Premessa
Questo capitolo è stato scritto da me, Nadine_Rose.
**********
Capitolo
2
Rosa
De Santis
Primavera
1943
La
mancanza d’amore
Chiesi un
bicchiere d’acqua e, tremando come una foglia, lo accostai alle mie labbra. Che
sciocca ero stata, pensando che un semplice sorso d’acqua avrebbe potuto
reggermi dopo quell’ennesima batosta. Alzai poi le spalle e, trattenendo
malamente le lacrime, dissi - più a me stessa che alla mia rattristata
interlocutrice - : “ Mi ero illusa di aver trovato degli amici. ” Uscii dal
caffè con un’espressione stravolta in viso, un nodo strettissimo alla gola e un
misto di sentimenti nel cuore: tristezza e liberazione per aver capito come
stavano realmente le cose, rabbia e delusione perché ancora una volta avevo
donato il mio cuore e mi era stato restituito come uno straccio. Con estrema
lentezza, mi avviai verso casa domandandomi come avevo potuto credere nei loro
abbracci e nei loro “ Ti vogliamo bene, fidati di noi! ”.
Quella sera,
Roma era particolarmente tranquilla nonostante la guerra e suggestiva nei suoi
colori tra il giallo e l’arancione ma io non riuscii ad apprezzarne tale
bellezza, anzi, avrei voluto che una bomba inglese la radesse al suolo,
spazzando via anche e soprattutto me.
Il peso
della tristezza divenne tanto opprimente da costringermi a fermarmi nel mio
incedere, proprio davanti alla fermata dell’autobus. Decisi di aspettarlo e
tornare a casa con tal veicolo. Dopo un po’, un brivido di freddo mi percorse
lungo la schiena e mi strinsi nelle spalle, sospirando profondamente. Pensai
che i ragazzi, che fino a pochi giorni prima credevo miei amici, erano stati
davvero degli ottimi attori e che meritavano un riconoscimento per la miglior
interpretazione. Ma forse ero stata io, tanto accecata dalla gioia per aver
trovato dei “ veri ”amici, a non cogliere l’ipocrisia nei loro gesti e nelle
loro parole, la cattiveria nei loro consigli e nelle loro esortazioni.
L’autobus
arrivò dopo non molto ma, mentre mi apprestavo a salirci, il conducente urlò
sprezzante: “ A’ scema d’una ebrea, non sai leggere?! Su quest’autobus tu non puoi
salire! ” In un interminabile secondo, riuscii a scorgere tutti gli sguardi
d’indignazione e ribrezzo dei passeggeri rivolti verso di me. Umiliata,
abbassai lo sguardo mentre l’autobus riprese la sua corsa. Che vergogna,
pensai. Poi, lentamente, portai la mano sulla stella gialla cucita sulla
camicetta color bianco e, aggiustandomi il foulard, cercai di coprirla alla
meglio per evitare ulteriori umiliazioni.
Ripresi il
mio cammino verso casa, questa volta più velocemente: la tristezza aveva
lasciato spazio alla rabbia la quale mi accelerava il passo. Rabbia per le
parole del conducente e gli sguardi dei passeggeri dell’autobus che mi avevano
ricordato il rifiuto del mondo, rabbia per aver creduto in un’amicizia in
realtà a senso unico, rabbia perché se me l’avessero chiesto io li avrei anche
perdonati, ingenuamente.
In poco
tempo, tornai a casa con dentro un senso angosciante di vuoto: tutto ciò che
avevo sperato e creduto sull’amicizia mi era stato strappato via, senza pietà. Dovevo
dare il mio addio a quell’utopia diventata per poco realtà e il bentornato alla
diffidenza di un tempo.
Per quanto
mi sforzassi di nasconderlo, il dolore traspariva dai miei occhi e dal mio
comportamento quasi assente e, inevitabilmente, anche la mia famiglia se ne
accorse. Alle loro domande, risposi accennando soltanto qualcosa dell’accaduto
poiché non potevo raccontare tutto e, d’altra parte, non ne avrei avuto neanche
la forza. In quel momento, desideravo soltanto stendermi sul letto e dormire,
dormire, dormire …
Aspettai che
mio fratello si addormentasse e, nascondendomi sotto le coperte, nel silenzio
della notte, scoppiai finalmente in lacrime.
Quella nuova
sofferenza dentro di me aveva riaperto vecchie ferite e riportato alla luce
insoddisfazioni e mancanze di sempre.
Due giorni
dopo, seduta al mobile da toeletta e guardandomi allo specchio, mi resi conto di non
piacermi poi così tanto come volevo far credere a me stessa. Fino a poco tempo
prima, infatti, mi dicevo il contrario perché non volevo ammettere che io,
all’età di vent’anni, non accettassi il mio corpo e le sue rotondità come una
ragazza di dodici. Cominciai a pensare che se solo fossi
stata fisicamente e caratterialmente diversa, magra e spigliata, forse avrei
già trovato fidanzato e marito e forse sarei già stata in dolce attesa proprio
come tante altre ragazze della mia età. Incominciai, quasi con rabbia, a
spazzolarmi i capelli medi neri e a guardarmi negli occhi marroni arrossati
dalle ore di pianto e insonnia. Mi domandavo il perché della mia solitudine e
perché tutti rifiutassero la mia amicizia, il mio affetto, il mio amore. In
quel momento, dettata dalla disperazione, arrivai a pensare che mi sarei anche accontentata
di stare insieme a un uomo che non mi amasse, giusto per soddisfare il mio
bisogno d’amare. Ma, dentro
di me, era talmente forte il desiderio di essere amata che non avrei mai potuto
reggere quest’eventuale situazione sentimentale, fatta di amore dato e non
ricambiato. Pensavo a quanto fosse triste la mia vita nell’attesa inquieta di
quella felicità che per altri era soltanto normalità. Vivevo ormai in un
vortice di paure: la paura di mostrarmi per quella che ero perché troppo spesso
la mia sensibilità era scambiata per debolezza, la paura di restare da sola per
il resto della mia vita e la paura di essere arrestata da un momento all’altro
perché ebrea. Il futuro mi faceva paura. Sentivo parlare di “ campi di
concentramento ”, alcuni ipotizzavano che fossero campi di prigionia dove agli
ebrei era riservato un buon trattamento e si aspettava senza far niente la fine
della guerra, altri invece che fossero campi di lavoro forzato dove si soffriva
la fame e il freddo. Ma tutti erano accomunati dalla certezza che noi, ebrei
romani, non saremmo mai stati arrestati e deportati in questi campi e che
nessuno ci avrebbe mai fatto del male perché da noi, a Roma, c’era il Papa.
Tutti, eccetto la sottoscritta, credevano che la furia dei nazisti non sarebbe
mai riuscita a oltrepassare le porte della città eterna e santa, per timore di
una scomunica da parte della Chiesa e da Dio stesso. Il futuro era incerto. Non
sapevo fino a che punto si fossero spinti contro noi ebrei, non riuscivo a
trovare lavoro per assicurarmi così una certezza economica né tantomeno
qualcuno che mi assicurasse quella affettiva. Stavo male e l’ultima delusione
nel campo dell’amicizia non aveva fatto altro che aggravare tutta la mia
situazione interiore. Pensavo ai miei coetanei che, a differenza di me,
nonostante la drammaticità della guerra e le rinunce causate
dall’antisemitismo, vivevano spensierati la loro età tranquilli sotto l’ala
protettrice del Papa e felici con accanto una persona d’amare e degli amici con
i quali uscire e soprattutto confrontarsi per crescere. La mia espressione, un
tempo solare, era diventata corrucciata a causa delle delusioni, dei vuoti che
sentivo dentro di me, della solitudine e della paura per il futuro; il mio
sorriso, a volte ostentato, si era arreso alla tristezza; il tempo della
speranza era ormai giunto al termine. Mi piegai lentamente sul mobile da toeletta ed esplosi di nuovo in un pianto disperato.
A distanza
di un mese, però, le mie lacrime si fermarono e riuscii a trovare quel poco di
serenità che mi serviva per andare avanti. I miei occhi si erano aperti e avevo
capito che non ero sola; che accanto a me non mancavano persone speciali che mi
apprezzavano e mi volevano bene per quella che ero, che mi ascoltavano e, con
semplicità, riuscivano a tirarmi su di morale; che attorno a me non mancavano abbracci
e sorrisi. Sì, non ero sola.
In quel
periodo, mi unii all’ottimismo collettivo convincendomi che la Chiesa ci
avrebbe davvero protetto dalle deportazioni naziste e che presto la guerra
sarebbe finita. Mi convinsi anche delle parole delle persone che mi dicevano
che, quando avrei trovato l’uomo giusto, con lui sarebbe stata una storia
importante, per tutta la vita e che la mia attesa quindi non sarebbe stata
vana.
Finalmente,
la speranza si riaccese dentro di me e il sorriso riapparve sulle mie labbra.