhi puntati verso il mare.
«A cosa?»
- Per un attimo, sei andato oltre. Dal quale non saresti più potuto tornare. - si volse a cercare i suoi occhi e sul viso aveva un’espressione seria ma non di rimprovero. Voleva che comprendesse bene cosa significasse attraversare la linea, era un viaggio a senso unico in cui non si poteva cambiare idea. - Il tuo spirito stava per morire. Si sarebbe separato dal corpo. Questa spiaggia sarebbe scomparsa e così anche io. -
A quell’affermazione Yuzo si accigliò. L’idea di perdere la sua presenza, perdere Mamoru, anche se non era quello vero, gli metteva addosso un’agitazione che, fino a qualche attimo prima, non aveva provato. Lo avrebbe perso anche così, sottoforma di illusione, e si sentì improvvisamente solo.
La figura stemperò l’aria severa, accennando un sorriso. - Ma qualcosa ti ha trattenuto all’ultimo momento. Hai cambiato idea. -
«Come posso aver cambiato idea se non sapevo nemmeno quello che stava accadendo?»
- Allora deve essere stato il tuo inconscio ad aver agito d’istinto. Forse quella situazione gli ha inavvertitamente ricordato qualcosa, anche se non te ne sei reso conto. Oppure deve aver risposto a qualche stimolo. - Mamoru distese le gambe, appoggiando i palmi nella sabbia. Il profilo nuovamente puntato al mare.
Solo in quel momento Yuzo sembrò come ravvedersi di qualcosa.
«Uno stimolo…» fece eco. Deciso si tirò a sedere e si toccò la fronte. Per un attimo, solo un attimo, talmente piccolo da essere veloce come un pensiero, aveva sentito un calore intenso alla testa. Un calore anomalo che, dalla fronte, si era irradiato su tutto il cranio come lo scorrere di una carezza.
- Non è detto che la prossima volta sarai così fortunato da fermarti per tempo. Quindi, fai attenzione: è una decisione di cui devi essere sicuro e non ritrovartici nel mezzo, trascinato dalla corrente. -
La creatura aveva di nuovo l’espressione seria, quasi temesse potesse andarsene sul serio.
A Yuzo parve illusorio, ma sorrise sentendosi importante per lui. Sapeva non fosse il vero Mamoru, ma era bello immaginare che l’originale potesse dire le stesse cose con lo stesso tono.
«Ho capito» disse, poi si guardò gli abiti e scherzò. «Ma non sono bagnati.»
L’altro comprese il suo tentativo di allentare la tensione del discorso e magari cambiarlo, parlare d’altro, così sbuffò un sorriso dandogli una leggera pacca sulla spalla.

 

“Sarò felice solo se potrò restarti accanto,
sarò felice solo se…
…se i miei occhi stanchi
avranno ancora voglia di guardare,
se le mie braccia
avranno ancora forza per… per stringerti.”

Marina ReiVerrà il tempo

 

§*§

 

“Do you know where you’re going to? /
Lo sai dove stai andando?
Do you like the things that life is showing you? /
Ti piacciono le cose che la vita ti sta mostrando?
Where are you going to? /
Dove stai andando?
Do you know? /
Lo sai?

 

La casa l’accolse con il solito silenzio serale di cui non si era mai accorta.
I suoi genitori avevano fatto una scelta molto forte nel volersi trasferire a Nankatsu dopo che si era sposata, per poterle restare vicino, visto che non era la sua città, e offrirle sostegno e compagnia. Lei era originaria di Suruga-ku, proprio come Baiko.
Baiko
Aveva percorso in fretta la strada per tornare dall’ospedale, senza mai guardarsi indietro, ma i suoi occhi erano rimasti sulle scale di quel pianerottolo assieme alle mani e alle parole, galleggianti nell’aria che avevano respirato.
Le parole sapevano essere più pesanti delle montagne e lei, anche senza essere stata esplicita, anche se aveva solo ipotizzato aveva detto parole che potevano sfondare muri, figurarsi il cuore. Lo sentiva poltiglia, da qualche parte, colante lungo le costole che chiudevano la cassa toracica.

«Non posso perdonarti.»
«Non lo so a che punto siamo né so a che punto voglio arrivare…»
«Forse è già troppo tardi.»

Baiko.
Il suo nome le rimbombava ancora nella testa nonostante lo avesse lasciato indietro, lontano. Nonostante lo avesse ferito e ferito sé stessa ancora di più. Nonostante tutto, il suo nome non se n’era mai andato.
Haruko fece scivolare la borsa all’angolo dell’ingresso, dirigendosi nel salotto che si apriva proprio davanti ai suoi occhi.
Era una casa piccola, una villetta per due, massimo tre persone. E ora che sua madre era morta, forse era troppo grande per Kyoshi, ma l’uomo non si era mai lamentato della solitudine; sapeva di non essere solo davvero, non con suo nipote così vicino. Haruko pensò a tutte le volte che lui e Yuzo uscivano insieme e andavano in giro per librerie. Tornavano sempre pieni di acquisti, leggevano i volumi, se li scambiavano, condividevano le impressioni.
Le labbra le si distesero adagio nell’avvicinarsi alla portafinestra che si apriva sul giardino dietro alla villetta, ma quel sorriso avvizzì come un fiore lasciato senz’acqua. Sfumò. Ripiegò i lati. Li capovolse. Origami di carne.
Probabilmente, Baiko nemmeno lo sapeva. Non sapeva che suo figlio amava la lettura. E come poteva? Sempre intrappolato in quella stanza scura e grigia.
Aprì il vetro, e l’aria d’Agosto corse verso di lei per entrare e portare l’odore dell’estate e dei fiori, di cibo delizioso che qualcuno nel quartiere stava cucinando. Portare il canto delle cicale e i rumori della città.
Baiko.
Lui aveva smesso di vedere e sentire. Per tutti gli anni che si erano susseguiti, aveva ignorato la vita che gli girava intorno; ignorato loro.
Fino a quel momento.
Haruko rivide il dolore negli occhi sempre distanti e indifferenti. Rivide il cambiamento nella staticità del volto, nel calore dei gesti, nelle parole che, diversamente dalle sue, volevo rassicurare. Sicurezza disperata che non tutto fosse perduto, ma si potesse recuperare.
Baiko.
Si appoggiò allo stipite, le dita che ruotavano la fede all’anulare, la sfilavano dolcemente e poi la rimettevano al suo posto.
Si può recuperare, Baiko?
Avanti e indietro. Più lontana dal dito, ancora un po’…
Possiamo recuperare?
…fino a toglierla del tutto.
Haruko abbassò lo sguardo, aprì e chiuse la mano un paio di volte, avvertendola libera dal cerchietto che era sempre rimasto con lei, anche quando lavava i piatti.
Si sentì nuda, come se le avessero tolto ogni vestito, come se le avessero strappato anche la pelle. Erano solo ossa nell’afa d’Agosto, cadevano come bastoncini di Shangai mossi male, il loro rumore le ricordò il ticchettare della pioggia sulle canne di una tettoia improvvisata, ad aspettare un autobus che non voleva arrivare.

«Haruko…»

La freschezza di quel bacio nascosto nei ricordi bruciò i resti del suo cuore.
Siamo davvero in tempo?
Le chiavi girarono d’improvviso nella toppa e la porta si aprì.
In fretta, Haruko asciugò le lacrime; anch’esse bruciavano, nonostante la brezza serale.
«Sono a casa.»
«Sei già tornato, papà? Potevi restare ancora un po’ con Yuzo…»
Lo disse cercando di nascondere il tono incerto.
«Lo so, ma hai dimenticato la spesa.»
Kyoshi si fece avanti, avvicinandosi al tavolo dove appoggiò la busta. Con la coda dell’occhio la vide armeggiare con le dita che, alla rinfusa, infilarono nuovamente la fede all’anulare. Lui si fermò con la mano a mezz’aria e le sopracciglia aggrottate; la osservò con attenzione.
«Haruko, stai-»
«Va tutto bene papà» disse, sforzando un sorriso, ma lei non era brava a nascondere i suoi veri sentimenti. «Non preoccuparti. Adesso preparo la cena…» afferrò la busta e si mosse per raggiungere la cucina.
Kyoshi rimase fermo accanto al tavolo. Anche Baiko gli aveva detto che andava tutto bene, che non doveva preoccuparsi. E invece comprese che era l’esatto contrario.
«Gli hai detto che vuoi il divorzio?»
Haruko si fermò di colpo, senza voltarsi. Suo padre non era mai stato così diretto, aveva sempre cercato le parole più dolci per dire le cose, soprattutto quelle che facevano male.
Inspirò a fondo e guardò l’anello. La pelle e i vestiti di nuovo al loro posto, la sensazione di nudità e di annientamento rinchiuse nei battiti ansiosi del cuore.
«Non so ancora quello che voglio, non so… se è più possibile averlo.»
«Qualunque cosa tu voglia, non è buttando ciò che hai che potrai ottenerla.»
Haruko si sentì ferire dal tono severo che aveva usato, quasi di rimprovero, come fosse ancora una bambina.
«E che cos’è che avrei, adesso?! La mia famiglia-»
«Ti sembra distrutta, certo. Tre pezzi. Tu, Baiko e Yuzo. Tutti vicini. E i cocci si possono ancora mettere insieme, ma non ci riuscirai mai se vorrai usare il rancore come collante. Diventerete polvere e dopo avrai davvero perso tutto.»
Lei abbassò il capo, seguitando a dargli le spalle.

«…Haruko, forse non diventerò mai un giocatore di baseball e nemmeno un architetto, però… se potessi scegliere di avere un’unica cosa nella mia vita, io sceglierei te.»

- Baiko… -

 

“Do you know what you’re hoping for? /
Lo sai cosa stai sperando?
When you look behind you, there’s no open doors /
Quando ti guardi indietro, non ci sono porte aperte.
What are you hoping for? /
Che cosa stai aspettando?
Do you know? /
Lo sai?

Diana RossDo you know where you’re going to?

 

*

“I just know your life's gonna change /
So solo che la tua vita sta per cambiare.
Gonna get a little better /
Vivila un po’ meglio
even on the darkest day /
perfino nel giorno più nero.

 

Il suo stomaco diede segni di cedimento non appena mise piede in casa.
Gorgogliò in maniera minacciosa e questo gli ricordò che, se voleva venire a compromessi anche con quella casa, era ora che iniziasse a prenderne la giusta confidenza. La cosa migliore era partire dalle basi e le basi si chiamavano: cucina e fornelli.
Baiko appoggiò la borsa del netbook sul mobiletto dell’ingresso, tanto l’avrebbe portata con sé anche il giorno dopo, per continuare a leggere il libro. E gli stava piacendo, non l’avrebbe mai detto. Eppure, forse la cosa che lo aveva lasciato più sorpreso era che comprendeva benissimo perché suo figlio avesse sottolineato certi passaggi o determinate frasi. Se gli avessero detto di farlo, lui avrebbe messo in evidenza le stesse. Addirittura la loro ‘sensibilità’ sembrava essere simile.
Quante cose ancora esistevano in grado di unirli, di renderli più vicini? Quante cose nascoste dentro di loro, di cui forse non erano nemmeno a conoscenza…
Baiko se l’era domandato lungo il tragitto per tornare a casa, immerso in una sorta di ‘stato di grazia’ e sospensione. Una sensazione diversa da quella che aveva provato pochi giorni prima. Nel momento in cui Yuzo si era ribellato in maniera definitiva alla sua autorità, aveva sentito la propria testa persa in una sorta di vuoto cosmico; l’astronauta, si ricordò. Un astronauta perduto nello spazio a gravità zero, dove non esisteva niente, dove non c’era una direzione verso cui muoversi. C’era solo una stasi indesiderata che non si poteva interrompere. Ora, la sospensione era totalmente diversa. Era sentirsi immersi in una pienezza così densa da galleggiare: lui galleggiava nella conoscenza di suo figlio. Lui galleggiava in Yuzo, nel suo mondo. Prima c’era stato il nulla, adesso c’era il tutto. E il tutto era una meravigliosa compagnia.
La cucina lo accolse in una sorta di silenzio guardingo. Se i mobili, gli stipetti, il tavolo e le sedie, le posate, i piatti e tutti gli oggetti lì presenti – mura, soffitto e pavimento compresi – fossero stati dotati di bocca, avrebbero detto: ‘Chi sei? Non ti conosciamo’.
«Ooook, casa» batté con forza le mani, sfregandole tra loro, «vediamo cosa mi offri e cosa sono in grado di fare!»
Baiko iniziò ad aprire gli stipetti e il frigorifero alla ricerca di ingredienti per poter creare qualcosa di commestibile.
Riso, spaghetti di riso, verdure varie, bonito, soia…
«Yakisoba!» esclamò in un tono che assomigliava molto a un ‘eureka!’. Era un piatto semplice, ricordava sua madre le infinite volte che li aveva preparati quando era piccolo e anche Haruko, le mani che maneggiavano con destrezza i coltelli da cucina, il grembiulino colorato e il sorriso sulle labbra. Ricordò il modo in cui tirava i capelli dietro l’orecchio e sentì le proprie labbra arricciarsi con malinconia. Probabilmente non avrebbe più potuto godere di quelle piccole cose che aveva sempre dato per scontate.
Scosse il capo, scacciando dalla mente la sola idea del divorzio – che parola orribile! Avrebbero dovuto cancellarla dal dizionario! – e si concentrò sul suo tentativo di cena.
Con decisione afferrò il pacco di spaghetti di riso dal ripiano, appoggiandoli poi sul tavolo. Dal frigo cavò cavolo, carote, cipolla verde e il filetto di maiale. Guardò l’insieme degli ingredienti che avrebbe dovuto usare con espressione convinta e soddisfatta: tutti sarebbero stati in grado di preparare degli spaghetti yakisoba, anche un bambino! Poteva ben sperare di cominciare con il piede giusto per recuperare le sue carenze in economia domestica.
«Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità» affermò solennemente e si rimboccò le maniche della camicia.
Per prima cosa iniziò dalle verdure. Avrebbe dovuto tagliare le foglie di cavolo e la cipolla verde, infine sminuzzare un aglio. Niente di così complicato, certo, ma quando i suoi occhi si fermarono sul set di coltelli, ingoiò a vuoto: non aveva mai pensato potessero essere così grandi… e affilati.
«Chissà se Haruko ha mai pensato di usarli come arma…» si domandò, osservando con attenzione la lama lucida e larga. Quante volte aveva rischiato la vita e non se n’era mai accorto? Avrebbe dovuto imparare a non contraddirla, in futuro. Sempre se avesse voluto dargli una seconda opportunità.
Con attenzione, Baiko si mise a tagliare il cavolo e la cipolla, stupendosi di sé stesso: non se la cavava male, certo la cipolla non era perfetta e il cavolo sembrava fosse stato mandato al massacro, ma insomma, l’importante non era l’aspetto quanto il risultato. L’aglio volò dappertutto quando tentò di sminuzzarlo: sul viso, sugli abiti, per terra, sul ripiano. C’era più aglio in tutto il resto della cucina che sul tagliere. E lui si appuntò che avrebbe dovuto usare un grembiule, la prossima volta.
Fu quando passò alle carote che Baiko iniziò a capire che, forse, non sarebbe stato così facile come gli era sembrato fino a quel momento.
Insomma, tagliare qualcosa di morbido come poteva essere il cavolo era una cosa, tentare di affettare qualcosa di più duro era tutt’altra.
La lama gli sfilò per tre volte e altrettante rischiò di affettarsi le dita invece della carota.
«Oh, merda!» sbottò alla quarta, il coltello che veniva letteralmente lanciato sul ripiano prima che potesse lasciarci una falange. Inspirò a fondo, le nocche appoggiate sul tavolo e lo sguardo fisso alla carota mezza tagliuzzata.
«Seee, fettine ‘alla julienne’. Uguali.» Batté le mani e le sfregò, prendendo una decisione. «D’accordo, niente carota. Sperimentiamo una variante che si chiamerà: Yakisoba alla Baiko
La piastra stava già riscaldandosi sul fuoco. Alla fine il difficile poteva dire d’averlo già fatto, ora si trattava solo di mischiare il tutto.
Mise gli spaghetti sulla piastra, premendoli da un lato e dall’altro.
«Ah! Visto?! Lo so fare! Non sono poi così incapace, no?» Si guardò attorno, quasi aspettandosi di avere l’approvazione dalla cucina in persona. «E ora, il maiale.»
Il filetto di maiale prese a friggere allegramente su un filo di olio di sesamo, riempiendo la stanza con il suo odore invitante. Adesso poteva passare alla preparazione della salsa yakisoba. Guardò le bottiglie dei vari ingredienti con occhio critico. Non aveva idea delle proporzioni, ma alla fine a lui erano sempre piaciute le cose molto saporite. Riempì un’intera ciotola di salsa oyster, soia e sakè, amalgamandole con estrema facilità.
Sì, stava andando alla grande! Certo, c’erano voluti trent’anni prima che si mettesse ai fornelli, però alla fine qualcosa di economia domestica l’aveva imparata, nonostante fosse sempre stato un disastro a scuola.
Al maiale e agli spaghetti, Baiko aggiunse le verdure, mischiò il tutto e decise finalmente di aggiungere il tocco finale, ovvero la salsa. Poteva già pregustarsi la sua prima cena preparata interamente da sé stesso. Un evento che aveva del miracoloso e che avrebbe potuto raccontare, ridendo, quando tutto quello sarebbe finito. Certo, non aveva messo in conto che non si sarebbe conclusa nel verso da lui sperato fino a quel momento. Tutto precipitò quando aggiunse la famosa salsa. Bastò una goccia caduta all’esterno, la padella leggermente più spostata, la fiamma viva e libera.
Prese fuoco. D’improvviso. L’alcool del sakè diede l’effetto di un flambé impazzito che divampò in tutta la piastra. Baiko fece un balzo all’indietro giusto in tempo per non scottarsi.
«Fuoco! Fuocofuoco! Brucia!» girò in tondo non sapendo che fare, mentre le fiamme ballavano la hula all’interno della pentola. Prima provò a soffiarci sopra, ma senza alcun risultato, poi afferrò il primo strofinaccio che gli capitò sottomano, colpendo la povera padella come fosse stata posseduta dal demonio, ma tutto ciò che ottenne fu di mandare a fuoco anche lo straccio.
«E spegniti, dannazione!» masticò, dopo averlo gettato in terra e averlo pestato. In quel balletto improvvisato, agguantò il coperchio e lo lanciò quasi sulla piastra, riuscendo a coprirla in modo da estinguere anche quel principio di incendio.
Tirò un pesante sospiro.
«Doveva pur esserci un motivo per cui facessi così schifo in economia domestica.»
Spense il fornello e provò a sbirciare quello che restava della cena. Gli spaghetti e le verdure gli apparvero bruciacchiati, ma con l’ultimo moto d’orgoglio che gli era rimasto gonfiò il petto.
«Chi può dirlo! Magari sono ottimi!» si convinse. Afferrò le bacchette e pescò alcuni spaghetti. Li masticò a lungo, nel silenzio di tomba che era calato nella stanza. Li passò a un lato all’altro della bocca, mentre una ruga di disappunto iniziava a piegarsi sulla fronte e all’angolo delle labbra. Baiko tentò di resistere strenuamente, perché non aveva mai tollerato la sconfitta, ma alla fine non gli restò che cedere.
Sputò tutto nel cestino della spazzatura.
«Bleaaaaah, ma è disgustoso! Dio mio!» disse, dopo aver buttato giù d’un sorso un intero bicchiere di acqua: non solo sapevano di bruciato, ma erano sakè allo stato puro.
Baiko guardò la sua opera d’arte malriuscita e poi, con la coda dell’occhio, scrutò le condizioni terribili in cui aveva ridotto la cucina.
«Credo di dover partire da qualcosa di ancora più semplice» ammise a sé stesso e, con fare sconsolato, aprì a caso uno degli stipetti. Tra le tante scatole, una, più nascosta, attirò la sua attenzione. Sulla confezione faceva capolino il disegno di un timido e candido fiocco di mais.
Inspirò a fondo; l’orgoglio buttato nel secchio della spazzatura assieme al suo aborto di spaghetti.
«E vada per i pop-corn.»

 

“So, is this how it goes? /
Allora, è in questo modo che va?
Think you’ve come this far with nothing to show /
Pensi di venire qui da così lontano senza niente da mostrare?
That ain’t so, no /
Non è così, no.
You don’t see where you are /
Non vedi dove sei
and if you don’t look back you’ll never know /
e se non ti guardi indietro non lo saprai mai.

 

Baiko afferrò la ciotola dei pop-corn, stringendola sotto al braccio, mentre con l’altra mano affondava nei fiocchi candidi.
Fin da quando era tornato da Suruga, sapeva di dover fare una cosa e a quella era fermamente deciso a dedicare l’intera serata.
Entrò nel salotto, percependolo quasi come fosse una zona neutrale, appoggiò i pop-corn sul tavolino e si avvicinò al televisore; nel mobiletto erano raccolti, in maniera ordinata, i dvd delle partite di suo figlio. Ringraziò mentalmente l’accortezza di Haruko nell’averli conservati tutti; era davvero una madre magnifica e se Yuzo era un ragazzo così a modo lo doveva solo a lei, non certo a sé stesso che come padre era stato un vero fiasco.
Si sedette a terra, di peso, lamentando dolori ovunque e non volle nemmeno immaginare in che modo non sarebbe riuscito ad alzarsi dal letto il giorno successivo.
«Ci ho dato troppo dentro con quella bici…» borbottò e anche con il baseball; iniziava a sentire il braccio talmente stanco da sembrare un’appendice morta. Lo ruotò a vuoto, massaggiando la spalla, ma non avvertì nessun sollievo.
Baiko aprì le ante del  mobiletto basso e le costine delle custodie comparvero tutte affiancate. Su ciascuna era scritto l’anno del campionato di riferimento. Partivano dal 2000. Oddio, il 2000. Yuzo aveva avuto solo otto anni. Ne erano passati undici da allora, ma la differenza era abissale. Suo figlio era un uomo, che sapeva cosa voleva dalla vita, e l’idea di poter recuperare qualcosa di lui così lontana, di poterlo vedere di nuovo bambino come non fosse ancora cresciuto, gli allargò un sorriso caldo sull’espressione carica di affetto e protezione.
Prese il primo dvd, rigirandolo tra le mani, sulla copertina nera erano elencate tutte le partite presenti nel disco. Stava per alzarsi quando si accorse che dietro la fila c’erano degli album. Baiko tirò fuori tutti i dvd per poterli prendere.
Cominciò a sfogliarne uno e il sorriso si fece nostalgico: erano gli album di famiglia.
Le prime foto in bianco e nero mostrarono panoramiche di Suruga-ku, della sua casa e dei suoi genitori.
Shuzo Morisaki apparve in kimono tradizionale con sguardo gelido e impersonale in quella foto che lo ritraeva assieme a lui e a sua madre. Era così autoritaria, la sua espressione, che anche quella di Baiko, nel fissarla, si fece seria.
Passò oltre e altri scatti più recenti lo videro ventenne nei coloratissimi anni ’80, assieme ad Haruko. Lei sorrideva, luminosa come il sole, mentre lui nascondeva i denti dietro le labbra leggermente piegate. Sul proprio viso, Baiko lesse l’avvicinarsi di quella severità che era propria di Shuzo e con l’andare degli anni e delle fotografie divenne sempre più evidente.
Foto della ‘Golden Gun’ quando c’era ancora suo padre alla dirigenza; lui e i suoi completi scuri sempre eleganti e professionali, tutti uguali e anonimi, rigorosi.
La severità che si rafforzava e stonava così tanto accanto alla bellezza di Haruko da fargli aggrottare le sopracciglia e sospirare. Cozzavano come il giorno e la notte, lei il fiore e lui la spina.
«Come hai fatto a sopportarmi per tutti questi anni?» domandò al viso di lei che sorrideva felice come se tutto il resto fosse irrilevante e il suo distacco, la sua indifferenza non sembravano pesarle.
Poi il respiro gli si fermò al centro del petto all’improvviso, come se l’aria lì attorno fosse finita di colpo, lasciandolo a metà.
«Oddio…» gli occhi gli punsero senza dargli tregua e sentì il naso pizzicare, l’emozione costiparsi tutta in un punto senza trovare una via di fuga.
Nella foto c’era Haruko, bella oltre ogni dire, che, tra le braccia, stringeva un fagottino con i pugnetti stretti e l’espressione sonnacchiosa.
«…quanto eri piccolo…» esalò, le dita che carezzavano la superficie liscia della fotografia quasi avessero potuto sentire il calore della morbidezza di quel corpo che, ricordò, era stato in grado di reggere con un braccio solo.

«Sorridi, mammina, che vi faccio una foto!»
«Ma non siamo presentabili!»
«Siete bellissimi, non fare storie.»
«Va bene, ma solo una, eh! Ho la faccia di uno zombie e poi… guardalo! Sbadiglia, il nostro cucciolo! Anche lui è stanco, siamo appena usciti dall’ospedale.»
«Ok, ok. Una sola, donna polemica.»
Click.
«E ora la nanna, vero piccolino?»
«Ha sbadigliato di nuovo! Capisci già tutto, non è così? Sei un ometto sveglio. Sogni d’oro, Yuzo, sei a casa.»

Come faceva un corpo così piccolo a crescere così tanto?
Se lo chiese, ma non seppe rispondersi perché non c’erano vere risposte a simili domande. Forse nemmeno si volevano conoscere sul serio, erano interrogativi volanti che nascevano e morivano nell’elettricità delle sinapsi, erano un modo per non rimanere muti davanti a simili meraviglie.
I mesi e poi gli anni passarono nel susseguirsi degli scatti. Gli occhi assonnati e sonnacchiosi divennero vispi e attenti. Occhi come quelli di Haruko, puri, e che sorridevano in maniera naturale.
Tre mesi. Cinque mesi. Un anno.
Yuzo cresceva in fretta, stretto tra le braccia di sua madre o dei nonni.
Shuzo aveva perso tutta la sua austerità e sembrava avere almeno dieci anni di meno, Kyoshi non aveva ancora i capelli bianchi e Leticia, la madre di Haruko, era ancora viva.
Yuzo gattonava ma lo scatto successivo era già in piedi, che correva dietro a una palla. E sorrideva, sempre.
E lui, quei momenti, li ricordava tutti. Le frasi dette, le situazioni, addirittura le stagioni. Erano tutti lì, nella sua testa, con una nitidezza che lo sconvolse. Sapeva tutto di quelle foto perché le aveva scattate in prima persona, anche per questo non compariva mai in nessuna immagine: era dietro la macchina fotografica, ma si rese conto di non avere alcuna foto con suo figlio. Nemmeno una dove fossero insieme, dove sorridevano, solo loro due. Come se non fosse mai esistito. Dopo i sette anni, poi, era scomparso anche come fotografo.
Il suo sorriso felice si smorzò lentamente fino a dissolversi in una smorfia scoraggiata.
Possibile che non ce ne fosse nemmeno una? Una sola tutta per loro dove restavano vicini e sorridenti. Felici?
D’improvviso, Baiko tese le labbra e aggrottò le sopracciglia, con decisione.
«E va bene, vorrà dire che quanto ti sveglierai ne faremo un sacco, di foto. Tutte quelle che abbiamo saltato in questi anni, le recupereremo da adesso in poi, vedrai, Yuzo.»
Annuì con fermezza, guardando a lungo e con affetto il sorriso di suo figlio nell’ultima immagine dell’album. Aveva quindici anni e vestiva con orgoglio la divisa del liceo Nankatsu, dopo aver passato brillantemente i test di ammissione.
In maniera ordinata, Baiko mise di nuovo a posto le fotografie, dedicandosi esclusivamente ai dvd.
Finalmente lo avrebbe visto giocare.
Con un po’ di emozione, infilò il primo disco e tornò al divano per godersi in pace la partita.
Il campo da calcio apparve con una panoramica ripresa dall’alto degli spalti. C’era gente, ma non abbastanza per occupare tutti i posti.
Erano più che altro genitori, famiglie, amici venuti a vedere i piccoli campioni.
Il cameraman improvvisato fece una panoramica dei volti al suo fianco e, tra signore sconosciute, riconobbe Haruko.
«Forza, Haruko-san, un bel sorriso per i posteri» disse, allegra, una voce di donna, probabilmente colei che stava anche effettuando le riprese. Sua moglie non se lo fece ripetere, sorrise solare e salutò con la mano.
Lui sorrise di rimando all’allegria che emanava il suo volto, più giovane, e con la permanente ad arricciarle i capelli. Li aveva portati così per tutti gli anni ’80 e ’90 e solo con l’affacciarsi del 2000 era ritornata al suo liscio naturale. Per lui non faceva differenza, era bellissima lo stesso.
Le voci di sottofondo accompagnarono le immagini che tornarono ad essere quelle del campo.
«Oh, sono così emozionata! È la prima volta che vedo giocare mio figlio.»
«Vedrai, Haruko-san, sono tutti così carini!»
«Certe volte mi verrebbe voglia di andare alla panchina per abbracciarli e riempirli di coccole!»
Baiko inarcò un sopracciglio, scuotendo il capo nell’udire quelle tipiche smancerie da femmine. Afferrò i pop-corn e se ne cacciò un paio in bocca, intromettendosi nel discorso.
«Meno chiacchiere, signore mie, e passiamo ai fatti!»
Quasi l’avessero sentito, i bambini fecero compostamente la loro entrata in campo, in fila, tutti ordinati per raggiungere le rispettive panchine.
«Eccoli! Eccoli! Oh, ma guardate che pulcini!» L’occhio della videocamera zoomò freneticamente sulla panchina e tra tutti i visi dei campioni in erba, lo vide. L’aria felice, la divisa della Mizukoshi, si sistemava i guanti in maniera meticolosa, guardandoli come fossero stati la cosa più bella del mondo.
Baiko masticò lentamente il fiocchetto di mais, addolcendo lo sguardo. Per un attimo l’immagine di un bambino con il guantone da baseball si sovrappose a Yuzo: la stessa espressione.
«Cielo… il mio ometto…»
Gli squittii delle mamme scomparvero e le sue orecchie non sentirono più nulla se non un unico suono, cupo, ripetuto in maniera ritmica.
Tum.
Tum.
Tum.
Rimbombava, veniva da dentro di lui, dalla cassa toracica.
Tum.
Tum.
Tum.
Baiko si portò una mano al petto. Il cuore aveva un suono così forte. Copriva ogni cosa.
Sullo schermo, Yuzo sorrideva, si interessava al mondo circostante, ascoltava con attenzione il mister che parlava e poi annuiva alle disposizioni che gli venivano impartite.
L’incontro non era ancora iniziato, ma lui poteva percepirlo distintamente quel battito fiero, quel senso di invincibilità e forza indistruttibili. Era orgoglio. Yuzo aveva solo pochi anni e cominciava appena a muovere i primi passi nel mondo del calcio e anche se non sapeva quale sarebbe stato l’esito di quella partita, che avesse vinto o perso, lui era profondamente orgoglioso di suo figlio.

 

“Cos you think that you’ve been living, just treading water /
Perché pensi d’aver vissuto, restando appena a galla
and waiting in the wings for the show to begin /
e aspettando dietro le quinte che lo show iniziasse.
But I always see you searching /
Ma ti ho sempre visto alla ricerca,
as you try that bit harder /
come ci provassi un po’ più duramente
getting closer, oh yeah, to the life you’re imagining /
ad avvicinarti, oh sì, alla vita che stai immaginando.

 

Alla fine avevano perso davvero, anzi, erano stati proprio stracciati, ma lui non aveva smesso un attimo di sorridere divertito.
I loro avversari erano stati quelli della scuola elementare più prestigiosa di Nankatsu, la Shutetsu, e… «Ma non è Mamoru, quello lì?!» aveva domandato, riconoscendo, nel vivace ragazzino con i capelli lunghi, l’amico di suo figlio. E poi Hajime e Teppei, il colosso che era un armadio già da piccolo. Le partite si erano succedute, le divise cambiate, Yuzo era cresciuto un po’ di più a ogni incontro e non solo fisicamente.
A Baiko sembrò che imparasse sempre qualcosa da ogni sconfitta, da ogni goal preso. Forse, soprattutto per questo, per il modo in cui sapeva sempre alzare la testa, era riuscito ad arrivare in Nazionale e poi nella J-League.
La forza di suo figlio andava oltre ciò che aveva immaginato.
Ma non era un qualcosa di palese o plateale, non come quel mentecatto abbronzato, psicopatico e sadico che gli aveva volutamente tirato una pallonata in faccia – «Ma chi diavolo è quel moccioso?! E’ fallo, arbitro, cazzo! E’ da espellere! E pure rinchiudere!» aveva cominciato a urlare facendo volare la ciotola e spargendo tutti i pop-corn –. La forza di Yuzo era qualcosa di calmo, che passava inosservata a chi non sapeva guardare, era un qualcosa che restava sempre nascosto dietro al sorriso spensierato e vivo, dietro alla meticolosità con cui, sempre, aveva continuato a mettersi i guanti prima di entrare in campo, dietro allo sguardo concentrato ed esclusivo con cui li guardava. Yuzo aveva una forza costante che non esplodeva, ma che comunque, alla fine di ogni partita, si rafforzava.
Baiko l’aveva scrutato con attenzione, seguito ogni suo movimento o espressione per quanto gli fosse stato possibile ogni volta che veniva inquadrato, cercava di capirlo dai gesti, dai modi con cui guidava la difesa, dalla sicurezza che aumentava a ogni partita.
Gli aveva visto vestire la stessa divisa di Mamoru, all’ultimo anno delle elementari, e poi alle medie e poi ancora al liceo. L’aveva visto giocare con lui, fianco a fianco, dalla stessa parte, assieme a quei ragazzi che ora animavano le fotografie della sua camera.
Aveva urlato, sbraitato, applaudito e riso, si era emozionato e arrabbiato. Non solo per suo figlio, ma per tutti loro che erano cresciuti assieme a lui e si erano fatti ragazzi e poi uomini.
L’avevano chiamata la Generazione D’oro del calcio giapponese, ma per Baiko erano diventati molto di più che semplici calciatori. Erano gli amici di suo figlio, erano i compagni di viaggio che Yuzo aveva scelto di avere accanto nella sua crescita e meritavano tutto il rispetto che non aveva mai voluto dargli.
Gli occhi di Baiko si fermarono su Yuzo e Mamoru che, insieme, abbandonavano il campo. Il terzino aveva aspettato suo figlio e, appena lo aveva avuto vicino, gli aveva prima spettinato scherzosamente i capelli, poi gli aveva passato il braccio attorno al collo, allontanandosi verso l’uscita. Lui, che aveva colto ma non approfondito quel qualcosa che sembrava esserci tra loro, li guardò con occhi diversi.
«Datemi tempo» disse, con tono colpevole, «posso affrontarlo, davvero, ho solo bisogno di ancora un po’ di tempo.»
La ripresa si interruppe sul loro sorriso ignaro, prima di passare al video successivo.

 

“(Just wanna live) /
(Voglio solo vivere)
No worries, no worries /
Nessun problema, nessun problema.
(Don’t wanna die) /
(Non voglio morire)
No worries, no worries /
Nessun problema, nessun problema.
(Fight through the low’s) /
(Combattere attraverso le avversità)
Say it for me, say it for me /
Dillo per me, dillo per me.
(And take all the high’s) /
(E prendere tutto il meglio)
We all need somebody /
Tutti abbiamo bisogno di qualcuno.

Simon Webbe No worries

*

Mae guardò distrattamente l’orologio appeso al muro mentre finiva di preparare la cena.
Quando sentì il rumore della porta, lasciò tutto quello che stava facendo e si affacciò al corridoio, visibilmente felice.
«Mamoru, final-… oh, caro sei tu.»
Taikan Izawa inarcò ironicamente un sopracciglio, esibendo un sorriso offeso. «Beh, non merito lo stesso entusiasmo di mio figlio?»
Lei ridacchiò. «Finiscila! Sei troppo vecchio per fare il bambino.»
«Ma senti!»
«Su, su. Non essere polemico.» Gli scoccò un bacio sulla guancia. «Bentornato.»
«Umphf. Vedrò di accontentarmi. Piuttosto, perché quest’impazienza?» Dopo essersi tolto le scarpe e aver appoggiato le chiavi della macchina nel piccolo vassoio accanto all’ingresso, tornarono entrambi in cucina.
Mae sospirò. «Mah, niente in particolare, solo che non è ancora tornato…»
Taikan si avvicinò alle calde e invitanti polpettine di pollo appena fritte, allungando distrattamente una mano per fregarne una, ma lo schiaffetto ammonitore lo colpì con la velocità di un fulmine costringendolo alla ritirata repentina e strategica.
«Ahio!»
«Non provarci. Conoscendoti, te le mangeresti tutte in men che non si dica. Aspettiamo Mamoru.»
Taikan grugnì di nuovo, incassando il collo nelle spalle come un bambino dispettoso, poi si rilassò, appoggiandosi al mobile e preparando mentalmente una nuova tattica per riuscire a sgraffignare almeno una polpettina. Era divenuta una questione di principio.
«Vedrai che arriverà presto, lo sai che va direttamente all’ospedale quando torna da Yokohama.»
Mae sospirò di nuovo, il viso appoggiato in una mano, le labbra strette e il nasino all’insù. Aveva i capelli acconciati con un taglio corto che lei ci teneva a ricordare fosse ‘alla moda e non da vecchia signora!’, dopotutto, lavorando in salone di bellezza doveva sempre essere impeccabile.
«Sono molto preoccupata. Mamoru non l’ha presa bene. Te ne sei accorto? È diventato così taciturno e sempre di cattivo umore…» Con disinvoltura allontanò la ciotola con le polpettine dal raggio d’azione di suo marito che arricciò leggermente le labbra, contrariato.
Taikan si sistemò la bassa coda di cavallo che si ostinava a portare nonostante l’età cercasse in tutti i modi di ricordargli di aver superato i quarantacinque. Tirò su i rettangolari occhiali da vista e si fece più vicino a sua moglie, allungando il braccio sul ripiano e fingendo di essersi solo appoggiato.
«Cerca di capirlo, stiamo parlando di Yuzo. E’ il suo migliore amico, si conoscono da che erano bambini. Senza contare che è stato lui a trovarlo, insieme alla madre del ragazzo.»
Mae sospirò per l’ennesima volta, scuotendo il capo con espressione afflitta. «Non voglio nemmeno immaginare cosa deve aver provato Haruko. Sono passata all’ospedale un paio di giorni fa, e aveva un’aria così distrutta… Non riesco ancora a crederci che Yuzo abbia fatto una cosa simile. Lo conosciamo da anni, l’hai visto anche tu che ragazzo d’oro sia!»
«Già…» in quel momento, entrambi si disinteressarono a tutto il resto, alle tattiche per rubare una polpetta, alle futilità. Anche se, soprattutto in presenza di Mamoru, tendevano a mantenere un tono più leggero, tutta la faccenda aveva colpito anche loro. Consideravano Yuzo come uno di famiglia, ormai, un ‘figlio acquisito’. «E del padre? Si sa niente?»
Mae arricciò le labbra e inarcò un sopracciglio. «Mah, io non l’ho mai visto. Né alle partite né alle manifestazioni scolastiche» e quando l’aveva chiesto a Mamoru, lui aveva liquidato l’argomento in due parole.
A Taikan era sempre suonato molto strano che il padre di Yuzo fosse così disinteressato a suo figlio. Dopotutto, era sia un campione nazionale che mondiale. Ma doveva ammettere che nemmeno lui l’aveva mai visto.
«Mh… deve essere una persona davvero molto severa.»
«Sicuro. Poi, mi ha detto la mamma di Hajime che, a quanto pare, Haruko non vuole sentirne parlare. Non credo tiri una buona aria…» il capo venne scosso lentamente e con dolenza. «Ci mancava anche questa.»
«Brutta storia.»
«Sì…»
L’improvviso rumore della porta d’ingresso che veniva nuovamente aperta interruppe la loro conversazione, facendola virare nuovamente su toni più leggeri quando sentirono la voce di Mamoru.
«Sono a casa.»
«Ah! Tesoro!»
A Mae bastò quell’attimo di distrazione, perché la mano lesta di Taikan riuscisse ad allungarsi fino alla ciotola, pescare una polpettina e portarsela alla bocca. Quando si rigirò, la donna lo vide con le labbra strette, una guancia gonfia e l’espressione di chi si stava trattenendo fino allo stremo per non sbottare a ridere. Mae ridusse gli occhi a due fessure sottilissime, valorizzate dal mascara e dalle ciglia finte messe ad arte. Inspirò a fondo, espirando poi con la pesantezza di un bufalo.
«Taikan» scandì lentamente il suo nome, mostrandogli le unghie lunghe abbellite con complesse nail art. L’uomo finse un’espressione innocente. «Vedi di correre perché se ti metto le mani addosso, ti faccio a strisce!»
Non se lo fece ripetere: Taikan sgattaiolò via masticando la famosa polpettina e tentando di non strozzarsi con le risate. Sbucò nel corridoio, dove Mamoru aveva appena poggiato a terra il borsone.
«Figlio, salva il tuo vecchio!» si nascose dietro di lui, prendendolo per le spalle e usandolo a mo’ di scudo.
Mae spuntò nella scia, le mani sollevate e pronte a colpire. «Ah! Ma bravo! Mandi avanti tuo figlio?! Quanto coraggio!»
Mamoru rimase immobile, preso tra i due fuochi, e con l’espressione di chi non aveva idea di dove fosse finito.
«Ma… che diavolo state facendo?!»
«Tua madre vuole scorticarmi vivo!» esclamò Taikan.
«Tuo padre s’è fregato una delle polpettine che ti avevo preparato con tanto amore!» si difese Mae.
E nessuno dei due che gli desse modo di dire qualcosa.
«Sappi che sono buonissime, tesoro, ma con un po’ di salsa di soia sarebbero perfette!»
«Non c’è bisogno che me lo dica tu! Lo so anche da me e-… oh!» Mae perse il piglio aggressivo, portandosi una mano alla bocca stretta. «Ho dimenticato di comprare la salsa! È finita! Valla a prendere, mangione!» ordinò, puntando severamente l’indice contro suo marito.
Per tutta risposta, lui le fece una linguaccia.
Incastrato in quel botta e risposta, al terzino non restò che sospirare e affondare il viso in una mano. «Povero me, ma come devo fare con voi?» masticò, chiedendolo più a sé stesso che a loro. «Papà smetti di fare i dispetti alla mamma, e tu, mamma, smetti di rincorrere papà con le unghie sguainate. A comprare la salsa ci vado io.»
Mae si crucciò, portandosi le mani al viso. «Ma no, tesoro, sei appena arrivato…»
«Tanto è qui vicino e poi ho voglia di fare due passi.» per fortuna che non si era ancora tolto le scarpe. Si volse, afferrando la maniglia, quando fu il padre a fermarlo, questa volta.
«E Yuzo? Sei andato a trovarlo; come sta?»
Mamoru non si volse, ma Taikan non ebbe bisogno di vederlo in faccia per capire che il tono era cambiato, e in maniera drastica. Asettico, freddo, distante.
«Come sempre.»
Il rumore della porta che si chiudeva sui suoi passi tagliò l’aria, rimbombando nel silenzio.
Mae e Taikan rimasero a fissare per qualche momento l’uscio chiuso, prima di scambiarsi uno sguardo affranto.

 

“It's ok. It's ok. It's ok /
Va bene. Va bene. Va bene.
Seasons are changing /
Le stagioni stanno cambiando,
and waves are crashing /
e le onde si stanno infrangendo, /
and stars are falling all for us /
e le stelle stanno cadendo per noi. /
Days grow longer and nights grow shorter /
I giorni diventano più lunghi e le notti più corte.
I can show you I'll be the one /
Posso mostrarti che sarò l’unico per te.

 

Quei due erano un disastro, Mamoru si era rassegnato fin da quando aveva capito che fossero irrecuperabili, ovvero in prima elementare. I suoi genitori erano proprio senza speranza, eppure forse era stato proprio questo loro atteggiamento sopra le righe, quel non prendere sul serio sé stessi o ciò che li circondava a renderli così aperti al mondo. Così felici e soddisfatti.
Mamoru affondò le mani nelle tasche jeans che gli arrivavano al ginocchio, guardandosi i piedi. Procedevano un passo dietro l’altro.
A loro non aveva detto che, in verità, aveva sentito il bisogno di prendere aria, come se tutta quella che respirava non fosse sufficiente. Voleva sentirne di continuo scorrere sopra la pelle con quel tenue venticello, quasi potesse togliere la sensazione di ospedale che gli si aggrappava addosso ogni volta che andava da Yuzo.
E non cambiava nulla.
Quando si trovava a Yokohama viveva con la costante attesa che il telefono potesse squillare all’improvviso, che qualcuno gli dicesse ‘È sveglio!’, che venisse finalmente spezzata quella cupola immobile che era calata su tutti loro quasi fosse stata la bara di Biancaneve. Ma non c’erano Sette Nani ad aspettare, perché anche loro erano finiti rinchiusi tra le pareti di quella scatola di cristallo e il tempo non esisteva più, non aveva senso. Mamoru aveva smesso di percepirlo.
Quando poi rientrava a Nankatsu, c’era un’altra speranza ad animare i suoi passi, gesti e pensieri: quella di affacciarsi nella stanza e trovare aperti i suoi occhi.
Puntualmente le sue attese venivano deluse e Yuzo continuava a rimanere addormentato ignaro di tutte le persone che soffrivano attorno a lui e che aspettavano il suo ritorno. Forse, se solo avesse saputo quanto male faceva, si sarebbe svegliato subito. Ma lui ignorava ogni cosa, sordo a tutto, e il solo pensiero gli fece tirare un basso respiro inquieto, frustrato. Le labbra tese, il sopracciglio inarcato sull’espressione improvvisamente aspra. Arrabbiata.
Non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con Hajime e Teppei che più volte gli avevano chiesto se andava tutto bene. Ci sarebbe stata solo una persona con cui avrebbe affrontato il discorso. A lui e solo a lui avrebbe detto ogni cosa, ogni pensiero, visto che era il responsabile di tutto. E non gli importava se non avesse ascoltato, gli avrebbe parlato lo stesso e poi, quando finalmente si sarebbe risvegliato, glielo avrebbe ripetuto ancora perché non poteva pensare di poterla passare tanto liscia dopo quello che aveva fatto.
Mamoru spinse con troppo vigore la porta del supermarket aperto ventiquattro ore, tanto da attirarsi gli sguardi dei pochi avventori che, come lui, erano andati a comprare l’ingrediente dell’ultimo minuto.
Il terzino ignorò tutto e tutti e si diresse a passo spedito verso gli scaffali dove sapeva avrebbe trovato la salsa di soia.
Con la mente ripensò al signor Morisaki.
Era arrabbiato anche con lui.
Lo rivide mentre restava seduto a leggere per il figlio e le labbra si deformarono in una smorfia.
Che pensava? Che sarebbe bastato? Che sarebbe stato sufficiente? No che non lo era! Non poteva credere di diventare il padre modello e premuroso tutto a un tratto e solo dopo che il figlio aveva agito di forza. Niente di quello che avrebbe fatto gli avrebbe riportato indietro Yuzo!
Senza nemmeno perder tempo a scegliere agguantò una bottiglietta e si avviò alla cassa. Con un gesto brusco la sbatté letteralmente davanti al povero commesso occhialuto che sobbalzò.
Mamoru non ci fece caso. Non guardava niente. Gli occhi fermi su punti morti, ombre di oggetti, qualcosa di inutile. Pagò e se ne andò senza rispondere al saluto del cassiere che fu ben lieto di vederlo uscire.
Fuori dalle porte a vetro del supermarket, il terzino si fermò, alzando lo sguardo al cielo. Erano le nove di sera e si era fatto quasi scuro del tutto, restava quel buio tenue, che non era notte, non ancora.
L’espressione imbronciata era divenuta una parte di lui, aggrappata alla carne del viso come una maschera che si era fusa alla pelle. Impossibile da tirare via.
Non avrebbe mai potuto perdonarlo per quello.
Mamoru lo realizzò fissando una piccola stella che cercava di brillare nell’avvicendarsi della sera, ma ancora non sapeva chi, dei due, non avrebbe perdonato. Se il padre o il figlio. Forse entrambi.
Tornò a infilare le mani nelle tasche dei jeans, mentre la busta oscillava appesa al polso. Urtava ritmicamente contro la gamba mentre camminava; testa bassa, questa volta a seguire il marciapiede.
Poi, d’un tratto, sentì il primo fuoco.
Si levò scoppiettante, lasciando un alone colorato nel cielo; si festeggiava, in qualche quartiere più lontano. Ne seguirono altri, a ripetizione, così veloci che esplodevano mentre i precedenti illuminavano ancora il cielo.
Mamoru si irrigidì di colpo, stringendo i pugni nelle tasche. Ogni fibra del proprio corpo era tesa nell’isolare l’udito, nell’escludere quei suoni, quegli… quegli… scoppi… quei… quei…
Dieci, cento, mille colpi di pistola.
Sentì il sapore del sangue scivolargli nella bocca per il modo spasmodico con cui stava serrando i denti, digrignandoli. Nemmeno si era accorto che, ora, le mani stringevano la testa, tentavano di tappare le orecchie.
Nei suoi timpani, davanti alle retine il tamburo continuava a girare e ogni scatto era un colpo che esplodeva nel sangue.

«…che hai fatto?... Oddio, che hai fatto?!... che hai fatto… che hai fatto…»

La propria voce si rincorreva con quell’inflessione angosciante di cantilena.
Mamoru barcollò fino a raggiungere il muro più vicino contro il quale appoggiarsi.
I fuochi d’artificio continuavano a colorare il mondo, con la loro allegria, ignari di tutto il resto e lui si ritrovò a guardarsi le dita - inutile turarsi le orecchie quando i rumori nascevano da dentro la propria testa -: tremavano e lui non era in grado di fermarle, così come non riusciva a fermare le lacrime che scendevano lungo le guance senza controllo.
Strinse gli occhi, nascondendo il viso in quelle stesse mani che sapevano mostrare, molto più di quanto lui era in grado di nascondere, la sua paura. Ora vedeva solo lenzuola bianche e tubi.
«Perché mi hai fatto questo?... Perché?»

 

“Cuz you're my, you're my, my true love, my whole heart /
Perché tu sei il mio, sei il mio, il mio vero amore, il mio intero cuore;
please don't throw that away /
per favore, non buttarlo via.
Cuz I'm here for you /
Perché sono qui per te.
Please don't walk away /
Per favore, non andartene,
please tell me you'll stay, stay /
per favore, dimmi che resterai, resta.

The Red Jumpsuit Arrapatus  - Your guardian angel


Nota estemporanea:

XD il padre di Mamoru DEVE e sottolineo DEVE avere i capelli lunghi come il figliolo. Deve. E’ tradizione XD glieli ho sempre fatti così! Ormai non ce lo so più vedere senza codillo.
Giusto per la cronaca, visto che il suo lavoro non viene menzionato ma io gliene ho trovato uno ugualmente: Taikan ha un’agenzia di Grafica Pubblicitaria! :D

Cazzatina random:

Questo è il video che ho usato per vedere come si preparavano gli spaghetti yakisoba (XD): *clicca qui*


Le canzone del capitolo:

- Verrà il tempo (Marina Rei): Questa canzone l’ho scoperta totalmente per caso, mentre cercavo “Fammi entrare” (che è stata usata nel capitolo 5). Mi devo ripetere: Marina Rei è troppo sottovalutata come cantante. Questa canzone è davvero molto bella e poi crea un’atmosfera così sospesa che mi piaceva molto. L’ho trovata adatta al momento! :D

- Do you know where you’re going to? (Diana Ross): Diana Ross non avrebbe nemmeno bisogno di presentazioni XD. Questa canzone è stupenda e mi sembrava perfetta per sottolineare lo smarrimento e l’indecisione di Haruko!

- No Worries (Simon Webbe): Va beh XD. Signore mie, spero vivamente che abbiate messo preventivamente un catino sopra al pc per raccogliere la sbavicchia. No?! AHI AHI AHI! XDDDD
Sbavicchiamenti a parte, ‘sto giovinotto è bravo e continuo a dire che le sue canzoni riescono a ricreare ad hoc l’atmosfera di speranza e ‘risalita’ di cui ho bisogno. Ci farà compagnia almeno un’altra volta quindi, tranquille, gli sbavicchiamenti non sono finiti XDDDD.

- Your guardian angel (The Red Jumpsuit Arrapatus): Se avessi visto prima il video, senza ascoltare la canzone, non avrei dato mezza lira bucata a questo gruppo. Via! Il cantante sembra quello dei Trokkioli (XD Tokio Hotel)! Però, per fortuna, ho sentito PRIMA la canzone. E la canzone… m’è piaciuta! XD Pure parecchio. Mi piacciono quelle in cui si fa un uso più melodico della chitarra, invece che darci dentro di brutto (XD che, ovviamente, non mi dispiace!). Ripeto, avessi visto prima loro, ci sarei passata sopra con il rullo compressore XDDDD.

:D e anche per questo capitolo e tutto. Ringrazio tutti coloro che hanno deciso di seguire questa storia :)
Finalmente posso iniziare il countdown: -3 X3

 

   
 
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