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Autore: Nadine_Rose    07/07/2011    1 recensioni
Questa è la storia di un amore nato tra la peggiore delle violenze e maturato per il desiderio inconscio d’amare, un amore capace d’intenerire il duro cuore di un soldato e di confondere l’animo di una prigioniera.
“Guardandomi attorno, mi resi conto che ero l’unica senza compagnia e di nuovo m’invase la tristezza. Mi avevano detto che per ogni persona sulla faccia della terra c’era un’anima gemella e la mia in quale parte del mondo si nascondeva? Mi domandavo chi fosse e cosa stesse provando in quel momento l’uomo che dall’alto mi era stato designato” [Rosa De Santis; tratto dal capitolo 5, False speranze].
“Mi voglio arruolare, voglio portare la Germania, la nostra Germania alla vittoria. Fra qualche mese tutta l’Europa saprà chi sono gli Von Hennen” [Karl Von Hennen; tratto dal capitolo 6, Orgoglio patriottico].
Storia scritta insieme a un mio amico.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Premessa

 

Questo capitolo è stato scritto da me, Nadine_Rose.

 

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Capitolo 2

 

Rosa De Santis

 

Primavera 1943

 

La mancanza d’amore

 

Chiesi un bicchiere d’acqua e, tremando come una foglia, lo accostai alle mie labbra. Che sciocca ero stata, pensando che un semplice sorso d’acqua avrebbe potuto reggermi dopo quell’ennesima batosta. Alzai poi le spalle e, trattenendo malamente le lacrime, dissi - più a me stessa che alla mia rattristata interlocutrice - : “ Mi ero illusa di aver trovato degli amici. ” Uscii dal caffè con un’espressione stravolta in viso, un nodo strettissimo alla gola e un misto di sentimenti nel cuore: tristezza e liberazione per aver capito come stavano realmente le cose, rabbia e delusione perché ancora una volta avevo donato il mio cuore e mi era stato restituito come uno straccio. Con estrema lentezza, mi avviai verso casa domandandomi come avevo potuto credere nei loro abbracci e nei loro “ Ti vogliamo bene, fidati di noi! ”.

Quella sera, Roma era particolarmente tranquilla nonostante la guerra e suggestiva nei suoi colori tra il giallo e l’arancione ma io non riuscii ad apprezzarne tale bellezza, anzi, avrei voluto che una bomba inglese la radesse al suolo, spazzando via anche e soprattutto me.

Il peso della tristezza divenne tanto opprimente da costringermi a fermarmi nel mio incedere, proprio davanti alla fermata dell’autobus. Decisi di aspettarlo e tornare a casa con tal veicolo. Dopo un po’, un brivido di freddo mi percorse lungo la schiena e mi strinsi nelle spalle, sospirando profondamente. Pensai che i ragazzi, che fino a pochi giorni prima credevo miei amici, erano stati davvero degli ottimi attori e che meritavano un riconoscimento per la miglior interpretazione. Ma forse ero stata io, tanto accecata dalla gioia per aver trovato dei “ veri ”amici, a non cogliere l’ipocrisia nei loro gesti e nelle loro parole, la cattiveria nei loro consigli e nelle loro esortazioni.

L’autobus arrivò dopo non molto ma, mentre mi apprestavo a salirci, il conducente urlò sprezzante: “ A’ scema d’una ebrea, non sai leggere?! Su quest’autobus tu non puoi salire! ” In un interminabile secondo, riuscii a scorgere tutti gli sguardi d’indignazione e ribrezzo dei passeggeri rivolti verso di me. Umiliata, abbassai lo sguardo mentre l’autobus riprese la sua corsa. Che vergogna, pensai. Poi, lentamente, portai la mano sulla stella gialla cucita sulla camicetta color bianco e, aggiustandomi il foulard, cercai di coprirla alla meglio per evitare ulteriori umiliazioni.

Ripresi il mio cammino verso casa, questa volta più velocemente: la tristezza aveva lasciato spazio alla rabbia la quale mi accelerava il passo. Rabbia per le parole del conducente e gli sguardi dei passeggeri dell’autobus che mi avevano ricordato il rifiuto del mondo, rabbia per aver creduto in un’amicizia in realtà a senso unico, rabbia perché se me l’avessero chiesto io li avrei anche perdonati, ingenuamente.

In poco tempo, tornai a casa con dentro un senso angosciante di vuoto: tutto ciò che avevo sperato e creduto sull’amicizia mi era stato strappato via, senza pietà. Dovevo dare il mio addio a quell’utopia diventata per poco realtà e il bentornato alla diffidenza di un tempo.

Per quanto mi sforzassi di nasconderlo, il dolore traspariva dai miei occhi e dal mio comportamento quasi assente e, inevitabilmente, anche la mia famiglia se ne accorse. Alle loro domande, risposi accennando soltanto qualcosa dell’accaduto poiché non potevo raccontare tutto e, d’altra parte, non ne avrei avuto neanche la forza. In quel momento, desideravo soltanto stendermi sul letto e dormire, dormire, dormire …

Aspettai che mio fratello si addormentasse e, nascondendomi sotto le coperte, nel silenzio della notte, scoppiai finalmente in lacrime.

Quella nuova sofferenza dentro di me aveva riaperto vecchie ferite e riportato alla luce insoddisfazioni e mancanze di sempre.

Due giorni dopo, seduta al mobile da toeletta e guardandomi allo specchio, mi resi conto di non piacermi poi così tanto come volevo far credere a me stessa. Fino a poco tempo prima, infatti, mi dicevo il contrario perché non volevo ammettere che io, all’età di vent’anni, non accettassi il mio corpo e le sue rotondità come una ragazza di dodici. Cominciai a pensare che se solo fossi stata fisicamente e caratterialmente diversa, magra e spigliata, forse avrei già trovato fidanzato e marito e forse sarei già stata in dolce attesa proprio come tante altre ragazze della mia età. Incominciai, quasi con rabbia, a spazzolarmi i capelli medi neri e a guardarmi negli occhi marroni arrossati dalle ore di pianto e insonnia. Mi domandavo il perché della mia solitudine e perché tutti rifiutassero la mia amicizia, il mio affetto, il mio amore. In quel momento, dettata dalla disperazione, arrivai a pensare che mi sarei anche accontentata di stare insieme a un uomo che non mi amasse, giusto per soddisfare il mio bisogno d’amare. Ma, dentro di me, era talmente forte il desiderio di essere amata che non avrei mai potuto reggere quest’eventuale situazione sentimentale, fatta di amore dato e non ricambiato. Pensavo a quanto fosse triste la mia vita nell’attesa inquieta di quella felicità che per altri era soltanto normalità. Vivevo ormai in un vortice di paure: la paura di mostrarmi per quella che ero perché troppo spesso la mia sensibilità era scambiata per debolezza, la paura di restare da sola per il resto della mia vita e la paura di essere arrestata da un momento all’altro perché ebrea. Il futuro mi faceva paura. Sentivo parlare di “ campi di concentramento ”, alcuni ipotizzavano che fossero campi di prigionia dove agli ebrei era riservato un buon trattamento e si aspettava senza far niente la fine della guerra, altri invece che fossero campi di lavoro forzato dove si soffriva la fame e il freddo. Ma tutti erano accomunati dalla certezza che noi, ebrei romani, non saremmo mai stati arrestati e deportati in questi campi e che nessuno ci avrebbe mai fatto del male perché da noi, a Roma, c’era il Papa. Tutti, eccetto la sottoscritta, credevano che la furia dei nazisti non sarebbe mai riuscita a oltrepassare le porte della città eterna e santa, per timore di una scomunica da parte della Chiesa e da Dio stesso. Il futuro era incerto. Non sapevo fino a che punto si fossero spinti contro noi ebrei, non riuscivo a trovare lavoro per assicurarmi così una certezza economica né tantomeno qualcuno che mi assicurasse quella affettiva. Stavo male e l’ultima delusione nel campo dell’amicizia non aveva fatto altro che aggravare tutta la mia situazione interiore. Pensavo ai miei coetanei che, a differenza di me, nonostante la drammaticità della guerra e le rinunce causate dall’antisemitismo, vivevano spensierati la loro età tranquilli sotto l’ala protettrice del Papa e felici con accanto una persona d’amare e degli amici con i quali uscire e soprattutto confrontarsi per crescere. La mia espressione, un tempo solare, era diventata corrucciata a causa delle delusioni, dei vuoti che sentivo dentro di me, della solitudine e della paura per il futuro; il mio sorriso, a volte ostentato, si era arreso alla tristezza; il tempo della speranza era ormai giunto al termine. Mi piegai lentamente sul mobile da toeletta ed esplosi di nuovo in un pianto disperato.

A distanza di un mese, però, le mie lacrime si fermarono e riuscii a trovare quel poco di serenità che mi serviva per andare avanti. I miei occhi si erano aperti e avevo capito che non ero sola; che accanto a me non mancavano persone speciali che mi apprezzavano e mi volevano bene per quella che ero, che mi ascoltavano e, con semplicità, riuscivano a tirarmi su di morale; che attorno a me non mancavano abbracci e sorrisi. Sì, non ero sola.

In quel periodo, mi unii all’ottimismo collettivo convincendomi che la Chiesa ci avrebbe davvero protetto dalle deportazioni naziste e che presto la guerra sarebbe finita. Mi convinsi anche delle parole delle persone che mi dicevano che, quando avrei trovato l’uomo giusto, con lui sarebbe stata una storia importante, per tutta la vita e che la mia attesa quindi non sarebbe stata vana.

Finalmente, la speranza si riaccese dentro di me e il sorriso riapparve sulle mie labbra.

 

   
 
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