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Autore: Scribak    05/07/2011    2 recensioni
"...Tra i più remoti recessi della sua coscienza, il ragazzo si affannava a cercare un’immagine rassicurante o, per lo meno, non deprimente quanto i suoi ricordi più recenti: il sorrisetto vagamente compiaciuto del fratello Prussia e quello raro e misurato di Kiku erano guide sicure verso un riposo di pochi minuti, bastevole a renderlo di nuovo abbastanza cosciente da permettergli di sfuggire alle spire tenebrose della sua malinconia. Quel giorno, tuttavia, non poteva fare a meno di pensare a quel ragazzetto snello che l’aveva ferocemente tradito, ed all’unico momento in cui i suoi occhi, dello stesso colore cupo della resina d’una quercia, si erano spalancati, inchiodandolo con il fucile in mano su una collina del Piemonte...". Attraverso la carta ed il dolore, solo una giovane nazione spensierata potrà salvare Ludwig dalla disperazione in cui l'ha gettato la Seconda Guerra Mondiale.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Through the paper and the pain

Non occorrono lunghi anni per cimentare, in una persona, l’avversione verso un determinato oggetto: sia essa l’espressione del nemico vittorioso sul campo di battaglia, il tic snervante di un’altra nazione, seduta sistematicamente all’altro capo del tavolo durante le riunioni europee, o, più banalmente, un rumore insistente, talvolta bastano pochi secondi per radicare nella nostra mente quest’impressione di odio viscerale talmente a fondo, da non riuscire più a liberarcene.

Ludwig lo aveva recentemente provato sulla propria pelle, segnata dal profilo lucido e biancastro di numerose cicatrici in via di guarigione: la Seconda Guerra Mondiale si era appena conclusa da un anno, periodo di tempo che l’aveva visto impegnato tanto quanto lo era stato nelle trincee e nel fango in precedenza. Il tedesco non aveva esattamente quello che potremo definire una considerevole quantità di tempo per rimuginare sulle ultime sconfitte subite: il suo popolo richiedeva un’attenzione costante, fragile com’era alla stregua di un convalescente ancora segnato dalla malattia. Non avrebbe sorpreso nessuno, d’altro canto, che una qualsiasi nazione, recentemente sconfitta e, per di più, in simili condizioni, desse, a lungo andare, segni di un certo nervosismo: eppure, proprio Ludwig notava, sempre più stizzito, man mano che passavano i mesi, l’influenza che esercitava sul suo umore il minimo cambiamento riportato dall’ambiente che lo circondava. La pioggia, in particolare, sembrava tenerlo in suo potere, rendendolo tanto intrattabile da determinare l’allontanamento dei suoi sottoposti durante gran parte delle giornate autunnali di Francoforte, dove ora risiedeva –si fa per dire- stabilmente.

Il suo rumore cadenzato e mormorante gli riportava alla memoria le più vive e sgradevoli impressioni del lungo conflitto, a partire da quelle vissute in uno dei tanti campi di concentramento in cui aveva espiato volontariamente gli ultimi mesi di guerra: ed il fatto che le gocce di pioggia scorressero lungo le enormi vetrate della sua spaziosa villetta proprio nello stesso identico modo delle lacrime sui volti dei prigionieri, in tremolanti e sgomenti angoli, non faceva che accrescere il senso di soffocante oppressione che continuava ostinatamente ad asserragliargli il petto.

Il tedesco giaceva mollemente su una poltrona di pelle, percependo appena il freddo che essa si accaniva a trasmettergli, nonostante si fosse avvolto in una spessa coperta. Dopo aver cercato, invano, di trovare una posizione confortevole al suo riposo, si era risolto a stare steso sulla schiena, la testa abbandonata contro il duro pomello di legno del bracciolo che spuntava da sotto il cuscino della poltrona. Con gli occhi azzurri socchiusi, sbirciava regolarmente verso una pila di documenti, che, frusciando mestamente su un piccolo tavolino, reclamava la sua piena attenzione. Affari di stato, cui la nazione non riusciva, quel pomeriggio, a dedicarsi, inchiodata al soffice calore del suo nido di coperte dal ticchettio insistente della fredda pioggia di Francoforte e dalla malinconia da essa portata.

Stringendo un lembo della coperta tra le mani, Ludwig sprofondò ulteriormente in un pacifico oblio, raggiungendo quello stato sospeso tra il sonno e la veglia, che reca tanto conforto e, parimenti, disperazione ai febbricitanti nelle notti invernali. Tra i più remoti recessi della sua coscienza, il ragazzo si affannava a cercare un’immagine rassicurante o, per lo meno, non deprimente quanto i suoi ricordi più recenti: il sorrisetto vagamente compiaciuto del fratello Prussia e quello raro e misurato di Kiku erano guide sicure verso un riposo di pochi minuti, bastevole a renderlo di nuovo abbastanza cosciente da permettergli di sfuggire alle spire tenebrose della sua malinconia.

Quel giorno, tuttavia, non poteva fare a meno di pensare a quel ragazzetto snello che l’aveva ferocemente tradito, ed all’unico momento in cui i suoi occhi, dello stesso colore cupo della resina d’una quercia, si erano spalancati, inchiodandolo con il fucile in mano su una collina del Piemonte. La nebbia era così fitta, così dannatamente opprimente.

Una forte scampanellata lo richiamò bruscamente alla realtà, facendolo rizzare con uno scatto in posizione seduta sulla poltrona. Respirando affannosamente per la sorpresa, aspettò che l’uomo al di là della porta se ne andasse, o, al contrario, suonasse nuovamente.

Quando il suono metallico del campanello risuonò nuovamente nel salotto, nient’affatto attutito dalla sottile tappezzeria, il tedesco buttò giù le gambe dalla poltrona con un sospiro, tendendo i muscoli della schiena sempre più magra e sottile. Scostata rabbiosamente la coperta dalle ginocchia, attraversò rapidamente il breve corridoio che separava il salotto dall’ingresso, lisciandosi i capelli all’indietro, in modo tale da offrire una vaga parvenza d’ordine.

La maniglia della porta gli trasmise una fitta di gelo alle dita intirizzite, che lo svegliò del tutto dal torpore mentre si sporgeva cautamente oltre l’uscio.

Un sorriso appena accennato rispose al suo sguardo vagamente scocciato e confuso: un ragazzo stava fermo sulla soglia della casa di Ludwig, stringendo al petto un grosso involto di carta da pacchi scura quasi completamente zuppo d’acqua.

-Guten Abend, Herr. Mi manda l’ufficio postale- disse il ragazzo, borbottando, poi, a mezza voce il nome di una via centrale di Francoforte ove risiedeva l’ufficio menzionato.

Il tedesco lo guardò con maggiore attenzione: non indossava una divisa da postino, al contrario, era infagottato in un lungo giaccone grigio, da cui spuntavano dei pantaloni alla zuava violacei ed un paio di scarponcini da ragazzo. Poteva trattarsi di un fattorino, al massimo di un garzone. Germania non poté fare a meno di notare che il ragazzo non aveva con sé alcun ombrello, lasciando che la pioggia gli inzuppasse i vestiti e gli incollasse i capelli sul collo.

-Potrebbe fare una firma sul registro, cortesemente?- chiese con voce gentile, porgendogli una cartelletta zuppa di pioggia.

Ludwig guardò quest’ultima, facendo saettare lo sguardo dal giovane al pacco che reggeva sotto braccio. Con un gesto rapido, quindi, prese il lapis ed il registro che gli porgeva, e, scarabocchiata una firma subito cancellata da alcune gocce di pioggia, si ritirò in casa, lasciando al ragazzo appena il tempo di scansare la porta, una volta ceduto il pacco.

La schiena premuta contro il muro, la nazione aspettò cautamente nella penombra, finché non riuscì ad udire il suono dei passi del garzone allontanarsi lungo il viale, che annetteva la villa alla caotica città tedesca. Mentre faceva ritorno all’atmosfera ovattata del salotto, si rigirò pensieroso il pacco tra le mani: l’indirizzo del mittente era stato vergato in un angolo con una grafia incerta e spigolosa, tanto da rendere inutile qualsiasi tentativo di decifrazione.

Il tedesco fece per buttarsi sulla poltrona, ma, all’ultimo, si bloccò, preferendo sedersi sulla sedia abbandonata dietro lo scrittoio dalla sera prima: strappò delicatamente la carta che avvolgeva il pacco, portando alla luce un grosso dipinto ad olio privo di cornice.

Ludwig inarcò le sopracciglia chiare, chiedendosi chi mai avrebbe potuto inviargli un’opera di così fine bellezza e per quale motivo. Pennellate morbide e uniformi avevano delineato sulla tela due figure femminili di evidente giovinezza, sedute su un muretto di pietra con le mani intrecciate le une tra le altre. L’espressione quieta e serena della ragazza dai capelli scuri, in particolare, spinse Ludwig a prendere il dipinto tra le mani per poterlo osservare da più vicino. Da dietro l’intelaiatura del quadro si staccò una busta bianca, che cadde sulla scrivania attirando lo sguardo del ragazzo.

Germania posò il dipinto, sempre più incuriosito, allungando una mano verso la lettera: la carta della busta era asciutta, riparata, evidentemente, dal fattorino, che aveva strinto al petto, senza volerlo, la parte del pacco in cui era nascosta.

La girò verso una piccola lampada, unica fonte di luce nella stanza, rabbrividendo involontariamente alla lettura del mittente. Una sensazione di gelo gli serrò la bocca dello stomaco, irradiandosi attraverso ogni singola vena e capillare.

Herr Feliciano Vargas

Angolo dell’autore

Salve a tutti i lettori. Se siete giunti fin qui, vuol dire che il primo capitolo di questa fanfiction non è poi così orribile come pensavo (e penso tutt’ora). Mi rendo pienamente conto del fatto che sia terribilmente malinconica, sebbene non sia mai mia intenzione scrivere racconti tristi o introspettivi (peccato che finisca sempre così); a parte questo, spero di avervi –si fa per dire- incuriosito. Credo che richiedere qualche recensione e/o critica costruttiva sia, a questo punto, abbastanza scontato. Per ora chiudo qui, con la promessa di postare presto il prossimo chap. Grazie per l’attenzione! :)

Arianna F. alias Scribak

P.S. Per quello che riguarda la scelta di Germania di trascorrere gli ultimi mesi di guerra in un campo di concentramento, così come l’allusione ad un suo ultimo incontro con Feliciano durante il periodo della Resistenza, sono entrambe riferimenti ad una mia fanfiction non ancora pubblicata (per non dire scritta). Mi auguro che non li troviate troppo azzardati.

 

  
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